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Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Lituania, Lettonia ed Estonia (22 – 25 settembre 2018) – Santa Messa nel parco Sàntakos di Kaunas, 23.09.2018


Santa Messa nel parco Sàntakos di Kaunas

Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione di lavoro in lingua lituana

Questa mattina, lasciata la Nunziatura Apostolica di Vilnius, il Santo Padre Francesco si è trasferito in auto al parco Sàntakos di Kaunas. Al suo arrivo, dopo alcuni giri in papamobile tra i fedeli, il Papa è stato accolto dal parroco della chiesa di San Giorgio.

Quindi, alle ore 10 locali (9.00 ora di Roma) il Santo Padre ha presieduto la Santa Messa nel parco Sàntakos di Kaunas.

Dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa ha pronunciato l’Omelia.

Al termine della Celebrazione Eucaristica, prima della benedizione finale, S.E. Mons Lionginas Virbalas, S.I., Arcivescovo di Kaunas, ha rivolto al Santo Padre il suo saluto.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Vangelo:

Omelia del Santo Padre

San Marco dedica tutta una parte del suo Vangelo all’insegnamento rivolto ai discepoli. È come se Gesù, a metà del cammino verso Gerusalemme, volesse che i suoi rinnovassero la loro scelta, sapendo che questa sequela avrebbe comportato momenti di prova e di dolore. L’evangelista racconta quel periodo della vita di Gesù ricordando che in tre occasioni Egli ha annunciato la sua passione; essi per tre volte hanno espresso il loro sconcerto e la loro resistenza, e il Signore in tutte e tre le occasioni ha voluto lasciare loro un insegnamento. Abbiamo appena ascoltato la seconda di queste tre sequenze (cfr Mc 9,30-37).

La vita cristiana attraversa sempre momenti di croce, e talvolta sembrano interminabili. Le generazioni passate avranno avuto impresso a fuoco il tempo dell’occupazione, l’angoscia di quelli che venivano deportati, l’incertezza per quelli che non tornavano, la vergogna della delazione, del tradimento. Il Libro della Sapienza ci parla del giusto perseguitato, di colui che subisce oltraggi e tormenti per il solo fatto di essere buono (cfr 2,10-20). Quanti di voi potrebbero raccontare in prima persona, o nella storia di qualche parente, questo stesso passo che abbiamo letto. Quanti di voi hanno visto anche vacillare la loro fede perché non è apparso Dio per difendervi; perché il fatto di rimanere fedeli non è bastato perché Egli intervenisse nella vostra storia. Kaunas conosce questa realtà; la Lituania intera lo può testimoniare con un brivido al solo nominare la Siberia, o i ghetti di Vilnius e di Kaunas, tra gli altri; e può dire all’unisono con l’apostolo Giacomo, nel brano della sua Lettera che abbiamo ascoltato: bramano, uccidono, invidiano, combattono e fanno guerra (cfr 4,2).

Ma i discepoli non volevano che Gesù parlasse loro di dolore e di croce; non vogliono sapere nulla di prove e di angosce. E San Marco ricorda che erano interessati ad altre cose, che tornavano a casa discutendo su chi fosse il più grande. Fratelli, il desiderio di potere e di gloria è il modo più comune di comportarsi di coloro che non riescono a guarire la memoria della loro storia e, forse proprio per questo, non accettano nemmeno di impegnarsi nel lavoro del presente. E allora si discute su chi ha brillato di più, chi è stato più puro nel passato, chi ha più diritto ad avere privilegi rispetto agli altri. E così neghiamo la nostra storia, «che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 96). È un atteggiamento sterile e vano, che rinuncia a coinvolgersi nella costruzione del presente perdendo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Non possiamo essere come quegli “esperti” spirituali, che giudicano solo dall’esterno e passano tutto il tempo a parlare di “quello che si dovrebbe fare” (cfr ibid.).

Gesù, sapendo quello che pensavano, propone loro un antidoto a queste lotte di potere e al rifiuto del sacrificio; e, per dare solennità a quello che sta per dire, si siede come un Maestro, li chiama, e compie un gesto: mette un bambino al centro; un ragazzino che di solito si guadagnava gli spiccioli facendo le commissioni che nessuno voleva fare. Chi metterà in mezzo oggi, qui, in questa mattina di domenica? Chi saranno i più piccoli, i più poveri tra noi, che dobbiamo accogliere a cent’anni della nostra indipendenza? Chi è che non ha nulla per ricambiarci, per rendere gratificanti i nostri sforzi e le nostre rinunce? Forse sono le minoranze etniche della nostra città, o quei disoccupati che sono costretti a emigrare. Forse sono gli anziani soli, o i giovani che non trovano un senso nella vita perché hanno perso le loro radici. “In mezzo” significa equidistante, in modo che nessuno possa fingere di non vedere, nessuno possa sostenere che “è responsabilità di altri”, perché “io non ho visto” o “sono troppo lontano”. Senza protagonismi, senza voler essere applauditi o i primi.

Là, nella città di Vilnius, è toccato al fiume Vilnia offrire le sue acque e perdere il nome rispetto al Neris; qui, è lo stesso Neris che perde il nome offrendo le sue acque al Nemunas. Di questo si tratta: di essere una Chiesa “in uscita”, di non aver paura di uscire e spenderci anche quando sembra che ci dissolviamo, di perderci dietro i più piccoli, i dimenticati, quelli che vivono nelle periferie esistenziali. Ma sapendo che quell’uscire comporterà anche in certi casi un fermare il passo, mettere da parte le ansie e le urgenze, per saper guardare negli occhi, ascoltare e accompagnare chi è rimasto sul bordo della strada. A volte bisognerà comportarsi come il padre del figlio prodigo, che rimane sulla porta aspettando il suo ritorno, per aprirgli appena arriva (cfr ibid., 46); oppure come i discepoli, che devono imparare che, quando si accoglie un piccolo, è lo stesso Gesù che si accoglie.

Perché per questo oggi siamo qui, ansiosi di accogliere Gesù nella sua parola, nell’Eucaristia, nei piccoli. Accoglierlo affinché Egli riconcili la nostra memoria e ci accompagni in un presente che continui ad appassionarci per le sue sfide, per i segni che ci lascia; affinché lo seguiamo come discepoli, perché non c’è nulla di veramente umano che non abbia risonanza nel cuore dei discepoli di Cristo, e così sentiamo come nostre le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e dei sofferenti (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1). Per questo, e perché come comunità ci sentiamo veramente e intimamente solidali con l’umanità – di questa città e di tutta la Lituania – e con la sua storia (cfr ibid.), vogliamo donare la vita nel servizio e nella gioia, e così far sapere a tutti che Gesù Cristo è la nostra unica speranza.

