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Santa Messa in occasione della II Giornata Mondiale dei Poveri, 18.11.2018


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 10 di questa mattina, XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, Solennità della dedicazione della Basilica Papale di San Pietro, il Santo Padre Francesco ha presieduto nella Basilica Vaticana la Celebrazione Eucaristica in occasione della II Giornata Mondiale dei Poveri, alla quale hanno partecipato circa 6.000 poveri, insieme ai volontari che li accompagnavano e ad esponenti delle numerose realtà caritative che li assistono quotidianamente.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato, dopo la proclamazione del Vangelo:

Omelia del Santo Padre

Guardiamo a tre azioni che Gesù compie nel Vangelo.

La prima. In pieno giorno, lascia: lascia la folla nel momento del successo, quand’era acclamato per aver moltiplicato i pani. E mentre i discepoli volevano godersi la gloria, subito li costringe ad andarsene e congeda la folla (cfr Mt 14,22-23). Cercato dalla gente, se ne va da solo; quando tutto era “in discesa”, sale sul monte a pregare. Poi, nel cuore della notte, scende dal monte e raggiunge i suoi camminando sulle acque agitate dal vento. In tutto Gesù va controcorrente: prima lascia il successo, poi la tranquillità. Ci insegna il coraggio di lasciare: lasciare il successo che gonfia il cuore e la tranquillità che addormenta l’anima.

Per andare dove? Verso Dio, pregando, e verso chi ha bisogno, amando. Sono i veri tesori della vita: Dio e il prossimo. Salire verso Dio e scendere verso i fratelli, ecco la rotta indicata da Gesù. Egli ci distoglie dal pascerci indisturbati nelle comode pianure della vita, dal vivacchiare oziosamente tra le piccole soddisfazioni quotidiane. I discepoli di Gesù non sono fatti per la prevedibile tranquillità di una vita normale. Come il Signore Gesù vivono il loro cammino, leggeri, pronti a lasciare le glorie del momento, attenti a non attaccarsi ai beni che passano. Il cristiano sa che la sua patria è altrove, sa di essere già ora – come ricorda l’Apostolo Paolo nella seconda Lettura – “concittadino dei santi e familiare di Dio” (cfr Ef 2,19). È un viandante agile dell’esistenza. Noi non viviamo per accumulare, la nostra gloria sta nel lasciare quel che passa per trattenere ciò che resta. Chiediamo a Dio di assomigliare alla Chiesa descritta nella prima Lettura: sempre in movimento, esperta nel lasciare e fedele nel servire (cfr At 28,11-14). Destaci, Signore, dalla calma oziosa, dalla quieta bonaccia dei nostri porti sicuri. Slegaci dagli ormeggi dell’autoreferenzialità che zavorra la vita, liberaci dalla ricerca dei nostri successi. Insegnaci Signore a saper lasciare per impostare la rotta della vita sulla tua: verso Dio e verso il prossimo.

La seconda azione: in piena notte Gesù rincuora. Va dai suoi, immersi nel buio, camminando «sul mare» (v. 25). In realtà si trattava di un lago, ma il mare, con la profondità delle sue oscurità sotterranee, evocava a quel tempo le forze del male. Gesù, in altre parole, va incontro ai suoi calpestando i nemici maligni dell’uomo. Ecco il significato di questo segno: non una manifestazione celebrativa di potenza, ma la rivelazione per noi della rassicurante certezza che Gesù, solo Lui, Gesù, vince i nostri grandi nemici: il diavolo, il peccato, la morte, la paura, la mondanità. Anche a noi oggi dice: «Coraggio, sono io, non abbiate paura» (v. 27).

La barca della nostra vita è spesso sballottata dalle onde e scossa dai venti, e quando le acque sono calme presto tornano ad agitarsi. Allora ce la prendiamo con le tempeste del momento, che sembrano i nostri unici problemi. Ma il problema non è la tempesta del momento, è in che modo navigare nella vita. Il segreto del navigare bene è invitare Gesù a bordo. Il timone della vita va dato a Lui, perché sia Lui a gestire la rotta. Solo Lui infatti dà vita nella morte e speranza nel dolore; solo Lui guarisce il cuore col perdono e libera dalla paura con la fiducia. Invitiamo oggi Gesù nella barca della vita. Come i discepoli sperimenteremo che con Lui a bordo i venti si calmano (cfr v. 32) e non si fa mai naufragio. Con Lui a bordo non si fa mai naufragio! Ed è solo con Gesù che diventiamo capaci anche noi di rincuorare. C’è grande bisogno di gente che sappia consolare, ma non con parole vuote, bensì con parole di vita, con gesti di vita. Nel nome di Gesù si dona vera consolazione. Non gli incoraggiamenti formali e scontati, ma la presenza di Gesù ristora. Rincuoraci, Signore: consolati da te, saremo veri consolatori per gli altri.

E terza azione di Gesù: nel mezzo della tempesta, tende la mano (cfr v. 31). Afferra Pietro che, impaurito, dubitava e, affondando, gridava: «Signore, salvami!» (v. 30). Possiamo metterci nei panni di Pietro: siamo gente di poca fede e siamo qui a mendicare la salvezza. Siamo poveri di vita vera e ci serve la mano tesa del Signore, che ci tiri fuori dal male. Questo è l’inizio della fede: svuotarsi dell’orgogliosa convinzione di crederci a posto, capaci, autonomi, e riconoscerci bisognosi di salvezza. La fede cresce in questo clima, un clima a cui ci si adatta stando insieme a quanti non si pongono sul piedistallo, ma hanno bisogno e chiedono aiuto. Per questo vivere la fede a contatto coi bisognosi è importante per tutti noi. Non è un’opzione sociologica, non è la moda di un pontificato, è un’esigenza teologica. È riconoscersi mendicanti di salvezza, fratelli e sorelle di tutti, ma specialmente dei poveri, prediletti dal Signore. Così attingiamo lo spirito del Vangelo: «lo spirito di povertà e d’amore – dice il Concilio – è infatti la gloria e il segno della Chiesa di Cristo» (Cost. Gaudium et spes, 88).

Gesù ha ascoltato il grido di Pietro. Chiediamo la grazia di ascoltare il grido di chi vive in acque burrascose. Il grido dei poveri: è il grido strozzato di bambini che non possono venire alla luce, di piccoli che patiscono la fame, di ragazzi abituati al fragore delle bombe anziché agli allegri schiamazzi dei giochi. È il grido di anziani scartati e lasciati soli. È il grido di chi si trova ad affrontare le tempeste della vita senza una presenza amica. È il grido di chi deve fuggire, lasciando la casa e la terra senza la certezza di un approdo. È il grido di intere popolazioni, private pure delle ingenti risorse naturali di cui dispongono. È il grido dei tanti Lazzaro che piangono, mentre pochi epuloni banchettano con quanto per giustizia spetta a tutti. L’ingiustizia è la radice perversa della povertà. Il grido dei poveri diventa ogni giorno più forte, ma ogni giorno meno ascoltato. Ogni giorno è più forte quel grido, ma ogni giorno è meno ascoltato, sovrastato dal frastuono di pochi ricchi, che sono sempre di meno e sempre più ricchi.

Davanti alla dignità umana calpestata spesso si rimane a braccia conserte oppure si aprono le braccia, impotenti di fronte all’oscura forza del male. Ma il cristiano non può stare a braccia conserte, indifferente, o a braccia aperte, fatalista, no. Il credente tende la mano, come fa Gesù con lui. Presso Dio il grido dei poveri trova ascolto. Domando: e in noi? Abbiamo occhi per vedere, orecchie per sentire, mani tese per aiutare, oppure ripetiamo quel “torna domani”? «Cristo stesso, nella persona dei poveri reclama come a voce alta la carità dei suoi discepoli» (ibid.). Ci chiede di riconoscerlo in chi ha fame e sete, è forestiero e spogliato di dignità, malato e carcerato (cfr Mt 25,35-36).

