Questo pomeriggio, alle ore 16, presso l’Istituto Patristico Augustinianum, a Roma, ha avuto luogo “La saggezza del tempo” – Incontro dei giovani e degli anziani con il Santo Padre Francesco, evento speciale nell’ambito della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. (3-28 ottobre 2018).
L’incontro è nato dal progetto editoriale di padre Antonio Spadaro, S.I., uscito oggi, “La saggezza del tempo. In dialogo con Papa Francesco sulle grandi questioni della vita”, raccolta di 250 interviste ad anziani in più di 30 Paesi, grazie all’aiuto di organizzazioni no-profit come Unbound e Jesuit Refugee Service.
Dopo gli interventi di S.E. Mons. José Domingo Ulloa Mendieta, O.S.A., Arcivescovo di Panamá e Presidente del Comitato Organizzatore della Giornata Mondiale della Gioventù 2019, e dell’Autore, padre Antonio Spadaro, Direttore de “La Civiltà Cattolica”, il Santo Padre Francesco ha risposto a braccio alle domande di un gruppo di giovani e anziani provenienti da Colombia, Italia, Malta e Stati Uniti.
Di seguito ne riportiamo il testo:
Dialogo del Santo Padre con giovani e anziani
Federica Ancona — Italia, 26 anni
Papa Francesco, oggi noi giovani siamo sempre esposti a modelli di vita che esprimono una visione “usa e getta”, quella che Lei chiama “cultura dello scarto”. Mi sembra che la società oggi ci spinge a vivere una forma di individualismo che poi finisce nella competizione. Non mi chiedono di dare il meglio di me, ma di essere sempre migliore degli altri. Ma ho l’impressione che chi cade in questo meccanismo alla fine finisce per sentirsi un fallito. Qual è invece la strada per la felicità? Come faccio a vivere una vita felice? Come possiamo noi giovani guardarci dentro e capire che cosa è davvero importante? Come possiamo noi giovani creare rapporti veri e autentici quando tutto attorno a noi sembra finto, di plastica? Grazie, Santo Padre.
Papa Francesco:
“Finto e di plastica”: è la cultura del trucco, quello che conta sono le apparenze; quello che conta è il successo personale anche a prezzo di calpestare la testa altrui, andare avanti con questa competizione che tu dici – io ho qui le domande scritte, per non perdermi. E la tua domanda è: come essere felici in questo mercato della competizione, in questo mercato dell’apparenza? Tu non hai detto la parola ma mi permetto di dirla io: in questo mercato dell’ipocrisia; lo dico non in senso morale, ma in senso psicologico-umano: apparire qualcosa che non c’è dentro, si appare in un modo ma dentro c’è il vuoto, per esempio, o c’è l’affanno per arrivare, non è vero?
Su questo mi viene di dirti un gesto, un gesto per spiegare quello che voglio dirti con la mia risposta. Il gesto è questo: la mano tesa e aperta. La mano della competizione è chiusa e prende: sempre prendere, accumulare, tante volte a caro prezzo, a costo di annientare gli altri, per esempio, a costo del disprezzo altrui ma… questa è la competizione! Il gesto dell’anti-competizione è questo: aprirsi. E aprirsi in cammino. La competizione generalmente è ferma: fa i suoi calcoli, tante volte incoscientemente, ma è ferma, non si mette in gioco; fa dei calcoli, ma non si mette in gioco. Invece, la maturazione della personalità avviene sempre in cammino, si mette in gioco. Per dirlo con un’espressione comune: si sporca le mani. Perché? Perché ha la mano tesa per salutare, per abbracciare, per ricevere. E questo mi fa pensare a quello che dicono i santi, anche Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Contro questa cultura che annienta i sentimenti, c’è il servizio, servire. E tu vedrai che la gente più matura, i giovani più maturi – maturi nel senso di sviluppati, sicuri di sé stessi, sorridenti, con senso dell’umorismo – sono quelli con le mani aperte, in cammino, con il servizio. E l’altra parola: che rischiano. Se tu nella vita non rischi, mai, mai sarai matura, mai dirai una profezia, avrai soltanto l’illusione di accumulare per essere sicura. E’ una cultura dello scarto, ma per coloro che non si sentono scartati è la cultura dell’assicurazione: avere tutte le assicurazioni possibili per essere a posto. E mi viene in mente quella parabola di Gesù: l’uomo ricco che aveva avuto un raccolto così grande che non sapeva dove mettere il grano. E disse: “Farò dei magazzini più grandi e così sarò sicuro”. L’assicurazione per tutta la vita. E Gesù dice che questa storia finisce così: “Stolto: questa sera morirai” (cfr Lc 12,16-21). La cultura della competizione non guarda mai la fine; guarda il fine che si è proposto nel suo cuore: arrivare, arrampicando, in ogni modo, ma sempre calpestando teste. Invece la cultura del convivere, della fraternità è una cultura del servizio, una cultura che si apre e si sporca le mani.