[01433-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Saint Marc consacre toute une partie de son Evangile à l’enseignement adressé aux disciples. C’est comme si Jésus, à mi-chemin vers Jérusalem, avait voulu que les siens renouvellent leur choix, sachant que se mettre à sa suite comporterait des moments d’épreuve et de souffrance. L’évangéliste raconte cette période de la vie de Jésus en rappelant qu’en trois occasions, il a annoncé sa passion; eux par trois fois ont exprimé leur désarroi et leur résistance, et le Seigneur à chacune des trois occasions a voulu leur laisser un enseignement. Nous venons d’écouter la seconde de ces trois séquences (cf. Mc 9, 30-37).

La vie chrétienne traverse toujours des moments de croix, et parfois ils semblent interminables. Les générations passées ont été marquées par le temps de l’occupation, l’angoisse de ceux qui étaient déportés, l’incertitude pour ceux qui ne revenaient pas, la honte de la délation, de la trahison. Le Livre de la Sagesse nous parle du juste persécuté, de celui qui subit des outrages et des tourments pour le seul fait d’être bon (cf. 2, 10-20). Combien parmi vous pourraient raconter en première personne ou dans l’histoire d’un parent, ce même passage que nous avons lu. Combien parmi vous ont vu aussi vaciller leur foi parce que Dieu n’est pas apparu pour vous défendre; parce que le fait de rester fidèles n’a pas suffi pour qu’il intervienne dans votre histoire. Kaunas connaît cette réalité; la Lituanie entière peut en témoigner avec un frisson au seul fait de nommer la Sibérie, ou les ghettos de Vilnius et de Kaunas, entre autres ; et on peut dire à l’unisson avec l’apôtre Jacques, dans l’extrait de sa Lettre que nous avons entendu: ils convoitent, ils tuent, ils envient, ils combattent et ils font la guerre (cf. 4, 2).

Mais les disciples ne veulent pas que Jésus leur parle de souffrance et de croix; ils ne veulent pas entendre parler des épreuves et des angoisses. Et saint Marc rappelle qu’ils étaient intéressés par d’autres choses, qu’ils revenaient à la maison en discutant sur qui était le plus grand. Frères, le désir de pouvoir et de gloire est la manière la plus commune de se comporter pour ceux qui ne réussissent pas à guérir la mémoire de leur histoire, peut-être justement pour cela, ils n’acceptent même pas de s’investir dans le travail présent. Et alors on discute sur celui qui a davantage brillé, qui a été plus pur dans le passé, qui a le plus le droit d’avoir des privilèges par rapport aux autres. Et ainsi, nous nions notre histoire, «qui est glorieuse en tant qu’elle est histoire de sacrifices, d’espérance, de lutte quotidienne, de vie dépensée dans le service, de constance dans le travail pénible» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 96). C’est une attitude stérile et vaine, qui renonce à s’impliquer dans la construction du présent en perdant le contact avec la réalité douloureuse de notre peuple fidèle. Nous ne pouvons pas être comme ces “experts” spirituels, qui jugent seulement de l’extérieur et passent tout leur temps à parler de “ce qu’on devrait faire” (cf. ibid).

Jésus, sachant ce qu’ils pensaient, leur propose un antidote à cette lutte de pouvoir et au refus du sacrifice; et, pour solenniser ce qu’il va dire, il s’assied comme un Maître, les appelle, et accomplit un geste: il met un enfant au centre; un jeune adolescent qui d’habitude gagnait un peu d’argent en faisant les commissions que personne ne voulait faire. Qui mettra-t-on au milieu aujourd’hui, ici, en ce dimanche matin ? Qui seront les plus petits, les plus pauvres parmi nous que nous devons accueillir à cent années de notre indépendance? Qui n’a rien à nous donner en échange, pour rendre gratifiants nos efforts et nos renoncements? Ce sont peut-être les minorités ethniques de notre ville, ou ces chômeurs qui sont contraints d’émigrer. Ce sont peut-être des personnes âgées seules, ou des jeunes qui ne trouvent pas un sens à leur vie parce qu’ils ont perdu leurs racines. “Au milieu” signifie à égale distance, de manière que personne ne puisse feindre de ne pas voir, que personne ne puisse soutenir que “c’est la responsabilité des autres”, parce que “je n’ai pas vu” ou que “je suis trop loin”. Sans protagonismes, sans vouloir être applaudi ou les premiers. Là, dans la ville de Vilnius, il est revenu au fleuve Vilnia d’offrir ses eaux et de perdre son nom par rapport à Neris; ici, c’est le même Neris qui perd son nom en offrant ses eaux au Niémen. Il s’agit de cela: être une Eglise “en sortie”, de ne pas avoir peur de sortir et de se dépenser aussi quand il semble que nous nous anéantissons, de nous perdre derrière les plus petits, les oubliés, ceux qui vivent dans les périphéries existentielles. Mais en sachant que cette sortie comportera aussi dans certains cas le fait d’arrêter le pas, de mettre de côté les inquiétudes et les urgences pour savoir regarder dans les yeux, écouter et accompagner celui qui est resté sur le bord du chemin. Parfois, il faudra se comporter comme le père du fils prodigue, qui reste sur la porte attendant son retour, pour lui ouvrir dès qu’il arrive (cf. ibid n. 46); ou bien comme les disciples, qui doivent apprendre que, lorsqu’on accueille un petit, c’est Jésus lui-même qu’on accueille.

C’est pourquoi aujourd’hui nous sommes là, impatients d’accueillir Jésus: dans sa parole, dans l’Eucharistie, dans les petits. L’accueillir afin qu’il réconcilie notre mémoire et nous accompagne dans un présent qui continue à nous passionner par ses défis, par les signes qu’il nous laisse; afin que nous le suivions comme des disciples, parce qu’il n’est rien de vraiment humain qui ne trouve de résonance dans le cœur des disciples du Christ, et ainsi nous éprouvons comme nôtres les joies et les espoirs, les tristesses et les angoisses des hommes de ce temps, des pauvres surtout et de ceux qui souffrent (cf. Conc. Œcum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, n. 1). Pour cela, et parce que, comme communauté nous nous sentons intimement solidaires de l’humanité – de cette ville et de toute la Lituanie – et de son histoire (cf. ibid.), nous voulons donner notre vie dans le service et dans la joie, et ainsi faire savoir à tous que Jésus Christ est notre unique espérance.