Il Signore tende la mano: è un gesto gratuito, non dovuto. È così che si fa. Non siamo chiamati a fare del bene solo a chi ci vuole bene. Ricambiare è normale, ma Gesù chiede di andare oltre (cfr Mt 5,46): di dare a chi non ha da restituire, cioè di amare gratuitamente (cfr Lc 6,32-36). Guardiamo alle nostre giornate: tra le molte cose, facciamo qualcosa di gratuito, qualcosa per chi non ha da contraccambiare? Quella sarà la nostra mano tesa, la nostra vera ricchezza in cielo.

Tendi la mano a noi, Signore, e afferraci. Aiutaci ad amare come ami tu. Insegnaci a lasciare ciò che passa, a rincuorare chi abbiamo accanto, a donare gratuitamente a chi è nel bisogno. Amen.

[01851-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Regardons trois actions que Jésus accomplit dans l’Evangile.

La première. En plein jour, il laisse: il laisse la foule au moment du succès, quand il est acclamé pour avoir multiplié les pains. Et tandis que les disciples voulaient se réjouir de la gloire, il les oblige immédiatement à s’en aller et il renvoie la foule (cf. Mt 14,22-23). Recherché par les gens, il s’en va seul: lorsque tout était “en descente”, il monte sur la montagne pour prier. Puis, au cœur de la nuit, il descend de la montagne et rejoint les siens en marchant sur les eaux agitées par le vent. En tout, Jésus va à contre-courant: d’abord, il laisse le succès, puis la tranquillité. Il nous enseigne le courage de laisser: laisser le succès qui enfle le cœur et la tranquillité qui endort l’âme.

Pour aller où? Vers Dieu, en priant, et vers celui qui a besoin, en aimant. Ce sont les vrais trésors de la vie: Dieu et le prochain. Monter vers Dieu et descendre vers les frères, voilà la route indiquée par Jésus. Il nous détourne de pâturer, sans être dérangés dans les plaines faciles de la vie, de vivoter oisivement au milieu des petites satisfactions quotidiennes. Les disciples de Jésus ne sont pas faits pour la tranquillité banale d’une vie normale. Comme le Seigneur Jésus, ils vivent leur chemin, légers, prêts à laisser les gloires du moment, attentifs à ne pas s’attacher aux biens qui passent. Le chrétien sait que sa patrie est ailleurs, il sait qu’il y est déjà – comme le rappelle l’apôtre Paul dans la seconde lecture – «concitoyens des saints, membres de la famille de Dieu» (cf. Ep 2,19). Il est un voyageur agile de l’existence. Nous ne vivons pas, nous, pour accumuler, notre gloire se trouve dans le fait de laisser ce qui passe pour retenir ce qui demeure. Demandons à Dieu de ressembler à l’Eglise décrite dans la première Lecture: toujours en mouvement, experte dans le détachement et fidèle dans le service (cf. Ac 28,11-14). Réveille-nous, Seigneur de l’oisiveté tranquille, du calme paisible de nos ports sûrs où nous sommes en sécurité. Détache-nous des amarres de l’autoréférentialité qui leste la vie, libère-nous de la recherche de nos succès. Enseigne-nous, Seigneur, à savoir laisser pour fonder la route de notre vie sur la tienne: vers Dieu et vers le prochain.

La seconde action: en pleine nuit, Jésus encourage. Il va vers les siens, plongés dans l’obscurité, en marchant «sur la mer» (v. 25). En réalité, il s’agissait d’un lac, mais la mer, avec la profondeur de ses obscurités souterraines, évoquait à cette époque les forces du mal. Jésus, en d’autres paroles, va à la rencontre des siens en piétinant les ennemis mauvais de l’homme. Voilà la signification de ce signe: ce n’est pas une manifestation célébrant la puissance, mais la révélation pour nous de la rassurante certitude que Jésus, seulement Lui, Jésus, vainc nos grands ennemis: le diable, le péché, la mort, la peur, la mondanité. A nous aussi aujourd’hui, il dit: «Confiance! c’est moi, n’ayez plus peur» (v.27).

La barque de notre vie est souvent ballottée par les flots et secouée par les vents, et lorsque les eaux sont calmes elles recommencent vite à s’agiter. Alors nous nous en prenons aux tempêtes du moment, qui semblent nos uniques problèmes. Mais le problème n’est pas la tempête du moment, c’est la manière de naviguer dans la vie. Le secret pour bien naviguer est d’inviter Jésus à bord. Le gouvernail de la vie lui est donné, afin que ce soit Lui qui conduise la route. Lui seul en effet donne vie dans la mort et espérance dans la douleur; Lui seul guérit le cœur par le pardon et libère de la peur par la confiance. Aujourd’hui, invitons Jésus dans la barque de notre vie. Comme les disciples, nous ferons l’expérience qu’avec Lui à bord, les vents se calment (cf. v.31) et on ne fait jamais naufrage. Avec Lui à bord, on ne fait jamais naufrage! Et c’est seulement avec Jésus que nous devenons capables nous aussi d’encourager. Il y a un grand besoin de gens qui sachent consoler, non pas avec des paroles vides, mais bien avec des paroles de vie, avec des gestes de vie. Au nom de Jésus on donne une consolation véritable. Ce ne sont pas des encouragements formels et limités, mais c’est la présence de Jésus qui redonne des forces. Encourage-nous, Seigneur: consolés par toi, nous serons de vrais consolateurs pour les autres.

Et troisième actionde Jésus: au milieu de la tempête, il tend la main (cf. v.31). Il saisit Pierre qui, apeuré, doutait et, en s’enfonçant, criait: «Seigneur, sauve-moi!». Nous pouvons nous mettre à la place de Pierre: nous sommes des gens de peu de foi et nous sommes ici pour mendier le salut. Nous sommes des pauvres de vraie vie et nous avons besoin de la main tendue du Seigneur, qui nous tire hors du mal. C’est le début de la foi: se vider de l’orgueilleuse conviction de nous croire en ordre, capables, autonomes, et reconnaître que nous avons besoin de salut. La foi croît dans ce climat, un climat auquel on s’habitue en se tenant avec tous ceux qui ne se mettent pas sur un piédestal, mais qui ont besoin et demandent de l’aide. Pour cela, vivre la foi au contact de ceux qui ont besoin est important pour nous tous. Ce n’est pas une option sociologique, ce n’est pas la mode d’un pontificat, c’est une exigence théologique. C’est nous reconnaître mendiants de salut, frères et sœurs de tous, mais spécialement des pauvres, les préférés du Seigneur. Ainsi nous atteignons l’esprit de l’Evangile: «l’esprit de pauvreté et de charité – dit le Concile – est, en effet, la gloire et le témoignage de l’Eglise du Christ» (Const. Gaudium et spes, n. 88).

Jésus a entendu le cri de Pierre. Demandons la grâce d’entendre le cri de celui qui vit dans des eaux tumultueuses. Le cri des pauvres: c’est le cri étranglé des enfants qui ne peuvent naître, des petits qui souffrent de la faim, des enfants habitués au fracas des bombes au lieu des cris joyeux des jeux. C’est le cri des personnes âgées mises de côté et laissées seules. C’est le cri de celui qui se trouve à affronter les tempêtes de la vie sans une présence amie. C’est le cri de celui qui doit fuir, laissant sa maison et sa terre sans la certitude d’un but. C’est le cri de populations entières, privées même des ressources naturelles considérables dont ils disposent. C’est le cri des nombreux Lazare qui pleurent, tandis qu’une poignée de riches fait des banquets avec ce qui, en justice, revient à tous. L’injustice est la racine perverse de la pauvreté. Le cri des pauvres devient chaque jour plus fort, mais chaque jour moins écouté. Chaque jour ce cri est plus fort, mais chaque jour moins écouté, dominé par le vacarme de quelques riches, qui sont toujours moins nombreux et toujours plus riches.

