Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Marocco (30-31 marzo 2019) – Visita al “Centre Rural des Services Sociaux” di Témara e Incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese della Cattedrale di Rabat, 31.03.2019


Visita privata al “Centre Rural des Services Sociaux” di Témara

Incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese alla Cattedrale di Rabat

Pranzo con i Vescovi del Marocco e alcuni Membri del Seguito Papale

 

Visita privata al “Centre Rural des Services Sociaux” di Témara

Alle ore 9.30 di questa mattina (10.30 ora di Roma), il Santo Padre Francesco, congedatosi dalla Nunziatura Apostolica, si è trasferito in auto al “Centre Rural des Services Sociaux” di Témara, Centro gestito dalle Figlie della Carità, che opera nel settore sociale grazie alle Suore e a numerosi volontari.

Al Suo arrivo, il Papa è stato accolto all’ingresso dalle quattro suore che lavorano nel Centro e da due bambini che gli hanno offerto in dono dei fiori. Mentre il Santo Padre si è recato a salutare i piccoli ammalati, un coro di 150 bambini ha intonato un canto.

Prima di lasciare il Centro, il Papa si è congedato dalle suore e dai volontari e ha salutato, infine, i genitori dei bambini assistiti, mentre questi cantavano. Quindi si è trasferito in auto alla Cattedrale di Rabat per l’incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese.

[00547-IT.02]

Incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese alla Cattedrale di Rabat

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

 

Alle ore 10.20 di oggi (11.20 ora di Roma), il Santo Padre Francesco è arrivato alla Cattedrale di Rabat per l’incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Al Suo arrivo è stato accolto, all’ingresso della Cattedrale, dal Parroco e da tre sacerdoti incaricati della pastorale che gli hanno consegnato il crocifisso e l’acqua benedetta per l’aspersione. Poi ha percorso la navata centrale mentre la corale intonava il canto. Dopo un momento di preghiera silenziosa davanti al Santissimo, introdotto dalle brevi testimonianze e dai saluti di due sacerdoti e di due religiose, Papa Francesco ha pronunciato il suo discorso. Quindi ha guidato la recita dell’Angelus.

Al termine, mentre veniva intonato un canto mariano, il Papa ha salutato i tre leader del Consiglio Ecumenico delle Chiese che riunisce le cinque Chiese cristiane presenti in Marocco: cattolica, anglicana, evangelica, greco-ortodossa e russo-ortodossa. Successivamente è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle, bonjour à tous!
Sono molto felice di potervi incontrare. Ringrazio specialmente padre Germain e suor Mary per le loro testimonianze. Desidero anche salutare i membri del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che mostra visibilmente la comunione vissuta qui in Marocco tra cristiani di diverse confessioni, sulla via dell’unità. I cristiani sono un piccolo numero in questo Paese. Ma questa realtà non è, ai miei occhi, un problema, anche se riconosco che a volte può diventare difficile da vivere per alcuni. La vostra situazione mi ricorda la domanda di Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? […] È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (Lc 13,18.21). Parafrasando le parole del Signore potremmo chiederci: a che cosa è simile un cristiano in queste terre? A che cosa lo posso paragonare? È simile a un po’ di lievito che la madre Chiesa vuole mescolare con una grande quantità di farina, fino a che tutta la massa fermenti. Infatti, Gesù non ci ha scelti e mandati perché diventassimo i più numerosi! Ci ha chiamati per una missione. Ci ha messo nella società come quella piccola quantità di lievito: il lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno nel quale come cristiani ci possiamo tutti ritrovare per rendere presente il suo Regno. E qui mi viene in mente il consiglio che San Francesco dette ai suoi frati, quando li inviò: “Andate e predicate il Vangelo: se fosse necessario, anche con le parole”.

Questo significa, cari amici, che la nostra missione di battezzati, di sacerdoti, di consacrati, non è determinata particolarmente dal numero o dalla quantità di spazi che si occupano, ma dalla capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione; dal modo in cui viviamo come discepoli di Gesù, in mezzo a coloro dei quali noi condividiamo il quotidiano, le gioie, i dolori, le sofferenze e le speranze (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1). In altre parole, le vie della missione non passano attraverso il proselitismo. Per favore, non passano attraverso il proselitismo! Ricordiamo Benedetto XVI: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione, per testimonianza”. Non passano attraverso il proselitismo, che porta sempre a un vicolo cieco, ma attraverso il nostro modo di essere con Gesù e con gli altri. Quindi il problema non è essere poco numerosi, ma essere insignificanti, diventare un sale che non ha più il sapore del Vangelo – questo è il problema! o una luce che non illumina più niente (cfr Mt 5,13-15).

Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi. Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo. Anche se questo può non portare apparentemente benefici tangibili o immediati (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 210). Perché essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro, un incontro con Gesù Cristo. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo. Essere cristiani è sapersi perdonati, sapersi invitati ad agire nello stesso modo in cui Dio ha agito con noi, dato che «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Consapevole del contesto in cui siete chiamati a vivere la vostra vocazione battesimale, il vostro ministero, la vostra consacrazione, cari fratelli e sorelle, mi viene in mente quella parola del Papa San Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67). Affermare che la Chiesa deve entrare in dialogo non dipende da una moda – oggi c’è la moda del dialogo, no, non dipende da quello –, tanto meno da una strategia per aumentare il numero dei suoi membri, no, neppure è una strategia. Se la Chiesa deve entrare in dialogo è per fedeltà al suo Signore e Maestro che, fin dall’inizio, mosso dall’amore, ha voluto entrare in dialogo come amico e invitarci a partecipare della sua amicizia (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 2). Così, come discepoli di Gesù Cristo, siamo chiamati, fin dal giorno del nostro Battesimo, a far parte di questo dialogo di salvezza e di amicizia, di cui siamo i primi beneficiari.

Il cristiano, in queste terre, impara ad essere sacramento vivo del dialogo che Dio vuole intavolare con ciascun uomo e donna, in qualunque condizione viva. Un dialogo che, pertanto, siamo invitati a realizzare alla maniera di Gesù, mite e umile di cuore (cfr Mt 11,29), con un amore fervente e disinteressato, senza calcoli e senza limiti, nel rispetto della libertà delle persone. In questo spirito, troviamo dei fratelli maggiori che ci mostrano la via, perché con la loro vita hanno testimoniato che questo è possibile, una “misura alta” che ci sfida e ci stimola. Come non evocare la figura di San Francesco d’Assisi che, in piena crociata, andò ad incontrare il Sultano al-Malik al-Kamil? E come non menzionare il Beato Charles de Foucault che, profondamente segnato dalla vita umile e nascosta di Gesù a Nazaret, che adorava in silenzio, ha voluto essere un “fratello universale”? O ancora quei fratelli e sorelle cristiani che hanno scelto di essere solidali con un popolo fino al dono della propria vita? Così, quando la Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal Signore, entra in dialogo con il mondo e si fa colloquio, essa partecipa all’avvento della fraternità, che ha la sua sorgente profonda non in noi, ma nella Paternità di Dio.

Tale dialogo di salvezza, come consacrati siamo invitati a viverlo anzitutto come intercessione per il popolo che ci è stato affidato. Ricordo una volta, parlando con un sacerdote che si trovava come voi in una terra dove i cristiani sono minoranza, mi raccontava che la preghiera del “Padre nostro” aveva acquistato in lui un’eco speciale perché, pregando in mezzo a persone di altre religioni, sentiva con forza le parole «dacci oggi il nostro pane quotidiano». La preghiera di intercessione del missionario anche per quel popolo, che in una certa misura gli era stato affidato, non da amministrare ma da amare, lo portava a pregare questa preghiera con un tono e un gusto speciali. Il consacrato, il sacerdote porta al suo altare, nella sua preghiera la vita dei suoi conterranei e mantiene viva, come attraverso una piccola breccia in quella terra, la forza vivificante dello Spirito. Che bello è sapere che, in diversi angoli di questa terra, nelle vostre voci il creato può implorare e continuare a dire: “Padre nostro”!

È un dialogo che, pertanto, diventa preghiera e che possiamo realizzare concretamente tutti i giorni in nome «della “fratellanza umana” che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Una preghiera che non distingue, non separa e non emargina, ma che si fa eco della vita del prossimo; preghiera di intercessione che è capace di dire al Padre: «venga il tuo regno». Non con la violenza, non con l’odio, né con la supremazia etnica, religiosa, economica e così via, ma con la forza della compassione riversata sulla Croce per tutti gli uomini. Questa è l’esperienza vissuta dalla maggior parte di voi.

Ringrazio Dio per quello che avete fatto, come discepoli di Gesù Cristo, qui in Marocco, trovando ogni giorno nel dialogo, nella collaborazione e nell’amicizia gli strumenti per seminare futuro e speranza. Così smascherate e riuscite a mettere in evidenza tutti i tentativi di usare le differenze e l’ignoranza per seminare paura, odio e conflitto. Perché sappiamo che la paura e l’odio, alimentati e manipolati, destabilizzano e lasciano spiritualmente indifese le nostre comunità.

Vi incoraggio, senza altro desiderio che di rendere visibile la presenza e l’amore di Cristo che si è fatto povero per noi per arricchirci con la sua povertà (cfr 2 Cor 8,9): continuate a farvi prossimi di coloro che sono spesso lasciati indietro, dei piccoli e dei poveri, dei prigionieri e dei migranti. Che la vostra carità si faccia sempre attiva e sia così una via di comunione tra i cristiani di tutte le confessioni presenti in Marocco: l’ecumenismo della carità. Che possa essere anche una via di dialogo e di cooperazione con i nostri fratelli e sorelle musulmani e con tutte le persone di buona volontà. È la carità, specialmente verso i più deboli, la migliore opportunità che abbiamo per continuare a lavorare in favore di una cultura dell’incontro. Che essa infine sia quella via che permette alle persone ferite, provate, escluse di riconoscersi membri dell’unica famiglia umana, nel segno della fraternità. Come discepoli di Gesù Cristo, in questo stesso spirito di dialogo e di cooperazione, abbiate sempre a cuore di dare il vostro contributo al servizio della giustizia e della pace, dell’educazione dei bambini e dei giovani, della protezione e dell’accompagnamento degli anziani, dei deboli, dei disabili e degli oppressi.

Ringrazio ancora tutti voi, fratelli e sorelle per la vostra presenza e per la vostra missione qui in Marocco. Grazie per il vostro servizio umile e discreto, sull’esempio dei nostri anziani nella vita consacrata, tra i quali voglio salutare la decana, suor Ersilia. Attraverso di te, cara Sorella, rivolgo un cordiale saluto alle sorelle e ai fratelli anziani che, a motivo del loro stato di salute, non sono presenti fisicamente ma sono uniti a noi mediante la preghiera.

Tutti voi siete testimoni di una storia che è gloriosa perché è storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è sudore della fronte. Ma permettetemi anche di dirvi: «Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro – frequentate il futuro – nel quale lo Spirito vi proietta» (Esort. ap. postsin. Vita consecrata, 110), per continuare ad essere segno vivo di quella fraternità alla quale il Padre ci ha chiamato, senza volontarismi e rassegnazione, ma come credenti che sanno che il Signore sempre ci precede e apre spazi di speranza dove qualcosa o qualcuno sembrava perduto.

Il Signore benedica ognuno di voi e, attraverso di voi, i membri di tutte le vostre comunità. Il suo Spirito vi aiuti a portare frutti in abbondanza: frutti di dialogo, di giustizia, di pace, di verità e d’amore affinché qui, in questa terra amata da Dio, cresca la fraternità umana. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

[Quattro bambini vanno accanto al Papa. Egli dice: «Voici le futur! Le maintenant et le futur!»]

E ora ci mettiamo sotto la protezione della Vergine Maria recitando l’Angelus.

