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Benedizione dei Palli e Celebrazione Eucaristica nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29.06.2018


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alle ore 9.30, in Piazza San Pietro, il Santo Padre Francesco ha benedetto i Palli, presi dalla Confessione dell’Apostolo Pietro e destinati agli Arcivescovi Metropoliti nominati nel corso dell’anno. Il Pallio verrà poi imposto a ciascun Arcivescovo Metropolita dal Rappresentante Pontificio nella rispettiva Sede Metropolitana.

Dopo il rito di benedizione dei Palli, il Papa ha presieduto la Celebrazione Eucaristica con i Cardinali antichi e nuovi, con gli Arcivescovi Metropoliti e con i Vescovi Sacerdoti.

Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, era presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, inviata da Sua Beatitudine Bartolomeo e guidata da Sua Eminenza Job, Arcivescovo di Telmessos, accompagnato da Sua Grazia Theodoretos, Vescovo di Nazianzos, e dal Rev.do Alexander Koutsis, Diacono Patriarcale.

Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la lettura del Vangelo, il Santo Padre ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:

Omelia del Santo Padre

Le Letture proclamate ci permettono di prendere contatto con la tradizione apostolica, quella che «non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti» (Benedetto XVI, Catechesi, 26 aprile 2006) e ci offrono le chiavi del Regno dei cieli (cfr Mt 16,19). Tradizione perenne e sempre nuova che ravviva e rinfresca la gioia del Vangelo, e ci permette così di confessare con le nostre labbra e il nostro cuore: «“Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11).

Tutto il Vangelo vuole rispondere alla domanda che albergava nel cuore del Popolo d’Israele e che anche oggi non cessa di abitare tanti volti assetati di vita: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Domanda che Gesù riprende e pone ai suoi discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

Pietro, prendendo la parola, attribuisce a Gesù il titolo più grande con cui poteva chiamarlo: «Tu sei il Messia» (cfr Mt 16,16), cioè l’Unto, il Consacrato di Dio. Mi piace sapere che è stato il Padre ad ispirare questa risposta a Pietro, che vedeva come Gesù “ungeva” il suo popolo. Gesù, l’Unto che, di villaggio in villaggio, cammina con l’unico desiderio di salvare e sollevare chi era considerato perduto: “unge” il morto (cfr Mc 5,41-42; Lc 7,14-15), unge il malato (cfr Mc 6,13; Gc 5,14), unge le ferite (cfr Lc 10,34), unge il penitente (cfr Mt 6,17). Unge la speranza (cfr Lc 7,38.46; Gv 11,2; 12,3). In tale unzione ogni peccatore, ogni sconfitto, malato, pagano – lì dove si trovava – ha potuto sentirsi membro amato della famiglia di Dio. Con i suoi gesti, Gesù gli diceva in modo personale: tu mi appartieni. Come Pietro, anche noi possiamo confessare con le nostre labbra e il nostro cuore non solo quello che abbiamo udito, ma anche l’esperienza concreta della nostra vita: siamo stati risuscitati, curati, rinnovati, colmati di speranza dall’unzione del Santo. Ogni giogo di schiavitù è distrutto grazie alla sua unzione (cfr Is 10,27). Non ci è lecito perdere la gioia e la memoria di saperci riscattati, quella gioia che ci porta a confessare: “Tu sei il Figlio del Dio vivente” (cfr Mt 16,16).

Ed è interessante, poi, notare il seguito di questo passo del Vangelo in cui Pietro confessa la fede: «Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16,21). L’Unto di Dio porta l’amore e la misericordia del Padre fino alle estreme conseguenze. Questo amore misericordioso richiede di andare in tutti gli angoli della vita per raggiungere tutti, anche se questo costasse il “buon nome”, le comodità, la posizione… il martirio.

Davanti a questo annuncio così inatteso, Pietro reagisce: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22) e si trasforma immediatamente in pietra d’inciampo sulla strada del Messia; e credendo di difendere i diritti di Dio, senza accorgersi si trasformava in suo nemico (lo chiama “Satana”, Gesù). Contemplare la vita di Pietro e la sua confessione significa anche imparare a conoscere le tentazioni che accompagneranno la vita del discepolo. Alla maniera di Pietro, come Chiesa, saremo sempre tentati da quei “sussurri” del maligno che saranno pietra d’inciampo per la missione. E dico “sussurri” perché il demonio seduce sempre di nascosto, facendo sì che non si riconosca la sua intenzione, «si comporta come un falso nel volere restare occulto e non essere scoperto» (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 326).

Invece, partecipare all’unzione di Cristo è partecipare alla sua gloria, che è la sua Croce: Padre, glorifica il tuo Figlio… «Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). Gloria e croce in Gesù Cristo vanno insieme e non si possono separare; perché quando si abbandona la croce, anche se entriamo nello splendore abbagliante della gloria, ci inganneremo, perché quella non sarà la gloria di Dio, ma la beffa dell’avversario.

Non di rado sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Gesù tocca, Gesù tocca la miseria umana, invitando noi a stare con Lui e a toccare la carne sofferente degli altri. Confessare la fede con le nostre labbra e il nostro cuore richiede – come lo ha richiesto a Pietro – di identificare i “sussurri” del maligno. Imparare a discernere e scoprire quelle “coperture” personali e comunitarie che ci mantengono a distanza dal vivo del dramma umano; che ci impediscono di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e, in definitiva, di conoscere la forza rivoluzionaria della tenerezza di Dio (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 270).

Non separando la gloria dalla croce, Gesù vuole riscattare i suoi discepoli, la sua Chiesa, da trionfalismi vuoti: vuoti di amore, vuoti di servizio, vuoti di compassione, vuoti di popolo. La vuole riscattare da una immaginazione senza limiti che non sa mettere radici nella vita del Popolo fedele o, che sarebbe peggio, crede che il servizio al Signore le chieda di sbarazzarsi delle strade polverose della storia. Contemplare e seguire Cristo esige di lasciare che il cuore si apra al Padre e a tutti coloro coi quali Egli stesso ha voluto identificarsi (cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49), e questo nella certezza di sapere che non abbandona il suo popolo.