Questo è il gesto. Non so, non voglio ripetermi ma credo che questa sia la risposta essenziale alla tua domanda. Vuoi salvarti da questa cultura che ti fa sentire una fallita, dalla cultura della competizione, dalla cultura dello scarto, vivere una vita felice? Apri: il gesto della mano sempre tesa così, il sorriso, in cammino, mai seduta, in cammino sempre, sporcati le mani. E sarai felice. Non so, mi viene di dirti questo.
Delia Gallagher:
La prossima domanda, Santo Padre, viene da Malta. E’ una coppia – Tony e Grace Naudi, sono nonni e sono sposati da 43 anni.
Tony and Grace Naudi — Malta, 71 e 65 anni
[in inglese] Santo Padre, mi chiamo Tony. Mia moglie Grace ed io abbiamo cresciuto una famiglia di quattro figli, un figlio e tre figlie, e abbiamo cinque nipoti e un altro in arrivo. Come molte famiglie, abbiamo dato ai nostri figli un’educazione cattolica, e abbiamo fatto di tutto per aiutarli a vivere la parola di Dio nella loro vita quotidiana. Eppure, nonostante i nostri sforzi come genitori di trasmettere la fede, i figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro? Per noi la fede è importante. È doloroso per noi vedere i nostri figli e i nostri nipoti lontani dalla fede o molto presi dalle cose più mondane o superficiali. Ci dia una parola di incoraggiamento e di aiuto. Che cosa possiamo fare come genitori e nonni per condividere la fede con i nostri figli e i nostri nipoti?
Papa Francesco:
C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa. Sempre. Sono proprio i nonni, nei momenti più difficili della storia, coloro che hanno trasmesso la fede. Pensiamo alle persecuzioni religiose del secolo scorso, nelle dittature genocide che tutti abbiamo conosciuto: erano i nonni che di nascosto insegnavano ai nipotini a pregare, la fede, e anche di nascosto li portavano al battesimo. Perché non i genitori? Perché i genitori erano coinvolti nella filosofia del partito, di ambedue i partiti [nazista e comunista] e, se si fosse saputo che facevano battezzare i figli, avrebbero perso il lavoro, per esempio, o sarebbero diventati vittime di persecuzioni. Mi raccontava una maestra, una insegnante di uno di questi Paesi, che il lunedì dopo Pasqua dovevano domandare ai bambini: “Cosa avete mangiato ieri a casa?”, semplicemente, e di quelli che dicevano “uova, uova”, passare l’informazione per punire i genitori. Così loro [i genitori] non potevano fare la trasmissione della fede: erano i nonni a farla. E hanno avuto, in questi momenti di persecuzione, una grande responsabilità per questo, assunta da loro stessi, e la portavano avanti, di nascosto, con i metodi più elementari.
Riprendo: la fede va trasmessa sempre in dialetto: il dialetto di casa. E anche il dialetto dell’amicizia, della vicinanza, ma sempre in dialetto. Lei non può trasmettere la fede con il Catechismo: “leggi il Catechismo e avrai la fede”. No. Perché la fede non sono soltanto i contenuti, c’è il modo di vivere, di valutare, di gioire, di rattristarsi, di piangere…: è tutta una vita che porta lì. E la Sua domanda è un po’ – mi permetto –, sembra un po’ esprimere un senso di colpa: “Forse abbiamo fallito nella trasmissione della fede?”. No. Non si può dire questo. La vita è così. All’inizio voi avete trasmesso la fede, ma poi si vive, e il mondo fa delle proposte che entusiasmano i figli nella loro crescita, e tanti si allontanano dalla fede perché fanno una scelta, non sempre cattiva, ma tante volte inconsapevole, tra i valori, sentono delle ideologie più moderne e si allontanano. Ho voluto soffermarmi su questa descrizione della trasmissione della fede per dire il mio parere. La prima cosa è non spaventarsi, non perdere la pace. La pace, sempre parlando con il Signore: “Noi abbiamo trasmesso la fede e adesso…”. Tranquilli. Mai cercare di convincere, perché la fede, come la Chiesa, non cresce per proselitismo, cresce per attrazione – questa è una frase di Benedetto XVI – cioè per testimonianza. Ascoltarli, accoglierli bene, i nipotini, i figli, accompagnarli in silenzio.