[00535-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs,
Je suis très heureux de pouvoir vous rencontrer. Je remercie spécialement le Père Germain et Sœur Mary pour leurs témoignages. Je tiens aussi à saluer les membres du Conseil Œcuménique des Églises, qui manifeste visiblement la communion vécue ici, au Maroc, entre les chrétiens de différentes confessions, sur le chemin de l’Unité. Les chrétiens sont un petit nombre dans ce pays. Mais cette réalité n’est pas, à mes yeux, un problème, même si elle peut parfois s’avérer difficile à vivre pour certains. Votre situation me rappelle la question de Jésus: «À quoi le règne de Dieu est-il comparable, à quoi vais-je le comparer? […] Il est comparable au levain qu’une femme a pris et enfoui dans trois mesures de farine, jusqu’à ce que toute la pâte ait levé.» (Lc 13, 18.21). En paraphrasant les paroles du Seigneur nous pourrions nous demander: à quoi est comparable un chrétien sur ces terres? A quoi puis-je le comparer? Il est comparable à un peu de levain que la mère Eglise veut mélanger à une grande quantité de farine, jusqu’à ce que toute la pâte ait levé. En effet, Jésus ne nous a pas choisis et envoyés pour que nous devenions les plus nombreux! Il nous a appelés pour une mission. Il nous a mis dans la société comme cette petite quantité de levain: le levain des béatitudes et de l’amour fraternel dans lequel, comme chrétiens, nous puissions tous nous retrouver pour rendre présent son Règne. Et ici me vient à l’esprit le conseil que saint François a donné à ses frères, quand il les a envoyés: "Allez et prêchez l’Évangile: et si c’est nécessaire, aussi avec les paroles"

Cela signifie, chers amis, que notre mission de baptisés, de prêtres, de consacrés, n’est pas déterminée particulièrement par le nombre ou par l’espace que nous occupons, mais par la capacité que l’on a de produire et de susciter changement, étonnement et compassion; par la manière dont nous vivons comme disciples de Jésus, au milieu de celles et ceux dont nous partageons le quotidien, les joies, les peines, les souffrances et les espoirs (cf. Conc. Oecum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, n. 1). Autrement dit, les chemins de la mission ne passent pas par le prosélytisme. S’il vous plaît, ils ne passent pas par le prosélytisme! Rappelons-nous Benoît XVI: "L’Église ne s’accroît pas par prosélytisme, mais par attraction, par le témoignage". Non, ils ne passent pas par le prosélytisme qui conduit toujours à une impasse, mais par notre manière d’être avec Jésus et avec les autres. Ainsi le problème n’est donc pas d’être peu nombreux mais d’être insignifiants, de devenir un sel qui n’a plus la saveur de l’Évangile – c’est ça le problème! -, ou une lumière qui n’éclaire plus rien (cf. Mt 5,13-15).

Je pense que la préoccupation surgit quand nous chrétiens, nous sommes harcelés par la pensée de pouvoir être signifiants seulement si nous sommes une masse et si nous occupons tous les espaces. Vous savez bien que la vie se joue avec la capacité que nous avons de «lever» là où nous nous trouvons et avec qui nous nous trouvons. Même si apparemment cela ne peut pas apporter d’avantages tangibles ou immédiats (cf. Exhort. apost. Evangelii gaudium, n. 210). Parce qu’être chrétien, ce n’est pas adhérer à une doctrine, ni à un lieu de culte, ni à un groupe ethnique. Etre chrétien c’est une rencontre, une rencontre avec Jésus-Christ. Nous sommes chrétiens parce que nous avons été aimés et rencontrés et non pas parce que nous sommes des fruits du prosélytisme. Être chrétien, c’est se savoir pardonnés, se savoir invités à agir de la même manière dont Dieu a agi avec nous, puisque «à ceci, tous reconnaîtront que vous êtes mes disciples: si vous avez de l’amour les uns pour les autres.» (Jn 13, 35).

Conscient du contexte dans lequel vous êtes appelés à vivre votre vocation baptismale, votre ministère, votre consécration, chers frères et sœurs, il me vient à l’esprit cette parole du saint Pape PaulVI dans son Encyclique Ecclesiam suam: «L'Église doit entrer en dialogue avec le monde dans lequel elle vit. L'Église se fait parole ; l'Église se fait message ; l'Église se fait conversation» (n.67). Affirmer que l’Église doit entrer en dialogue ne relève pas d’une mode – aujourd’hui c’est la mode du dialogue, non, il ne dépend pas de ça -, encore moins d’une stratégie pour accroître le nombre de ses membres, non ce n’est pas non plus une stratégie. Si l’Église doit entrer en dialogue, c’est par fidélité à son Seigneur et Maître qui, depuis le commencement, mu par l’amour, a voulu entrer en dialogue comme un ami et nous inviter à participer à son amitié (cf. Conc. Oecum. Vat. II, Const. dogm. Dei Verbum, n. 2). Ainsi, comme disciples de Jésus Christ, nous sommes appelés, depuis le jour de notre baptême, à faire partie de ce dialogue de salut et d’amitié, dont nous sommes les premiers bénéficiaires.

En ces terres, le chrétien apprend à être sacrement vivant du dialogue que Dieu veut engager avec chaque homme et chaque femme, quelle que soit sa condition de vie. Un dialogue que, par conséquent, nous sommes invités à réaliser à la manière de Jésus, doux et humble de cœur (cf. Mt 11, 29), avec un amour fervent et désintéressé, sans calculs et sans limites, dans le respect de la liberté des personnes. Dans cet esprit, nous trouvons des frères aînés qui nous montrent le chemin, parce que, par leur vie, ils ont témoigné que cela est possible, une «mesure haute» qui nous défie et nous stimule. Comment ne pas évoquer la figure de saint François d’Assise qui, en pleine croisade, est allé rencontrer le Sultan al-Malikal-Kamil? Et comment ne pas mentionner le Bienheureux Charles de Foucault qui, profondément marqué par la vie humble et cachée de Jésus à Nazareth, qu’il adorait en silence, a voulu être un «frère universel»? Ou encore ces frères et sœurs chrétiens qui ont choisi d’être solidaires avec un peuple jusqu’au don de leurs propres vies? Ainsi, quand l’Eglise, fidèle à la mission reçue du Seigneur, entre en dialogue avec le monde et se fait conversation, elle participe à l’avènement de la fraternité, qui a sa source profonde non pas en nous, mais dans la Paternité de Dieu.

Ce dialogue de salut, comme consacrés, nous sommes invités à le vivre avant tout comme une intercession pour le peuple qui nous a été confié. Je me souviens d’une fois, parlant avec un prêtre qui se trouvait comme vous sur une terre où les chrétiens sont une minorité, il me racontait que la prière du «Notre Père» avait acquis en lui un écho spécial parce que, en priant au milieu de personnes d’autres religions, il ressentait avec force les paroles «donne-nous aujourd’hui notre pain de ce jour». La prière d’intercession du missionnaire pour ce peuple, qui d’une certaine manière lui avait été confié, non pas pour l’administrer mais pour l’aimer, le conduisait à prier cette prière avec un ton et un goût spécial. Le consacré, le prêtre porte à son autel, dans sa prière la vie de ses compatriotes et maintient vivante, comme à travers une petite brèche dans cette terre, la force vivifiante de l’Esprit. Comme il est beau de savoir que, en divers lieux de cette terre, dans vos voix, la création peut implorer et continuer à dire: «Notre Père».

C’est donc un dialogue qui devient prière et que nous pouvons réaliser concrètement tous les jours au nom «de la “fraternité humaine” qui embrasse tous les hommes, les unit et les rend égaux. Au nom de cette fraternité déchirée par les politiques d’intégrisme et de division, par les systèmes de profit effréné et par les tendances idéologiques haineuses, qui manipulent les actions et les destins des hommes» (Document sur la fraternité humaine, Abu Dhabi, 4 février 2019). Une prière qui ne fait pas de distinction, ne sépare pas et ne marginalise pas, mais qui se fait l’écho de la vie du prochain; prière d’intercession qui est capable de dire au Père: «Que ton Règne vienne». Non pas par la violence, non pas par la haine, ni par la suprématie ethnique, religieuse, économique, etc., mais par la force de la compassion répandue sur la Croix pour tous les hommes. C’est l’expérience vécue par la majorité d’entre vous.

Je remercie Dieu pour ce que vous avez fait, comme disciples de Jésus Christ, ici au Maroc, en trouvant chaque jour dans le dialogue, dans la collaboration et dans l’amitié, les instruments pour semer avenir et espérance. Ainsi vous démasquez et réussissez à mettre en évidence toutes les tentatives d’utiliser les différences et l’ignorance pour semer la peur, la haine et le conflit. Parce que nous savons que la peur et la haine, nourries et manipulées, déstabilisent et laissent spirituellement sans défense nos communautés.

Je vous encourage, sans autre désir que de rendre visible la présence et l’amour du Christ qui s’est fait pauvre pour nous pour nous enrichir de sa pauvreté (cf. 2 Co 8,9): continuez à vous faire proches de ceux qui sont souvent laissés de côté, des petits et des pauvres, des prisonniers et des migrants. Que votre charité se fasse toujours active et soit ainsi un chemin de communion entre les chrétiens de toutes les confessions présentes au Maroc: l’œcuménisme de la charité. Qu’elle puisse être aussi un chemin de dialogue et de coopération avec nos frères et sœurs musulmans et avec toutes les personnes de bonne volonté. La charité, spécialement envers les plus faibles, est la meilleure opportunité que nous avons pour continuer à travailler en faveur d’une culture de la rencontre. Qu’elle soit enfin ce chemin qui permette d’aller, sous le signe de la fraternité, vers les personnes blessées, éprouvées, empêchées de se reconnaître membres de l’unique famille humaine. Comme disciples de Jésus Christ, dans ce même esprit de dialogue et de coopération, ayez toujours à cœur d’apporter votre contribution au service de la justice et de la paix, de l’éducation des enfants et des jeunes, de la protection et de l’accompagnement des personnes âgées, des faibles, des handicapés et des opprimés.

Je vous remercie encore vous tous, frères et sœurs, pour votre présence et pour votre mission ici au Maroc. Merci pour votre présence humble et discrète, à l’exemple de nos anciens dans la vie consacrée, parmi lesquels je veux saluer la doyenne, sœur Ersilia. A travers toi, chère sœur, j’adresse un salut cordial aux sœurs et aux frères âgés qui, en raison de leur état de santé, ne sont pas présents physiquement mais sont unis à nous par la prière.

Vous tous, vous êtes des témoins d’une histoire qui est glorieuse parce qu’elle est une histoire de sacrifices, d’espérance, de lutte quotidienne, de vie consumée dans le service, de constance dans le travail fatigant, parce que tout travail està la sueur du front. Mais permettez-moi de vous dire aussi: «Vous n'avez pas seulement à vous rappeler et à raconter une histoire glorieuse, mais vous avez à construire une grande histoire ! Regardez vers l'avenir – fréquentez l’avenir - où l'Esprit vous envoie» (Exhort apost. postsyn. Vita consecrata, n. 110), pour continuer à être un signe vivant de cette fraternité à laquelle le Père nous a appelés, sans volontarisme ni résignation, mais comme des croyants qui savent que le Seigneur nous précède toujours et ouvre des espaces d’espérance là où quelque chose ou quelqu’un semblait perdu.

Que le Seigneur bénisse chacun de vous, et à travers vous les membres de toutes vos communautés. Que son Esprit vous aide à porter des fruits en abondance: des fruits de dialogue, de justice, de paix, de vérité et d’amour pour qu’ici, sur cette terre aimée de Dieu, grandisse la fraternité humaine. Et, s’il vous plaît, n’oubliez pas de prier pour moi. Merci.

[Quatre enfants viennent à côté du Pape. Il dit: "Voici l’avenir! Le présent et l’avenir!"]

Et maintenant, mettons-nous sous la protection de la Vierge Marie, en récitant l’Angélus.