Cari fratelli, continua ad abitare in milioni di volti la domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Confessiamo con le nostre labbra e col nostro cuore: Gesù Cristo è il Signore (cfr Fil 2,11). Questo è il nostro cantus firmus che tutti i giorni siamo invitati a intonare. Con la semplicità, la certezza e la gioia di sapere che «la Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo. Trae il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)» (S. Ambrogio, Hexaemeron, IV, 8, 32).

[01090-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Les lectures proclamées nous permettent d’entrer en contact avec la tradition apostolique, celle qui «n’est pas une transmission de choses ou de paroles, une collection de choses mortes. La Tradition est le fleuve vivant qui nous relie aux origines, le fleuve vivant dans lequel les origines sont toujours présentes» (Benoît XVI, Catéchèse, 26 avril 2006) et nous offrent les clés du Royaume des cieux (cf. Mt 16, 19). Tradition pérenne et toujours nouvelle qui ravive et rafraîchit la joie de l’Evangile, et nous permet ainsi de confesser avec nos lèvres et notre cœur: «“Jésus-Christ est Seigneur!” à la gloire de Dieu le Père» (Ph 2, 11).

Tout l’Evangile veut répondre à la question qui habitait le cœur du Peuple d’Israël et qui aujourd’hui encore ne cesse d’habiter tant de visages assoiffés de vie: «Es-tu celui qui doit venir ou devons-nous en attendre un autre?» (Mt 11, 3). Question que Jésus reprend et pose à ses disciples: «Et vous que dites-vous? Pour vous qui suis-je?» (Mt 16, 15).

Pierre, prenant la parole, attribue à Jésus le titre le plus grand avec lequel il pouvait l’appeler: «Tu es le Messie» (cf. Mt 16, 16); c’est-à-dire l’Oint, le Consacré de Dieu. J’aime savoir que c’est le Père qui a inspiré cette réponse à Pierre qui voyait comment Jésus “oignait” son peuple. Jésus, l’Oint qui, de village en village, marchait avec l’unique désir de sauver et de soulager quiconque était considéré comme perdu: “il oint” le mort (cf. Mc 5, 41-42; Lc 7, 14-15), il oint le malade (cf. Mt 6, 13); Jc 5, 14), il oint les blessures (cf. Lc 10, 34), il oint le pénitent (cf. Mt 6, 17). Il oint l’espérance (cf. Lc 7, 38.46; 10, 34; Jn 11, 2; 12, 3). Dans une telle onction, chaque pécheur, chaque vaincu, chaque malade, chaque païen – là où il se trouvait – a pu se sentir un membre aimé de la famille de Dieu. Par ses gestes, Jésus lui disait d’une façon personnelle: tu m’appartiens. Comme Pierre, nous aussi nous pouvons confesser avec nos lèvres et notre cœur non seulement ce que nous avons entendu, mais aussi l’expérience concrète de notre vie: nous avons été ressuscités, soignés, renouvelés, remplis d’espérance par l’onction du Saint. Chaque joug d’esclavage est détruit grâce à son onction (cf. Is 10, 27). Il n’est pas permis de perdre la joie et la mémoire de nous savoir délivrés, cette joie qui nous porte à confesser: “Tu es le Fils du Dieu vivant” (cf. Mt 16, 16).

Et il est intéressant ensuite de noter ce qui suit ce passage de l’Evangile dans lequel Pierre confesse la foi: «À partir de ce moment, Jésus commença à montrer à ses disciples qu’il lui fallait partir pour Jérusalem, souffrir beaucoup de la part des anciens, des grands prêtres et des scribes, être tué, et le troisième jour ressusciter» (Mt 16, 21). L’Oint de Dieu porte l’amour et la miséricorde du Père jusqu’aux conséquences extrêmes. Cet amour miséricordieux demande d’aller dans tous les coins de la vie pour rejoindre chacun, même si cela coûte “la bonne réputation”, les commodités, la situation… le martyre.

Devant cette annonce si inattendue, Pierre réagit «Dieu t’en garde, Seigneur! cela ne t’arrivera pas» (Mt 16, 22) et se transforme immédiatement en pierre d’achoppement sur la route du Messie; et en croyant défendre les droits de Dieu, sans s’en apercevoir, il s’est transformé en son ennemi (il l’appelle “Satan”). Contempler la vie de Pierre et sa confession signifie aussi apprendre à connaître les tentations qui accompagneront la vie du disciple. A la manière de Pierre, comme Eglise, nous serons toujours tentés par ces “murmures” du Malin qui seront une pierre d’achoppement pour la mission. Et je dis “murmures” parce que le démon séduit en cachette, faisant en sorte qu’on ne reconnaisse pas son intention, «sa conduite est celle d'un séducteur: il demande le secret et ne redoute rien tant que d'être découvert» (S. Ignace de Loyola, Exercices spirituels n. 326).

Au contraire, participer à l’onction du Christ, c’est participer à sa gloire, qui est sa Croix: Père, glorifie ton Fils… «Père, glorifie ton nom» (Jn 12, 28). Gloire et croix en Jésus Christ vont ensemble et ne peuvent pas se séparer; parce que lorsqu’on abandonne la croix, même si nous entrons dans la splendeur éblouissante de la gloire, nous nous tromperons, parce que celle-ci ne sera pas la gloire de Dieu, mais la tromperie de l’adversaire.

Nous sentons souvent la tentation d’être chrétiens en maintenant une distance prudente avec les plaies du Seigneur. Jésus touche la misère humaine, nous invitant à rester avec Lui et à toucher la chair souffrante des autres. Confesser la foi avec nos lèvres et notre cœur demande – comme il l’a demandé à Pierre – d’identifier les “murmures” du malin. Apprendre à discerner et découvrir ces “couvertures” personnelles et communautaires qui nous maintiennent à distance de la réalité du drame humain ; qui nous empêchent d’entrer en contact avec l’existence concrète des autres et, en définitive, de connaître la force révolutionnaire de la tendresse de Dieu (cf. Exhort. Ap. Evangelii gaudium, n. 270).