Mi viene in mente un aneddoto di un sindacalista – un dirigente, un sindacalista che ho conosciuto –, che a 20/21 anni era caduto nella dipendenza dall’alcol. Viveva da solo con la mamma, perché la mamma lo aveva avuto da ragazza. Lui si ubriacava. E al mattino vedeva che la mamma usciva per andare a lavorare: lavorava lavando le tovaglie, le camicie, come si lavava in quel tempo, con l’asse di legno. Lavorava tutta la giornata, e il figlio lì… E lui vedeva la mamma, ma faceva finta di dormire – non aveva lavoro in un tempo in cui c’era tanto lavoro – e guardava come la mamma si fermava, lo guardava con tenerezza e se ne andava a lavorare. Questo lo ha fatto crollare: quel silenzio, quella tenerezza della mamma ha fatto crollare tutte le resistenze e lui un giorno ha detto: “No, non può essere così”, si è dato da fare, è maturato e ha fatto una buona famiglia, una buona carriera… Silenzio, tenerezza… Silenzio che accompagna, non il silenzio dell’accusa, no, quello che accompagna. E’ una delle virtù dei nonni. Abbiamo visto tante cose nella vita che tante volte soltanto il silenzio buono, quello caldo, può aiutare.
Poi, se uno si domanda quali sono le cause di questo allontanamento, c’è sempre una sola causa che apre le porte alle ideologie: le testimonianze negative. Non sempre in famiglia, no, la maggior parte sono le testimonianze negative di gente di Chiesa: preti nevrotici, o gente che dice di essere cattolica e fa la doppia vita, incoerenze, per il fatto di cercare dentro le comunità cristiane cose che non sono valori cristiani… Sono sempre le testimonianze negative che allontanano dalla vita [di fede]. E poi, le persone che ricevono questi esempi negativi, accusano. Dicono: “Io ho perso la fede perché ho visto questo e questo…”. E hanno ragione. E ci vuole soltanto un’altra testimonianza, quella della bontà, della mitezza, della pazienza, la testimonianza che ha dato Gesù nella sua passione, quando Lui soffriva ed era capace di toccare il cuore.
Ai genitori e ai nonni che hanno questa esperienza, consiglio molto amore, molta tenerezza, comprensione, testimonianza e pazienza. E preghiera, preghiera. Pensate a Santa Monica: ha vinto con le lacrime. Era brava. Ma mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono. Questo.
Delia Gallagher:
Grazie, Santo Padre. La terza domanda viene dagli Stati Uniti, da Rosemary Lane. Rosemary lavora per Loyola Press e quindi è stato fatto grazie a lei, in parte, questo libro per il quale lei ha raccolto alcune storie di anziani per realizzare il libro.
Rosemary Lane — Stati Uniti d’America, 30 anni
[in inglese] Santo Padre, ho avuto il privilegio di trascorrere un anno raccogliendo la saggezza dagli anziani di tutto il mondo per il libro La saggezza del tempo. Mi è accaduto di chiedere ad alcuni anziani come affrontano le loro fragilità, le loro incertezze per il futuro. Una donna saggia, Conny Caruso, mi ha detto che io non devo mai darmi per vinta. Devo darmi da fare, lottare, avere fiducia nella vita. Ma oggi la fiducia non la si può dare per scontata. Anche da Lei io avverto personalmente questo messaggio di fiducia. Mi fa riflettere che la fiducia mi venga da persone che hanno vissuto già a lungo. Noi giovani viviamo una vita difficile, viviamo in un mondo instabile e pieno di sfide. Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro all’altezza dei loro sogni?
Papa Francesco:
“Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro all’altezza dei loro sogni?”. Questa è la domanda. Un bel lavoro hai fatto, con queste interviste! E’ una bella esperienza che non dimenticherai mai, mai! Una bella esperienza.