Devant la dignité humaine piétinée, souvent on reste les bras croisés ou on ouvre les bras, impuissants face à la force obscure du mal. Mais le chrétien ne peut rester les bras croisés, indifférent, ou les bras ouverts, fataliste, non. Le croyant tend la main, comme fait Jésus avec lui. Auprès de Dieu le cri des pauvres trouve une écoute. Je demande: et en nous? Avons-nous des yeux pour voir, des oreilles pour entendre, des mains tendues pour aider, ou bien répétons-nous ce “reviens demain” ? «Le Christ lui-même, dans la personne des pauvres, en appelle comme à haute voix à la charité de ses disciples» (ibid.). Il nous demande de le reconnaître dans celui qui a faim et soif, qui est étranger et dépouillé de sa dignité, malade et en prison (cf. Mt 25,35-36).

Le Seigneur tend la main: c’est un geste gratuit, ce n’est pas un dû. C’est ainsi qu’on fait. Nous ne sommes pas appelés à faire le bien seulement à celui qui nous aime. Echanger est normal, mais Jésus nous demande d’aller au-delà (cf. Mt 5,46): de donner à celui qui ne peut pas rendre, c’est-à-dire d’aimer gratuitement (cf. Lc 6,32-36). Regardons nos journées: parmi les nombreuses choses, faisons-nous quelque chose de gratuit, quelque chose pour celui qui n’a rien à donner en échange? Ce sera notre main tendue, notre véritable richesse au ciel.

Tends-nous la main, Seigneur, saisis-nous. Aide-nous à aimer comme tu aimes, toi. Enseigne-nous à laisser ce qui passe, à encourager celui qui se trouve à côté de nous, à donner gratuitement à celui qui est dans le besoin. Amen.

[01851-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Let us look at three things Jesus does in today’s Gospel.

First: while it is still day, he “leaves”. He leaves the crowds at the height of his success, acclaimed for his multiplication of the loaves. Though the disciples wanted to bask in the glory, he tells them to go ahead and then dismisses the crowd (cf. Mt 14:22-23). Sought by the people, he goes off by himself; as the excitement was winding down, he goes up the mountain to pray. Then, in the dead of night, he comes down and goes to the disciples, walking on the wind-swept waters. In all of this, Jesus goes against the current: first, he leaves behind success, and then tranquillity. He teaches us the courage to leave: to leave behind the success that swells the heart and the tranquillity that deadens the soul.

To go where? To God by praying, and to those in need by loving. These are the true treasures in life: God and our neighbour. And this is the road Jesus tells us to take: to go up to God and to come down to our brothers and sisters. He tears us away from grazing undisturbed in the comfortable meadows of life, from living a life of ease amid little daily pleasures. His disciples are not meant for the carefree calm of a normal life. Like Jesus, they make their way travelling light, ready to leave momentary glories behind, careful not to cling to fleeting goods. Christians know that their homeland is elsewhere, that they are even now – as Saint Paul reminds us in the second reading – “fellow citizens with the saints and members of the household of God” (cf. Eph 2:19). They are used to being wayfarers. We do not live to accumulate; our glory lies in leaving behind the things that pass away in order to hold on to those that last. Let us ask God to make us like the Church described in the first reading: always on the move, good at leaving and faithful in serving (cf. Acts 28:11-14). Rouse us, Lord, from our idle calm, from the quiet lull of our safe harbours. Set us free from the moorings of self-absorption that weigh life down; free us from constantly seeking success. Teach us, Lord, to know how to “leave” in order to set out on the road you have shown us: to God and to our neighbour.

The second thing: in the heart of the night, Jesus reassures. He goes to his disciples, in the dark, walking “on the sea” (v. 25). The “sea” in this case was really a lake, but the idea of the “sea”, with its murky depths, evokes the forces of evil. Jesus, in effect, goes to meet his disciples by trampling on the malign foes of humanity. And this is the meaning of the sign: rather than a triumphant display of power, it is a revelation of the reassuring certainty that Jesus, and Jesus alone, triumphs over our greatest enemies: the devil, sin, death, fear, worldliness. Today, and to us, he says: “Take heart, it is I; do not be afraid” (v. 27).

The boat of our life is often storm-tossed and buffeted by winds. Even when the waters are calm, they quickly grow agitated. When we are caught up in those storms, they seem to be our only problem. But the issue is not the momentary storm, but how we are navigating through life. The secret of navigating well is to invite Jesus on board. The rudder of life must be surrendered to him, so that he can steer the route. He alone gives life in death and hope in suffering; he alone heals our heart by his forgiveness and frees us from fear by instilling confidence. Today, let us invite Jesus into the boat of our life. Like the disciples, we will realize that once he is on board, the winds die down (cf. v. 32) and there can be no shipwreck. With him on board, there will never be a shipwreck! Only with Jesus do we then become capable of offering reassurance. How greatly we need people who can comfort others not with empty words, but with words of life, with deeds of life. In the name of Jesus, we are able to offer true comfort. It is not empty words of encouragement, but the presence of Jesus that grants strength. Reassure us, Lord: comforted by you, we will be able to bring true comfort to others.

The third thing Jesus does: in the midst of the storm, he stretches out his hand (cf. v. 31). He takes hold of Peter who, in his fear and doubt, was sinking, and cried out: “Lord, save me!” (v. 30). We can put ourselves in Peter’s place: we are people of little faith, pleading for salvation. We are wanting in true life and we need the outstretched hand of the Lord to draw us out from evil. This is the beginning of faith: to cast off the pride that makes us feel self-sufficient, and to realize that we are in need of salvation. Faith grows in this climate, to which we adapt ourselves by taking our place beside those who do not set themselves on a pedestal but are needy and cry out for help. This is why it is important for all of us to live our faith in contact with those in need. This is not a sociological option, the fashion of a single pontificate; it is a theological requirement. It entails acknowledging that we are beggars pleading for salvation, brothers and sisters of all, but especially of the poor whom the Lord loves. In this way, we embrace the spirit of the Gospel. “The spirit of poverty and of love – says the Council – is in fact the glory and witness of the Church of Christ” (Gaudium et Spes, 88).

Jesus heard the cry of Peter. Let us ask for the grace to hear the cry of all those tossed by the waves of life. The cry of the poor: it is the stifled cry of the unborn, of starving children, of young people more used to the explosion of bombs than happy shouts of the playground. It is the cry of the elderly, cast off and abandoned to themselves. It is the cry of all those who face the storms of life without the presence of a friend. It is the cry of all those forced to flee their homes and native land for an uncertain future. It is the cry of entire peoples, deprived even of the great natural resources at their disposal. It is the cry of every Lazarus who weeps while the wealthy few feast on what, in justice, belongs to all. Injustice is the perverse root of poverty. The cry of the poor daily grows louder but is heard less and less. Every day that cry gets louder, but every day heard less, drowned out by the din of the rich few, who grow ever fewer and more rich.