En ne séparant pas la gloire de la croix, Jésus veut délivrer ses disciples, son Eglise, des triomphalismes vides: vides d’amour, vides de service, vides de compassion, vides de peuple. Il veut la délivrer d’une imagination sans limites qui ne sait pas mettre de racines dans la vie du Peuple fidèle ou, ce qui serait pire, croire que le service du Seigneur lui demande de se débarrasser des chemins poussiéreux de l’histoire. Contempler et suivre le Christ exige de laisser le cœur s’ouvrir au Père et à tous ceux avec lesquels il a voulu s’identifier (cf. S. Jean-Paul II, Lett. Ap. Novo millennio ineunte, n. 49), et cela avec la certitude qu’il n’abandonne pas son peuple.

Chers frères, la question: «Es-tu celui qui doit venir ou devons-nous en attendre un autre?» (Mt 11, 3) continue d’habiter des millions de visages. Confessons avec nos lèvres et notre cœur: Jésus-Christ est Seigneur (cf. Ph 2, 11). C’est notre cantus firmus que nous sommes invités à entonner tous les jours. Avec la simplicité, la certitude et la joie de savoir que «l’Eglise brille non de sa propre lumière, mais de celle du Christ. Tirant sa propre splendeur du Soleil de justice, en sorte qu’elle peut dire: “ Ce n’est plus moi qui vis, c’est le Christ qui vit en moi” (Ga 2, 20)» (S. Ambroise Hexaemeron, IV, 8, 32).

[01090-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

The readings we have just heard link us to the apostolic Tradition. That Tradition “is not the transmission of things or words, an assortment of lifeless objects; it is the living stream that links us to the origins, the living stream in which those origins are ever present” (BENEDICT XVI, Catechesis, 26 April 2006) and offer us the keys to the Kingdom of heaven (cf. Mt 16:19). A Tradition ancient yet ever new, that gives us life and renews the joy of the Gospel. It enables us to confess with our lips and our heart: “‘Jesus Christ is Lord’, to the glory of God the Father” (Phil 2:11).

The entire Gospel is an answer to the question present in the hearts of the People of Israel and today too dwells in the hearts of all those who thirst for life: “Are you he who is to come, or shall we look for another?” (Mt 11:3). Jesus takes up that question and asks it of his disciples: “But who do you say that I am?” (Mt 16:15).

Peter speaks up and calls Jesus by the greatest title he could possibly bestow: “You are the Christ” (cf. Mt 16:16), the Anointed, the Holy One of God. It is good to think that the Father inspired this answer because Peter had seen how Jesus “anointed” his people. Jesus, the Anointed One, walked from village to village with the sole aim of saving and helping those considered lost. He “anointed” the dead (cf. Mk 5:41-42; Lk 7:14-15), the sick (cf. Mk 6:13; Jas 5:14), the wounded (cf. Lk 10:34) and the repentant (cf. Mt 6:17). He anointed with hope (cf. Lk 7:38.46; 10:34; Jn 11:2; 12:3). By that anointing, every sinner – the downcast, the infirm, pagans, wherever they found themselves – could feel a beloved part of God’s family. By his actions, Jesus said in a very personal way: “You are mine”. Like Peter, we too can confess with our lips and our heart not only what we have heard, but also concretely experienced in our lives. We too have been brought back to life, healed, renewed and filled with hope by the anointing of the Holy One. Thanks to that anointing, every yoke of slavery has been shattered (cf. Is 10:27). How can we ever lose the joyful memory that we were ransomed and led to proclaim: “You are the Christ, the Son of the living God” (cf. Mt 16:16).

It is interesting to see what follows this passage in the Gospel where Peter confesses his faith: “From that time Jesus began to show his disciples that he must go to Jerusalem and suffer many things from the elders and chief priests and scribes, and be killed, and on the third day be raised” (Mt 16:21). God’s Anointed kept bringing the Father’s love and mercy to the very end. This merciful love demands that we too go forth to every corner of life, to reach out to everyone, even though this may cost us our “good name”, our comforts, our status… even martyrdom.

Peter reacts to this completely unexpected announcement by saying: “God forbid it, Lord! This must never happen to you” (Mt 16:22). In this way, he immediately becomes a stumbling stone in the Messiah’s path. Thinking that he is defending God’s rights, Peter, without realizing it, becomes the Lord’s enemy; Jesus calls him “Satan”. To contemplate Peter’s life and his confession of faith also means learning to recognize the temptations that will accompany the life of every disciple. Like Peter, we as a Church will always be tempted to hear those “whisperings” of the evil One, which will become a stumbling stone for the mission. I speak of “whispering” because the devil seduces from hiding, lest his intentions be recognized. “He behaves like a hypocrite, wishing to stay hidden and not be discovered” (SAINT IGNATIUS OF LOYOLA, Spiritual Exercises, n. 326).

To share in Christ’s anointing, on the other hand, means to share in his glory, which is his cross: Father, glorify your Son… “Father, glorify your name” (Jn 12:28). In Jesus, glory and the cross go together; they are inseparable. Once we turn our back on the cross, even though we may attain the heights of glory, we will be fooling ourselves, since it will not be God’s glory, but the snare of the enemy.

Often we feel the temptation to be Christians by keeping a prudent distance from the Lord’s wounds. Jesus touches human misery and he asks us to join him in touching the suffering flesh of others. To proclaim our faith with our lips and our heart demands that we – like Peter – learn to recognize the “whisperings” of the evil one. It demands learning to discern and recognize those personal and communitarian “pretexts” that keep us far from real human dramas, that preserve us from contact with other people’s concrete existence and, in the end, from knowing the revolutionary power of God’s tender love (cf. Evangelii Gaudium, 270).