[01433-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Saint Mark devotes an entire section of his Gospel to the instruction of the Lord’s disciples. It would seem that Jesus, at the halfway point of his journey to Jerusalem, wanted them to renew their choice to follow him, knowing that it would entail moments of trial and grief. The Evangelist describes this period of Jesus’ life by mentioning that on three occasions he announced his passion. All three times, the disciples expressed bewilderment and opposition, and on each of these occasions the Lord wished to leave them a teaching. We have just heard about the second of these three occasions (cf. Mk 9:30-37).

The Christian life always involves experiences of the cross; at times they can seem interminable. Earlier generations still bear the scars of the period of the occupation, anguish at those who were deported, uncertainty about those who never returned, shame for those who were informers and traitors. The Book of Wisdom speaks to us of the just who are persecuted, who suffer insult and punishment solely for their goodness (cf. Wis 2:10-12). How many of you can identify at first hand, or in the history of some family member, with that passage which we just read? How many of you have also felt your faith shaken because God did not appear to take your side? Because the fact of your remaining faithful was not enough for him to intervene in your history? Kaunas knows about this; Lithuania as a whole can testify to it, still shuddering at the mention of Siberia, or the ghettos of Vilnius and Kaunas, among others. You can repeat the words of condemnation uttered by the apostle James in the passage of his Letter that we heard: they covet, they murder, they engage in disputes and conflicts (cf. 4:2).

The disciples did not want Jesus to speak to them of sorrows and the cross; they wanted nothing to do with trials and hardships. Saint Mark tells us that they were interested in other things, that on the way home they discussed who was the greatest among them. Brothers and sisters: the thirst for power and glory is the sign of those who fail to heal the memories of the past and, perhaps for that very reason, to take an active part in the tasks of the present. They would rather discuss who was better, who acted with greater integrity in the past, who has more right to privileges than others. In this way, we deny our own history, “which is glorious precisely because it is a history of sacrifice, of hopes and daily struggles, of lives spent in service and fidelity to work, tiring as it may be” (Evangelii Gaudium, 96). It is a fruitless and vain attitude that refuses to get involved in building the present, since it has lost contact with the struggles of our faithful people. We cannot be like those spiritual “sages” who only judge from afar and chatter constantly about “what ought to be done” (cf. ibid.).

Jesus, knowing what the disciples were discussing, provided them with an antidote to their struggles for power and their rejection of sacrifice. And to make his teaching all the more solemn, he sat down, as a teacher would, summoned them and set a child in their midst; the kind of child that would earn a penny for doing chores no one else would care to do. Whom would Jesus place in our midst today, here, on this Sunday morning? Who will be the smallest, the poorest in our midst, whom we should welcome a hundred years after our independence? Who is it that has nothing to give us, to make our effort and our sacrifices worthwhile? Perhaps it is the ethnic minorities of our city. Or the jobless who have to emigrate. May be it is the elderly and the lonely, or those young people who find no meaning in life because they have lost their roots.

“In their midst” means at the same distance from everybody, so that no one can claim not to notice, no one can argue that it is “somebody else’s responsibility” because “I didn’t see him”, or “I am further away”. And without anyone drawing attention to oneself, wanting to be applauded or singled out for praise.

There, in the city of Vilnius, the river Vilnia brought its waters and lost its name to the Neris; here, the Neris itself loses its name bringing its waters to the Neman. This reminds us of what it means to be a Church on the move, unafraid to go out and get involved, even when it might seem that we pour ourselves out, lose ourselves, in going forth to the weak, the neglected, those dwelling at the margins of life. Yet also knowing that to go forth also means to halt at times, to set aside our worries and cares, and to notice, to listen to and to accompany those left on the roadside. At times, it will mean acting like the father of the prodigal son, who waited at the door for his return, to fling it open as soon as he arrived (cf. ibid, 46). At other times, like the disciples, we will need to learn that in welcoming a little child, we welcome Jesus himself.

That is why we are here today. We want to welcome Jesus, in his word, in the Eucharist, in his little ones. To welcome him so that he can heal our memory and accompany us in this present time that presents us with exciting challenges and signposts, so that we can follow him as his disciples. For there is nothing truly human that does not find an echo in the heart of Christ’s disciples. We feel as our own the joys and the hopes, the sorrows and the afflictions of the people of our time, particularly the poor and the suffering (cf. SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Gaudium et Spes, 1). For this reason, and because as a community we feel true and profound solidarity with all humanity – here in this city and throughout Lithuania - and its history (cf. ibid.), we wish to spend our lives in joyful service, and thus to make known to all that Jesus Christ is our one hope.

[01433-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Der heilige Markus widmet einen ganzen Abschnitt seines Evangeliums der Unterweisung der Jünger. Es scheint als wolle Jesus, dass die Seinen, auf halbem Weg nach Jerusalem, noch einmal ihre Entscheidung erneuern, in dem Wissen, dass ihre Nachfolge auch eine Zeit der Prüfung und des Leids sein werde. Der Evangelist erzählt von dieser Zeit im Leben Jesu und erinnert daran, dass dieser dreimal sein Leiden ankündete; dreimal brachten die Jünger ihre Verwirrung und ihren Widerstand zum Ausdruck und bei allen drei Gelegenheiten wollte der Herr ihnen eine Lehre erteilen. Wir haben gerade den zweiten dieser drei Abschnitte gehört (vgl. Mk 9,30-37).

Das christliche Leben geht immer auch durch Momente des Kreuzes, und manchmal erscheinen sie endlos. Die früheren Generationen werden die Zeit der Besatzung noch schmerzlich erinnern, die Angst derer, die deportiert wurden, die Ungewissheit bezüglich derer, die nicht zurückgekehrt sind, die Schande der Denunziation und des Verrats. Das Buch der Weisheit spricht vom verfolgten Gerechten, der allein deswegen Schmähungen und Qualen erleidet, weil er gut ist (vgl. 2,10-20). Wie viele von euch könnten diesen Abschnitt, den wir gelesen haben, in der ersten Person erzählen oder in der Lebensgeschichte eines Verwandten wiederfinden. Wie viele von euch sind auch in ihrem Glauben ins Wanken geraten, weil Gott nicht erschien, um euch zu verteidigen; denn die Tatsache, dass ihr treu bliebt, reichte nicht, dass er in den Lauf eurer Geschichte eingegriffen hätte. Kaunas weiß davon; ganz Litauen kann das mit einem Schaudern bezeugen, wenn etwa Sibirien oder die Ghettos von Vilnius und Kaunas neben anderen auch nur erwähnt werden; und mit den Worten dieses Abschnitts aus dem Brief des Apostels Jakobus, den wir eben gehört haben, kann dieses Volk sagen: sie begehren, töten, morden, sind eifersüchtig, streiten und führen Krieg (vgl. 4,2).