In the face of contempt for human dignity, we often remain with arms folded or stretched out as a sign of our frustration before the grim power of evil. Yet we Christians cannot stand with arms folded in indifference, or with arms outstretched in helplessness. No. As believers, we must stretch out our hands, as Jesus does with us. The cry of the poor finds a hearing with God. Yet I ask, does it with us? Do we have eyes to see, ears to hear, hands outstretched to offer help? Or do we keep repeating: “Come back tomorrow”? “Christ himself appeals to the charity of his disciples in the person of the poor” (Gaudium et Spes, loc. cit.). He asks us to recognize him in all those who are hungry and thirsty, in the stranger and those stripped of dignity, in the sick and those in prison (cf. Mt 25:35-36).

The Lord stretches out his hand, freely and not out of duty. And so it must be with us. We are not called to do good only to those who like us. That is normal, but Jesus demands that we do something more (cf. Mt 5:46): to give to those who have nothing to give back, to love gratuitously (cf. Lk 6:32-36). Let us look around in our own day. For all that we do, do we ever do anything completely for free, something for a person who cannot repay us? That will be our outstretched hand, our true treasure in heaven.

Stretch out your hand to us, Lord, and take hold of us. Help us to love as you love. Teach us to leave behind all that is passing, to be a source of reassurance to those around us, and to give freely to all those in need. Amen.

[01851-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Schauen wir auf drei Dinge, die Jesus im Evangelium tut.

Erstens. Am helllichten Tag verlässt er die Menge, er verlässt sie in einem Augenblick des Erfolgs, als man ihn wegen der Brotvermehrung feierte. Und während die Jünger den Ruhm genießen wollten, drängt er sie sogleich weiterzugehen und schickt die Menschenmenge weg (vgl. Mt 14,22-23). Die Leute suchen ihn, und er geht allein seines Weges; als alles „bergab“ ging, steigt er auf den Berg, um zu beten. Dann, mitten in der Nacht, steigt er vom Berg hinab und kommt über das vom Sturm aufgewühlte Wasser zu den Seinen. Jesus geht in jeder Hinsicht gegen den Strom: Erst lässt er den Erfolg, dann die Ruhe hinter sich. Er lehrt uns den Mut loszulassen: vom Erfolg zu lassen, der das Herz aufbläht, und von der Ruhe, die die Seele einschläfert.

Um wohin zu gehen? Hin zu Gott – im Gebet – und hin zu den Bedürftigen – durch seine Liebe. Sie sind die wahren Schätze des Lebens: Gott und der Nächste. Zu Gott aufsteigen und zu den Brüdern und Schwestern hinabsteigen, dies also ist der Weg, den Jesus uns weist. Er bringt uns davon ab, ungestört in den Komfortzonen des Lebens zu grasen und müßig zwischen den kleinen alltäglichen Befriedigungen dahinzuleben. Die Jünger Jesu sind nicht für die vorhersehbare Ruhe eines normalen Lebens geschaffen. Wie der Herr Jesus befinden sie sich immer auf ihrem Weg, unbeschwert und bereit, auf den Ruhm des Augenblicks zu verzichten, und darauf bedacht, nicht an vergänglichen Gütern zu hängen. Der Christ weiß, dass seine Heimat woanders ist, er weiß, dass er schon jetzt – wie uns der Apostel Paulus in der zweiten Lesung in Erinnerung ruft – »Mitbürger der Heiligen und Hausgenosse Gottes« (vgl. Eph 2,19) ist. Er ist ein agiler Wanderer auf seinem Lebensweg. Wir leben nicht, um Dinge anzuhäufen, unsere Ehre besteht darin, das zu lassen, was vergeht, um an dem festzuhalten, was bleibt. Bitten wir Gott, dass wir der in der ersten Lesung beschriebenen Kirche ähnlich sein dürfen: immer in Bewegung, erfahren im Loslassen und treu im Dienen (vgl. Apg 28,11-14). Wecke uns, Herr, aus der müßigen Ruhe und der flauen Stille unserer sicheren Häfen. Binde uns los von den Anlegestellen der Selbstbezogenheit, die das Leben mit Ballast anfüllt, befreie uns von der Suche nach unseren Erfolgen. Lehre uns, Herr, loszulassen, damit wir den Kurs unseres Lebens nach dem deinen Ausrichten: hin zu Gott und hin zum Nächsten.

Zweitens: Mitten in der Nacht ermutigt Jesus. Er geht „über das Meer“ zu den Seinen, die von Dunkelheit umgeben sind. In Wirklichkeit war es ein See, aber mit dem Meer, mit der Tiefe seiner unterirdischen Dunkelheit, assoziierte man damals die Kräfte des Bösen. Jesus geht also, mit anderen Worten, hinaus, um den Seinen zu begegnen, indem er die bösen Feinde des Menschen mit Füßen tritt. Das ist die Bedeutung dieses Zeichens: Es geht nicht um eine feierliche Zurschaustellung von Macht, sondern um die an uns ergehende Offenbarung von beruhigender Gewissheit, dass Jesus, er allein, Jesus, unsere großen Feinde überwindet: den Teufel, die Sünde, den Tod, die Angst, die Weltlichkeit. Er sagt heute auch zu uns: »Habt Vertrauen, ich bin es; fürchtet euch nicht!« (V. 27).

Das Boot unseres Lebens wird oft von den Wellen hin- und hergeworfen und von den Stürmen gebeutelt, und wenn die Wasser ruhig sind, werden sie doch bald wieder aufgewühlt sein. Dann sind wir so mit den Stürmen des Augenblicks beschäftigt, dass sie unsere einzigen Probleme zu sein scheinen. Aber das Problem ist nicht der Sturm des Augenblicks, sondern wie man durch das Leben navigiert. Das Geheimnis guter Navigation besteht darin, Jesus an Bord einzuladen. Das Steuerrad des Lebens muss ihm übergeben werden, damit er den Kurs bestimmen kann. Denn nur er schenkt im Tod das Leben und spendet Hoffnung im Leid; nur er heilt das Herz durch Vergebung und befreit es mithilfe des Vertrauens von der Angst. Laden wir heute Jesus in das Boot unseres Lebens ein. Wie die Jünger werden auch wir erleben, dass sich mit ihm an Bord die Winde beruhigen (vgl. V. 32) und dass man mit ihm niemals Schiffbruch erleidet. Mit ihm an Bord erleidet man niemals Schiffbruch! Und nur mit Jesus werden auch wir fähig, andere zu ermutigen. Es besteht großer Bedarf an Menschen, die in der Lage sind zu trösten, aber nicht mit leeren Worten, sondern mit Worten des Lebens, mit Taten des Lebens. Im Namen Jesu spendet man wirklichen Trost. Nicht ein formaler und billiger Zuspruch ist aufbauend, sondern die Gegenwart Jesu. Ermutige uns, Herr: Getröstet von dir, werden wir wirkliche Trostspender für andere sein.

Und die dritte Handlung Jesu: Inmitten des Sturmes streckt Jesus seine Hand aus (vgl. V. 31). Er ergreift Petrus, der aus Angst zweifelte und im Untergehen schrie: »Herr, rette mich!« (V. 30). Wir können uns in die Lage des Petrus hineinversetzen: Wir sind kleingläubige Menschen und wir sind hier, um nach Erlösung zu betteln. Wir sind arm an wahrem Leben und brauchen die ausgestreckte Hand des Herrn, damit sie uns aus dem Bösen herauszieht. Dies ist der Beginn des Glaubens: dass wir uns von der stolzen Überzeugung lösen, bei uns sei alles in Ordnung, wir könnten alles und seien autonom, und dass wir uns selbst als erlösungsbedürftig erkennen. Der Glaube wächst in diesem Klima, einem Klima, an das man sich anpasst, wenn man mit denen zusammen ist, die nicht auf dem Sockel stehen, sondern bedürftig sind und um Hilfe bitten. Deshalb ist es für uns alle wichtig, den Glauben im Kontakt mit den Bedürftigen zu leben. Dies ist keine soziologische Option, nicht die Mode eines Pontifikats, es ist eine theologische Notwendigkeit. Es geht darum, sich selbst als um Erlösung flehende Bettler zu erkennen, als Brüder und Schwestern aller, insbesondere aber der Armen, die der Herr besonders liebt. So schöpfen wir aus dem Geist des Evangeliums: »Der Geist der Armut und Liebe« – sagt das Konzil – »ist Ruhm und Zeugnis der Kirche Christi« (Konstitution Gaudium et spes, 88).