[00535-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear Brothers and Sisters, bonjour à tous!
I am very happy to have this opportunity to be with you. I especially thank Father Germain and Sister Mary for their testimonies. I would also like to greet the members of the Ecumenical Council of Churches, a clear sign of the communion experienced here in Morocco between Christians of different confessions along the path to unity. Christians are a small minority in this country. Yet, to my mind, this is not a problem, even though I realize that at times it can be difficult for some of you. Your situation reminds me of the question asked by Jesus: “What is the kingdom of God like? And to what should I compare it? … It is like yeast that a woman took and mixed in with three measures of flour until all of it was leavened” (Lk 13:18.21). Paraphrasing the Lord’s words, we can ask ourselves: What are Christians like, in these lands? To what can we compare them? They are like a little yeast that Mother Church wants to mix in with a great quantity of flour until all of it is leavened. For Jesus did not choose us and send us forth to become more numerous! He called us to a mission. He put us in the midst of society like a handful of yeast: the yeast of the Beatitudes and the fraternal love by which, as Christians, we can all join in making present his kingdom. In this context I recall the counsel of Saint Francis to his brothers as he sent them out: “Go out and preach the Gospel: and if necessary, also with words”.

This means, dear friends, that our mission as baptized persons, priests and consecrated men and women, is not really determined by the number or size of spaces that we occupy, but rather by our capacity to generate change and to awaken wonder and compassion. We do this by the way we live as disciples of Jesus, in the midst of those with whom we share our daily lives, joys and sorrows, suffering and hopes (cf. Gaudium et Spes, 1). In other words, the paths of mission are not those of proselytism. Please, these paths are not those of proselytism! Let us recall Benedict XVI: “the Church grows not through proselytism, but through attraction, through witness”. The paths of mission are not those of proselytism, which leads always to a cul-de-sac, but of our way of being with Jesus and with others. The problem is not when we are few in number, but when we are insignificant, salt that has lost the flavour of the Gospel – this is the problem – or lamps that no longer shed light (cf. Mt 5:13-15).

I believe we should worry whenever we Christians are troubled by the thought we are only significant if we are the flour, if we occupy all the spaces. You know very well that our lives are meant to be “yeast”, wherever and with whomever we find ourselves, even if this appears to bring no tangible or immediate benefits (cf. Evangelii Gaudium, 210). For being a Christian is not about adhering to a doctrine, or a temple or an ethnic group. Being Christian is about an encounter, an encounter with Jesus Christ. We are Christians because we have been loved and encountered, and not as the result of proselytism. Being Christian is about knowing that we have been forgiven and knowing that we are asked to treat others in the same way that God treated us. For “by this everyone shall know that you are my disciples, if you have love for one another” (Jn 13:35).

Dear brothers and sisters, in thinking of this setting in which you are called to live your baptismal vocation, your ministry and your consecration, I recall the words of Pope Saint Paul VI in his encyclical Ecclesiam Suam: “The Church must enter into dialogue with the world in which she lives. She has something to say, a message to give, a communication to make” (No. 65). To say that the Church has to enter into dialogue is not to follow a fashion – dialogue is in vogue today but that is not the reason for dialogue – or much less a strategy for increasing her membership, no, it is not a strategy. The Church has to enter into dialogue out of fidelity to her Lord and Master, who from the beginning, moved by love, wished to enter into dialogue as a friend and asks us to enter into friendship with him (cf. Dei Verbum, 2). As disciples of Jesus Christ, from the very day of our baptism we have been called to be a part of this dialogue of salvation and friendship, from which we are the first to benefit.

Christians, here in these lands, learn to be a living sacrament of the dialogue that God wants to initiate with each man and woman, wherever they are. A dialogue that we are nonetheless called to take up following the example of Jesus himself, who is meek and humble of heart (cf. Mt 11:29), with fervent and disinterested love, without calculations and limitations, and with respect for the freedom of others. In this spirit, we can find elder brothers and sisters who show us the way, for by their lives they testify that this dialogue is possible; they point to a “high standard” that challenges us and spurs us on. How can we fail to think of Saint Francis of Assisi, who at the height of the Crusades went to encounter Sultan al-Malik al-Kamil? Or Blessed Charles de Foucault, so deeply impressed by the humble and hidden life of Jesus in Nazareth, whom he silently adored, that he wished to be a “brother to all”? Or again, those of our fellow Christians who chose to live in solidarity with another people, even to the point of giving their lives? When the Church, in fidelity to the mission she has received from the Lord, enters into dialogue with the world and gives her message, she takes part in the advent of that fraternity whose deepest source is not in ourselves but in the fatherhood of God.

As consecrated persons, we are invited to experience this dialogue of salvation above all as intercession for the people entrusted to us. I remember once speaking with a priest who, like yourselves, lived in a land where Christians were a minority. He told me that “Our Father” had taken on a particular meaning for him because, praying in the midst of people of other religions, he felt the power of the words, “Give us this day our daily bread”. His intercessory prayer, as a missionary, expanded to that people which was in some way entrusted to him, not to govern but to love, and this led him to pray this prayer with special feeling. Consecrated persons and priests bring to the altar and to their prayer the lives of all those around them; they keep alive, as if through a small window, the life-giving power of the Holy Spirit. How beautiful it is to know that, in different parts of this land, through your voices, all creation can constantly pray: “Our Father”.

Dialogue, then, becomes prayer. We can carry it out daily in the name “of the human fraternity that embraces all human beings, unites them and renders them equal. In the name of this fraternity, torn apart by the policies of extremism and division, by systems of unrestrained profit or by hateful ideological tendencies, that manipulate the actions and the future of men and women (Document on Human Fraternity, Abu Dhabi, 4 February 2019). A prayer that does not distinguish, separate or marginalize, but embraces the life of our neighbour. A prayer of intercession that says to the Father, “Thy kingdom come”. Not by violence, not by hatred, not by ethnic, religious or economic supremacy, and so forth, but by the power of the compassion poured out on the cross for all mankind. This is the experience of the majority of you.

I thank God for all that you are doing as followers of Jesus Christ here in Morocco, daily discovering through dialogue, cooperation and friendship the way to sow a future of hope. In this way, you will unmask and lay bare every attempt to exploit differences and ignorance in order to sow fear, hatred and conflict. For we know that fear and hatred, nurtured and manipulated, destabilize our communities and leave them spiritually defenceless.

I encourage you, then, with no other desire than to make visible the presence and love of Christ, who for our sake became poor in order to enrich us by his poverty (cf. 2 Cor 8:9): continue to be neighbours to those who are often left behind, the little ones and the poor, prisoners and migrants. May your charity be ever active and thus a path of communion between Christians of every confession present in Morocco: the ecumenism of charity. May it be also a path of dialogue and cooperation with our Muslim brothers and sisters, and with all men and women of good will. Charity, especially towards the vulnerable, is the best opportunity we have to keep working to build of a culture of encounter. May it also be a way for those who experience pain, struggles and exclusion to realize that they are members of the one human family, under the banner of fraternity. As disciples of Jesus Christ, may you, in that same spirit of dialogue and cooperation, be ever concerned to serve the advancement of justice and peace, the education of children and young people, and the protection and accompaniment of the elderly, the vulnerable, the disabled and the oppressed.

Once again, I thank all of you, brothers and sisters, for your presence and your mission here in Morocco. Thank you for your humble and discreet service, following the example of our forebears in consecrated life, among whom I want to greet your dean, Sister Ersilia. Through you, dear Sister, I offer a cordial greeting to the elderly sisters and brothers who, for reasons of health, are not physically present here, but are united to us in prayer.

All of you are witnesses of a glorious history. A history of sacrifices, hopes, daily struggles, lives spent in service, perseverance and hard work, for all work is hard, done “by the sweat of our brow”. But let me also tell you that “you have a glorious history to remember and recount, but also a great history to be accomplished! Look to the future – envisage the future – where the Holy Spirit is sending you” (Vita Consecrata, 110). In this way, you will continue to be living signs of that fraternity to which the Father has called us, without intransigence or passivity, but as believers who know that the Lord always goes before us and opens spaces of hope wherever something or someone appeared hopeless.

May the Lord bless each of you and, through you, the members of all your communities. May his Spirit help you to bear abundant fruit: the fruit of dialogue, justice, peace, truth, and love, so that here in this land which God loves, human fraternity may grow ever stronger. And please, do not forget to pray for me. Thank you!

[Four children go up beside the Pope. He says: “Voici le futur! Le maintenant et le future!”

And now, let us place ourselves under the protection of the Virgin Mary by reciting the Angelus.

[00535-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Schwestern und Brüder, bonjour à tous!
Ich freue mich sehr, mit Euch zusammentreffen zu können. Ich danke besonders Pater Germain und Schwester Mary für ihre Zeugnisse. Gerne begrüße ich auch die Mitglieder des Ökumenischen Kirchenrates, der hier in Marokko die gelebte Gemeinschaft zwischen Christen verschiedener Konfessionen auf dem Weg zur Einheit sichtbar werden lässt. Die Christen sind in diesem Land nur eine kleine Minderheit. In meinen Augen stellt diese Tatsache aber kein Problem dar, auch wenn ich zugestehe, dass das manchmal für einige schwer zu leben ist. Eure Situation erinnert mich an die Frage Jesu: »Wem ist das Reich Gottes ähnlich, womit soll ich es vergleichen? [...] Es ist wie der Sauerteig, den eine Frau nahm und unter drei Sea Mehl verbarg, bis das Ganze durchsäuert war« (Lk 13,18.21). Wenn wir diese Worte des Herrn umschreiben, könnten wir uns fragen: wem gleicht ein Christ in diesem Land? Mit was kann ich ihn vergleichen? Er ist wie ein bisschen Sauerteig, den die Mutter Kirche mit einer Menge Mehl vermischen will, damit das Ganze durchsäuert wird. Jesus hat uns nämlich nicht erwählt und ausgesandt, damit wir die Mehrheit werden! Er hat uns zu einer Sendung berufen. Er hat uns in die Gesellschaft gestellt, so wie das bisschen Sauerteig: der Sauerteig der Seligpreisungen und der brüderlichen Liebe, in dem wir uns als Christen alle wiederfinden, um das Reich Gottes zu vergegenwärtigen. Da kommt mir der Ratschlag in den Sinn, den der heilige Franziskus seinen Brüdern gab, als er sie aussandte: „Geht und verkündet das Evangelium, wenn nötig, auch mit Worten“.

Liebe Freunde, das bedeutet, dass unsere Sendung als Getaufte, als Priester und Gottgeweihte, nicht wirklich von der Anzahl oder vom Umfang der Räume bestimmt wird, die wir besetzen, sondern von der Fähigkeit, Verwandlung, Erstaunen und Mitleid zu bewirken; davon, wie wir als Jünger Jesu leben, inmitten derer, deren tägliches Leben wir teilen, ihre Freude, ihre Trauer, ihre Schmerzen und ihre Hoffnung (vgl. Zweites Vatikanisches Konzil, Pastoralkonstitution Gaudium et spes, 1). Anders ausgedrückt: Die Wege der Mission führen nicht über den Proselytismus. Bitte kein Proselytismus! Erinnern wir uns an Benedikt XVI.: „Die Kirche wächst nicht durch Proselytismus, sondern durch Anziehung, durch ihr Zeugnis.“ Sie führen nicht über den Proselytismus, der immer in einer Sackgasse endet, sondern über unsere Nähe zu Jesus und den Mitmenschen. Das Problem ist also nicht, wenige zu sein, sondern unbedeutend, so wie das Salz, das den Geschmack des Evangeliums verloren hat – das ist das Problem! – oder ein Licht, das nichts mehr erhellt (vgl. Mt 5,13-15).

Ich denke, dass die Sorge entsteht, wenn uns Christen der Gedanke beherrscht, nur dann Bedeutung zu besitzen, wenn wir eine Masse sind und Räume besetzen. Ihr wisst ganz genau, dass es im Leben darum geht, als Sauerteig dort „durchzusäuern“, wo wir uns befinden und mit wem wir uns befinden, auch wenn das augenscheinlich keine greifbaren und unmittelbaren Vorteile bringt (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 210). Denn Christ sein bedeutet nicht, einer Lehre zuzustimmen, oder zu einem Gotteshaus gehören oder zu einer ethnischen Gruppe. Christ sein ist eine Begegnung, eine Begegnung mit Jesus Christus. Wir sind Christen, weil wir geliebt wurden und uns jemand begegnet ist. Wir sind nicht das Resultat eines Proselytismus. Christ zu sein bedeutet, sich der eigenen Vergebung bewusst zu sein und sich aufgerufen zu wissen, so zu handeln, wie Gott an uns gehandelt hat. Denn »daran werden alle erkennen, dass ihr meine Jünger seid: wenn ihr einander liebt« (Joh 13,35).