By not separating his glory from the cross, Jesus wants to liberate his disciples, his Church, from empty forms of triumphalism: forms empty of love, service, compassion, empty of people. He wants to set his Church free from grand illusions that fail to sink their roots in the life of God’s faithful people or, still worse, believe that service to the Lord means turning aside from the dusty roads of history. To contemplate and follow Christ requires that we open our hearts to the Father and to all those with whom he has wished to identify (cf. SAINT JOHN PAUL II, Novo Millennio Ineunte, 49), in the sure knowledge that he will never abandon his people.

Dear brothers and sisters, millions of people continue to ask the question: “Are you he who is to come, or shall we look for another?” (Mt 11:3). Let us confess with our lips and heart that Jesus Christ is Lord (cf Phil 2:11). This is the cantus firmus that we are called daily to intone. With the simplicity, the certainty and the joy of knowing that “the Church shines not with her own light, but with the light of Christ. Her light is drawn from the Sun of Justice, so that she can exclaim: ‘It is no longer I who live, but Christ who lives in me’ (Gal 2:20)” (SAINT AMBROSE, Hexaemeron, IV, 8, 32).

[01090-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Die vorgetragenen Lesungen lassen uns mit der apostolischen Tradition in Berührung kommen, die »nicht die Weitergabe von Dingen oder Worten, keine Ansammlung toter Dinge ist. Die Tradition ist der lebendige Fluss, der uns mit den Ursprüngen verbindet, der lebendige Fluss, in dem die Ursprünge stets gegenwärtig sind« (Benedikt XVI., Katechese, 26. April 2006) und uns die Schlüssel zum Himmelreich anbieten (vgl. Mt 16,19). Es ist die immerwährende und immer neue Tradition, die die Freude des Evangeliums belebt und erneuert und uns so erlaubt, mit unserem Mund und unseren Herzen zu bekennen: »Jesus Christus ist der Herr, zur Ehre Gottes, des Vaters« (Phil 2,11).

Das ganze Evangelium will auf die Frage antworten, die im Herzen des Volkes Israel wohnte und auch heute aus so vielen lebenshungrigen Gesichtern spricht: »Bist du der, der kommen soll, oder sollen wir auf einen anderen warten?« (Mt 11,3). Jesus greift diese Frage auf und stellt sie seinen Jüngern: »Ihr aber, für wen haltet ihr mich?« (Mt 16,15).

Petrus ergreift das Wort und erkennt Jesus den höchst möglichen Titel zu: »Du bist der Messias« (vgl. Mt 16,16), also der Gesalbte, der Geweihte Gottes. Es ist schön zu wissen, dass es der Vater war, der diese Antwort dem Petrus eingab, der sah, wie Jesus sein Volk „salbte“. Jesus, der Gesalbte, der von Dorf zu Dorf zieht nur mit dem einen Wunsch, die zu retten und aufzurichten, die für verloren galten: Er „salbt“ die Toten (vgl. Mk 5,41-42; Lk 7,14-15), er salbt die Kranken (vgl. Mk 6,13; Joh 5,14), er salbt die Wunden (vgl. Lk 10,34), er salbt die Bußfertigen (vgl. Mt 6,17). Er salbt die Hoffnung (vgl. Lk 7,38.46; 10,34; Joh 11,2; 12,3). In dieser Salbung konnte sich jeder Sünder, jeder Verlierer, jeder Kranke, jeder Heide – jeder da, wo er sich befand – als geliebtes Glied der Familie Gottes fühlen. Mit seinen Gesten sagte Jesus ihm auf ganz persönliche Art: Du gehörst zu mir. Wie Petrus können auch wir mit unserem Mund und unseren Herzen nicht nur das bekennen, was wir gehört haben, sondern auch die konkrete Erfahrung unseres Lebens: Durch die Salbung mit dem Heiligen sind wir auferweckt, geheilt, erneuert und mit Hoffnung erfüllt worden. Jedes Joch der Sklaverei ist dank seiner Salbung zerbrochen (vgl. Jes 10,27). Wir dürfen die Freude und Erinnerung des Wissens um unsere Erlösung nicht verlieren, jene Freude, die uns bekennen lässt: »Du bist der Sohn des lebendigen Gottes« (vgl. Mt 16,16).

Und dann ist es interessant, auf die Fortsetzung dieses Evangelienabschnitts vom Glaubensbekenntnis des Petrus zu blicken: »Von da an begann Jesus seinen Jüngern zu erklären: Er müsse nach Jerusalem gehen und von den Ältesten und Hohepriestern und Schriftgelehrten vieles erleiden, getötet und am dritten Tag auferweckt werden« (Mt 16,21). Der Gesalbte Gottes führt die Liebe und Barmherzigkeit des Vaters weiter bis zur äußersten Konsequenz. Diese barmherzige Liebe erfordert es, in alle Ecken des Lebens zu gehen, um jeden zu erreichen, auch um den Preis des „guten Namens“, des Komforts, der Stellung ... des Martyriums.

Angesichts dieser völlig unerwarteten Ankündigung antwortet Petrus: »Das soll Gott verhüten, Herr! Das darf nicht mit dir geschehen!« (Mt 16,22), und wird prompt zum Stolperstein auf dem Weg des Messias; in der Meinung, Gottes Recht zu verteidigen, wird er unabsichtlich zu seinem Feind (Jesus nennt ihn „Satan“). Das Leben des Petrus und sein Bekenntnis betrachten heißt auch lernen, die Versuchungen zu kennen, die das Leben des Jüngers begleiten werden. Wie Petrus werden wir als Kirche immer versucht sein von diesen „Einflüsterungen“ des Bösen, die zum Stolperstein für die Sendung werden. Und ich spreche von „Einflüsterungen“, weil der Teufel heimlich verführt und dafür sorgt, dass man seine Absicht nicht erkennt, er verhält sich »wie ein falscher Liebhaber. Er will verborgen sein und nicht entdeckt werden« (Ignatius von Loyola, Geistliche Übungen, Nr. 326).

