Pubblichiamo di seguito l’intervento che S.E. Mons. Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati, ha pronunciato oggi pomeriggio, presso la Pontificia Università Lateranense, in occasione dell’apertura dei lavori del Seminario di studio dal titolo “Formare gli operatori di pace”, organizzato dalla Pontificia Università Lateranense e dalla Cattedra Gaudium et spes del Pontificio Istituto Teologico «Giovanni Paolo II» per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia:
Intervento di S.E. Mons. Paul Richard Gallagher
1. Ringrazio per l’invito rivoltomi e sono particolarmente lieto di poter condividere questo momento della vita accademica che coinvolge l’Università Lateranense con il suo nuovo corso di Scienze della Pace e l’Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia con la sua Cattedra Gaudium et spes. È una combinazione non casuale: la pace si costruisce dal basso, attraverso processi educativi e di formazione che iniziano all’interno di quel nucleo base della società che è la famiglia.
Formare gli operatori di pace è certamente una grande sfida, specie in un ambiente universitario come questo che, nel favorire la formazione di base e la specializzazione scientifica, deve ispirare la sua azione alla dottrina della Chiesa e al Magistero. Un compito non facile, ma importante soprattutto perché l’Università resta «luogo simbolo di quell’umanesimo integrale che necessita continuamente di essere rinnovato e arricchito, perché sappia produrre un coraggioso rinnovamento culturale che il momento attuale domanda», come ha indicato Papa Francesco istituendo il ciclo di studi in Scienze della Pace (Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense, 12 novembre 2018, 2).
Ed ecco l’idea di Università quale luogo che nella promozione del sapere e nell’autonomia e nella coerenza propria delle diverse discipline tiene sempre presenti le attese e le speranze della vita delle persone e dei popoli, come pure dei credenti e del popolo di Dio. Ed ecco la pace, vista non solo come aspirazione di ogni persona e come bene sommo nella visione di fede, ma anche come disciplina di studio e di cultura, capace di attingere alle diverse scienze e saperi quella linfa necessaria da cui gli operatori di pace debbono essere alimentati.
Chi vi parla si trova quotidianamente a confrontarsi con contesti in cui il termine pace è ricorrente, anzi è il punto primario nell’agenda delle relazioni internazionali. Ma spesso dobbiamo costatare che la pace si limita a garantire un precario ceasefire o a proteggere la popolazione civile – ed è già un grande risultato – dimenticando che “per fare la pace” è necessario un apporto complesso e dinamico. Un’autentica cultura di pace non si può limitare soltanto ai problemi legati all’uso della forza o alle obbligazioni che incombono sugli Stati in materia di disarmo o di lotta al terrorismo, ma domanda lo sforzo di prevenire le cause che possono scatenare divisioni, conflitti e guerre. Ecco la necessità di avere operatori di pace – siano essi statisti, diplomatici, funzionari internazionali, militari, sacerdoti e ministri di culto, uomini e donne di buona volontà – capaci di attingere non solo alla dimensione della politica o all’attività diplomatica ma anche a quella dimensione dell’etica, alla coscienza morale, all’esperienza religiosa dando idee, significati e, soprattutto, testimonianze quanto mai necessarie nelle relazioni internazionali. La ricerca della pace domanda di ritornare alle basi fondamentali delle relazioni umane e quindi recuperare le basi sia dell’ordine interno alle Nazioni che di quello internazionale, come indica più volte il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes.