Prendo l’ultima parola: “all’altezza dei loro sogni”. Sogni è l’ultima parola. E la risposta è: incomincia a sognare. Sogna tutto. Mi viene in mente quella bella canzone: “Nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù”. Sognare così, sfacciatamente, senza vergogna. Sognare. Sognare è la parola. E difendere i sogni come si difendono i figli. Questo è difficile da capire ma è facile da sentire: quando tu hai un sogno, una cosa che non sai come dirla, ma la custodisci e la difendi perché l’abitudine quotidiana non te la tolga. Aprirsi a orizzonti che sono contro le chiusure. Le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì! Sognare, e prendere i sogni dagli anziani. Portare su di sé gli anziani e i loro sogni. Portare addosso questi anziani, i loro sogni; non ascoltarli, registrarli, e poi dire “adesso andiamo a divertirci”. No. Portarli addosso. Il sogno che noi riceviamo da un anziano è un peso, costa portarlo avanti. E’ una responsabilità: dobbiamo portarli avanti.
C’è un’icona che viene dal Monastero di Bose, che si chiama “la Santa Comunione”, e cioè un monaco giovane che porta avanti un anziano, porta avanti i sogni di un anziano, e non è facile, si vede che fa fatica in questo. In questa immaginetta tanto bella si vede un giovane che è stato capace di prendere su di sé i sogni degli anziani e li porta avanti, per farli fruttificare. Questo forse sarà di ispirazione. Tu non puoi portarti tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti farà bene. Non solo ascoltarli, scriverli, no: prenderli e portarli avanti. E questo ti cambia il cuore, questo ti fa crescere, questo ti fa maturare. E’ la maturazione propria di un anziano.
Loro, nei sogni, ti diranno anche cosa hanno fatto nella vita; ti racconteranno gli sbagli, i fallimenti, i successi, ti diranno questo. Prendilo. Prendi tutta questa esperienza di vita e vai avanti. Questo è il punto di partenza.
“Cosa direbbe Lei ai giovani che vogliono avere fiducia nella vita?”: prendi su di te i sogni degli anziani e portali avanti. Questo ti farà maturare. Grazie.
Delia Gallagher:
Grazie. La prossima domanda viene dall’Italia, dalla signora Fiorella Bacherini, che è moglie, mamma, nonna nonché insegnante di italiano per i migranti e i rifugiati a Firenze.
Fiorella Bacherini — Italia, 83 anni
Papa Francesco, sono preoccupata. Ho tre figli. Uno è gesuita come lei. Hanno scelto la loro vita e vanno avanti per la loro strada. Ma guardo anche attorno a me, guardo al mio Paese, al mondo. Vedo crescere le divisioni e la violenza. Ad esempio, sono rimasta molto colpita dalla durezza e dalla crudeltà di cui siamo stati testimoni nel trattamento dei rifugiati. Non voglio discutere di politica, parlo dell’umanità. Com’è facile far crescere l’odio tra la gente! E mi vengono in mente i momenti e i ricordi di guerra che ho vissuto da bambina. Con quali sentimenti Lei sta affrontando questo momento difficile della storia del mondo?
Papa Francesco:
Grazie. Mi è piaciuto quel “non parlo di politica, ma parlo di umanità”. Questo è saggio.
I giovani non hanno l’esperienza delle due guerre. Io ho imparato da mio nonno che ha fatto la prima, sul Piave, ho imparato tante cose, dal suo racconto. Anche le canzoni un po’ ironiche contro il re e la regina, tutto questo ho imparato. I dolori, i dolori della guerra… Cosa lascia una guerra? Milioni di morti, nella grande strage. Poi è venuta la seconda, e questa l’ho conosciuta a Buenos Aires con tanti migranti che sono arrivati: tanti, tanti, tanti, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Italiani, polacchi, tedeschi… tanti, tanti. E ascoltando loro ho capito, tutti capivamo cos’era una guerra, che da noi non si conosceva. Credo che sia importante che i giovani conoscano gli effetti delle due guerre del secolo scorso: è un tesoro, negativo, ma un tesoro per trasmettere, per creare delle coscienze. Un tesoro che ha fatto anche crescere l’arte italiana: il cinema del dopoguerra è una scuola di umanesimo. Che loro conoscano questo è importante, per non cadere nello stesso errore. Che loro conoscano come cresce un populismo: per esempio, pensiamo al ‘32-‘33 di Hitler, quel giovanotto che aveva promesso lo sviluppo della Germania dopo un governo che aveva fallito. Che sappiano come incominciano, i populismi.