Aber die Jünger wollten nicht, dass Jesus mit ihnen über Leid und Kreuz spricht, sie wollen nichts von Prüfungen und Qualen wissen. Und der heilige Markus erinnert daran, dass sie an anderen Dingen interessiert waren, dass sie nach Hause kamen und darüber stritten, wer von ihnen der Größte sei. Brüder und Schwestern, das Verlangen nach Macht und Ruhm ist die häufigste Verhaltensweise derer, die die Erinnerung an ihre Geschichte nicht verarbeiten und vielleicht gerade deshalb auch nicht bereit sind, sich für die Aufgaben der Gegenwart zu engagieren. Und so diskutiert man darüber, wer brillanter war, wer in der Vergangenheit makelloser war, wer mehr Anspruch auf Privilegien hat als die anderen. Und so verleugnen wir unsere Geschichte, »die ruhmreich ist, insofern sie eine Geschichte der Opfer, der Hoffnung, des täglichen Ringens, des im Dienst aufgeriebenen Lebens, der Beständigkeit in mühevoller Arbeit ist« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 96). Es ist eine unfruchtbare und eitle Haltung, die sich einer Beteiligung am Aufbau der Gegenwart verweigert, und so den Kontakt zur durchlittenen Wirklichkeit unseres gläubigen Volkes verliert. Wir dürfen nicht wie jene spirituellen „Experten” sein, die nur von außen urteilen und ständig darüber reden, „was man tun müsste“ (vgl. ebd.).

Jesus, der wusste, was die Jünger dachten, reicht ihnen ein Gegenmittel gegen diese Machtkämpfe und gegen die Ablehnung des Opfers; und um dem, was er sagen wollte, eine gewisse Feierlichkeit zu verleihen, setzte er sich wie ein Lehrer, rief sie herbei und vollzog eine Zeichenhandlung: Er stellte ein Kind in die Mitte; ein kleines Kind, das üblicherweise für ein Trinkgeld lästige Aufgaben übernahm, die sonst niemand machen wollte. Wen würde er heute, hier, an diesem Sonntagmorgen, in die Mitte stellen? Wer sind heute die Geringsten, die Ärmsten von uns, derer wir uns heute, hundert Jahre nach der Unabhängigkeit, annehmen sollen? Wer hat uns nichts zurückzugeben, so dass unsere Anstrengungen und unser Verzicht lohnend wären? Vielleicht sind es die ethnischen Minderheiten unserer Stadt oder die Arbeitslosen, die gezwungen sind auszuwandern. Vielleicht sind es die einsamen älteren Mitmenschen oder die jungen Leute, die keinen Sinn im Leben sehen, weil sie ihre Wurzeln verloren haben. „In die Mitte“ bedeutet: von allen gleich weit entfernt; damit kann niemand so tun, als hätte er nichts bemerkt, damit kann niemand behaupten, dies fiele in die „Verantwortung eines anderen“, weil „ich es nicht gesehen habe“ oder weil „ich zu weit weg“ war. Ohne Geltungsdrang, ohne Verlangen nach Beifall, ohne zu den Ersten gehören zu wollen.

Dort, in der Stadt Vilnius, war es der Fluss Vilnia, der herbeiströmte und seinen Namen an die Neris verlor; hier ist es nun die Neris, die ihren Namen verliert und ihre Wasser der Memel überlässt. Darum geht es: eine Kirche „auf dem Weg nach draußen“ zu sein, keine Angst davor zu haben, hinauszugehen und sich selbst hinzugeben, auch wenn es scheint, dass wir uns auflösen, dass wir uns an die Geringsten verlieren, an diejenigen, die in den existentiellen Randbereichen leben. Und dabei wissen wir, dass ein solches Hinausgehen in bestimmten Fällen auch ein Innehalten bedeutet, ein Ablegen von Ängsten und Dringlichkeiten, um in der Lage zu sein, den anderen in die Augen zu schauen, ihnen zuzuhören und die zu begleiten, die am Wegesrand liegen geblieben sind. Manchmal wird es notwendig sein, sich wie der Vater des verlorenen Sohnes zu verhalten, der an der Tür bleibt und auf die Rückkehr seines Sohnes wartet, um ihm die Tür zu öffnen, sobald er ankommt (vgl. ebd., 46), oder auch wie die Jünger, die lernen müssen, dass man Jesus selbst aufnimmt, wenn man sich um einen dieser Geringen kümmert.

Deshalb sind wir heute hier, um Jesus zu empfangen: in seinem Wort, in der Eucharistie, in den Kleinen. Wir wollen ihn aufnehmen, damit er uns unser Gedächtnis wiedergebe und uns in einer Gegenwart begleite, die uns weiterhin mit ihren Herausforderungen und den Zeichen, die sie uns gibt, begleitet; damit wir ihm als Jünger folgen, denn es gibt nichts wahrhaft Menschliches, das nicht in den Herzen der Jünger Christi seinen Widerhall fände, und so machen wir uns die Freude und Hoffnung, die Trauer und die Angst der Menschen unserer Zeit zu eigen, besonders die der Armen und Bedrängten (vgl. Zweites Vatikanisches Konzil, Pastoralkonstitution Gaudium et spes, 1). Aus diesem Grund und weil wir uns als Gemeinschaft wirklich engstens mit der Menschheit verbunden erfahren (vgl. ebd.) – mit den Menschen dieser Stadt und ganz Litauens –, wollen wir unser Leben im Dienst und in der Freude hingeben und damit allen zeigen, dass Jesus Christus unsere einzige Hoffnung ist.