Im Anbetracht des Kontextes in dem ihr, liebe Schwestern und Brüder, eure Taufberufung, euern Dienst, eure Weihe leben sollt, kommen mir die Worte des Heiligen Paul VI. in der Enzyklika Ecclesiam suam in den Sinn: »Die Kirche muss zu einem Dialog mit der Welt kommen, in der sie nun einmal lebt. Die Kirche macht sich selbst zum Wort, zur Botschaft, zum Dialog« (Nr. 67). Die Behauptung, dass die Kirche in Dialog treten muss, ist nicht eine Modeerscheinung – „Dialog“ ist heute ein Modewort, aber das ist nicht gemeint –, und auch keine Strategie, um die Mitgliedszahlen zu erhöhen, nein, auch keine Strategie. Die Kirche muss aus Treue zu ihrem Herrn und Meister in Dialog treten. Dieser hat von Anfang an, aus Liebe, in Dialog treten wollen, so wie ein Freund um uns einzuladen, an seiner Freundschaft teilzuhaben (vgl. Zweites Vatikanisches Konzil, Dogmatische Konstitution Dei Verbum, 2). So sind wir als Jünger Jesu Christi vom Tag unserer Taufe an dazu berufen, an diesem Dialog des Heils und der Freundschaft, dessen erste Beschenke wir sind, teilzuhaben.

In diesem Land lernt der Christ ein lebendiges Sakrament des Dialogs zu sein, den Gott mit jeder Frau und jedem Mann in jedweder Lebenssituation aufnehmen will. Diesen Dialog haben wir deshalb auf Jesu Weise zu führen, so wie er, gütig und von Herzen demütig (vgl. Mt 11,29), mit einer brennenden und uneigennützigen Liebe, ohne Berechnungen und Begrenzungen und mit Respekt vor der persönlichen Freiheit. In dieser Geisteshaltung finden wir ältere Geschwister, die uns den Weg weisen, weil sie mit ihrem Leben bezeugt haben, dass das möglich ist, ein „hoher Maßstab“ der uns herausfordert und anfeuert. Wie sollten wir da nicht an Franz von Assisi denken, der inmitten eines Kreuzzuges zum Sultan Abdel Malik ging, um ihn zu treffen? Oder an den seligen Charles de Foucault: tief getroffen vom demütigen und verborgenen Leben Jesu in Nazareth, den er in der Stille anbetete, wollte er ein „universaler Bruder“ sein. Oder denken wir an jene Schwestern und Brüder, die die Solidarität mit einem Volk bis zur Hingabe des eigenen Lebens gewählt haben. Wenn also die Kirche in Treue zu ihrer vom Herrn empfangenen Sendung mit der Welt in Dialog tritt und so zu einem „Zwiegespräch“ wird, dann hat sie Teil am Anbruch der Brüderlichkeit, die ihren tiefsten Ursprung nicht in uns hat, sondern in der Vaterschaft Gottes.

Diesen heilsmäßigen Dialog müssen wir Gottgeweihte vor allem als Fürsprache für das uns anvertraute Volk leben. Ich erinnere mich, einmal mit einem Priester gesprochen zu haben, der sich wie ihr in einem Land befand, in dem die Christen die Minderheit sind. Für ihn hatte das Gebet des Vaterunser eine besondere Bedeutung gewonnen. Wenn er es inmitten von Menschen anderer Religionen betete, fühlte er die Kraft der Worte „unser tägliches Brot gib uns heute“. Das fürbittende Gebet des Missionars auch für dieses Volk, das ihm in einem gewissen Sinn nicht zum Betreuen sondern zum Lieben anvertraut war, hat in ihm dazu geführt, dieses Gebet mit einem besonderen Ton und einem besonderen Geschmack zu beten. Die gottgeweihte Person, der Priester, trägt auf seinen Altar und in seinem Gebet das Leben der Leute seines Landes mit. Damit hält er wie durch eine kleine Einflugschneise in diesem Land die lebensspendende Kraft des Geistes am Strömen. Es ist schön zu wissen, dass in den unterschiedlichen Gegenden dieser Welt die Schöpfung durch unsere Stimmen weiter seufzen und beten kann: „Vater unser“.

Es ist ein Dialog, der eben zum Gebet wird und den wir jeden Tag konkret umsetzen können im Namen »der „Brüderlichkeit aller Menschen“, die alle Menschen umfasst, vereint und gleich macht an Würde. Im Namen dieser Brüderlichkeit, welche durch die politischen Bestrebungen von Integralismus und Spaltung sowie durch maßlos gewinnorientierte Systeme und abscheuliche ideologische Tendenzen, die die Handlungen und Schicksale der Menschen manipulieren, entzweit wird« (Dokument über die Brüderlichkeit aller Menschen, Abu Dhabi, 4. Februar 2019). Es ist ein Gebet, das nicht unterscheidet, trennt oder ausgrenzt, sondern das Leben unseres Nächsten miteinbezieht; es ist ein Fürbittgebet, das befähigt, zum Vater zu sagen: »Dein Reich komme«. Nicht mit Gewalt, nicht mit Hass, nicht mit ethnischer, religiöser, wirtschaftlicher oder sonst irgendeiner Überlegenheit dieser Art, sondern mit der Kraft des Mitgefühls, das sich vom Kreuz her auf alle Menschen erstreckt. Das ist die Erfahrung der meisten von euch.

Ich danke Gott für das, was ihr als Jünger Jesu Christi hier in Marokko getan habt, indem ihr täglich im Dialog, in der Zusammenarbeit und in der Freundschaft die Mittel findet, um Zukunft und Hoffnung zu säen. So schafft ihr es, alle Versuche zu entlarven und anzuzeigen, die Unterschiede und Unwissenheit ausnutzen, um Angst, Hass und Konflikte zu säen. Denn wir wissen, dass Angst und Hass, da wo sie genährt und bewusst eingesetzt werden, unsere Gemeinschaften destabilisieren und verwundbar machen.

Ich ermutige euch, und habe dabei nur diesen einen Wunsch, die Gegenwart und Liebe Christi sichtbar zu machen, der unseretwegen arm wurde, um uns durch seine Armut reich zu machen (vgl. 2 Kor 8,9): Bleibt denen nahe, die so oft auf der Strecke bleiben, den Kleinen und Armen, den Gefangenen und Migranten. Eure Liebe sei immer eine tätige Liebe, und damit ein Weg der Gemeinschaft der Christen aller in Marokko vertretenen Konfessionen: eine Ökumene der Nächstenliebe. Möge sie auch ein Weg des Dialogs und der Zusammenarbeit mit unseren muslimischen Brüdern und Schwestern und mit allen Menschen guten Willens sein. Die Liebe, insbesondere zu den Schwächsten, ist die beste Gelegenheit, um auch zukünftig eine Kultur der Begegnung zu fördern. Sie möge schließlich dazu führen, dass die verwundeten, leidenden und ausgeschlossenen Menschen sich im Zeichen der Brüderlichkeit als Mitglieder der einen Menschheitsfamilie erkennen können. Es liege euch als Jüngerinnen und Jünger Jesu Christi, in diesem Geist des Dialogs und der Zusammenarbeit, immer am Herzen, euren Beitrag für Gerechtigkeit und Frieden, zur Erziehung der Kinder und Jugendlichen, zum Schutz und zur Begleitung älterer, schwacher, behinderter und unterdrückter Menschen zu leisten.

Brüder und Schwestern, ich danke euch allen noch einmal für eure Anwesenheit und eure Mission hier in Marokko. Ich danke euch für die Beständigkeit eurer demütigen und diskreten Gegenwart nach dem Beispiel unserer ältesten Vertreter gottgeweihten Lebens, unter denen ich die „Dekanin“ Schwester Ersilia, begrüßen möchte. Mit dir, liebe Schwester, grüße ich herzlich die älteren Schwestern und Brüder, die aufgrund ihres Gesundheitszustandes nicht körperlich anwesend, aber durch das Gebet mit uns verbunden sind.

Ihr alle seid Zeugen einer glorreichen Geschichte, weil sie eine Geschichte der Opfer, der Hoffnung, des täglichen Kampfes, eines sich im Dienst verzehrenden Lebens, der Beständigkeit in harter Arbeit ist, denn jede Arbeit geschieht im „Schweiß unseres Angesichts“ (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii Gaudium, 96). Aber lasst mich euch auch sagen: »Ihr sollt euch nicht nur einer glanzvollen Geschichte erinnern und darüber erzählen, sondern ihr habt eine große Geschichte aufzubauen! Blickt in die Zukunft, lasst euch auf die Zukunft ein, in die der Geist euch versetzt« (vgl. Nachsynodales Apostolisches Schreiben Vita consecrata, 110), um weiterhin ein lebendiges Zeichen jener Brüderlichkeit zu sein, zu der uns der Vater berufen hat, ohne dabei nur auf die eigenen Kräfte zu setzen und ohne zu resignieren, sondern als Gläubige, die wissen, dass der Herr uns immer vorausgeht und dort Räume der Hoffnung öffnet, wo etwas oder jemand verloren schien.

Der Herr segne einen jeden und eine jede von euch. Und durch euch segne er die Mitglieder aller eurer Gemeinschaften. Möge sein Geist euch helfen, reiche Frucht zu bringen: Früchte des Dialogs, der Gerechtigkeit, des Friedens, der Wahrheit und der Liebe, damit hier, in diesem von Gott geliebten Land, die Brüderlichkeit aller Menschen weiter gedeihe. Und vergesst bitte nicht, für mich zu beten. Danke!

[Vier Kinder kommen zum Papst. Er sagt zu ihnen: »Voici le futur! Le maintenant et le futur!«.]

Und jetzt stellen wir uns unter den Schutz der Jungfrau Maria und beten den Angelus.

[00535-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas, buenos días.
Estoy muy contento de encontrarme con vosotros. Agradezco especialmente al padre Germain y a sor Mary sus testimonios. También deseo saludar al Consejo Ecuménico de las Iglesias, que manifiesta visiblemente la comunión que se vive aquí en Marruecos entre cristianos de diversas confesiones, en el camino de la unidad. Los cristianos son un grupo pequeño en este país. Pero para mí esta realidad no es un problema, aun cuando reconozco que a veces la vida pueda resultar difícil para algunos. Vuestra situación me trae a la memoria la pregunta de Jesús: «¿A qué es semejante el reino de Dios o a qué lo compararé? […] Es semejante a la levadura que una mujer tomó y metió en tres medidas de harina, hasta que todo fermentó» (Lc 13,18.21). Parafraseando las palabras del Señor podríamos preguntarnos: ¿A qué es semejante un cristiano en estas tierras? ¿A qué se puede comparar? Es semejante a un poco de levadura que la madre Iglesia quiere mezclar con una gran cantidad de harina, hasta que toda la masa fermente. En efecto, Jesús no nos ha elegido y enviado para que seamos los más numerosos. Nos ha llamado para una misión. Nos ha puesto en la sociedad como esa pequeña cantidad de levadura: la levadura de las bienaventuranzas y el amor fraterno donde todos como cristianos nos podemos encontrar para que su Reino se haga presente. Aquí me viene a la mente el consejo que dio san Francisco a sus frailes, cuando los envió: «Id y predicad el Evangelio: si fuera necesario, también con palabras».

Queridos amigos: esto significa que nuestra misión de bautizados, sacerdotes, consagrados, no está determinada principalmente por el número o la cantidad de espacios que se ocupan, sino por la capacidad que se tiene de generar y suscitar transformación, estupor y compasión; por el modo en el que vivamos como discípulos de Jesús, junto a aquellos con quienes compartimos lo cotidiano, las alegrías, los dolores, los sufrimientos y las esperanzas (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, 1). En otras palabras, los caminos de la misión no pasan por el proselitismo. Por favor, no pasan por el proselitismo. Recordamos a Benedicto XVI: «La Iglesia crece no por proselitismo, sino por atracción, por testimonio». No pasan por el proselitismo, que lleva siempre a un callejón sin salida, sino por nuestro modo de ser con Jesús y con los demás. Por tanto, el problema no es ser pocos, sino ser insignificantes, convertirse en una sal que ya no tiene sabor de Evangelio —este es el problema—, o en una luz que ya no ilumina (cf. Mt 5,13-15).