Lei ha detto una parola molto brutta ma molto vera: “seminare odio”. E non si può vivere seminando odio. Noi, nell’esperienza religiosa della storia della religione, pensiamo alla Riforma: abbiamo seminato odio, tanto, da ambedue le parti, protestanti e cattolici. Questo l’ho detto esplicitamente a Lund [in Svezia, nell’incontro ecumenico], e adesso da 50 anni lentamente ci siamo accorti che non era quella la strada e stiamo cercando di seminare gesti di amicizia e non di divisione. Seminare odio è facile, e non solo sulla scena internazionale, anche nel quartiere. Uno va, sparla di una vicina, di un vicino, semina odio e quando si semina odio c’è la divisione, c’è cattiveria, nella vita quotidiana. Seminare odio con i commenti, con le chiacchiere… Dalla grande guerra scendo alle chiacchiere, ma sono della stessa specie. Seminare odio anche con le chiacchiere in famiglia, nel quartiere, è uccidere: uccidere la fama altrui, uccidere la pace e la concordia in famiglia, nel quartiere, nel posto di lavoro, far crescere le gelosie, le competizioni di cui parlava la prima ragazza. Cosa faccio io – era la sua domanda – quando vedo che il Mediterraneo è un cimitero? Io, Le dico la verità, soffro, prego, parlo. Non dobbiamo accettare questa sofferenza. Non dire “ma, si soffre dappertutto, andiamo avanti…”. No, questo non va. Oggi c’è la terza guerra mondiale a pezzetti: un pezzetto qua, un pezzetto là, e là, e là… Guardate i luoghi di conflitto. Mancanza di umanità, aggressione, odio fra culture, fra tribù, anche una deformazione della religione per poter odiare meglio. Questa non è una strada: questa è la strada del suicidio dell’umanità. Seminare odio, preparare la terza guerra mondiale, che è in corso a pezzetti. E credo di non esagerare in questo. Mi viene in mente – e questo va detto ai giovani – quella profezia di Einstein: “La quarta guerra mondiale sarà fatta con le pietre e i bastoni”, perché la terza avrà distrutto tutto. Seminare odio e far crescere l’odio, creare violenza e divisione è un cammino di distruzione, di suicidio, di altre distruzioni. Questo si può coprire [giustificare] con la libertà, si può coprire con tanti motivi! Quel giovanotto del secolo scorso, negli anni ’30, lo copriva con la purezza della razza; e qui, i migranti. Accogliere il migrante è un mandato biblico, perché “tu stesso sei stato migrante in Egitto” (cfr Lv 19,34). Poi pensiamo: l’Europa è stata fatta dai migranti, tante correnti migratorie nei secoli hanno fatto l’Europa di oggi, le culture si sono mischiate. E l’Europa sa bene che nei momenti brutti altri Paesi, dell’America, per esempio, sia del Nord che del Sud, hanno accolto i migranti europei, sa cosa significa questo. Noi dobbiamo riprendere, prima di esprimere un giudizio sul problema delle migrazioni, riprendere la nostra storia europea. Io sono figlio di un migrante che è andato in Argentina, e tanti, in America, tanti hanno un cognome italiano, sono migranti. Accolti con il cuore e con le porte aperte. Ma la chiusura è l’inizio del suicidio. E’ vero che si devono accogliere i migranti, si devono accompagnare, ma soprattutto si devono integrare. Se noi accogliamo “così” [come capita, senza un piano], non facciamo un bel servizio: c’è il lavoro dell’integrazione. La Svezia è stata un esempio da più di 40 anni, in questo. Io l’ho vissuto da vicino: quanti argentini e uruguayani, al tempo delle nostre dittature militari, sono stati rifugiati in Svezia. E subito li hanno integrati, subito. Scuola, lavoro… Integrati nella società. E quando l’anno scorso sono stato a Lund, mi ha ricevuto all’aeroporto il Primo Ministro, e poi, siccome non poteva venire lui a congedarsi, ha inviato una Ministro, credo della cultura… In Svezia, dove sono tutti biondi, questa era un po’ bruna: una Ministra della cultura così… Poi ho saputo che era figlia di una svedese e di un migrante dell’Africa. Così integrata che è arrivata a essere Ministra del Paese. Così si integrano le cose. Invece, la tragedia che tutti ricordiamo di Zaventem [in Belgio], non era stata fatta da stranieri: l’hanno fatta giovani belgi! Ma giovani belgi che erano stati ghettizzati in un quartiere. Sì, sono stati ricevuti ma non integrati. E questa non è la strada. Un governo deve avere – questi sono i criteri – il cuore aperto per ricevere, le strutture buone per fare la strada dell’integrazione e anche la prudenza di dire: fino a questo punto, posso, oltre non posso. E per questo è importante che tutta l’Europa si metta d’accordo su questo problema. Al contrario, il peso più forte lo portano l’Italia, la Grecia, la Spagna, Cipro un po’, questi tre-quattro Paesi… E’ importante.