[01433-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

San Marcos dedica toda una parte de su evangelio a la enseñanza de los discípulos. Pareciera que Jesús, a mitad de camino hacia Jerusalén, quiso que los suyos volvieran a elegir sabiendo que ese seguimiento suponía momentos de prueba y de dolor. El evangelista relata ese período de la vida de Jesús recordando que en tres ocasiones él anunció su pasión; ellos expresaron tres veces su desconcierto y resistencia, y el Señor en las tres oportunidades quiso dejarles una enseñanza. Nosotros acabamos de escuchar la segunda de esas tres secuencias (cf. Mc 9,30-37).

La vida cristiana siempre pasa por momentos de cruz, y a veces parecen interminables. Las generaciones pasadas habrán dejado grabado a fuego el tiempo de la ocupación, la angustia de los que eran llevados, la incertidumbre de los que no volvían, la vergüenza de la delación, de la traición. El libro de la Sabiduría nos habla acerca del justo perseguido, aquel que sufre ultrajes y tormentos por el solo hecho de ser bueno (cf. 2,10-20). Cuántos de vosotros podríais relatar en primera persona, o en la historia de algún familiar, este mismo pasaje que hemos leído. Cuántos también habéis visto tambalear vuestra fe porque no apareció Dios para defenderos; porque el hecho de permanecer fieles no bastó para que él interviniera en vuestra historia. Kaunas sabe de esto; Lituania entera lo puede testimoniar con un escalofrío ante la sola mención de Siberia, o los guetos de Vilna y de Kaunas, entre otros; y puede decir al unísono con el apóstol Santiago, en el fragmento de su carta que hemos escuchado: ambicionan, matan, envidian, combaten y hacen la guerra (cf. 4,2).

Pero los discípulos no querían que Jesús les hablase de dolor y cruz, no quieren saber nada de pruebas y angustias. Y san Marcos recuerda que se interesaban por otras cosas, que volvían a casa discutiendo quién era el mayor. Hermanos: el afán de poder y de gloria constituye el modo más común de comportarse de quienes no terminan de sanar la memoria de su historia y, quizás por eso mismo, tampoco aceptan esforzarse en el trabajo del presente. Y entonces se discute sobre quién brilló más, quién fue más puro en el pasado, quién tiene más derecho a tener privilegios que los otros. Y así negamos nuestra historia, «que es gloriosa por ser historia de sacrificios, de esperanza, de lucha cotidiana, de vida deshilachada en el servicio, de constancia en el trabajo que cansa» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 96). Es una actitud estéril y vanidosa, que renuncia a implicarse en la construcción del presente al perder el contacto con la realidad sufrida de nuestro pueblo fiel. No podemos ser como esos “expertos” espirituales, que solo juzgan desde afuera y se entretienen en un continuo hablar sobre “lo que habría que hacer” (cf. ibíd.).

Jesús, sabiendo lo que sentían, les propone un antídoto a estas luchas de poder y al rechazo del sacrificio; y, para darle solemnidad a lo que va a decir, se sienta como un Maestro, los llama, y realiza un gesto: pone a un niño en el centro; un niñito que generalmente se ganaba los mendrugos haciendo los mandados que nadie quería hacer. ¿A quién pondrá en el medio hoy, aquí, en esta mañana de domingo? ¿Quiénes serán los más pequeños, los más pobres entre nosotros, aquellos que tenemos que acoger a cien años de nuestra independencia? ¿Quién no tiene nada para devolvernos, para hacer gratificante nuestro esfuerzo y nuestras renuncias? Quizás son las minorías étnicas de nuestra ciudad, o aquellos desocupados que deben emigrar. Tal vez son los ancianos solos, o los jóvenes que no encuentran sentido a la vida porque perdieron sus raíces. “En medio” significa equidistante, para que nadie se pueda hacer el distraído, ninguno pueda argumentar que “es responsabilidad de otro”, porque “yo no lo vi” o “estoy más lejos”. Sin protagonismos, sin querer ser los aplaudidos o los primeros. Allá, en la ciudad de Vilna, le tocó al río Vilna aportar su caudal y perder su nombre ante el Neris; acá, es el mismo Neris el que pierde su nombre aportando su caudal al Nemunas. De eso se trata, de ser una Iglesia “en salida”, de no tener miedo a salir y entregarnos aun cuando parezca que nos disolvemos, de perder en pos de los más pequeños, de los olvidados, de aquellos que habitan en las periferias existenciales. Pero sabiendo que ese salir implicará también en ocasiones un detener el paso, dejar de lado ansiedades y urgencias, para saber mirar a los ojos, escuchar y acompañar al que se quedó al borde del camino. A veces tocará comportarse como el padre del hijo pródigo, que se queda a la puerta esperando su regreso, para abrirle apenas llegue (cf. ibíd., 46); y otras, como los discípulos que tienen que aprender que cuando se recibe a un pequeño es al mismo Jesús a quien se recibe.

Porque por eso estamos hoy acá, ansiosos de recibir a Jesús: en su palabra, en la eucaristía, en los pequeños. Recibirlo para que él reconcilie nuestra memoria y nos acompañe en un presente que nos sigue apasionando por sus desafíos, por los signos que nos deja, para que lo sigamos como discípulos, porque no hay nada verdaderamente humano que no tenga resonancia en el corazón de los discípulos de Cristo, y así sentimos como nuestros los gozos y las esperanzas, las tristezas y las angustias de los hombres de nuestro tiempo, sobre todo de los pobres y afligidos (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. ap. Gaudium et spes, 1). Por eso, y porque como comunidad nos sentimos verdadera e íntimamente solidarios del género humano —de esta ciudad y de toda Lituania— y de su historia (cf. ibíd.), queremos entregar la vida en el servicio y en la alegría, y así hacer saber a todos que Cristo Jesús es nuestra única esperanza.

[01433-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

São Marcos dedica uma parte inteira do seu Evangelho ao ensinamento dirigido aos discípulos. É como se, a meio do caminho para Jerusalém, Jesus quisesse que os seus renovassem a sua opção, sabendo que este seguimento comportaria momentos de provação e sofrimento. O evangelista narra aquele período da vida de Jesus, lembrando que Ele anunciou, em três ocasiões, a sua paixão; e eles, por três vezes, expressaram a sua perplexidade e resistência, e o Senhor quis deixar-lhes um ensinamento, em cada uma das três ocasiões. Acabamos de ouvir a segunda destas três sequências (cf. Mc 9, 30-37).