2. Questo significa che una vera pace va costruita attraverso scelte fondate su principi etici, condotte morali coerenti e atteggiamenti capaci di riconoscere l’uomo come origine e fine di ogni azione. Purtroppo queste condotte le riusciamo ad esprimere solo dopo dolorosi conflitti, contrapposizioni sanguinose, divisioni fratricide all’interno di una stessa Nazione. Invece dovrebbero essere fondamenti ben saldi e strutturati della vita dei popoli e tra gli Stati, parte essenziale di scelte e di strumenti politici, giuridici e istituzionali di cui disponiamo ma non usiamo secondo la logica della pace. Un esempio concreto è dato dall’evoluzione del diritto internazionale registrata nella ormai lunga attività dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e del complesso sistema di istituzioni ad essa collegato. La vigenza del modello ONU ha prodotto molto in termini di regolazione, applicazione e istituzionalizzazione del divieto di usare la forza per risolvere ogni contrasto tra gli Stati o per creare situazioni di fatto[1], ma allo stesso tempo è testimone di continue violazioni alla pace. Probabilmente perché alla normativa esistente, pur voluta e accettata dai Governi, non è seguita la coerente condivisione da parte dei popoli, dei gruppi, delle persone.
Il Magistero di Papa Francesco ci ha abituati alla convinzione che la cultura di pace è anzitutto l’antitesi del ricorso alla guerra, intesa nelle modalità più ampie e diverse in relazione all’uso della forza e agli scenari possibili che derivano dal ricorso alle armi. Un’indicazione non solo profetica visto che nel quadro internazionale il ricorso alle armi resta, purtroppo, un fatto concreto nella convivenza mondiale. Ed ecco che regolamentare l’uso della forza diventa un altro apporto che una cultura di pace può esprimere, magari influenzando l’azione delle Istituzioni della Comunità internazionale che pur essendo costruite su un tale obiettivo non riescono ad imprimerlo nella condotta degli Stati. Questi ultimi, infatti, nel ricorrere alla guerra evidenziano l’indisponibilità ad accettare i principi della convivenza internazionale, come pure a dialogare e a rispettare le regole vigenti. Ma come una cultura di pace può contribuire ad invertire questo orientamento?
Una cultura di pace, allora può favorire che le Parti di un conflitto si comportino secondo le norme del diritto internazionale vigente come altrettanto facciano all’interno di un Paese le forze che si contrastano nei cosiddetti conflitti interni, astenendosi da crimini o atti che hanno come obiettivo la popolazione civile o i feriti e i prigionieri di guerra. Un’indicazione che si può trasformare in appello a 70 anni dalle Convenzioni di Ginevra sul diritto internazionale umanitario che in tempi recenti mostrano disapplicazione o aperta violazione. Sono in molti a individuare in una debolezza di tali strumenti il fatto che le guerre siano sempre più sanguinose e prive di ogni riferimento a quello spirito che le Convenzioni del 1949 rappresentano: inter arma caritas. Ma accanto alle violazioni sempre più massicce delle disposizioni delle convenzioni, specialmente quelle che sottraggono agli orrori dei combattimenti la popolazione civile inerme e disorientata, c’è anche l’atteggiamento di tanti Paesi che rifiutano in toto le convenzioni medesime in nome di una libertà di scelta pur avendo responsabilità di territori e popolazioni ivi residenti. Una tendenza - quest’ultima - che giunge persino a non rispettare il fondamentale principio di buona fede, circostanza dai grandi effetti negativi sia sui conflitti in atto sia sulla cosiddetta “politica della pace”. Essa infatti, sembra aver ormai sostituito gli impegni e gli obblighi previsti per la soluzione pacifica dei conflitti con semplici esortazioni o atti di indirizzo espressi nelle sedi multilaterali.
3. Oggi, la minaccia alla pace è rappresentata non solo dai tradizionali conflitti bellici, interni e internazionali, ma anche da altre situazioni. Diminuisce, infatti, la volontà degli Stati di conferire una concreta capacità di risposta alle Istituzioni multilaterali le cui decisioni restano solo degli indirizzi a cui non seguono azioni concrete. È questo un modo per fare crescere un clima di sfiducia e di contrapposizione nella vita internazionale, mentre sarebbe necessario un rinnovato impulso all’azione comune che è l’unica strada per affrontare le gravi minacce che provengono alla pace. Penso, per citarne alcune, all’attività terroristica, alle crisi economiche e ai pericoli legati al mancato rispetto della casa comune e dell’opera della creazione che sono ormai diventati elementi di destabilizzazione della vita interna e internazionale, lasciando una lunga scia di paura, di diffidenza, di mancanza di rispetto reciproco tra i Paesi.