Creo que la preocupación surge cuando a nosotros, cristianos, nos abruma pensar que solo podemos ser significativos si somos la masa y si ocupamos todos los espacios. Vosotros sabéis bien que la vida se juega en la capacidad que tengamos de “ser fermento” allí donde nos encontremos y con quien nos encontremos, «aunque eso aparentemente no nos aporte beneficios tangibles e inmediatos» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 210). Porque cristiano no es el que se adhiere a una doctrina, a un templo o a un grupo étnico. Ser cristiano es un encuentro, un encuentro con Jesucristo. Somos cristianos porque hemos sido amados y encontrados, y no gracias al proselitismo. Ser cristianos es reconocerse perdonados, reconocerse llamados a actuar del mismo modo que Dios ha obrado con nosotros, porque «en esto conocerán todos que sois discípulos míos: si os amáis unos a otros» (Jn 13,35).

Queridos hermanos y hermanas: consciente del contexto en el que estáis llamados a vivir vuestra vocación bautismal, vuestro ministerio, vuestra consagración, me vienen a la mente las palabras del Papa san Pablo VI en la encíclica Ecclesiam suam: «La Iglesia debe ir hacia el diálogo con el mundo en que le toca vivir. La Iglesia se hace palabra; la Iglesia se hace mensaje; la Iglesia se hace coloquio» (n. 34). Afirmar que la Iglesia debe entablar un diálogo no depende de una moda —hoy está la moda del diálogo, no, no depende de eso—, menos aún de una estrategia para que aumente el número de sus miembros, no, tampoco es una estrategia. Si la Iglesia debe entablar un diálogo es por fidelidad a su Señor y Maestro que, desde el comienzo, movido por el amor, ha querido dialogar como amigo e invitarnos a participar de su amistad (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Dei Verbum, 2). Así, como discípulos de Jesucristo estamos llamados, desde el día de nuestro Bautismo, a formar parte de este diálogo de salvación y de amistad, del que somos los primeros beneficiarios.

En estas tierras, el cristiano aprende a ser sacramento vivo del diálogo que Dios quiere entablar con cada hombre y mujer, en cualquier situación que viva. Por tanto, es un diálogo que estamos llamados a realizar a la manera de Jesús, manso y humilde de corazón (cf. Mt 11,29), con un amor ferviente y desinteresado, sin cálculos y sin límites, respetando la libertad de las personas. En este espíritu, encontramos hermanos mayores que nos muestran el camino, porque con su vida han testimoniado que esto es posible, un “listón alto” que nos desafía y estimula. Cómo no recordar la figura de san Francisco de Asís que, en plena cruzada, fue a encontrarse con el sultán al-Malik al-Kamil. Y cómo no mencionar al beato Carlos de Foucauld que, profundamente impresionado por la vida humilde y escondida de Jesús en Nazaret, a quien adoraba en silencio, quiso ser un “hermano universal”. E incluso a los hermanos y hermanas cristianos que han elegido ser solidarios con un pueblo hasta dar la propia vida. Así, cuando la Iglesia, fiel a la misión recibida del Señor, entabla un diálogo con el mundo y se hace coloquio, contribuye a la llegada de la fraternidad, que tiene su fuente profunda no en nosotros, sino en la paternidad de Dios.

Como consagrados, estamos llamados a vivir dicho diálogo de salvación como intercesión por el pueblo que nos ha sido confiado. Recuerdo una vez —hablando con un sacerdote que se encontraba como vosotros en un lugar donde los cristianos son minoría—, me contaba que la oración del “Padre nuestro” había adquirido una resonancia especial en él porque, rezando en medio de personas de otras religiones, sentía con fuerza las palabras «danos hoy nuestro pan de cada día». La oración de intercesión del misionero también por ese pueblo, que en cierta medida le había sido confiado, no para administrar sino para amar, lo llevaba a rezar esta oración con un tono y un gusto especiales. El consagrado, el sacerdote, lleva a su altar con su oración la vida de sus compatriotas y mantiene viva, como a través de una pequeña grieta en esa tierra, la fuerza vivificante del Espíritu. Qué hermoso es saber que, en los distintos rincones de esta tierra, en vuestras voces, la creación implora y sigue diciendo: “Padre nuestro”.

Por tanto, es un diálogo que se convierte en oración y que podemos realizar concretamente todos los días en nombre «de la “fraternidad humana” que abraza a todos los hombres, los une y los hace iguales. En el nombre de esta fraternidad golpeada por las políticas de integrismo y división y por los sistemas de ganancia insaciable y las tendencias ideológicas odiosas, que manipulan las acciones y los destinos de los hombres» (Documento sobre la fraternidad humana, Abu Dabi, 4 febrero 2019). Una oración que no distingue, no separa, no margina, sino que se hace eco de la vida del prójimo; oración de intercesión que es capaz de decir al Padre: «Venga tu reino». No con la violencia, el odio o la supremacía étnica, religiosa, económica y otras, sino con la fuerza de la compasión derramada en la Cruz por todos los hombres. Esta es la experiencia vivida por la mayor parte de vosotros.

Doy gracias a Dios por lo que habéis hecho aquí en Marruecos, como discípulos de Jesucristo, encontrando cada día en el diálogo, en la colaboración y en la amistad los instrumentos para sembrar futuro y esperanza. Así desenmascaráis y lográis poner en evidencia todos los intentos de utilizar las diferencias y la ignorancia para sembrar miedo, odio y conflicto. Porque sabemos que el miedo y el odio, alimentados y manipulados, desestabilizan y dejan nuestras comunidades espiritualmente indefensas.

Sin otro deseo que el de hacer visible la presencia y el amor de Cristo, que se ha hecho pobre por nosotros para enriquecernos con su pobreza (cf. 2 Co 8,9), os animo a que sigáis estando cerca de quienes a menudo son dejados atrás, de los pequeños y los pobres, de los presos y los migrantes. Que vuestra caridad sea siempre activa y un camino de comunión entre los cristianos de todas las confesiones presentes en Marruecos: el ecumenismo de la caridad. Que pueda ser también un camino de diálogo y de cooperación con nuestros hermanos y hermanas musulmanes, y con todas las personas de buena voluntad. La caridad, especialmente hacia los más débiles, es la mejor oportunidad que tenemos para seguir trabajando en favor de una cultura del encuentro. Que ese sea el camino que permita a las personas heridas, probadas, excluidas, reconocerse por fin miembros de la única familia humana, en el signo de la fraternidad. Como discípulos de Jesucristo, en este mismo espíritu de diálogo y de cooperación, tened siempre el deseo de contribuir al servicio de la justicia y la paz, de la educación de los niños y los jóvenes, de la protección y el acompañamiento de los ancianos, los débiles, las personas con discapacidades y los oprimidos.

Hermanos y hermanas: agradezco nuevamente a todos vosotros vuestra presencia y vuestra misión aquí en Marruecos. Gracias por vuestro servicio humilde y discreto, siguiendo el ejemplo de nuestros mayores en la vida consagrada, entre los cuales quiero mencionar a la decana, sor Ersilia. Querida hermana: a través de ti dirijo un cordial saludo a las hermanas y a los hermanos ancianos que, a causa de su estado de salud, no están físicamente presentes con nosotros, pero permanecen unidos a través de la oración.

Todos vosotros sois testigos de una historia que es gloriosa porque es historia de sacrificios, esperanzas, lucha cotidiana, vida gastada en el servicio, constancia en el trabajo fatigoso, porque toda labor es sudor de la frente. Pero permitidme también deciros: «¡Vosotros no solamente tenéis una historia gloriosa para recordar y contar, sino una gran historia que construir! Poned los ojos en el futuro —frecuentad el futuro—, hacia el que el Espíritu os impulsa» (Exhort. ap. Postsin. Vita consecrata, 110), para seguir siendo signo vivo de esa fraternidad a la que el Padre nos ha llamado, sin voluntarismos y sin resignación, sino como creyentes que saben que el Señor siempre nos precede y abre espacios de esperanza donde parecía que algo o alguien se había perdido.

El Señor os bendiga a cada uno de vosotros y, por medio de vosotros, a los miembros de vuestras comunidades. Que su Espíritu os ayude a dar frutos en abundancia: frutos de diálogo, de justicia, de paz, de verdad y de amor para que en esta tierra amada por Dios crezca la fraternidad humana. Y, por favor, no os olvidéis de rezar por mí. Gracias.

            [Cuatro niños se ponen al lado del Papa. Él dice:] «He aquí el futuro. El ahora y el futuro».

            Y ahora nos ponemos bajo la protección de la Virgen María recitando el Ángelus.

[00535-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos e irmãs, bonjour a tous (bom dia a todos)!
Sinto-me imensamente feliz por poder-vos encontrar. Agradeço especialmente ao Padre Germain e à Irmã Mary pelos seus testemunhos. Desejo também saudar os membros do Conselho Ecuménico das Igrejas, que manifesta visivelmente a comunhão entre cristãos de diferentes confissões vivida aqui, em Marrocos, pelo caminho da unidade. Os cristãos são em reduzido número, neste país. A meu ver, porém, isto não é um problema, embora reconheça que às vezes, para alguns, se possa tornar difícil viver. A vossa situação faz-me lembrar esta pergunta de Jesus: «A que é semelhante o Reino de Deus e a que posso compará-lo? (…) É semelhante ao fermento que certa mulher tomou e misturou com três medidas de farinha, até ficar levedada toda a massa» (Lc 13, 18.21). Parafraseando as palavras do Senhor, podemos interrogar-nos: A que é semelhante um cristão nestas terras? Com que posso compará-lo? É semelhante a um pouco de fermento que a mãe Igreja quer misturar com uma grande quantidade de farinha, até que toda a massa se levede. De facto, Jesus não nos escolheu nem enviou para que nos tornássemos os mais numerosos! Chamou-nos para uma missão. Colocou-nos no meio da sociedade como aquela pequena porção de fermento: o fermento das bem-aventuranças e do amor fraterno, no qual todos, como cristãos, nos podemos unir para tornar presente o seu Reino. Isto faz-me recordar o conselho dado por São Francisco aos seus frades, quando os enviou: «Ide e pregai o Evangelho; se necessário, também com as palavras».

Isto significa, queridos amigos, que a nossa missão de batizados, de sacerdotes, de consagrados não é particularmente determinada pelo número nem pela quantidade de espaços que se ocupa, mas pela capacidade de gerar e suscitar mudança, encanto e compaixão, pelo modo como nós, discípulos de Jesus, vivemos no meio das pessoas com quem partilhamos o dia-a-dia, as alegrias, as tribulações, os sofrimentos e as esperanças (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, 1). Por outras palavras, os caminhos da missão não passam através do proselitismo. Por favor, isto não; aqueles não passam através do proselitismo! Recordemos Bento XVI: «A Igreja cresce não por proselitismo, mas por atração, por testemunho». Os caminhos da missão não passam através do proselitismo, que leva sempre a um beco sem saída, mas pelo nosso modo de estar com Jesus e com os outros. Por conseguinte, o problema não está no facto de ser pouco numerosos, mas de ser insignificantes, tornar-se sal que já não tem o sabor do Evangelho – aqui está o problema –, ou uma luz que já nada ilumina (cf. Mt 5, 13-15).

Penso que a preocupação surge quando nós, cristãos, somos atormentados pelo pensamento de que só seremos significativos, se constituirmos a massa e ocuparmos todos os espaços. Bem sabeis que a vida depende da capacidade que temos de «levedar» onde e com quem nos encontramos, embora aparentemente não nos traga benefícios tangíveis ou imediatos (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 210). Com efeito, ser cristão não é aderir a uma doutrina, a um templo, ou a um grupo étnico; ser cristão é um encontro, um encontro com Jesus Cristo. Somos cristãos, porque Alguém nos amou e veio ao nosso encontro e não por resultado do proselitismo. Ser cristão é saber-se perdoado, saber-se convidado a agir no mesmo modo com que Deus agiu para connosco, pois «por isto é que todos conhecerão que sois meus discípulos: se vos amardes uns aos outros» (Jo 13, 35).