A vida cristã sempre atravessa momentos de cruz e, às vezes, parecem intermináveis. As gerações passadas viram gravar a fogo o tempo da ocupação, a angústia daqueles que eram deportados, a incerteza por aqueles que não voltavam, a vergonha da delação, da traição. O livro da Sabedoria fala-nos do justo perseguido, daquele que sofre insultos e tormentos pelo simples facto de ser bom (cf. 2, 20-20). Quantos de vós poderiam contar em primeira pessoa, ou na história de algum parente, esta mesma passagem que foi lida? Quantos de vós viram também vacilar a sua fé, porque Deus não apareceu para vos defender; porque o facto de permanecer fiéis não foi suficiente para que Ele interviesse na vossa história. Kaunas conhece esta realidade; toda a Lituânia o pode testemunhar sentindo arrepios à simples nomeação da Sibéria, ou dos guetos de Vilna e Kaunas, entre outros; e pode corroborar em uníssono com o apóstolo Tiago, na passagem da sua Carta que escutamos: cobiçam, matam, invejam, lutam e fazem guerra (cf. 4, 2).

Mas, os discípulos não queriam que Jesus lhes falasse de sofrimento e de cruz; não querem saber nada de provações e angústias. E São Marcos lembra que o interesse deles ia para outras coisas: voltavam para casa discutindo sobre qual deles seria o maior. Irmãos, o desejo de poder e glória é o modo mais comum de se comportar daqueles que não conseguem curar a memória da sua história e, talvez por isso mesmo, não aceitam sequer comprometer-se no trabalho do momento presente. E então discute-se sobre quem mais brilhou, quem foi mais puro no passado, quem possui mais direito do que os outros a ter privilégios. E assim negamos a nossa história, «que é gloriosa por ser história de sacrifícios, de esperança, de luta diária, de vida gasta no serviço, de constância no trabalho fadigoso» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 96). É uma atitude estéril e vã, que se recusa a envolver-se na construção do presente, perdendo o contacto com a dolorosa realidade do nosso povo fiel. Não podemos ser como aqueles «peritos» espirituais que se limitam a julgar de fora e passam o tempo inteiro a falar sobre «o que se deveria fazer» (cf. ibid., 96).

Sabendo Jesus o que pensavam, propõe-lhes um antídoto para estas lutas de poder e a recusa do sacrifício; e, a fim de dar solenidade ao que está para dizer, senta-Se como um Mestre, chama-os e faz um gesto: coloca uma criança no centro; um rapazinho que habitualmente ganhava alguns trocados prontificando-se para recados que ninguém queria fazer. Hoje, nesta manhã de domingo, quem colocará aqui no meio? Quem serão os mais pequenos, os mais pobres entre nós, que devemos acolher cem anos depois da nossa independência? Quem não tem nada para nos retribuir, para tornar gratificantes os nossos esforços e as nossas renúncias? Talvez sejam as minorias étnicas da nossa cidade, ou os desempregados que são forçados a emigrar. Talvez sejam os idosos abandonados ou os jovens que não encontram um sentido na vida, porque perderam as suas raízes. «No meio» significa equidistante, de modo que ninguém pode fingir que não vê, ninguém pode afirmar que «é responsabilidade de outros», porque «eu não vi» ou «estou demasiado longe». Sem protagonismos, sem querer ser aplaudidos ou os primeiros. Lá, na cidade de Vilna, tocou ao rio Vilna oferecer as suas águas e perder o nome relativamente ao Neris; aqui, é o próprio Neris que perde o nome oferecendo as suas águas ao Nemunas. É precisamente disto que se trata: ser uma Igreja «em saída», não ter medo de sair e gastar-se mesmo quando parece que nos dissolvemos, não ter medo de nos perdermos atrás dos mais pequenos, dos esquecidos, daqueles que vivem nas periferias existenciais. Mas sabendo que aquele sair implicará também em determinados casos deter o passo, colocar de lado anseios e urgências para saber olhar nos olhos, escutar e acompanhar quem ficou na beira da estrada. Às vezes, será necessário comportar-se como o pai do filho pródigo, que permanece junto da porta à espera do seu regresso, para lhe abrir logo que chegue (cf. ibid., 46); ou como os discípulos que devem aprender que, ao receber um pequenino, é o próprio Jesus que Se recebe.

Eis porque nos encontramos hoje aqui, ansiosos por receber Jesus: na sua palavra, na Eucaristia, nos pequeninos. Recebê-Lo para que Ele reconcilie a nossa memória e nos acompanhe num presente que continue a apaixonar-nos pelos seus desafios, pelos sinais que nos deixa; para que O sigamos como discípulos, porque nada há de verdadeiramente humano que não tenha ressonância no coração dos discípulos de Cristo e, assim, sentimos como nossas as alegrias e as esperanças, as tristezas e as angústias dos homens do nosso tempo, sobretudo dos pobres e dos atribulados (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, 1). E porque, como comunidade, nos sentimos verdadeira e intimamente solidários com a humanidade – desta cidade e de toda a Lituânia – e com a sua história (cf. ibid., 1), queremos doar a vida no serviço e na alegria e, assim, fazer saber a todos que Jesus Cristo é a nossa única esperança.

[01433-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Święty Marek poświęca całą część swojej Ewangelii nauczaniu skierowanemu do uczniów. To tak, jakby Jezus, w połowie drogi do Jerozolimy chciał, żeby jego uczniowie ponowili swój wybór, wiedząc, że to pójście za Nim przyniesie chwile doświadczenia i bólu. Ewangelista opisuje ten okres życia Jezusa przypominając, że trzykrotnie zapowiedział swoją mękę. Trzy razy wyrażali swoje zdumienie i sprzeciw, a Pan za każdym z tych trzech razy chciał przekazać im naukę. Właśnie usłyszeliśmy drugą z tych trzech zapowiedzi (por. Mk 9,30-37).

Życie chrześcijańskie zawsze obejmuje chwile krzyża, które czasami zdają się nie mieć końca. Minione pokolenia były naznaczone czasem okupacji, udręką tych, którzy zostali deportowani, niepewnością dla tych, którzy nie powrócili, wstydem donosicielstwa, zdrady. Księga Mądrości mówi nam o prześladowanym sprawiedliwym, o tym, kto cierpi zniewagi i męki tylko dlatego, że jest dobry (por. 2, 10-20). Iluż z was mogłoby opowiedzieć o tym samym, co usłyszeliśmy w przeczytanym fragmencie, z własnego doświadczenia lub któregoś z krewnych. Iluż z was doświadczyło zachwiania się wiary, ponieważ nie pojawił się Bóg, aby was bronić; ponieważ fakt, że wytrwaliście w wierze, nie wystarczył, aby zadziałał On w waszej historii. Kowno zna tę rzeczywistość; cała Litwa może zaświadczyć o tym z dreszczem zgrozy, na wspomnienie choćby tylko Syberii lub gett w Wilnie i Kownie czy innych. I może jednym głosem wraz z apostołem Jakubem, w usłyszanym fragmencie jego Listu, powiedzieć: pożądają, zabijają, zazdroszczą, walczą i prowadzą wojny (por. 4, 2).