Ma, per favore, non seminare odio. E oggi, io chiederei per favore a tutti di guardare il nuovo cimitero europeo: si chiama Mediterraneo, si chiama Egeo. Questo che mi viene di dire a Lei. E grazie per avere fatto questa domanda, non per politica, ma per umanità. Grazie!
Delia Gallagher:
Grazie. Santo Padre, la prossima domanda viene dalla Colombia, da una giovane donna che si chiama Jennifer Tatiana Valencia Morales, e lei lavora per “Unbound” e quindi viaggia nei villaggi della montagna della Colombia per aiutare anziani e giovani, e si sposta con la motocicletta.
Jennifer Tatiana Valencia Morales — Colombia, 20 anni
[in spagnolo] Papa Francesco, raccogliendo le storie di questo libro io sono rimasta profondamente colpita dalla vita degli anziani. Lei di storie ne avrà già ascoltate tante nella Sua vita. Che cosa L’ha spinta ad accettare questo progetto e ad ascoltare le storie di vita delle persone anziane presenti in questo libro? In questo libro molte storie sono di anziani che vivono situazioni di grande povertà, gente non rilevante agli occhi del mondo, della società. Nessuno starebbe ad ascoltarle. Dopo aver ascoltato storie di vita Lei si sente toccato, cambiato? Le piace ascoltare le storie di vita? La aiuta nel suo mestiere di Papa?
Papa Francesco:
L’ultima domanda: “Le piace ascoltare le storie di vita, L’aiuta nel Suo mestiere di Papa?” Sì, e mi piace anche. Mi piace. Quando sono nelle udienze, il mercoledì, incomincio a salutare la gente, mi fermo dove ci sono i bambini e gli anziani. E ho tante esperienze, tante esperienze nell’ascoltare gli anziani. Ve ne dirò una soltanto, che riguarda la famiglia. Una volta c’era una coppia che faceva il 60° di matrimonio, ma erano giovani, perché a quei tempi si sposavano giovani. Oggi per sposare un figlio, la mamma deve smettere di stirare le camicie, perché altrimenti non se ne va di casa! Ma a quei tempi si sposavano giovani. Io ho fatto loro la domanda: “Valeva la pena di fare questa strada?”, e loro, che mi guardavano, si sono guardati tra loro, e poi sono tornati a guardarmi e avevano gli occhi bagnati, e allora mi hanno risposto: “Siamo innamorati!”. Io mai, mai pensavo a una risposta così “moderna” da una coppia che faceva 60 anni di matrimonio. Sempre tu incontri cose nuove, cose nuove che ti aiutano ad andare avanti.
Poi, un’altra cosa: ho avuto un’esperienza di dialogo con gli anziani, per caso, da ragazzo. Mi piaceva ascoltarli. Una nostra vicina era amante dell’opera, e io da adolescente, 16/17 anni, la accompagnavo all’opera, sì, nel “pollaio” [il loggione], dove era meno costoso… Poi, le mie due nonne, io parlavo tanto con loro: ero curioso della loro vita, mi colpivano. Una cosa che ricordo tanto degli anziani è una signora che veniva a casa ad aiutare mamma a lavare: era una siciliana, immigrata, che aveva due figli; aveva vissuto la guerra, la seconda guerra, e poi se n’era andata con i figli; e lei raccontava storie di guerra, e ho imparato tanto dal dolore di quella gente, cosa significa lasciare il Paese, al punto che questa donna io l’ho accompagnata fino alla morte, a 90 anni. E una volta che c’è stato un distacco, per un atto mio di egoismo l’ho persa di vista, ho sofferto tanto per non trovarla.