Ciente do contexto em que sois chamados a viver, queridos irmãos e irmãs, a vossa vocação batismal, o vosso ministério, a vossa consagração, vem-me à mente esta palavra do Papa São Paulo VI na Encíclica Ecclesiam suam: «A Igreja deve entrar em diálogo com o mundo em que vive. A Igreja faz-se palavra, faz-se mensagem, faz-se diálogo» (n. 65). Afirmar que a Igreja deve entrar em diálogo não obedece a uma moda – hoje está de moda o diálogo. Não! Não depende disso – e, muito menos, a uma estratégia para aumentar o número dos seus membros; nem sequer a uma estratégia. Se a Igreja deve entrar em diálogo, é por fidelidade ao seu Senhor e Mestre, que desde o princípio, movido pelo amor, quis entrar em diálogo como amigo e convidar-nos a participar da sua amizade (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Dei Verbum, 2). Assim, como discípulos de Jesus Cristo, somos chamados, desde o dia do nosso Batismo, a participar deste diálogo de salvação e amizade, de que somos os primeiros beneficiários.

Nestas terras, o cristão aprende a ser sacramento vivo do diálogo que Deus deseja estabelecer com cada homem e mulher, independentemente da condição em que viva; um diálogo, que somos convidados a realizar à maneira de Jesus, manso e humilde de coração (cf. Mt 11, 29), com amor diligente e desinteressado, sem cálculos nem limites, no respeito pela liberdade das pessoas. Neste espírito, encontramos irmãos mais velhos que nos mostram o caminho, pois testemunharam, com a sua vida, que isto é possível: uma «medida alta», que nos desafia e estimula. Como não evocar a figura de São Francisco de Assis que, em plena cruzada, foi encontrar o Sultão al-Malik al-Kamil? E como não mencionar o Beato Carlos de Foucault que, profundamente tocado pela vida humilde e oculta de Jesus em Nazaré, que adorava em silêncio, quis ser um «irmão universal»? Ou então aqueles irmãos e irmãs cristãos que escolheram permanecer solidários com um povo até ao dom da própria vida? Assim, quando a Igreja – fiel à missão recebida do Senhor – dialoga com o mundo e se faz diálogo, participa no advento da fraternidade, que tem a sua fonte profunda, não em nós, mas na Paternidade de Deus.

Enquanto pessoas consagradas, somos convidados a viver este diálogo de salvação, antes de mais nada, como intercessão pelo povo que nos foi confiado. Lembro-me de um sacerdote (que se encontrava como vós numa terra onde os cristãos são minoria) me contar uma vez que a oração do «Pai Nosso» tinha adquirido nele uma ressonância especial: rezando no meio de pessoas doutras religiões, sentia fortemente as palavras «o pão nosso de cada dia nos dai hoje». A oração de intercessão do missionário também por aquele povo que até certo ponto lhe fora confiado, e não para ser administrado mas para o amar, levava-o a rezar esta oração com uma tonalidade e um gosto especiais. O consagrado, o sacerdote traz ao altar, na sua oração, a vida dos seus conterrâneos mantendo viva, como se fosse uma pequena brecha naquela terra, a força vivificante do Espírito. Como é bom saber que a criação, pelas vossas vozes nos vários ângulos desta terra, pode implorar e continuar a dizer «Pai Nosso»!

Trata-se, portanto, dum diálogo que se torna oração e que podemos concretizar, todos os dias, «em nome da “fraternidade humana” que abraça todos os homens, une-os e torna-os iguais. Em nome desta fraternidade dilacerada pelas políticas de integralismo e divisão e pelos sistemas de lucro desmesurado e pelas tendências ideológicas odiosas, que manipulam as ações e os destinos dos homens» (Documento sobre A Fraternidade Humana, Abu Dhabi, 4 de fevereiro de 2019). Uma oração que não discrimina, não separa nem marginaliza, mas faz-se eco da vida do próximo; oração de intercessão, que é capaz de dizer ao Pai: «venha a nós o vosso reino». Não com a violência, não com o ódio, nem com a supremacia étnica, religiosa e económica, etc., mas com a força da compaixão espargida para todos os homens na Cruz. Esta é a experiência vivida pela maior parte de vós.

Agradeço a Deus pelo que tendes feito, como discípulos de Jesus Cristo, aqui em Marrocos, encontrando diariamente no diálogo, na colaboração e na amizade os instrumentos para semear futuro e esperança. Assim, desmascarais e conseguis pôr a descoberto todas as tentativas de usar as diferenças e a ignorância para semear medo, ódio e conflito. Porque sabemos que o medo e o ódio, alimentados e manipulados, desestabilizam e deixam espiritualmente indefesas as nossas comunidades.

Encorajo-vos, com o único desejo de tornar visível a presença e o amor de Cristo que Se fez pobre por nós para nos enriquecer com a sua pobreza (cf. 2 Cor 8, 9): continuai a aproximar-vos daqueles que muitas vezes são deixados para trás, dos humildes e dos pobres, dos prisioneiros e dos migrantes. Que a vossa caridade se faça sempre ativa, tornando-se assim uma via de comunhão entre os cristãos de todas as confissões presentes em Marrocos: o ecumenismo da caridade. Possa também ser uma via de diálogo e colaboração com os nossos irmãos e irmãs muçulmanos e com todas as pessoas de boa vontade. A melhor oportunidade que temos para continuar a trabalhar em prol duma cultura do encontro é a caridade, especialmente para com os mais frágeis. Enfim, seja ela a via que permita às pessoas feridas, atribuladas e excluídas reconhecerem-se membros da única família humana, sob o signo da fraternidade. Como discípulos de Jesus Cristo, neste mesmo espírito de diálogo e cooperação, tende sempre a peito prestar a vossa contribuição para o serviço da justiça e da paz, da educação das crianças e dos jovens, da proteção e do acompanhamento dos idosos, dos vulneráveis, das pessoas com deficiência e dos oprimidos.

Mais uma vez agradeço a todos vós, irmãos e irmãs, pela vossa presença e a vossa missão aqui em Marrocos. Obrigado pelo vosso serviço humilde e discreto, seguindo o exemplo dos nossos anciãos na vida consagrada, dos quais me apraz saudar a decana: a Irmã Hersília. Na tua pessoa, querida Irmã, dirijo uma cordial saudação às irmãs e irmãos idosos que, devido ao próprio estado de saúde, não se encontram aqui fisicamente presentes, mas estão unidos connosco por meio da oração.

Todos vós sois testemunhas duma história que é gloriosa, porque história de sacrifícios, de esperança, de luta diária, de vida gasta no serviço, de constância no trabalho fadigoso, porque todo o trabalho é suor do nosso rosto. Mas permiti que vos diga também: «Vós não tendes apenas uma história gloriosa para recordar e narrar, mas uma grande história a construir! Olhai o futuro – frequentai o futuro –, para o qual vos projeta o Espírito» (Exort. ap. pós-sinodal Vita consecrata, 110), para continuardes a ser sinal vivo daquela fraternidade à qual o Pai nos chamou, sem cair em exaltações nem resignações, mas como crentes que sabem que o Senhor sempre nos precede e abre espaços de esperança onde algo ou alguém parecia perdido.

O Senhor abençoe a cada um de vós e, por vós, aos membros de todas as vossas comunidades. O seu Espírito vos ajude a produzir frutos em abundância: frutos de diálogo, justiça, paz, verdade e amor, para que aqui, nesta terra amada por Deus, cresça a fraternidade humana. E, por favor, não vos esqueçais de rezar por mim. Obrigado!

[Quatro crianças vão ter com o Papa, que exclama:] «Voici le futur! Le maintnant et le futur! (Eis o futuro! O presente e o futuro!)».

E agora coloquemo-nos sob a proteção da Virgem Maria, rezando a oração do Angelus].

[00535-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia i siostry, bonjour à tous!

Bardzo się cieszę, że mogę się z wami spotkać. Szczególnie dziękuję księdzu Germain i siostrze Mary za ich świadectwa. Pragnę także pozdrowić członków Ekumenicznej Rady Kościołów, co wyraźnie ukazuje komunię, w jakiej żyją tutaj, w Maroku, chrześcijanie różnych wyznań, zmierzający na drodze ku jedności. Chrześcijanie stanowią w tym kraju małą liczebnie grupę. Ale w moich oczach nie jest to problemem, chociaż przyznaję, że czasami dla niektórych może to być trudne. Wasza sytuacja przypomina mi pytanie Jezusa: „Do czego podobne jest królestwo Boże i z czym mam je porównać?” [...] Podobne jest do zaczynu, który pewna kobieta wzięła i włożyła w trzy miary mąki, aż wszystko się zakwasiło” (Łk 138, 18). Parafrazując słowa Pana, możemy zadać sobie pytanie: do czego podobny jest chrześcijanin na tych ziemiach? Do czego mogę go przyrównać? Jest podobny do odrobiny zaczynu, który Matka-Kościół chce wymieszać z dużą ilością mąki, aż całe ciasto zacznie fermentować. Istotnie, Jezus nas nie wybrał i nie posłał, abyśmy byli najliczniejsi! Powołał nas na misję. Postawił nas w społeczeństwie jak tę małą ilość zakwasu: zaczynu błogosławieństw i miłości braterskiej, w której jako chrześcijanie wszyscy możemy się odnaleźć, aby uobecniać Jego królestwo. Tu przychodzi mi na myśl rada, jaką św. Franciszek dał swoim braciom, kiedy ich posyłał: „Idźcie i głoście Ewangelię: jeśli byłoby to konieczne, również słowami”.

Oznacza to, drodzy przyjaciele, że nasza misja jako ludzi ochrzczonych, jako kapłanów, jako osób konsekrowanych, nie jest określona szczególnie przez liczbę lub ilość zajmowanej przestrzeni, lecz przez zdolność do zrodzenia i pobudzania zmiany, zdziwienia i współczucia; od sposobu, w jaki żyjemy jako uczniowie Jezusa, pośród tych, z którymi dzielimy życie codziennie, radości, smutki, cierpienia i nadzieje (por. II SOBÓR WATYKAŃSKI, Konst. duszp. Gaudium et spes, 1). Innymi słowy, drogi misji nie wiodą przez prozelityzm. Bardzo proszę, nie wiodą przez prozelityzm! Wspomnijmy Benedykta XVI: „Kościół rośnie nie przez prozelityzm, ale przez zachwycenie, przez świadectwo”. Nie wiodą przez prozelityzm, który zawsze prowadzi w ślepą uliczkę, ale przez nasz sposób bycia z Jezusem i z innymi ludźmi. Zatem problemem nie jest niewielka liczba, lecz bycie bez znaczenia, stanie się solą, która nie ma już smaku Ewangelii – tu tkwi problem! – lub światłem, które już niczego nie oświeca (por. Mt 5, 13-15).

Myślę, że rodzi się niepokój, gdy my, chrześcijanie, dręczymy się myślą, iż możemy być znaczącymi jedynie wówczas, gdy jesteśmy masą i jeśli zajmujemy wszystkie przestrzenie. Dobrze wiecie, że życie rozgrywa się dzięki posiadaniu zdolności do bycia zaczynem tam, gdzie jesteśmy i z kim jesteśmy. Chociaż może to nie przynosić wymiernych lub natychmiastowych korzyści (por. Adhort. ap. Evangelii gaudium, 210). Bycie chrześcijaninem nie polega bowiem na przystawaniu do jakiejś doktryny, świątyni czy też grupy etnicznej. Bycie chrześcijaninem to spotkanie, spotkanie z Jezusem Chrystusem. Jesteśmy chrześcijanami, ponieważ zostaliśmy umiłowani i spotkani, a nie dlatego, byśmy byli owocem prozelityzmu. Bycie chrześcijaninem oznacza świadomość, że nam przebaczono, świadomość, że jesteśmy zachęceni do czynienia tak, jak Bóg uczynił wobec nas, jako że „po tym wszyscy poznają, żeście uczniami moimi, jeśli będziecie się wzajemnie miłowali” (J 13,35).