Ale uczniowie nie chcieli, aby Jezus mówił im o cierpieniu i krzyżu. Nie chcieli nic wiedzieć o próbach i udręce. A św. Marek przypomina, że byli zainteresowani innymi rzeczami, o które posprzeczali się wracając do domu - kto z nich był największy. Bracia, pragnienie władzy i sławy jest najczęstszym sposobem zachowania tych, którzy nie potrafią uleczyć pamięci swej historii, a być może właśnie dlatego, nie godzą się także na zaangażowanie w pracę dnia dzisiejszego. A wówczas dyskutujemy, kto jest najbardziej błyskotliwy, kto był czystszy w przeszłości, kto ma większe prawo do posiadania przywilejów, niż inni. W ten sposób zaprzeczamy naszej historii „która jest chwalebna jako historia ofiar, nadziei, codziennej walki, życia spędzonego na służbie, wytrwałości w żmudnej pracy” (Adhort. ap. Evangelii gaudium, 96). Jest to postawa bezowocna i próżna, która rezygnuje z zaangażowania w budowanie teraźniejszości, tracąc kontakt z rzeczywistością cierpienia naszego wiernego ludu. Nie możemy być jak owi „eksperci” duchowi, którzy osądzają tylko z zewnątrz i spędzają cały czas rozmawiając o tym, co „powinno się robić” (por. tamże).

Jezus, wiedząc, co myślą, zaproponował im antidotum na te walki o władzę i niechęć do poświęceń. I aby nadać powagę temu, co zamierzał powiedzieć, usiadł jak Nauczyciel, zawołał ich i dokonał gestu: postawił w środku dziecko, chłopca, który zwykle zarabiał drobne sumy wykonując zlecenia, których nikt nie chciał wypełniać. Kogo postawi w środku dziś, tutaj, w ten niedzielny poranek? Kim będą najmniejsi, najbiedniejsi spośród nas, których winniśmy przyjąć w setną rocznicę naszej niepodległości? Kto nie ma nic do dania w zamian, żeby wynagrodzić nasze wysiłki i nasze wyrzeczenia? Może są to mniejszości etniczne naszego miasta lub bezrobotni, którzy są zmuszeni do emigracji. Może są to samotne osoby starsze lub ludzie młodzi, którzy nie znajdują sensu życia, ponieważ zatracili korzenie. „W środku”, to znaczy w takiej samej odległości, tak aby nikt nie mógł udawać, że nie widzi, nikt nie mógł twierdzić, że „jest to w gestii innych”, ponieważ „ja tego nie widziałem” lub „jestem zbyt daleko”. Bez protagonizmu, bez chęci bycia oklaskiwanymi lub pierwszymi. W Wilnie, rzece Wilejce przypadł los, by łączyć się i oddawać swoje wody oraz stracić swoją nazwę na rzecz Wilii. Tutaj z kolei ta sama Wilia traci swą nazwę, wlewając swe wody do Niemna. O to właśnie chodzi, aby być Kościołem wychodzącym, nie bać się wyjścia i poświęcenia, nawet wówczas, gdy zdaje się nam, że się rozpuścimy, zagubimy się za najmniejszymi, zapomnianymi, żyjącymi na obrzeżach egzystencjalnych. Ale wiedząc, że to wyjście oznacza także w niektórych przypadkach powstrzymanie kroku, odłożenie na bok niepokojów i naglących potrzeb, aby móc spojrzeć w oczy, wysłuchać i towarzyszyć tym, którzy pozostali na skraju drogi. Czasami musimy zachowywać się jak ojciec syna marnotrawnego, który trwa w bramie, oczekując na jego powrót, aby mu otworzyć, skoro tylko przyjdzie (por. tamże, 46); lub jak uczniowie, którzy muszą się nauczyć, że kiedy przyjmuje się kogoś maluczkiego, to przyjmuje się samego Jezusa.

Z tego powodu dzisiaj jesteśmy właśnie tutaj, pragnąc przyjąć Jezusa: w Jego słowie, w Eucharystii, w maluczkich. Przyjąć Go, aby pojednał naszą pamięć i towarzyszył nam w teraźniejszości, która wciąż pasjonuje nas swoimi wyzwaniami, znakami, jakie nam pozostawia. Abyśmy szli za Nim jako uczniowie, ponieważ nie ma nic prawdziwie ludzkiego, co nie rozbrzmiewałoby w sercach uczniów Chrystusa. W ten sposób odczujemy jako swoje radości i nadzieje, smutki i lęki ludzi naszych czasów, zwłaszcza ubogich i cierpiących (por. Sobór Watykański II, Konstytucja duszpasterska Gaudium et spes, 1). Z tego powodu i dlatego, że jako wspólnota czujemy się prawdziwie i wewnętrznie solidarni z ludzkością - tego miasta i całej Litwy – i z jej historią (por. tamże), pragniemy poświęcić swe życie służąc z radością, i w ten sposób uzmysłowić wszystkim, że Jezus Chrystus jest naszą jedyną nadzieją.

[01433-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione di lavoro in lingua lituana

Šventasis Morkus dalį savo Evangelijos mokymo skiria apaštalams. Jėzus tarsi sustoja pusiaukelėje į Jeruzalę norėdamas, kad jam priklausantieji atnaujintų savąjį pasirinkimą, pilnai suprasdami, kad ši mokinystė apima ir išbandymų, ir skausmo momentus. Evangelistas pasakoja tą Jėzaus gyvenimo periodą, primindamas, kad tris kartus Jėzus pranašavo apie savo kančią; jie gi tuos tris kartus išsakė savo sutrikimą ir pasipriešinimą, bet Viešpats visus šiuos tris kartus norėjo juos mokyti. Ką tik girdėjome antrąją iš šių trijų Jėzaus kalbą apie savo kančią (Mk 9,30-37).