E’ stata una bella esperienza, con gli anziani, non mi spaventavano. Stavo sempre con i giovani, ma… E con queste esperienze ho capito la capacità di sognare che hanno gli anziani, perché c’è sempre un consiglio: “Vai così, fai questo…, ti racconto questo, non dimenticarti di questo…”. Un consiglio non imperativo, ma aperto, e con tenerezza. E questi consigli mi davano un po’ il senso della storia e dell’appartenenza. La nostra identità non è la carta d’identità che abbiamo: la nostra identità ha delle radici, e ascoltando gli anziani noi troviamo le nostre radici, come l’albero, che ha le proprie radici per crescere, fiorire, dare frutto. Se tu tagli le radici all’albero, non crescerà, non darà dei frutti, morirà, forse. C’è una poesia – l’ho detto tante volte – una poesia argentina di uno dei nostri grandi poeti, Bernardez, che dice: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Ma non un andare alle radici per chiudersi lì, come un conservatore chiuso, no. E’ fare – e questo l’ho sentito nell’Aula del Sinodo, uno di questi vescovi saggi lo ha detto – è fare come il tartufo – è costoso, il tartufo! –: nasce vicino alla radice, assimila tutto e poi, guarda che gioiello, il tartufo! E come fa male alle tasche, per averne uno!
Prendere la linfa dalle radici, le storie, e questo ti dà l’appartenenza a un popolo. E poi questa appartenenza è quello che ti dà l’identità. Se mi dici: perché oggi ci sono tanti giovani “liquidi”?, in questa liquidità culturale che è alla moda, che tu non sai se sono “liquidi” o “gassosi”… Non è colpa loro! E’ colpa di questo staccarsi dalle radici della storia. Ma non si tratta di essere come loro [gli anziani], ma di prendere il succo, come il tartufo, e crescere e andare avanti con la storia. Identità, appartenenza a un popolo.
E un’altra esperienza che ho avuto, già come prete e come vescovo, è quella che fanno i giovani quando vanno a fare visita in una casa di riposo. A Buenos Aires, una piccola esperienza. [I ragazzi dicevano:] “Andiamo là? Ma è noioso, con i vecchi!”. Questa era la prima reazione. Poi vanno, con la chitarra, incominciano… e gli anziani incominciano a svegliarsi, e alla fine sono i giovani che non vogliono più uscire! Continuano a suonare e a suonare perché si crea questo legame.
E infine, la figura biblica: quando Maria e Giuseppe portano il Bambino al Tempio, sono due anziani a riceverli. Quell’uomo saggio [Simeone] che ha sognato tutta la vita di incontrare, di vedere il Liberatore, il Salvatore. E canta quella liturgia, inventa una liturgia di lode a Dio. E quell’anziana [Anna] che stava nel Tempio, con la stessa speranza, e fa la chiacchierona e va dappertutto a dire: “E’ questo, è questo…”, sa trasmettere quello che ha scoperto nell’incontro con Gesù. Quell’immagine dei due vecchi. La Bibbia ripete che sono spinti dallo Spirito. E dice che i giovani, Maria e Giuseppe, con Gesù, vogliono osservare la Legge del Signore. E’ un’immagine molto bella del dialogo e della ricchezza che si dà in questo, che è ricchezza di appartenenza e di identità. Non so se ti ho risposto…
Delia Gallagher:
Bene. Santo Padre, l’ultima domanda viene dagli Stati Uniti, dal signor Martin Scorsese, noto regista, produttore, sceneggiatore; il suo film più recente è Silence, che è la storia di un gesuita missionario in Giappone.
Martin Scorsese — Stati Uniti, 75 anni.
[in inglese] Santo Padre, è da molto che faccio film, ma sono cresciuto nella classe lavoratrice, nei quartieri periferici di New York. Lì c’è una chiesa, la cattedrale di San Patrizio: è la prima cattedrale cattolica di New York. Ho passato tanto tempo in quella chiesa. Ma fuori da quella chiesa, le cose erano molto diverse: c’era la povertà, la violenza… Da bambino ho capito che le sofferenze che vedevo non erano in televisione o nei film: erano proprio lì, davanti ai miei occhi, erano reali. Ho capito che nella strada c’era una verità e che in chiesa c’era un’altra verità che veniva presentata e che non erano, o non sembravano essere uguali. E’ stato molto, veramente molto difficile metterle insieme, riconciliare questi due mondi. L’amore di Gesù sembrava essere una cosa completamente “a parte”, estranea, aliena, spesso, rispetto a quello che vedevo accadere in strada. Sono stato fortunato perché ho avuto genitori buoni che mi hanno amato e un sacerdote giovane, straordinario, che è diventato una specie di mentore per me e per altri, negli anni della formazione. Però, anche oggi, guardandoci intorno – giornali, televisione – sembra che il mondo sia segnato dal male. Oggi le persone fanno tanta fatica a cambiare, a credere nel futuro. Non si crede più nel bene. Assistiamo anche ai penosi fallimenti umani nella stessa istituzione della Chiesa. Come possiamo noi persone anziane rafforzare e guidare i giovani nelle esperienze che loro dovranno affrontare nella vita? Come, Santo Padre, può sopravvivere la fede di un giovane uomo o di una giovane donna in questo uragano? Come possiamo aiutare la Chiesa in questo sforzo? In che modo oggi un essere umano può vivere una vita buona e giusta in una società dove ciò che spinge ad agire sono avidità e vanità, dove il potere si esprime con violenza? Come faccio a vivere bene quando faccio esperienza del male?