Teilnahme an der Salbung Christi bedeutet jedoch immer auch an seiner Herrlichkeit teilzuhaben, das heißt an seinem Kreuz: Vater, verherrliche deinen Sohn ... »Vater, verherrliche deinen Namen!« (Joh 12,28). Herrlichkeit und Kreuz gehören in Jesus Christus zusammen und können nicht voneinander getrennt werden; denn wenn wir das Kreuz verlassen, auch wenn wir in den blendenden Glanz des Ruhmes eintreten, so täuschen wir uns doch, denn das wird nicht die Herrlichkeit Gottes sein, sondern die Farce des Widersachers.

Nicht selten verspüren wir die Versuchung, Christen zu sein, die einen sicheren Abstand zu den Wundmalen des Herrn halten. Jesus aber berührt das menschliche Elend und lädt uns so ein, bei ihm zu sein und den leidenden Leib des Nächsten zu berühren. Das Bekennen des Glaubens mit unserem Mund und unserem Herzen erfordert es – wie Jesus es von Petrus verlangt hat –, die „Einflüsterungen“ des Bösen als solche zu erkennen. Es geht darum, jene persönlichen und gemeinschaftlichen „Tarnungen“ immer besser zu erkennen und zu entdecken, die uns vom Eigentlichen des menschlichen Dramas fernhalten, die uns daran hindern, mit dem konkreten Leben der anderen in Berührung zu kommen und schließlich auch daran, die revolutionäre Kraft der Zartheit Gottes kennenzulernen (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 270).

Dadurch, dass Jesus Herrlichkeit und Kreuz nicht voneinander trennt, will er seine Jünger, seine Kirche, von hohlem triumphalem Gehabe befreien: von einem Mangel an Liebe, an Dienstbereitschaft, an Mitgefühl, von einem Mangel an Volksnähe. Er will sie von einer ungezügelten Fantasie befreien, die im Leben des gläubigen Volkes keine Wurzeln schlagen kann, oder, was noch schlimmer wäre, meint, dass der Dienst am Herrn es erfordere, die staubigen Straßen der Geschichte zu verlassen. Die Betrachtung und Nachfolge Christi verlangt hingegen, dass wir unsere Herzen öffnen für den Vater und für alle, mit denen er sich selbst gern identifiziert hat (vgl. Johannes Paul II., Apostolisches Schreiben Novo millennio ineunte, 49), und dies in der Gewissheit, dass er sein Volk nicht verlässt.

Liebe Brüder und Schwestern, auch weiterhin spricht diese Frage aus Millionen von Gesichtern: »Bist du der, der kommen soll, oder sollen wir auf einen anderen warten?« (Mt 11,3). Bekennen wir mit unserem Mund und unseren Herzen: »Jesus Christus ist der Herr« (Phil 2,11). Das ist unser Cantus firmus, den wir jeden Tag anstimmen sollen – und zwar mit der Einfachheit, der Gewissheit und der Freude, die aus diesem Bewusstsein kommt: »Die Kirche leuchtet nicht im eigenen, sondern im Lichte Christi und entlehnt ihren Glanz von der „Sonne der Gerechtigkeit“, so dass sie sprechen kann: „Nicht mehr ich lebe, sondern Christus lebt in mir“ (Gal 2,20)« (Ambrosius, Hexaemeron, IV,8,32).

[01090-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Las lecturas proclamadas nos permiten tomar contacto con la tradición apostólica más rica, esa que «no es una transmisión de cosas muertas o palabras sino el río vivo que se remonta a los orígenes, el río en el que los orígenes están siempre presentes» (Benedicto XVI, Catequesis, 26 abril 2006) y nos ofrecen las llaves del Reino de los cielos (cf. Mt 16,19). Tradición perenne y siempre nueva que reaviva y refresca la alegría del Evangelio, y nos permite así poder confesar con nuestros labios y con nuestro corazón: «Jesucristo es Señor, para gloria de Dios Padre» (Flp 2,11).

Todo el Evangelio busca responder a la pregunta que anidaba en el corazón del Pueblo de Israel y que tampoco hoy deja de estar en tantos rostros sedientos de vida: «¿Eres tú el que ha de venir o tenemos que esperar a otro?» (Mt 11,3). Pregunta que Jesús retoma y hace a sus discípulos: «Y vosotros, ¿quién decís que soy yo?» (Mt 16,15).

Pedro, tomando la palabra en Cesarea de Filipo, le otorga a Jesús el título más grande con el que podía llamarlo: «Tú eres el Mesías» (Mt 16,16), es decir, el Ungido de Dios. Me gusta saber que fue el Padre quien inspiró esta respuesta a Pedro, que veía cómo Jesús ungía a su Pueblo. Jesús, el Ungido, que de poblado en poblado, camina con el único deseo de salvar y levantar lo que se consideraba perdido: “unge” al muerto (cf. Mc 5,41-42; Lc 7,14-15), unge al enfermo (cf. Mc 6,13; St 5,14), unge las heridas (cf. Lc 10,34), unge al penitente (cf. Mt 6,17), unge la esperanza (cf. Lc 7,38; 7,46; 10,34; Jn 11,2; 12,3). En esa unción, cada pecador, perdedor, enfermo, pagano —allí donde se encontraba— pudo sentirse miembro amado de la familia de Dios. Con sus gestos, Jesús les decía de modo personal: tú me perteneces. Como Pedro, también nosotros podemos confesar con nuestros labios y con nuestro corazón no solo lo que hemos oído, sino también la realidad tangible de nuestras vidas: hemos sido resucitados, curados, reformados, esperanzados por la unción del Santo. Todo yugo de esclavitud es destruido a causa de su unción (cf. Is 10,27). No nos es lícito perder la alegría y la memoria de sabernos rescatados, esa alegría que nos lleva a confesar «tú eres el Hijo de Dios vivo» (Mt 16,16).

Y es interesante, luego, prestar atención a la secuencia de este pasaje del Evangelio en que Pedro confiesa la fe: «Desde entonces comenzó Jesús a manifestar a sus discípulos que tenía que ir a Jerusalén y padecer allí mucho por parte de los ancianos, sumos sacerdotes y escribas, y que tenía que ser ejecutado y resucitar al tercer día» (Mt 16,21). El Ungido de Dios lleva el amor y la misericordia del Padre hasta sus últimas consecuencias. Tal amor misericordioso supone ir a todos los rincones de la vida para alcanzar a todos, aunque eso le costase el “buen nombre”, las comodidades, la posición… el martirio.

