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Pellegrinaggio Ecumenico del Santo Padre Francesco a Ginevra in occasione del 70° anniversario della fondazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese (21 giugno 2018) - Incontro Ecumenico nella Visser‘t Hooft Hall del Centro Ecumenico di Ginevra, 21.06.2018


Incontro Ecumenico nella Visser‘t Hooft Hall del Centro Ecumenico di Ginevra

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 15.35 di questo pomeriggio ha avuto luogo l’Incontro Ecumenico nella Visser‘t Hooft Hall del Centro Ecumenico di Ginevra.

Al Suo arrivo, il Papa è stato accolto da due Vice-Moderatori del World Council of Churches (WCC), il Metropolita Prof. Dott. Gennadios of Sassima e Bishop Mary Ann Swenson.

Quindi, accompagnato dal Segretario Generale del WCC, il Rev.do Dott. Olav Fykse Tveit; dalla Moderatrice del WCC, Dott.ssa Agnes Abuom; e dal Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, l’Em.mo Card. Kurt Koch, il Santo Padre ha fatto il suo ingresso alla Visser ‘t Hooft Hall. Erano inoltre presenti membri del Comitato Centrale del WCC, delegati ecumenici, Autorità civili e il Seguito papale. Prima di entrare nell’Hall, il Papa ha salutato otto coreani, quattro del Nord e quattro del Sud.

Dopo la preghiera d’apertura e i discorsi del Segretario Generale e della Moderatrice, il Santo Padre Francesco ha pronunciato un discorso.

Al termine, dopo la recita del Padre Nostro e la Benedizione finale, uscendo dall’Auditorium, il Papa ha salutato quattro membri della Federazione delle Chiese Evangeliche in Svizzera e, nella hall, i Presidenti del WCC insieme a tre giovani del Comitato Centrale. Successivamente si è recato in auto al Palexpo di Ginevra.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre pronuncia nel corso dell’incontro:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle,

sono lieto di incontrarvi e vi ringrazio per la vostra premurosa accoglienza. In particolare, sono grato al Segretario Generale, Reverendo Dr. Olav Fykse Tveit, e alla Moderatrice, Dr.ssa Agnes Abuom, per le loro parole e per avermi invitato in occasione del 70° anniversario dell’istituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Biblicamente, settant’anni evocano un periodo di tempo compiuto, segno di benedizione divina. Ma settanta è anche un numero che fa affiorare alla mente due celebri passi evangelici. Nel primo, il Signore ci ha comandato di perdonarci non fino a sette, ma «fino a settanta volte sette» (Mt 18,22). Il numero non indica certo un termine quantitativo, ma apre un orizzonte qualitativo: non misura la giustizia, ma spalanca il metro di una carità smisurata, capace di perdonare senza limiti. È questa carità che, dopo secoli di contrasti, ci permette di stare insieme, come fratelli e sorelle riconciliati e grati a Dio nostro Padre.

Se siamo qui è anche grazie a quanti ci hanno preceduto nel cammino, scegliendo la via del perdono e spendendosi per rispondere alla volontà del Signore: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Spinti dall’accorato desiderio di Gesù, non si sono lasciati imbrigliare dagli intricati nodi delle controversie, ma hanno trovato l’audacia di guardare oltre e di credere nell’unità, superando gli steccati dei sospetti e della paura. È vero quanto affermava un antico padre nella fede: «Se davvero l’amore riesce ad eliminare la paura e questa si trasforma in amore, allora si scoprirà che ciò che salva è proprio l’unità» (S. Gregorio di Nissa, Omelia 15 sul Cantico dei Cantici). Siamo i beneficiari della fede, della carità e della speranza di tanti che, con l’inerme forza del Vangelo, hanno avuto il coraggio di invertire la direzione della storia, quella storia che ci aveva portato a diffidare gli uni degli altri e ad estraniarci reciprocamente, assecondando la diabolica spirale di continue frammentazioni. Grazie allo Spirito Santo, ispiratore e guida dell’ecumenismo, la direzione è cambiata e una via tanto nuova quanto antica è stata indelebilmente tracciata: la via della comunione riconciliata, verso la manifestazione visibile di quella fraternità che già unisce i credenti.