Jesus hat auf den Schrei des Petrus gehört. Bitten wir um die Gnade, den Schrei derer zu hören, die in stürmischen Wassern leben. Der Schrei der Armen: Es ist der erstickte Schrei von Kindern, die das Licht der Welt nicht erblicken, der Kleinen, die Hunger leiden, der Heranwachsenden, die an das Getöse von Bomben gewöhnt sind statt an das fröhliche Lärmen des Spiels. Es ist der Schrei der alten Menschen, die abgeschoben und allein gelassen wurden. Es ist der Schrei derer, die sich ohne Hilfe an ihrer Seite den Stürmen des Lebens stellen müssen. Es ist der Schrei derjenigen, die fliehen und ihr Zuhause und ihr Heimatland ins Ungewisse hinein verlassen müssen. Es ist der Schrei ganzer Völker, die ihrer eigentlich beachtlichen natürlichen Ressourcen beraubt werden. Es ist der Schrei der vielen Lazarusse, die weinen, während einige reiche Prasser das genießen, was rechtmäßig allen zusteht. Die Ungerechtigkeit ist die perverse Wurzel der Armut. Der Schrei der Armen wird jeden Tag lauter, aber er wird jeden Tag weniger gehört. Jeden Tag ist jener Schrei stärker, aber jeden Tag wird er weniger gehört – übertönt vom Lärm einiger weniger Reicher, die immer weniger und immer reicher werden.

Vor der mit Füßen getretenen Menschenwürde steht man oft mit verschränkten Armen da oder lässt sie angesichts der dunklen Macht des Bösen ohnmächtig sinken. Aber ein Christ kann nicht mit gleichgültig verschränkten oder fatalistisch herabhängenden Armen dastehen, nein. Der Gläubige streckt seine Hand aus, wie Jesus es bei ihm tut. Bei Gott findet der Schrei der Armen Gehör. Ich frage: Wie sieht es bei uns aus? Haben wir Augen, um zu sehen, Ohren, um zu hören, ausgestreckte Hände, um zu helfen oder wiederholen wir jenes „er kommt morgen wieder“? »Christus selbst [ruft] in den Armen mit lauter Stimme seine Jünger zur Liebe auf« (ebd.). Er fordert uns auf, ihn in denen zu erkennen, die hungrig und durstig, fremd und ihrer Würde beraubt, krank und gefangen sind (vgl. Mt 25,35-36).

Der Herr streckt seine Hand aus; es ist eine freie, ungeschuldete Geste. So macht man das. Wir sind nicht berufen, nur denen Gutes zu tun, die uns mögen. Etwas zu erwidern ist normal, aber Jesus bittet uns, noch weiter zu gehen (vgl. Mt 5,46): denen zu geben, die nichts zurückgeben können, also unentgeltlich zu lieben (vgl. Lk 6,32-36). Schauen wir unseren Alltag an: Tun wir bei all den vielen Dingen etwas Unentgeltliches, etwas für diejenigen, die nichts zurückgeben können? Das ist dann unsere ausgestreckte Hand, unser wahrer Reichtum im Himmel.

Streck deine Hand zu uns aus, Herr, und ergreife uns. Hilf uns, so zu lieben, wie du liebst. Lehre uns, von dem zu lassen, was vergeht, und die Menschen um uns herum zu ermutigen wie auch die Bedürftigen unentgeltlich zu beschenken. Amen.

[01851-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Veamos tres acciones que Jesús realiza en el Evangelio.

La primera. En pleno día, deja: deja a la multitud en el momento del éxito, cuando lo aclamaban por haber multiplicado los panes. Y mientras los discípulos querían disfrutar de la gloria, los obliga rápidamente a irse y despide a la multitud (cf. Mt 14,22-23). Buscado por la gente, se va solo; cuando todo iba “cuesta abajo”, sube a la montaña para rezar. Luego, en mitad de la noche, desciende de la montaña y se acerca a los suyos caminando sobre las aguas sacudidas por el viento. En todo, Jesús va contracorriente: primero deja el éxito, luego la tranquilidad. Nos enseña el valor de dejar: dejar el éxito que hincha el corazón y la tranquilidad que adormece el alma.

¿Para ir a dónde? Hacia Dios, rezando, y hacia los necesitados, amando. Son los auténticos tesoros de la vida: Dios y el prójimo. Subir hacia Dios y bajar hacia los hermanos, aquí está la ruta que Jesús nos señala. Él nos aparta del recrearnos sin complicaciones en las cómodas llanuras de la vida, del ir tirando ociosamente en medio de las pequeñas satisfacciones cotidianas. Los discípulos de Jesús no están hechos para la predecible tranquilidad de una vida normal. Al igual que el Señor Jesús, viven su camino ligeros, prontos para dejar la gloria del momento, vigilantes para no apegarse a los bienes que pasan. El cristiano sabe que su patria está en otra parte, sabe que ya ahora es ―como nos recuerda el apóstol Pablo en la segunda lectura― «conciudadano de los santos, y miembro de la familia de Dios» (cf. Ef 2,19). Es un ágil viajero de la existencia. No vivimos para acumular, nuestra gloria está en dejar lo que pasa para retener lo que queda. Pidamos a Dios que nos parezcamos a la Iglesia descrita en la primera lectura: siempre en movimiento, experta en el dejar y fiel en el servicio (cf. Hch 28,11-14). Despiértanos, Señor, de la calma ociosa, de la tranquila quietud de nuestros puertos seguros. Desátanos de los amarres de la autorreferencialidad que lastran la vida, libéranos de la búsqueda de nuestros éxitos. Enséñanos, Señor, a saber dejar, para orientar nuestra vida en la misma dirección de la tuya: hacia Dios y hacia el prójimo.

La segunda acción: en plena noche Jesús alienta. Se dirige hacia los suyos, inmersos en la oscuridad, caminando «sobre el mar» (v. 25). En realidad se trataba de un lago, pero el mar, con la profundidad de su oscuridad subterránea, evocaba en aquel tiempo a las fuerzas del mal. Jesús, en otras palabras, va hacia los suyos pisoteando a los malignos enemigos del hombre. Aquí está el significado de este signo: no es una manifestación en la que se celebra el poder, sino la revelación para nosotros de la certeza tranquilizadora de que Jesús, solo él, derrota a nuestros grandes enemigos: el diablo, el pecado, la muerte, el miedo, la mundanidad. También hoy nos dice a nosotros: «Ánimo, soy yo, no tengáis miedo» (v. 27).