Ante este anuncio tan inesperado, Pedro reacciona: «¡Lejos de ti tal cosa, Señor! Eso no puede pasarte» (Mt 16,22), y se transforma inmediatamente en piedra de tropiezo en el camino del Mesías; y creyendo defender los derechos de Dios, sin darse cuenta se transforma en su enemigo (lo llama “Satanás”). Contemplar la vida de Pedro y su confesión, es también aprender a conocer las tentaciones que acompañarán la vida del discípulo. Como Pedro, como Iglesia, estaremos siempre tentados por esos “secreteos” del maligno que serán piedra de tropiezo para la misión. Y digo “secreteos” porque el demonio seduce a escondidas, procurando que no se conozca su intención, «se comporta como vano enamorado en querer mantenerse en secreto y no ser descubierto» (S. Ignacio de Loyola, Ejercicios Espirituales, n. 326).

En cambio, participar de la unción de Cristo es participar de su gloria, que es su Cruz: Padre, glorifica a tu Hijo… «Padre, glorifica tu nombre» (Jn 12,28). Gloria y cruz en Jesucristo van de la mano y no pueden separarse; porque cuando se abandona la cruz, aunque nos introduzcamos en el esplendor deslumbrante de la gloria, nos engañaremos, ya que eso no será la gloria de Dios, sino la mofa del “adversario”.

No son pocas las veces que sentimos la tentación de ser cristianos manteniendo una prudente distancia de las llagas del Señor. Jesús toca la miseria humana, invitándonos a estar con él y a tocar la carne sufriente de los demás. Confesar la fe con nuestros labios y con nuestro corazón exige —como le exigió a Pedro— identificar los “secreteos” del maligno. Aprender a discernir y descubrir esos cobertizos personales o comunitarios que nos mantienen a distancia del nudo de la tormenta humana; que nos impiden entrar en contacto con la existencia concreta de los otros y nos privan, en definitiva, de conocer la fuerza revolucionaria de la ternura de Dios (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 270).

Al no separar la gloria de la cruz, Jesús quiere rescatar a sus discípulos, a su Iglesia, de triunfalismos vacíos: vacíos de amor, vacíos de servicio, vacíos de compasión, vacíos de pueblo. La quiere rescatar de una imaginación sin límites que no sabe poner raíces en la vida del Pueblo fiel o, lo que sería peor, cree que el servicio a su Señor le pide desembarazarse de los caminos polvorientos de la historia. Contemplar y seguir a Cristo exige dejar que el corazón se abra al Padre y a todos aquellos con los que él mismo se quiso identificar (Cf. S. Juan Pablo II, Novo millennio ineunte, 49), y esto con la certeza de saber que no abandona a su pueblo.

Queridos hermanos, sigue latiendo en millones de rostros la pregunta: «¿Eres tú el que ha de venir o tenemos que esperar a otro?» (Mt 11,3). Confesemos con nuestros labios y con nuestro corazón: «Jesucristo es Señor» (Flp 2,11). Este es nuestro cantus firmus que todos los días estamos invitados a entonar. Con la sencillez, la certeza y la alegría de saber que «la Iglesia resplandece no con luz propia, sino con la de Cristo. Recibe su esplendor del Sol de justicia, para poder decir luego: “Vivo, pero no soy yo el que vive, es Cristo quien vive en mí” (Ga 2,20)» (S. Ambosio, Hexaemeron, IV, 8,32).

[01090-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

As leituras proclamadas permitem-nos entrar em contacto com a Tradição Apostólica, que «não é transmissão de coisas ou de palavras, uma coleção de coisas mortas. A Tradição é o rio vivo que nos liga às origens, o rio vivo no qual as origens sempre estão presentes» (Bento XVI, Catequese, 26 de abril de 2006) e oferecem-nos as chaves do Reino dos Céus (cf. Mt 16, 19). Tradição perene e sempre nova, que acende e revigora a alegria do Evangelho, consentindo-nos assim de confessar com os nossos lábios e o nosso coração: «“Jesus Cristo é o Senhor”, para glória de Deus Pai» (Flp 2, 11).

O Evangelho inteiro quer responder à pergunta que se abrigava no coração do Povo de Israel e que, mesmo hoje, não cessa de habitar em tantos rostos sedentos de vida: «És Tu aquele que há de vir, ou devemos esperar outro?» (Mt 11, 3). Pergunta que Jesus retoma e coloca aos seus discípulos: «E vós, quem dizeis que Eu sou?» (Mt 16, 15).

Pedro, tomando a palavra, atribui a Jesus o título maior com que O podia designar: «Tu és o Messias» (Mt 16, 16), isto é, o Ungido, o Consagrado de Deus. Apraz-me saber que foi o Pai a inspirar esta resposta a Pedro, que via como Jesus «ungia» o seu povo. Jesus, o Ungido que caminha, de aldeia em aldeia, com o único desejo de salvar e levantar quem era tido por perdido: «unge» o morto (cf. Mc 5, 41-42; Lc 7, 14-15), unge o doente (cf. Mc 6, 13; Tg 5, 14), unge as feridas (cf. Lc 10, 34), unge o penitente (cf. Mt 6, 17). Unge a esperança (cf. Lc 7, 38.46; Jo 11, 2; 12, 3). Numa tal unção, cada pecador, cada vencido, doente, pagão – no ponto onde se encontrava – pôde sentir-se membro amado da família de Deus. Com os seus gestos, Jesus dizia-lhe de maneira pessoal: tu pertences-Me. Como Pedro, também nós podemos confessar com os nossos lábios e o nosso coração não só aquilo que ouvimos, mas também a experiência concreta da nossa vida: fomos ressuscitados, acudidos, renovados, cumulados de esperança pela unção do Santo. Todo o jugo de escravidão é destruído graças à sua unção (cf. Is 10, 27). A nós não é lícito perder a alegria e a memória de nos sabermos resgatados, aquela alegria que nos leva a confessar: «Tu és (…) o Filho de Deus vivo» (Mt 16, 16).