Będąc świadomy sytuacji, w jakiej jesteście wezwani do przeżywania swojego powołania chrzcielnego, waszej posługi, waszej konsekracji, drodzy bracia i siostry, przypominają mi się słowa Papieża Pawła VI zawarte w encyklice Ecclesiam suam: „Kościół powinien nawiązać dialog ze społeczeństwem, w którym żyje. Dzięki temu Kościół przybiera postać słowa orędzia i dialogu” (n. 67). Stwierdzenie, że Kościół musi wejść w dialog, nie zależy od mody – dziś jest moda na dialog, nie, nie zależy od tego –, a tym bardziej od strategii mającej na celu zwiększenie liczby jego członków – nie, to nie jest też strategia. Jeśli Kościół ma wejść w dialog, to ze względu na wierność swojemu Panu i Nauczycielowi, który od samego początku pobudzony miłością, chciał nawiązać dialog jako przyjaciel i zaprosić nas do udziału w Jego przyjaźni (por. II SOBÓR WATYKAŃSKI, Konst. Dogm. Dei Verbum, 2). Tak więc, jako uczniowie Jezusa Chrystusa, jesteśmy wezwani, od dnia naszego chrztu, do udziału w tym dialogu zbawienia i przyjaźni, którego jesteśmy pierwszymi beneficjentami.

Chrześcijanin na tych ziemiach uczy się być żywym sakramentem dialogu, który Bóg chce nawiązać z każdym mężczyzną i każdą kobietą, bez względu na warunki, w jakich żyją. Dialog, do którego przeprowadzenia jesteśmy zaproszeni, jest zatem na sposób Jezusa, cichego i pokornego sercem (por. Mt 11,29), z żarliwą i bezinteresowną miłością, bez wyrachowania i bez ograniczeń, w poszanowaniu wolności osoby. W tym duchu spotykamy starszych braci, którzy pokazują nam drogę, ponieważ swoim życiem ukazali nam, że jest to możliwe, „wysoka miara”, która jest dla nas wyzwaniem i nas pobudza. Jakże nie przywołać postaci św. Franciszka z Asyżu, który u szczytu krucjaty udał się na spotkanie sułtana Abdela al-Malika? A jakże nie wspomnieć błogosławionego Karola de Foucault, który głęboko naznaczony pokornym i ukrytym życiem Jezusa w Nazarecie, którego czcił w milczeniu, chciał być „bratem powszechnym”? Albo też ci bracia i siostry chrześcijanie, którzy postanowili być solidarni z ludem, aż po dar swego życia? Tak więc, gdy Kościół, wierny misji otrzymanej od Pana, nawiązuje w dialog ze światem i przybiera postać słowa, to uczestniczy w nadejściu braterstwa, które ma swoje głębokie źródło nie w nas, ale w Ojcostwie Boga.

Jako osoby konsekrowane jesteśmy zaproszeni do przeżywania tego dialogu zbawienia przede wszystkim jako wstawiennictwo za powierzony nam lud. Pamiętam, że kiedyś, rozmawiając z pewnym księdzem, który podobnie jak wy znajdował się w kraju, gdzie chrześcijanie są mniejszością, powiedział mi, że modlitwa „Ojcze nasz” nabrała w nim szczególnego wydźwięku, ponieważ modląc się pośród wyznawców innych religii, bardzo mocno odczuwał słowa „chleba naszego powszedniego daj nam dzisiaj”. Modlitwa wstawiennicza misjonarza także za ten lud, który w pewnej mierze został jemu powierzony, nie po to, by nim zarządzał, ale aby go miłował, doprowadziła go do modlitwy o specjalnym charakterze i smaku. Osoba konsekrowana, kapłan, przynosi na swój ołtarz, w swojej modlitwie życie swoich rodaków, i podtrzymuje, jakby poprzez mały wyłom w tej ziemi, życiodajną siłę Ducha Świętego. Jak dobrze wiedzieć, że w różnych zakątkach tej ziemi, w waszych głosach stworzenie może błagać i nadal odmawiać: „Ojcze nasz”.

Jest to dialog, który staje się zatem modlitwą i który możemy konkretnie realizować każdego dnia „w imię «ludzkiego braterstwa», które obejmuje wszystkich ludzi, jednoczy ich i czyni równymi; w imię tego braterstwa, rozdartego przez politykę ekstremizmu i podziału, przez systemy nieskrępowanego zysku lub przez nienawistne tendencje ideologiczne, które manipulują działaniami i przyszłością ludzi” (Dokument o ludzkim braterstwie, Abu Zabi, 4 lutego 2019). Modlitwa, która nie rozróżnia, nie oddziela i nie usuwa na margines, ale staje się oddźwiękiem życia bliźniego; modlitwa wstawiennicza, która jest w stanie powiedzieć Ojcu: „Przyjdź królestwo Twoje”. Nie z przemocą, nienawiścią, ani dominacją etniczną, religijną, ekonomiczną i tak dalej, ale mocą współczucia przelanego na krzyżu dla wszystkich ludzi. To jest doświadczenie przeżywane przez większość z was.

Dziękuję Bogu za to, co uczyniliście jako uczniowie Jezusa Chrystusa tutaj, w Maroku, znajdując codziennie w dialogu, współpracy i przyjaźni narzędzia upowszechniania przyszłości i nadziei. W ten sposób demaskujecie i udaje się wam wyraźnie ukazać wszelkie próby wykorzystania różnic i ignorancji do siania  lęku, nienawiści i konfliktu. Wiemy bowiem, że lęk i nienawiść, zasilany i manipulowany, destabilizują i zostawiają nasze wspólnoty duchowo bezbronne.

Zachęcam was, nie pragnąc niczego innego jak ukazania obecności i miłości Chrystusa, który dla nas stał się ubogim, aby nas ubóstwem swoim ubogacić (por. 2 Kor 8, 9): bądźcie nadal blisko tych, którzy często są pozostawiani w tyle, maluczkich i ubogich, więźniów i migrantów. Niech wasze miłosierdzie zawsze będzie czynne i staje się w ten sposób drogą komunii między chrześcijanami wszystkich wyznań obecnych w Maroku: ekumenizmem miłosierdzia. Niech będzie także drogą dialogu i współpracy z naszymi muzułmańskimi braćmi i siostrami oraz ze wszystkimi ludźmi dobrej woli. To miłosierdzie, zwłaszcza wobec najsłabszych, jest naszą najlepszą szansą, by kontynuować działania na rzecz kultury spotkania. Niech będzie to wreszcie droga, która pozwoli osobom zranionym, doświadczonym, wykluczonym uznać siebie za członków jednej rodziny ludzkiej, w imię braterstwa. Jako uczniowie Jezusa Chrystusa, w tymże duchu dialogu i współpracy, usiłujcie wnosić swój wkład w służbę sprawiedliwości i pokoju, wychowania dzieci i młodzieży, ochrony i wspierania osób starszych, słabych, niepełnosprawnych i uciskanych.

Jeszcze raz dziękuję wam wszystkim, bracia i siostry, za waszą obecność i waszą misję tutaj w Maroku. Dziękuję za waszą pokorną i dyskretną służbę, na wzór naszych osób starszych w życiu konsekrowanym, wśród których pragnę pozdrowić najstarszą, siostrę Ersilię. Za twoim pośrednictwem, droga siostro, kieruję serdeczne pozdrowienie do starszych sióstr i braci, którzy ze względu na stan zdrowia nie są fizycznie obecni, ale łączą się z nami w modlitwie.

Wszyscy jesteście świadkami historii, która jest chwalebna, ponieważ są to dzieje poświęcenia, nadziei, codziennych zmagań, życia pochłoniętego posługą, wytrwałością w ciężkiej pracy, ponieważ każda praca to pot naszego czoła. Ale pozwólcie, że wam powiem: „Powinniście nie tylko wspominać i opowiadać swoją chwalebną przeszłość, ale także budować nową wielka, historię! Wpatrujcie się w przyszłość – bądźcie obecni w przyszłości – ku której kieruje was Duch” (Posynod. adhort. ap. Vita consecrata, 110), aby nadal być żywym znakiem tego braterstwa, do którego Ojciec nas powołał, bez woluntaryzmu i rezygnacji, ale jako ludzie wierzący, którzy wiedzą, że Pan zawsze nas uprzedza i otwiera przestrzeń nadziei, tam, gdzie coś lub ktoś zdawał się zagubiony.

Niech Pan błogosławi każdego z was, a przez was członków wszystkich waszych wspólnot. Niech Jego Duch pomoże wam wydać obfite owoce: owoce dialogu, sprawiedliwości, pokoju, prawdy i miłości, aby tutaj, na tej ziemi umiłowanej przez Boga, wzrastało ludzkie braterstwo. I proszę was, nie zapomnijcie o mnie w modlitwie. Dziękuję!

[Czworo dzieci towarzyszy Papieżowi]. On mówi: „Voici le futur! Le maintenant et le futur!”

A teraz oddajemy się pod opiekę Maryi Panny odmawiając „Anioł Pański”.

[00535-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

الزيارة الرسولية إلى مملكة المغرب

كلمة قداسة البابا فرنسيس

أثناء اللقاء مع الكهنة والأشخاص المكرسين

والمجلس المسكوني للكنائس

كاتدرائية الرباط، 31 مارس / آذار 2019

 

أيها الإخوة والأخوات الأعزاء، صباح الخير لكم جميعًا!

أنا سعيد جدًّا لتمكّني من لقائكم. أشكر بشكل خاص الأب جرمان والأخت ماري على شهادتيهما. أرغب أيضًا في إلقاء التحية على أعضاء المجلس المسكوني للكنائس الذي يُظهر بشكل مرئي الشركة المعاشة هنا في المغرب بين المسيحيين من طوائف مختلفة على درب الوحدة. عدد المسيحيين في هذا البلد صغير. لكنّ هذا الواقع ليس بمشكلة في نظري، رغم أنني أدرك أنه قد يصعب عيشه أحيانًا بالنسبة للبعض. إنَّ وضعكم يذكّرني بسؤال يسوع: "ماذا يُشبِهُ مَلَكوتُ اللهِ وبِماذا أُشَبِّهُه؟ [...] مَثَلُهُ كَمَثَلِ خَميرَةٍ أَخذَتْها امْرَأَة، فجَعلَتْها في ثَلاثَةِ مكايِيلَ مِنَ الدَّقيق حتَّى اختَمَرَت كُلُّها" (لو ١٣، ١٨. ٢١). إذا أعدنا صياغة كلمات الربّ، يمكننا أن نسأل أنفسنا: ماذا يشبه المسيحي في هذه الأراضي؟ وبماذا أُشبِّهه؟ مَثَلُهُ كَمَثَلِ خَميرَةٍ تريد الأمّ الكنيسة أن تمزجها مع كميّة كبيرة من الدقيق إلى أن تختمر العجينة كلّها. في الواقع إن يسوع لم يخترنا ويرسلنا كي نصبح العدد الأكبر! لقد دعانا من أجل رسالة. وضعنا في المجتمع ككميّة الخميرة الصغيرة تلك: خميرة التطويبات والمحبّة الأخويّة التي يمكننا فيها كمسيحيين أن نلتقي لنجعل ملكوته حاضرًا. وهنا تعود إلى ذهني النصيحة التي أعطاها القديس فرنسيس لإخوته عندما أرسلهم: "اذهبوا وبشّروا بالإنجيل: وإن وجب الأمر، بالكلام أيضًا".

هذا يعني، أيها الأصدقاء الأعزاء، أن رسالتنا كمعمّدين وكهنة ومكرّسين لا يحدّدها بشكل خاص العدد أو كميّة المساحة التي نشغلها وإنما القدرة التي نملكها على خلق التغيير والدهشة والتعاطف؛ من خلال الأسلوب الذي نعيش فيه كتلاميذ ليسوع وسط الذين نشاركهم الحياة اليومية والأفراح والآلام والمعاناة والرجاء (را. المجمع الفاتيكاني الثاني، الدستور الرعائي فرح ورجاء، عدد ١). بمعنى آخر، إنَّ دروب الرسالة لا تمرُّ من خلال أنشطة التبشير. من فضلكم، لا تمرُّ من خلال أنشطة التبشير! لنتذكر بندكتس السادس عشر: "إن الكنيسة لا تنمو من خلال أنشطة التبشير بل بواقع الجذب والشهادة". لا تنمو من خلال أنشطة التبشير، التي تقود دومًا إلى طريق مسدود، وإنما من خلال أسلوبنا في التعاطي مع يسوع ومع الآخرين. وبالتالي فالمشكلة ليست في أن يكون عددنا قليلًا وإنما في أن نكون غير جادين ونصبح ملحًا لا طعم للإنجيل فيه -هذه هي المشكلة!-، أو نورًا لا ينير شيئًا أبدًا (را. متى ٥، ١٣- ١٥).