La barca de nuestra vida a menudo se ve zarandeada por las olas y sacudida por el viento, y cuando las aguas están en calma, pronto vuelven a agitarse. Entonces la emprendemos con las tormentas del momento, que parecen ser nuestros únicos problemas. Pero el problema no es la tormenta del momento, sino cómo navegar en la vida. El secreto de navegar bien está en invitar a Jesús a bordo. Hay que darle a él el timón de la vida para que sea él quien lleve la ruta. Solo él da vida en la muerte y esperanza en el dolor; solo él sana el corazón con el perdón y libra del miedo con la confianza. Invitemos hoy a Jesús a la barca de la vida. Igual que los discípulos, experimentaremos que con él a bordo los vientos se calman (cf. v. 32) y nunca naufragaremos. Con él a bordo nunca naufragaremos. Y solo con Jesús seremos capaces también nosotros de alentar. Hay una gran necesidad de personas que sepan consolar, pero no con palabras vacías, sino con palabras de vida, con gestos de vida. En el nombre de Jesús, se da un auténtico consuelo. Solo la presencia de Jesús devuelve las fuerzas, no las palabras de ánimo formales y obligadas. Aliéntanos, Señor: confortados por ti, confortaremos verdaderamente a los demás.

Y tercera acción de Jesús: en medio de la tormenta, extiende su mano (cf. v. 31). Agarra a Pedro que, temeroso, dudaba y, hundiéndose, gritaba: «Señor, sálvame» (v. 30). Podemos ponernos en la piel de Pedro: somos gente de poca fe y estamos aquí mendigando la salvación. Somos pobres de vida auténtica y necesitamos la mano extendida del Señor, que nos saque del mal. Este es el comienzo de la fe: vaciarnos de la orgullosa convicción de creernos buenos, capaces, autónomos y reconocer que necesitamos la salvación. La fe crece en este clima, un clima al que nos adaptamos estando con quienes no se suben al pedestal, sino que tienen necesidad y piden ayuda. Por esta razón, vivir la fe en contacto con los necesitados es importante para todos nosotros. No es una opción sociológica, no es la moda de un pontificado, es una exigencia teológica. Es reconocerse como mendigos de la salvación, hermanos y hermanas de todos, pero especialmente de los pobres, predilectos del Señor. Así, tocamos el espíritu del Evangelio: «El espíritu de pobreza y de caridad ―dice el Concilio― son gloria y testimonio de la Iglesia de Cristo» (Const. Gaudium et spes, 88).

Jesús escuchó el grito de Pedro. Pidamos la gracia de escuchar el grito de los que viven en aguas turbulentas. El grito de los pobres: es el grito ahogado de los niños que no pueden venir a la luz, de los pequeños que sufren hambre, de chicos acostumbrados al estruendo de las bombas en lugar del alegre alboroto de los juegos. Es el grito de los ancianos descartados y abandonados. Es el grito de quienes se enfrentan a las tormentas de la vida sin una presencia amiga. Es el grito de quienes deben huir, dejando la casa y la tierra sin la certeza de un destino. Es el grito de poblaciones enteras, privadas también de los enormes recursos naturales de que disponen. Es el grito de tantos Lázaros que lloran, mientras que unos pocos epulones banquetean con lo que en justicia corresponde a todos. La injusticia es la raíz perversa de la pobreza. El grito de los pobres es cada día más fuerte pero también menos escuchado. Cada día ese grito es más fuerte, pero cada día se escucha menos, sofocado por el estruendo de unos pocos ricos, que son cada vez menos pero más ricos.

Ante la dignidad humana pisoteada, a menudo permanecemos con los brazos cruzados o con los brazos caídos, impotentes ante la fuerza oscura del mal. Pero el cristiano no puede estar con los brazos cruzados, indiferente, ni con los brazos caídos, fatalista: ¡no! El creyente extiende su mano, como lo hace Jesús con él. El grito de los pobres es escuchado por Dios. Pregunto: ¿y nosotros? ¿Tenemos ojos para ver, oídos para escuchar, manos extendidas para ayudar, o repetimos aquel “vuelve mañana”? «Es el propio Cristo quien en los pobres levanta su voz para despertar la caridad de sus discípulos» (ibíd.). Nos pide que lo reconozcamos en el que tiene hambre y sed, en el extranjero y despojado de su dignidad, en el enfermo y el encarcelado (cf. Mt 25,35-36).

El Señor extiende su mano: es un gesto gratuito, no obligado. Así es como se hace. No estamos llamados a hacer el bien solo a los que nos aman. Corresponder es normal, pero Jesús pide ir más lejos (cf. Mt 5,46): dar a los que no tienen con qué devolver, es decir, amar gratuitamente (cf. Lc 6,32-36). Miremos lo que sucede en cada una de nuestras jornadas: entre tantas cosas, ¿hacemos algo gratuito, alguna cosa para los que no tienen cómo corresponder? Esa será nuestra mano extendida, nuestra verdadera riqueza en el cielo.

Extiende tu mano hacia nosotros, Señor, y agárranos. Ayúdanos a amar como tú amas. Enséñanos a dejar lo que pasa, a alentar al que tenemos a nuestro lado, a dar gratuitamente a quien está necesitado. Amén.

[01851-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Debrucemo-nos sobre três ações que Jesus realiza no Evangelho.

A primeira. Em pleno dia, deixa… deixa a multidão na hora do sucesso, quando era aclamado por ter multiplicado os pães. E os discípulos queriam gozar do triunfo, mas Jesus obrigou-os imediatamente a partir, enquanto Ele despede a multidão (cf. Mt 14, 22-23). Procurado pelo povo, retira-Se sozinho; quando tudo se apresentava «em descida», Ele sobe ao monte para rezar. Depois, no coração da noite, desce do monte e vai ter com os Seus, caminhando sobre as águas agitadas pelo vento. Em tudo isto, Jesus vai contracorrente: primeiro deixa o sucesso, depois a tranquilidade. Ensina-nos a coragem de deixar: deixar o sucesso que ensoberbece o coração, e a tranquilidade que adormece a alma.

Para ir… aonde? A Deus, rezando, e a quem tem necessidade, amando. São os verdadeiros tesouros da vida: Deus e o próximo. Subir até Deus e descer até aos irmãos: eis a rota indicada por Jesus. Subtrai-nos, assim, à tendência de nos apascentarmos calmamente nas cómodas planícies da vida, de deixar correr ociosamente a vida por entre as pequenas satisfações do dia-a-dia. Os discípulos de Jesus não estão feitos para a previsível tranquilidade duma vida normal. Como o Senhor Jesus, vivem o seu caminho, leves, prontos a deixar as glórias do momento, atentos a não se apegar aos bens que passam. O cristão sabe que a sua pátria não é aqui, sabe – como recorda o apóstolo Paulo na segunda Leitura – que já é «concidadão dos santos e membro da casa de Deus» (cf. Ef 2, 19). É um ágil viandante da existência. Não vivemos para acumular: a nossa glória está em deixar o que passa, para guardarmos aquilo que permanece. Peçamos a Deus a graça de nos assemelharmos à Igreja descrita na primeira Leitura: sempre em movimento, especialista no deixar e fiel no servir (cf. At 28, 11-14). Despertai-nos, Senhor, da calmaria ociosa, da bonança tranquila dos nossos portos seguros. Desligai-nos das amarras da autorreferencialidade que atulham a vida, libertai-nos da busca dos nossos sucessos. Ensinai-nos, Senhor, a saber deixar, para orientar a rota da vida pela tua: rumo a Deus e ao próximo.

A segunda ação: em plena noite, Jesus encoraja. Vai ter com os Seus, submersos na escuridão, caminhando «sobre o mar» (Mt 14, 25). Na realidade, tratava-se de um lago; mas naquele tempo o mar, com a profundidade dos seus abismos tenebrosos, evocava as forças do mal. Por outras palavras, Jesus vai ao encontro dos Seus, calcando os inimigos malignos do homem. Tal é o significado deste sinal: não uma manifestação celebrativa de força, mas a revelação, que nos é feita, da certeza tranquilizadora de que Jesus, só Ele, Jesus, vence os nossos grandes inimigos: o diabo, o pecado, a morte, o medo, o mundanismo. Hoje, Ele diz também a nós: «Tranquilizai-vos! Sou Eu! Não temais!» (14, 27).