Ritorna, mi sembra, la necessità di una giusta e fattibile visione della pace, interpretata nel contesto globale del nostro mondo e nella realtà multiculturale delle nostre società, superando quella visione di pace espressa dall’assenza di guerra e dalle azioni militari per ottenere e mantenere con tante difficoltà il silenzio delle armi. Solo una cultura di pace potrà garantire ad ogni persona «il diritto di godere della pace in modo tale che tutti i diritti umani siano promossi e protetti e lo sviluppo pienamente realizzato», come recita l’art. 1 della Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace adottata dalle Nazioni Unite nel 2016, affidandone l’applicazione alle «istituzioni internazionali e nazionali di educazione alla pace».
Questo significa investire nei processi educativi, favorendo un’idea di interconnessione dei diversi ambiti del sapere e le connessioni con tutte le libertà che sono proprie dello spirito umano inclusa la libertà di religione nelle sue diverse articolazioni. Nelle esperienze dei negoziati, infatti, è interessante notare come siano numerose le prospettive che si confrontano, ma spesso le diverse pretese mancano di un fondamento antropologico, etico, culturale. Così diventa realtà il rischio di strutturare processi di pace intorno alla contingenza del momento e magari alla forza dei vincitori, facendo dimenticare quanto siano necessari la promozione delle legittime aspirazioni dei popoli, la tutela dei diritti umani, il rispetto dei risultati elettorali, le forme di giustizia di transizione e una rinnovata solidarietà che sostenga forme di concreta cooperazione allo sviluppo.
Ecco che il compito di formare gli operatori di pace non è più rinviabile se si vogliono garantire alla convivenza interna e internazionale le necessarie condizioni di stabilità, collaborazione e coesione sociale, superando lo scontro aperto tra l’interesse dei singoli e l’interesse generale. E questo perché sia consentito un riconoscimento della condizione di ogni persona nel suo Paese e di ogni popolo nella Comunità delle Nazioni. Solo così si potrà tenere in conto sia i legittimi diritti di ogni Stato che le aspirazioni di ogni persona, popolo e comunità.
Queste brevi riflessioni che ho voluto condividere con voi, ci mostrano quanto sia necessario un coinvolgimento di tutti nelle situazioni e questioni che interessano o preoccupano la vita dei nostri Stati come quella della Comunità internazionale e, non ultima la Chiesa che opera, come indicato da Papa Francesco, anche «attraverso l’azione che la Santa Sede conduce nella Comunità internazionale e nelle sue istituzioni operando con gli strumenti della diplomazia per superare i conflitti con i mezzi pacifici e la mediazione, la promozione e il rispetto dei diritti umani fondamentali, lo sviluppo integrale di Popoli e Paesi» (Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense, cit., 1). Per questa azione si nota come sia sempre più importante la formazione non solo per l’aumentare o il mutare delle questioni da affrontare, delle posizioni espresse e delle conseguenti azioni da intraprendere, ma per dare risposte attese e spesso reclamate dalle parti in conflitto.
Formazione, questa la strada concreta, ma non priva di difficoltà, per edificare una cultura di pace sapendo che la sua costruzione va realizzata in contesti complessi e fortemente dinamici in cui l’ansia di giustizia viene spesso limitata da interessi particolari o momentanei. L’esatto contrario di quanto indicava Papa Francesco nell’incontro con il Corpo Diplomatico presso la Santa Sede lo scorso 7 gennaio: «rafforzare i vincoli di amicizia che ci legano e adoperarci per edificare la pace a cui il mondo aspira»[2].
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[1] Il riferimento è in particolare al principio contenuto nell’art. 2.3 della Carta delle Nazioni Unite come obbligo generale: «I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo».
[2] Ibid., 91.
[00355-IT.01] [Testo originale: Italiano]
[B0177-XX.01]