أظنّ أن القلق يظهر عندما ترهقنا، نحن المسيحيين، فكرةُ كوننا مهمّين فقط إن كنّا العدد الأكبر وشغَلنا جميع الفسحات. أنتم تعرفون جيّدًا أن الحياة تقوم على القدرة التي نملكها على أن "نُخمِّر" حيثما نكون ومع من نكون. حتى لو أن هذا قد لا يحمل ظاهريًّا منافع ملموسة وفوريّة (را. الإرشاد الرسولي فرح الإنجيل، عدد ٢١٠). فأن نكون مسيحيّين لا يعني اتّباع عقيدة ما، أو هيكل ما، أو جماعة عرقيّة. أن نكون مسيحيّين إنما هو لقاء، لقاء بيسوع المسيح. نحن مسيحيّون لأن الله قد أحبّنا والتقى بنا، ولسنا ثمار أنشطة تبشير. أن نكون مسيحيين هو أن نعرف أنّه قد غُفر لنا ونعرف أننا مدعوّون للتصرّف بالطريقة عينها التي تصرّف بها الله معنا لأنّه "إذا أَحَبَّ بَعضُكُم بَعضًا عَرَف النَّاسُ جَميعًا أَنَّكُم تَلاميذي" (يو ١٣، ٣٥).

إذ أُدرك الإطار الذي دُعيتم لتعيشوا فيه دعوة معموديّتكم وخدمتكم وتكريسكم، تعود إلى ذهني، أيها الأخوة والأخوات الأعزاء، كلمات البابا القدّيس بولس السادس في الرسالة العامة كنيسة المسيح: "واجب على الكنيسة أن تدخل في حوار مع العالم الذي تعيش فيه: إنها تجعل نفسها كلمة، تجعل ذاتها رسالة، الكنيسة تجعل نفسها محادثة" (عدد ٦٧). إن التأكيد على ضرورة دخول الكنيسة في حوار، لا يتعلّق بموضة ما -هناك اليوم موضة الحوار، كلا، فالأمر لا يقوم على هذا- أو باستراتيجية ما تهدف إلى زيادة عدد أعضائها، كلا، ليست باستراتيجية. إن كان على الكنيسة أن تدخل في حوار فذلك بسبب أمانتها لربّها ومعلّمها الذي ومنذ البداية، إذ تحركه المحبة، أراد أن يدخل في حوار كصديق وأن يدعونا للمشاركة في صداقته (را. المجمع الفاتيكاني الثاني، الدستور العقائدي كلمة الله، عدد ٢). هكذا كتلاميذ يسوع المسيح، نحن مدعوّون منذ يوم عمادنا لنشارك في حوار الخلاص والصداقة هذا الذي نشكّل فيه المستفيدين الأوائل.

يتعلّم المسيحي في هذه الأراضي أن يكون سرًّا حيًّا للحوار الذي يريد الله أن يقيمه مع كلّ رجل وامرأة مهما كان الوضع الذي يعيشون فيه. حوار نحن مدعوّون للقيام به على طريقة يسوع الوديع والمتواضع القلب (را. متى ١١، ٢٩) بمحبّة متّقدة ومجّانية، بدون حسابات ولا حدود، وفي احترامٍ لحريّة الأشخاص. بهذا الروح نجد إخوة كبارًا يدلّونا على الدرب لأنهم شهدوا بحياتهم أن هذا الأمر ممكن، إنّه "معيار عالٍ" يتحدّانا ويحفّزنا. كيف لا نذكِّر بصورة القدّيس فرنسيس الذي وفي وسط الحروب الصليبية ذهب للقاء السلطان الملك الكامل؟ وكيف لا نذكر الطوباوي شارل دي فوكو الذي، وإذ طبعته بالعمق حياة يسوع الناصري المتواضعة والخفيّة، كان يتعبّد لله في صمت وأراد أن يكون "أخًا عالميًّا"؟ أو أيضًا أولئك الإخوة والأخوات المسيحيين الذين اختاروا أن يكونوا متضامنين مع شعب حتى بذل حياتهم؟ هكذا عندما تدخل الكنيسة، الأمينة للرسالة التي نالتها من الربّ، في حوار مع العالم وتجعل من نفسها محادثة، تشارك في الأخوّة التي لا تجد مصدرها العميق فينا وإنما في أبوّة الله.

ونحن مدعوّون، كمكرّسين، إلى عيش حوار الخلاص هذا، كشفاعة لشعب أوكل الينا. أذكر مرّة في حديث لي مع كاهن كان مثلكم في أرض حيث المسيحيين هم أقلّية، كان يخبرني أنّ "صلاة الآبانا" قد اكتسبت فيه صدى مميزًا لأنه وبصلاته وسط أشخاص من ديانات أخرى كان يشعر بقوّة كلمات "أعطنا خبزنا كفاف يومنا". إن تَشَفُّعَ المُرسَل لذلك الشعب الذي أوكل إليه إلى حدّ ما، لا كي يديره وإنما ليحبّه، كان يحمله إلى رفع هذه الصلاة بأسلوب وحماس مميَّزين. إن المكرّس، أو الكاهن، يحمل إلى مذبحه وفي صلاته حياة مواطنيه، ويحافظ على قوّة الروح القدس المُحيِيَة حيّة، وكأن من خلال فتحة صغيرة في تلك الأرض. ما أجمل أن نعرف أنّه، وفي مختلف زوايا هذه الأرض، يمكن للخليقة أن تتوسّل من خلال أصواتكم وأن تقول على الدوام: "آبانا".

إنه حوار يصبح صلاة ويمكننا أن نحقّقه يوميًّا "باسمِ «الأُخُوَّةِ الإنسانيَّةِ» التي تَجمَعُ البَشَرَ جميعًا، وتُوحِّدُهم وتُسوِّي بينَهم. باسم تلك الأُخُوَّةِ التي أرهَقَتْها سِياساتُ التَّعَصُّبِ والتَّفرِقةِ، التي تَعبَثُ بمَصائِرِ الشُّعُوبِ ومُقَدَّراتِهم" (وثيقة الأخوّة البشرية، أبو ظبي، ٤ فبراير/شباط ٢٠١٩). صلاة لا تميّز ولا تفصل ولا تهمّش، بل تصبح صدى لحياة القريب؛ صلاة تشفّع قادرة على أن تقول للآب: "ليأتِ ملكوتك". لا بالعنف ولا بالحقد ولا بالهيمنة العرقية والدينية والاقتصادية وهلم جرا، وإنما بقوّة التعاطف التي أفيضت على الصليب لجميع البشر. هذه هي الخبرة التي يعيشها معظمكم.

أشكر الله على ما فعلتموه، كتلاميذ يسوع المسيح، هنا في المغرب، إذ وجدتم الأدوات يوميًّا لتزرعوا المستقبل والرجاء عبر الحوار والتعاون والصداقة. فكشفتم بهذه الطريقة عن جميع المحاولات لاستعمال الاختلافات والجهل لزرع الخوف والحقد والنزاع، وسلّطتم الضوء عليها. لأننا نعرف أن الخوف والحقد، إذا تمّت تغذيتهما وتمّ التلاعب بهما، يُفقِدان جماعاتَنا الاستقرارَ ويضعفانها روحيًّا.

إنّي أشجعكم، وليس لي رغبة أخرى سوى أن تُظهِروا حضورَ المسيح ومحبَّته، هو الذي افتقر ليغنينا بفقره (را. ٢ قور ٨، ٩): استمروا في الاقتراب من الذين غالبًا ما يُتركون في الخلف، من الصغار والفقراء، من المسجونين والمهاجرين. لتكن محبّتكم نشيطة على الدوام ولتكن هكذا سبيل شركة بين مسيحيّي جميع الطوائف الحاضرة في المغرب: مسكونيّة المحبّة. لتكن أيضًا درب حوار وتعاون مع إخوتنا وأخواتنا المسلمين ومع جميع الأشخاص ذوي الإرادة الصالحة. إنّ المحبة، وبشكل خاص تجاه الأشدّ ضعفًا، هي الفرصة الأفضل التي نملكها للاستمرار بالعمل لصالح ثقافة اللقاء. لتكن في النهاية تلك الدرب التي تسمح للأشخاص المجروحين والمُعانين والمهمّشين أن يروا أنهم أعضاء العائلة البشرية الواحدة تحت شعار الأخوّة. كتلاميذ ليسوع، وبروح الحوار والتعاون هذا عينه، اجتهدوا على الدوام كيما تعطوا إسهامكم في خدمة العدالة والسلام وتربية الأطفال والشباب وحماية ومرافقة المسنّين والضعفاء وذوي الاحتياجات الخاصة والمُضطهدين.

أشكركم جميعًا مجدّدًا أيها الإخوة والأخوات، على حضوركم وعلى رسالتكم هنا في المغرب. شكرًا على الثبات في حضوركم المتواضع والخفي، على غرار مسنّينا في الحياة المكرّسة، ومن بينهم أرغب في أن أحيّي الأخت إرسيليا. من خلالك أيتها الأخت العزيزة أتوجّه بتحيّة من القلب إلى الأخوات والإخوة المسنّين الذين وبسبب صحّتهم ليسوا حاضرين جسديًّا معنا ولكنّهم متّحدين معنا بواسطة الصلاة.  

أنتم جميعًا شهود لتاريخ مجيد لأنه تاريخ تضحيات ورجاء وكفاح يومي وحياة مبذولة في الخدمة والثبات في العمل المتعب، لأن كلَّ عمل ينجز بعرق الجبين. لكن اسمحوا لي أن أقول لكم: "أنتم لا تملكون فقط تاريخًا مجيدًا ينبغي أن تتذكّروه وتنقلوه، إنما لديكم أيضًا تاريخًا كبيرًا عليكم أن تبنوه! تطلّعوا إلى المستقبل -عاشِروا المستقبل- الذي يُطلقكم نحوه الروح القدس" (الإرشاد الرسولي الحياة المكرسة، عدد ١١٠)، كي تستمرّوا بكونكم علامة حيّة لتلك الأخوّة التي دعانا الآب إليها، بدون إرادة واستسلام وإنما كمؤمنين يعرفون أن الربّ يسبقنا على الدوام ويفتح فسحات رجاء حيث كان يبدو أن شيئًا ما أو أحدًا ما قد ضاع.

ليبارك الرب كلَّ فرد منكم، ومن خلالكم جميع أعضاء جماعاتكم. ليساعدكم روحه كي تثمروا بوفرة: ثمار حوار وعدالة وسلام وحقّ ومحبّة كيما تنمو الأخوَّة البشرية هنا في هذه الأرض المحبوبة من الله، ومن فضلكم لا تنسوا أن تصلّوا من أجلي. شكرًا.

[اقترب أربعة أطفال من البابا. فقال: "ها هو المستقبل! الحاضر والمستقبل!"]

 

[00535-AR.02] [Testo originale: Italiano]

Pranzo con i Vescovi del Marocco e alcuni Membri del Seguito Papale

Alle ore 11.50 locali (12.50 ora di Roma), il Santo Padre Francesco è arrivato alla Nunziatura Apostolica di Rabat per il pranzo con i Vescovi del Marocco e alcuni membri del Seguito Papale.

Prima del pranzo il Papa ha benedetto la Sede della Nunziatura Apostolica, recentemente ristrutturata ed ampliata. Erano presenti al pranzo il Segretario di Stato, il Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, il Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, il Segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, i due Vescovi del Marocco e il Prefetto Apostolico.

[00548-IT.01]

[B0272-XX.02]