Entretanto é interessante notar o seguimento desta passagem do Evangelho onde Pedro confessa a fé: «A partir desse momento, Jesus Cristo começou a fazer ver aos seus discípulos que tinha de ir a Jerusalém e sofrer muito, da parte dos anciãos, dos sumos-sacerdotes e dos doutores da Lei, ser morto e, ao terceiro dia, ressuscitar» (Mt 16, 21). O Ungido de Deus leva o amor e a misericórdia do Pai até às extremas consequências. Este amor misericordioso exige ir a todos os cantos da vida para alcançar a todos, ainda que isso custe o «bom nome», as comodidades, a posição... o martírio.

Perante anúncio tão inesperado, Pedro reage: «Deus Te livre, Senhor! Isso nunca Te há de acontecer» (Mt 16, 22) e transforma-se imediatamente em pedra de tropeço no caminho do Messias; e, pensando defender os direitos de Deus, sem se dar conta transforma-se em seu inimigo (Jesus chama-o «Satanás»). Contemplar a vida de Pedro e a sua confissão significa também aprender a conhecer as tentações que hão de acompanhar a vida do discípulo. À semelhança de Pedro, como Igreja, seremos sempre tentados por aqueles «sussurros» do maligno que serão pedra de tropeço para a missão. Digo «sussurros» porque o demónio seduz veladamente, fazendo com que não se reconheça a sua intenção, «comporta-se como um ser falso, que quer ficar escondido e não ser descoberto» (Santo Inácio de Loyola, Exercícios Espirituais, n. 326).

Pelo contrário, participar na unção de Cristo é participar na sua glória, que é a própria Cruz: Pai, glorifica o teu Filho... «Pai, manifesta a tua glória!» (Jo 12, 28). Glória e cruz, em Jesus Cristo, caminham juntas e não se podem separar; porque, quando se abandona a cruz, ainda que entremos no deslumbrante esplendor da glória, enganar-nos-emos porque aquela não será a glória de Deus, mas a pantomina do adversário.

Várias vezes sentimos a tentação de ser cristãos, mantendo uma prudente distância das chagas do Senhor. Jesus toca a miséria humana, convidando-nos a estar com Ele e a tocar a carne sofredora dos outros. Confessar a fé com os nossos lábios e o nosso coração exige – como o exigiu a Pedro – identificar os «sussurros» do maligno; aprender a discernir e descobrir as «coberturas» pessoais e comunitárias que nos mantêm à distância do drama humano real, impedindo-nos de entrar em contacto com a existência concreta dos outros e, em última análise, de conhecer a força revolucionária da ternura de Deus (cf. Evangelii gaudium, 270).

Jesus, não separando da cruz a glória, quer resgatar os seus discípulos, a sua Igreja, de triunfalismos vazios: vazios de amor, vazios de serviço, vazios de compaixão, vazios de povo. Quer resgatá-la duma imaginação sem limites que não sabe criar raízes na vida do Povo fiel ou, pior ainda, crê que o serviço ao Senhor lhe pede para se livrar das estradas poeirentas da história. Contemplar e seguir a Cristo exige deixar que o coração se abra ao Pai e a todos aqueles com quem Ele próprio Se quis identificar (cf. João Paulo II, Novo millennio ineunte, 49), e isto na certeza de saber que não abandona o seu povo.

Queridos irmãos, continua a habitar em milhões de rostos a pergunta: «És Tu aquele que há de vir, ou devemos esperar outro?» (Mt 11, 3). Confessemos com os nossos lábios e com o nosso coração: Jesus Cristo é o Senhor (cf. Flp 2, 11). Este é o nosso cantus firmus que somos convidados a entoar todos os dias. Com a simplicidade, a certeza e a alegria de saber que «a Igreja não brilha de luz própria, mas da de Cristo; extrai de tal modo o seu esplendor do Sol de justiça, que pode dizer: “Já não sou eu que vivo, mas é Cristo que vive em mim” (Gal 2, 20)» (Santo Ambrósio, Hexaemeron, IV, 8, 32).

[01090-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Usłyszane przez nas czytania pozwalają nam nawiązać kontakt z tradycją apostolską, która „nie jest przekazem spraw lub słów, zbiorem martwych rzeczy. Tradycja jest żywą rzeką, która łączy nas z początkami, żywą rzeką, w której początki są stale obecne” (BENEDYKT XVI, Katecheza, 26 kwietnia 2006) i dają nam klucze królestwa niebieskiego (por. Mt 16,19). Odwieczna i zawsze nowa Tradycja, która ożywia i odświeża radość Ewangelii pozwala nam w ten sposób wyznawać ustami i sercem: „Jezus Chrystus jest Panem ku chwale Boga Ojca” (Flp 2,11) ,

Cała Ewangelia chce odpowiedzieć na pytanie, które nosił w sercu lud Izraela, i które również dziś nieustannie nurtuje wiele osób spragnionych życia: „Czy Ty jesteś Tym, który ma przyjść, czy też innego mamy oczekiwać?” (Mt 11,3). To pytanie Jezus podejmuje i stawia swoim uczniom: „A wy za kogo Mnie uważacie?” (Mt 16,15).