A barca da nossa vida vê-se, frequentemente, balanceada pelas ondas e sacudida pelos ventos; e, se as águas por vezes estão calmas, não tardam a agitar-se. Então irritamo-nos com as tempestades do momento, como se fossem os nossos únicos problemas. Mas o problema não é a tempestade presente, mas o modo como navegar na vida. O segredo de bem navegar é convidar Jesus a subir para bordo. O leme da vida deve ser dado a Ele, para que seja Jesus a traçar a rota. Com efeito, só Ele dá vida na morte, e esperança na dor; só Ele cura o coração com o perdão, e liberta do medo com a confiança. Convidemos, hoje, Jesus a subir para a barca da vida. Como os discípulos, experimentaremos que, com Ele a bordo, amainam os ventos (cf. 14, 32) e nunca sofremos naufrágio. Com Ele a bordo, nunca sofremos naufrágio. E só com Jesus é que nos tornamos capazes também de encorajar. Há uma grande necessidade de pessoas que saibam consolar, não com palavras vazias, mas com palavras de vida, com gestos de vida. No nome de Jesus, encontramos e oferecemos verdadeira consolação: não são os encorajamentos formais e previstos que restauram, mas a presença de Jesus. Encorajai-nos, Senhor! Consolados por Vós, seremos verdadeiros consoladores para os outros.

E a terceira ação de Jesus: no meio da tempestade, estende a mão (cf. 14, 31). Agarra Pedro que, assustado, duvidara e, afundando, gritou: «Salva-me, Senhor!» (14, 30). Podemos colocar-nos no lugar de Pedro: somos pessoas de pouca fé e estamos aqui a mendigar a salvação. Somos pobres de vida verdadeira, e serve-nos a mão estendida do Senhor que nos tire fora do mal. Isto é o início da fé: esvaziar-se da orgulhosa convicção de nos julgarmos em ordem, capazes, autónomos, para nos reconhecermos necessitados de salvação. A fé cresce neste clima, um clima ao qual nos adaptamos convivendo com quantos não se colocam no pedestal, mas precisam e pedem ajuda. Por isso é importante, para todos nós, viver a fé em contacto com os necessitados. Não é uma opção sociológica, não é a moda dum pontificado, mas exigência teológica. É reconhecer-se mendigos de salvação, irmãos e irmãs de todos, mas especialmente dos pobres, prediletos do Senhor. Assim bebemos do espírito do Evangelho: «o espírito de pobreza e de caridade – diz o Concílio – são a glória e o testemunho da Igreja de Cristo» (Const. past. Gaudium et spes, 88).

Jesus ouviu o grito de Pedro. Peçamos a graça de ouvir o grito de quem vive em águas borrascosas. O grito dos pobres: é o grito estrangulado de bebés que não podem vir à luz, de crianças que padecem a fome, de adolescentes habituados ao fragor das bombas em vez de o ser à algazarra alegre dos jogos. É o grito de idosos descartados e deixados sozinhos. É o grito de quem se encontra a enfrentar as tempestades da vida sem uma presença amiga. É o grito daqueles que têm de fugir, deixando a casa e a terra sem a certeza dum refúgio. É o grito de populações inteiras, privadas inclusive dos enormes recursos naturais de que dispõem. É o grito dos inúmeros Lázaros que choram, enquanto poucos epulões se banqueteiam com aquilo que, por justiça, é para todos. A injustiça é a raiz perversa da pobreza. O grito dos pobres torna-se mais forte de dia para dia, mas de dia para dia é menos ouvido. De dia para dia é mais forte aquele grito, mas de dia para dia é menos ouvido, porque abafado pelo barulho de poucos ricos, que são sempre menos e sempre mais ricos.

Perante a dignidade humana espezinhada, muitas vezes fica-se de braços cruzados ou então abanam-se os braços, impotentes diante da força obscura do mal. Mas o cristão não pode ficar de braços cruzados, indiferente, nem de braços a abanar, fatalista! Não... O crente estende a mão, como Jesus faz com ele. Junto de Deus, o grito dos pobres encontra guarida. Pergunto: E em nós? Temos olhos para ver, ouvidos para escutar, mãos estendidas para ajudar, ou vamos repetindo «volta amanhã»? «Nos pobres, o próprio Cristo como que apela em alta voz para a caridade dos seus discípulos» (Ibid., 88). Pede-nos para O reconhecermos em quem tem fome e sede, é forasteiro e está privado de dignidade, doente e encarcerado (cf. Mt 25, 35-36).

O Senhor estende a mão: é um gesto gratuito, não devido. É assim que se faz. Não somos chamados a fazer bem só a quem nos ama. Retribuir é normal, mas Jesus pede para ir mais longe (cf. Mt 5, 46): dar a quem não tem para restituir, isto é, amar gratuitamente (cf. Lc 6, 32-36). Consideremos os nossos dias: entre as muitas coisas que fazemos, alguma é de graça? Fazemos algo por quem não tem com que retribuir? Tal há de ser a nossa mão estendida, a nossa verdadeira riqueza no céu.

Estendei-nos a mão, Senhor, e agarrai-nos. Ajudai-nos a amar como Vós amais. Ensinai-nos a deixar o que passa, a encorajar quem vive ao nosso lado, a dar gratuitamente a quem está necessitado. Amen.

[01851-PO.02] [Texto original: Italiano]

 

Traduzione in lingua polacca

Spójrzmy na trzy działania, których Jezus dokonuje w Ewangelii.

Pierwsze. Pośrodku dnia zostawia: opuszcza tłum w chwili sukcesu, kiedy zyskał aplauz z powodu rozmnożenia chleba. Podczas, gdy uczniowie chcieli cieszyć się chwałą, natychmiast przynaglił ich do odejścia i odprawienia tłumu (por. Mt 14, 22-23). Poszukiwany przez ludzi, odchodzi samotnie; kiedy wszystko było „z górki”, wyszedł na górę, aby się modlić. Następnie, w środku nocy, zszedł z góry i dołączył do swoich uczniów idąc po wzburzonych wiatrem wodach. Jezus we wszystkim idzie przeciw prądowi: najpierw zostawia sukces, a potem spokój. Uczy nas odwagi, by odejść: opuścić sukces, który napawa serce pychą i spokój, który usypia duszę.

A gdzie chce iść? Ku Bogu - modląc się i ku potrzebującym - miłując. To są prawdziwe skarby życia: Bóg i bliźni. Wspiąć się ku Bogu i zejść do braci – oto kurs wskazany przez Jezusa. On nas odciąga od tego, byśmy bez przeszkód paśli się na wygodnych równinach życia, od leniwego wegetowania pośród małych codziennych satysfakcji. Uczniowie Jezusa nie są stworzeni do przewidywalnego spokoju normalnego życia. Tak, jak Pan Jezus przemierzają swoją drogę niczym nie obciążeni, gotowi opuścić glorie danej chwili uważając, by nie przywiązać się do dóbr przemijających. Chrześcijanin wie, że jego ojczyzna jest gdzie indziej wie, że jest już teraz - jak przypomina apostoł Paweł w drugim czytaniu - „współobywatelem świętych i domownikiem Boga” (por. Ef 2,19). Jest on żwawym wędrowcem egzystencji. Nie żyjemy, aby gromadzić, nasza chwała polega na opuszczeniu tego, co mija, aby utrzymać to, co pozostało. Prośmy Boga, abyśmy przypominali Kościół opisany w pierwszym czytaniu: zawsze w ruchu, wprawny w zostawianiu i wierny w służeniu (por. Dz 28,14-14). Przebudź nas Panie z bezczynnego spokoju, ze spokojnej ciszy naszych bezpiecznych przystani. Uwolnij nas z cumowisk skoncentrowania się na sobie, będącego balastem życia, wyzwól nas od dążenia do sukcesów. Naucz nas, Panie, umiejętności zostawiania, aby obrać kurs Twego życia na ziemi: ku Bogu i ku bliźniemu.