Papa Francesco:
“Come, in che modo la fede di una giovane donna o di un giovane uomo può sopravvivere a questo uragano? Come possiamo aiutare la Chiesa in questo sforzo?”. E’ la domanda. E’ un uragano, davvero. Anche quando noi eravamo bambini si manifestava un fenomeno che sempre c’è stato, ma non così forte… Oggi si vede più chiaramente quello che la crudeltà può fare in un bambino… Il problema della crudeltà: come si agisce rispetto alla crudeltà? Crudeltà dappertutto. Crudeltà fredda nei calcoli per rovinare l’altro… E una delle forme di crudeltà che mi colpisce, in questo mondo dei diritti umani, è la tortura. In questo mondo, la tortura è pane quotidiano, e sembra normale, e nessuno parla. La tortura è la distruzione della dignità umana. Una volta, seguivo i genitori giovani, e ho parlato di come correggere i bambini, come punirli: a volte serve la “filosofia pratica” dello schiaffo, uno schiaffetto, ma mai in faccia, mai, perché questo toglie la dignità. Voi sapete dove darlo – dicevo ai genitori –, ma mai in faccia. E la tortura è come uno schiaffo in faccia, è giocare con la dignità delle persone. La violenza. La violenza per sopravvivere, la violenza in certi quartieri dove se tu non rubi non mangi. E questo è parte della nostra cultura, che noi non possiamo negare, perché è la verità e dobbiamo riconoscerla.
Ma lascio la domanda: come agire rispetto alla crudeltà? La grande crudeltà – ho parlato della tortura – e la piccola crudeltà che c’è tra noi? Come insegnare, come trasmettere ai giovani che la crudeltà è una strada sbagliata, una strada che uccide, non solo la persona, anche l’umanità, il senso di appartenenza, la comunità? E qui, c’è una parola che dobbiamo dire: la saggezza del piangere, il dono del piangere. Davanti a queste violenze, a questa crudeltà, a questa distruzione della dignità umana, il pianto è umano e cristiano. Chiedere la grazia delle lacrime, perché il pianto ammorbidisce il cuore, apre il cuore. E’ fonte di ispirazione, piangere. Gesù, nei momenti più sentiti della sua vita, ha pianto. Nel momento in cui Lui ha visto il fallimento del suo popolo, ha pianto su Gerusalemme. Piangere. Non abbiate paura di piangere per queste cose: siamo umani.
Poi, condividere l’esperienza, e torno a parlare del dialetto e dell’empatia. Condividere l’esperienza con empatia, con i giovani: non si può avere una conversazione con un giovane senza empatia. Dove trovo questa empatia? Non condannare i giovani, come i giovani non devono condannare gli anziani, ma avere l’empatia: l’empatia umana. Io me ne vado perché sono vecchio, ma tu rimarrai, e questa è l’empatia della trasmissione dei valori.
E poi, la vicinanza. La vicinanza fa miracoli. La nonviolenza, la mitezza, la tenerezza: queste virtù umane che sembrano piccole ma sono capaci di superare i conflitti più difficili, più brutti. Vicinanza, come Lei forse da bambino si è avvicinato a questa gente con tante sofferenze, e forse da lì ha incominciato a prendere la saggezza che oggi ci fa vedere nei Suoi film. Vicinanza a coloro che soffrono. Non avere paura. Vicinanza ai problemi. E vicinanza tra giovani e anziani. Sono poche cose: mitezza, tenerezza, vicinanza. E così si trasmette un’esperienza e si fa maturare. I giovani, noi stessi e l’umanità.
Ringrazio per tutte queste domande e per questa vostra riflessione, che mi ha fatto parlare un po’ troppo! Grazie per il vostro lavoro, grazie a voi giovani sinodali e grazie a voi anziani. Vi chiedo di pregare per me. Grazie.
[01682-IT.01]
[B0779-XX.02]