Piotr, zabierając głos przypisuje Jezusowi najwspanialszy tytuł, jakim mógłby go nazwać. „Ty jesteś Mesjasz” (por. Mt 16,16), to znaczy Namaszczony, Pomazaniec Boży. Dobrze wiedzieć, że to Ojciec poddał tę odpowiedź Piotrowi, który widział, jak Jezus „namaszczał” swój lud. Jezus, Namaszczony, który idzie od wioski do wioski z jedynym pragnieniem, aby zbawić i podnieść tych, którzy zostali uznani za straconych, „namaszcza” martwych (por. Mk 5,41-42; Łk 7,14-15), namaszcza chorego (por. Mk 6,13; Jk 5,14), namaszcza poranionego (por. Łk 10, 34) namaszcza pokutującego (por. Mt 6,17). Namaszcza nadzieję (por. Łk 7,38.46; 10,34; J 11,2; 12,3). W takim namaszczeniu każdy grzesznik, każdy przegrany, chory, poganin – tam gdzie się znajduje – mógł poczuć się umiłowanym członkiem rodziny Bożej. Swoimi gestami Jezus mówił do niego w sposób osobisty: należysz do mnie. Podobnie jak Piotr, możemy wyznać naszymi ustami i naszym sercem nie tylko to, co usłyszeliśmy, ale także konkretne doświadczenie naszego życia: zostaliśmy przywróceni do życia, otoczeni troską, odnowieni, napełnieni nadzieją przez namaszczenie Świętego. Wszelkie jarzmo niewoli zostało złamane dzięki namaszczeniu (por. Iz 10,27). Nie godzi się nam utracić radości i pamięci o tym, że jesteśmy odkupieni, tej radości, która prowadzi nas do wyznania: „Ty jesteś Synem Boga żywego” (por. Mt 16,16).

Ciekawe jest także dostrzeżenie dalszego ciągu tego fragmentu Ewangelii, w którym Piotr wyznaje wiarę: „Odtąd zaczął Jezus wskazywać swoim uczniom na to, że musi iść do Jerozolimy i wiele cierpieć od starszych i arcykapłanów, i uczonych w Piśmie; że będzie zabity i trzeciego dnia zmartwychwstanie” (Mt 16,21). Namaszczony przez Boga niesie miłość i miłosierdzie Ojca aż po najbardziej skrajne konsekwencje. Ta miłosierna miłość wymaga, aby pójść do wszystkich zakątków życia, aby dotrzeć do wszystkich, nawet jeśli kosztowałoby to „dobre imię”, wygodę, stanowisko... męczeństwo.

W obliczu tej nieoczekiwanej zapowiedzi Piotr reaguje: „Panie, niech Cię Bóg broni! Nie przyjdzie to nigdy na Ciebie” (Mt 16, 22) i natychmiast staje się przeszkodą na drodze Mesjasza. Będąc przekonanym, że broni praw Boga, nie zdając sobie z tego sprawy, staje się Jego wrogiem (Jezus nazywa go „szatanem”). Rozważanie życia Piotra i jego wyznania oznacza także uczenie się poznawania pokus, które będą towarzyszyły życiu ucznia. Podobnie jak Piotr, jako Kościół zawsze będziemy kuszeni przez te „podszepty” złego, które będą przeszkodą dla misji. I mówię „podszepty”, ponieważ diabeł kusi w ukryciu, by nie rozpoznano jego zamiaru, „zachowuje się jak uwodziciel, który chce pozostać w ukryciu i nie być ujawnionym” (IGNACY LOYOLA, Ćwiczenia duchowne, n. 326 ).

Natomiast uczestniczyć w namaszczeniu Chrystusa to mieć udział w Jego chwale, którą jest Jego krzyż: Ojcze, wsław Twojego Syna... „Ojcze, wsław Twoje imię!” (J 12,28). Chwała i krzyż w Jezusie Chrystusie łączą się ze sobą i nie można ich od siebie oddzielić. Kiedy bowiem opuszcza się krzyż, nawet jeśli wkraczamy w olśniewający blask chwały, to będziemy się łudzili, bo nie będzie to chwałą Boga, ale szyderstwem przeciwnika.

Nierzadko odczuwamy pokusę bycia chrześcijanami, zachowując rozsądny dystans od ran Pana. Jezus dotyka ludzkiej nędzy, zapraszając nas, byśmy byli z Nim i dotykali cierpiącego ciała innych osób. Wyznanie wiary naszymi ustami i naszym sercem wymaga – jak tego zażądał od Piotra – utożsamienia „podszeptów” złego ducha. Nauczenia się rozpoznawania i odkrywania tych „przykrywek” osobistych i wspólnotowych, które trzymają nas z dala od rzeczywistości ludzkiego dramatu; które uniemożliwiają nam nawiązanie kontaktu z konkretnym życiem innych, a w ostatecznym rachunku byśmy poznali rewolucyjną moc czułości Boga (por. Adhort, apost. Evangelii gaudium, 270).

Nie oddzielając chwały od krzyża Jezus chce wyzwolić swoich uczniów, swój Kościół, z pustego triumfalizmu: pozbawionego miłości, służby, współczucia, pozbawionego ludu. Chce wyzwolić od pewnej wyobraźni bez ograniczeń, która nie potrafi zakorzenić się w życiu wiernego ludu, lub – co gorsza – sądzi, że służba Panu wymaga wyzbycia się zakurzonych dróg historii. Kontemplowanie i pójście za Chrystusem wymaga pozwolenia, aby serce otworzyło się na Ojca i na tych wszystkich, z którymi On sam zechciał się utożsamić (por. ŚW. JAN PAWEŁ II, List ap. Novo millennio ineunte, 49), i to mając pewność, że On nie opuszcza swego ludu.

Drodzy bracia, nadal w milionach twarzy żywe jest pytanie: „Czy Ty jesteś Tym, który ma przyjść, czy też innego mamy oczekiwać?” (Mt 11,3). Wyznajemy naszymi ustami i sercem: Jezus Chrystus jest Panem (por. Flp 2,11). To jest nasz cantus firmus [stały śpiew], do którego wznoszenia jesteśmy zapraszani każdego dnia. Z prostotą, pewnością i radością, wiedząc, że „Kościół (...) jaśnieje nie swoim światłem, ale Chrystusa. Blask swój otrzymuje od Słońca sprawiedliwości, tak że może powiedzieć: «już nie ja żyję, lecz żyje we mnie Chrystus» (Ga 2,20)” (ŚW. AMBROŻY, Hexameron, IV, 8, 32).

[01090-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0496-XX.02]