Drugie działanie: w środku nocy Jezus podnosi na duchu. Idzie do swoich uczniów, zanurzonych w mroku, krocząc „po morzu” (w. 25). W istocie chodziło o jezioro, ale morze, z głębią swoich podziemnych ciemności, przywoływało w tamtym czasie siły zła. Innymi słowy, Jezus idzie na spotkanie ze swoimi uczniami depcząc podstępnych wrogów człowieka. Taki jest sens tego znaku: nie jest to uroczysta demonstracja władzy, ale objawienie dla nas uspokajającej pewności, że Jezus, i tylko Jezus, tylko On, Jezus pokonuje naszych wielkich wrogów: diabła, grzech, śmierć, lęk, światowość. Dziś również mówi do nas: „Odwagi! Ja jestem, nie bójcie się!” (w. 27).

Łódź naszego życia jest często miotana falami i wstrząsana wiatrami, a gdy wody są spokojne, to wkrótce znowu się burzą. Wówczas zmagamy się z burzami danej chwili, które zdają się naszym jedynym problemem. Ale problemem nie jest burza danej chwili, lecz to, jak płynąć w życiu. Tajemnicą dobrej nawigacji jest zaproszenie Jezusa na pokład. Jemu trzeba oddać ster życia, aby to On obierał kurs. Tylko On bowiem daje życie w śmierci a nadzieję w bólu; tylko On uzdrawia serce przebaczeniem i uwalnia od lęku przez zaufanie. Zaprośmy dzisiaj Jezusa do łodzi życia. Tak samo, jak uczniowie doświadczymy, że wraz z Nim na pokładzie wiatry się uspokajają (por. w. 32) i nigdy nie dochodzi do katastrofy. Z Nim na pokładzie nigdy nie dochodzi do katastrofy. I tylko z Jezusem również my stajemy się zdolni, aby dodawać otuchy. Bardzo potrzeba ludzi, którzy umieliby pocieszyć, ale nie pustymi słowami, lecz słowami życia, gestami życia. W imię Jezusa obdarza się prawdziwą pociechą. Nie pokrzepiają zachęty formalne i banalne, ale obecność Jezusa. Podnieś nas na duchu Panie: pocieszeni przez Ciebie, udzielimy prawdziwego pocieszenia innym.

I trzecie działanie Jezusa: pośród burzy, wyciąga rękę (por. w. 31). Uchwycił Piotra, który uląkłszy się i zwątpiwszy tonąc zawołał: „Panie, ratuj mnie!” (w. 30). Możemy postawić się w sytuacji Piotra: jesteśmy ludźmi małej wiary i to my tutaj żebrzemy o zbawienie. Jesteśmy ubodzy w prawdziwe życie i potrzebujemy wyciągniętej ręki Pana, która wydostałaby nas ze złego. Jest to początek wiary: trzeba ogołocić się z zadufanego przekonania, że jesteśmy w porządku, zdolni, niezależni, i uznać siebie za potrzebujących zbawienia. Wiara rozwija się w tej atmosferze, w klimacie, do którego się przystosowujemy będąc razem z tymi, którzy nie stają na piedestale, ale potrzebują i proszą o pomoc. Z tego względu ważne jest dla nas wszystkich przeżywanie wiary w kontakcie z potrzebującymi. To nie jest opcja socjologiczna, to nie moda pontyfikatu, ale konieczność teologiczna. Jest to uznanie siebie za żebrzących zbawienia, będąc braćmi i siostrami wszystkich, ale zwłaszcza ubogich, szczególnie umiłowanych przez Pana. W ten sposób czerpiemy z ducha Ewangelii: jak mówi Sobór „Duch ubóstwa i miłosierdzia jest chwałą i świadectwem Kościoła Chrystusowego” (Konst. Duszp. Gaudium et spes, 88.).

Jezus wysłuchał krzyku Piotra. Prośmy o łaskę, byśmy usłyszeli wołanie tych, którzy żyją na burzliwych wodach. Wołanie ubogich: to przytłumiony krzyk dzieci, które nie mogą się narodzić, maluczkich cierpiących, głód młodych nawykłych do huku bomb, zamiast wesołej wrzawy zabaw. Jest to krzyk osób starszych odrzuconych i pozostawionych samym sobie. To wołanie tych, którzy stoją w obliczu burz życia bez przyjaznej obecności. Jest to krzyk tych, którzy muszą uciekać, opuszczając dom i ziemię, nie mając pewności, że dotrą do przystani. Jest to krzyk całych narodów, pozbawionych również poważnych zasobów naturalnych. To wołanie wielu Łazarzy, którzy płaczą, podczas gdy niewielu bogaczy ucztuje, korzystając z tego, co ze sprawiedliwości należy do wszystkich. Niesprawiedliwość jest przewrotnym źródłem ubóstwa. Krzyk ubogich staje się coraz silniejszy każdego dnia, ale każdego dnia jest mniej słyszany. Każdego dnia coraz głośniejszy jest krzyk, ale każdego dnia jest mniej słyszany, przyćmiony zgiełkiem nielicznych bogatych, których jest coraz mniej, a którzy są coraz bogatsi.

W obliczu pogwałcenia ludzkiej godności często pozostajemy z założonymi ramionami lub nam opadają ręce, i jesteśmy bezsilni wobec mrocznej siły zła. Ale chrześcijanin nie może stać obojętnie z założonymi rękami, lub fatalistycznie z opadającymi rękoma. Wierzący wyciąga rękę, tak jak Jezus czyni wobec niego. U Boga krzyk ubogich jest wysłuchany. Pytam: a u nas? Czy mamy oczy, aby widzieć, uszy żeby słyszeć, wyciągnięte ręce, aby pomóc, czy też jest to „przyjdź jutro”, aby jutro powtórzyć to samo? „Przez ubogich sam Chrystus głośno woła o miłosierdzie swoich uczniów” (tamże). Domaga się od nas, abyśmy Go rozpoznali w głodnym i spragnionym, obcym i ogołoconym z godności, chorym i uwięzionym (por. Mt 25,35-36).

Pan wyciąga rękę: jest to gest darmo dany, nienależny. Tak to się robi. Nie jesteśmy powołani do czynienia dobra tylko tym, którzy nas kochają. Odwzajemnianie się jest rzeczą normalną, ale Jezus domaga się, abyśmy poszli dalej (por. Mt 5,46): dawali temu, który nie może nam zwrócić, to znaczy miłowali bezinteresownie (por. Łk 6, 32-36). Spójrzmy na nasze dni: czy pośród wielu rzeczy czynimy coś bezinteresownego, coś dla kogoś, kto nie może się odwzajemnić? To będzie nasza wyciągnięta ręka, nasze prawdziwe bogactwo w niebie.

Wyciągnij do nas rękę, Panie, i uchwyć nas. Pomóż nam kochać tak, jak Ty kochasz. Naucz nas, abyśmy zostawiali to, co przemijające, abyśmy podnosili na duchu tych, którzy są wokół nas i bezinteresownie dawali potrzebującym. Amen.

[01851-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0853-XX.02]