Krikščionio gyvenimo kelias visuomet veda per kryžių, kuris tuo metu atrodo, kad niekada nesibaigs. Praėjusios kartos yra išgyvenusios okupacijos įkarštį, kančią tų, kurie buvo tremiami, netikrumą dėl tų, kurie negrįžo, įskundimų ir išdavystės gėdą. Išminties knyga mums kalba apie teisiojo persekiojimą, apie tą, kuris patiria užgaules ir kančias vien tik todėl, kad yra geras (plg. 2,10-20). Kiek daug iš jūsų gali papasakoti pirmuoju asmeniu arba giminėje esančiųjų istorijas apie tai ką, tik ką perskaitėme. Kiek daug iš jūsų matėte svyruojantį tikėjimą dėl to, kad Dievas neatėjo apginti jūsų; kad nepaisant ištikimybės Jam, Jis neįsikišo į jūsų istoriją. Kaunas žino, ką tai reiškia; visa Lietuva tai gali paliudyti, kai nukrečia šiurpas vien tik ištarus žodį Sibiras, arba getai Vilniuje, Kaune ir kitur; visi vienbalsiai su apaštalu Jokūbu gali sakyti, jo laiško, kurį ką tik girdėjome, žodžiais: kankina, žudo, pavydi, kovoja ir kelia karus (plg 4,2).

Tačiau mokiniai nenorėjo, kad Jėzus kalbėtų jiems apie skausmą ir kryžių; jie nieko nenori žinoti apie išbandymus ir kančias. Ir šventasis Morkus primena, kad jie buvo susirūpinę kitais reikalais, kad grįždami namo diskutavo apie tai, kuris iš jų yra didžiausias. Broliai ir seserys, valdžios ir garbės troškimas yra labai paplitęs gyvenimo stilius tų, kurie nepajėgia išgyti iš savo praeities žaizdų, ir galbūt todėl šiandien nenori įsipareigoti darbui. Todėl ir diskutuoja apie tai, kaip kas labiau sužibėjo, kieno praeitis buvo tyresnė, kas turi daugiau teisių nei kiti gauti privilegijas. Šitaip paneigiame mūsų istoriją, „kuri yra garbinga kančiomis, viltimi, kasdiene kova, tarnystei sunaudotu gyvenimu, nuolatiniu sunkiu darbu“ (Ap. Ethort. Evangelii gaudium, 96). Tai sterilus ir tuščias požiūris – dabarties kūrime neturėti kontaktų su mūsų tikinčios liaudies iškentėta realybe. Negalime būti kaip tie dvasiniai „ekspertai“, kurie vertina tik iš išorės ir visą laiką praleidžia kalbėdami apie tai, „kaip reiktų daryti“ (plg. ten pat).

Jėzus, žinodamas, ką jie galvoja, pasiūlo jiems priešnuodį šių kovų dėl valdžios ir pasiaukojimo atmetimo akivaizdoje; ir kad suteiktų iškilmingumo tam, ką nori pasakyti, atsisėda kaip Mokytojas, pašaukia juos, ir atlieka veiksmą: centre pastato vaiką; berniuką, kuris įprastai užsidirbdavo smulkiųjų atlikdamas darbus, kurių niekas nenorėjo daryti. Ką čia šiandien, šį sekmadienio rytą, Jis pastatys į centrą? Kas iš mūsų bus tie patys mažiausieji, patys vargingiausieji, kuriuos privalome priimti šimtosiose nepriklausomybės metinėse? Kas yra tie, kurie neturi nieko, kuo galėtų atsilyginti, kad atmokėtų už mūsų pastangas ir mūsų savęs apribojimą dėl kito? Galbūt tai mūsų miesto etninės mažumos arba bedarbiai, kurie yra priversti emigruoti. Galbūt tai vieniši seneliai, o gal jaunuoliai, nerandantys gyvenimo prasmės, nes yra netekę savo šaknų. „Centre“ - reiškia esantis vienodu atstumu, taip, kad nė vienas negalėtų dėtis nematąs, niekas negalėtų teigti, kad „tai kitų atsakomybė“, nes „aš nepastebėjau“ arba „esu per toli“. Dovanoti save netrokštant būti herojais, be aplodismentų, be noro būti pirmais.

Ten, Vilniaus mieste, Vilnelės upei tenka aukoti savo vandenį ir netekti vardo įtekant į Nerį; čia, Kaune, yra tas pats: Neris praranda savo vardą atiduodama vandenį Nemunui. Tai mums kalba apie tai, kad būtume „išeinanti“ Bažnyčia, nebijotume išeiti ir eikvoti save net tada, kai atrodo, kad tampame nematomi, prarasti save dėl pačių mažiausių, užmirštųjų, dėl tų, kurie gyvena egzistencijos pakraščiuose. Tačiau žinokime, kad tas išėjimas, kai kuriais atvejais reikalaus sulėtinti žingsnį, palikti nuošalėj nerimą ir skubėjimą, kad išmoktume pažvelgti į akis, išklausyti ir palydėti likusį kelkraštyje. Kartais reiks elgtis, kaip sūnaus palaidūno tėvui, kuris prie durų laukia grįžtančio, kad galėtų jas atverti, kai tik sūnus prisiartins (plg ten pat 46); arba kaip mokiniai, kuriems reikia išmokti tai, kad kai priimi mažutėlį, priimi patį Jėzų.

Tad būtent dėl to esame čia, nekantraujame priimti Jėzų Jo žodyje, Eucharistijoje, mažuosiuose. Priimti, kad Jis sutaikytų mus su mūsų praeitimi ir lydėtų mus dabartyje, kuri savo iššūkiais ir savo ženklais mus nuolat įkvepia. Kad sektume kaip mokiniai, nes visa kas žmogiška nėra svetima Kristaus mokinių širdžiai, ir tokiu būdu jaučiame, kaip tampa mūsų savastimi džiaugsmas ir viltis, liūdesys ir sielvartas, patiriami dabarties meto žmonių, ypač neturtingųjų ir visų prispaustųjų (plg II Vat. Sus. Past.Konst. Gaudium et Spes,1). Štai kodėl mes kaip bendruomenė tikrai ir giluminiai esame solidarūs su žmonija – su šio miesto ir visos Lietuvos žmonėmis – ir su jos istorija (plg ten pat), norime dovanoti gyvenimą tarnystėje ir džiaugsme, ir tokiu būdu skelbti visiems, kad Jėzus Kristus yra vienintelė mūsų viltis.

[01433-AA.02] [Testo originale: Italiano – traduzione di lavoro]

[B0679-XX.02]