Il numero settanta offre un secondo spunto evangelico. Richiama quei discepoli che, durante il ministero pubblico, Gesù inviò in missione (cfr Lc 10,1) e che vengono celebrati nell’Oriente cristiano. Il numero di questi discepoli rimanda a quello delle nazioni conosciute, elencate agli inizi della Scrittura (cfr Gen 10). Che cosa ci suggerisce questo? Che la missione è rivolta a tutti i popoli e che ogni discepolo, per essere tale, deve diventare apostolo, missionario. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro? Questo urgente interrogativo indirizza ancora il nostro cammino e traduce la preghiera del Signore ad essere uniti «perché il mondo creda» (Gv 17,21).

Permettetemi, cari fratelli e sorelle, di manifestarvi, oltre al vivo ringraziamento per l’impegno che profondete per l’unità, anche una preoccupazione. Essa deriva dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine. Eppure il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato. Ne va della nostra identità. L’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certamente, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda dei tempi e dei luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione.

Ma in che cosa consiste questa forza di attrazione? Non certo nelle nostre idee, strategie o programmi: a Gesù Cristo non si crede mediante una raccolta di consensi e il Popolo di Dio non è riducibile al rango di una organizzazione non governativa. No, la forza di attrazione sta tutta in quel sublime dono che conquistò l’Apostolo Paolo: «Conoscere [Cristo], la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Questo è l’unico nostro vanto: la «conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6), donataci dallo Spirito vivificante. Questo è il tesoro che noi, fragili vasi di creta (cfr v. 7), dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Non saremmo fedeli alla missione affidataci se riducessimo questo tesoro al valore di un umanesimo puramente immanente, adattabile alle mode del momento. E saremmo cattivi custodi se volessimo solo preservarlo, sotterrandolo per paura di essere provocati dalle sfide del mondo (cfr Mt 25,25).

Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è un nuovo slancio evangelizzatore. Siamo chiamati a essere un popolo che vive e condivide la gioia del Vangelo, che loda il Signore e serve i fratelli, con l’animo che arde dal desiderio di dischiudere orizzonti di bontà e di bellezza inauditi a chi non ha ancora avuto la grazia di conoscere veramente Gesù. Sono convinto che, se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi. Come alle origini l’annuncio segnò la primavera della Chiesa, così l’evangelizzazione segnerà la fioritura di una nuova primavera ecumenica. Come alle origini, stringiamoci in comunione attorno al Maestro, non senza provare vergogna per i nostri continui tentennamenti e dicendogli, con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).

Cari fratelli e sorelle, ho desiderato partecipare di persona alle celebrazioni di questo anniversario del Consiglio anche per ribadire l’impegno della Chiesa Cattolica nella causa ecumenica e per incoraggiare la cooperazione con le Chiese-membri e con i partner ecumenici. A questo riguardo vorrei soffermarmi anch’io un poco sul motto scelto per questa giornata: Camminare – Pregare – Lavorare insieme.

Camminare: sì, ma verso dove? Sulla base di quanto detto, suggerirei un duplice movimento: in entrata e in uscita. In entrata, per dirigerci costantemente al centro, per riconoscerci tralci innestati nell’unica vite che è Gesù (cfr Gv 15,1-8). Non porteremo frutto senza aiutarci a vicenda a rimanere uniti a Lui. In uscita, verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del Vangelo all’umanità sofferente. Potremmo chiederci se stiamo camminando davvero o soltanto a parole, se presentiamo i fratelli al Signore e li abbiamo veramente a cuore oppure sono lontani dai nostri reali interessi. Potremmo chiederci anche se il nostro cammino è un ritornare sui nostri passi o un convinto andare al mondo per portarvi il Signore.

Pregare: anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli, perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano. Quando diciamo “Padre nostro” risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli. La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti. Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri? Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?

Lavorare insieme. A questo proposito vorrei ribadire che la Chiesa Cattolica riconosce la speciale importanza del lavoro che compie la Commissione Fede e Costituzione e desidera continuare a contribuirvi attraverso la partecipazione di teologi altamente qualificati. La ricerca di Fede e Costituzione per una visione comune della Chiesa e il suo lavoro sul discernimento delle questioni morali ed etiche toccano punti nevralgici della sfida ecumenica. Allo stesso modo, la presenza attiva nella Commissione per la Missione e l’Evangelizzazione; la collaborazione con l’Ufficio per il Dialogo Interreligioso e la Cooperazione, ultimamente sull’importante tema dell’educazione alla pace; la preparazione congiunta dei testi per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e varie altre forme di sinergia sono elementi costitutivi di una solida e collaudata collaborazione. Inoltre, apprezzo il ruolo imprescindibile dell’Istituto Ecumenico di Bossey nella formazione ecumenica delle giovani generazioni di responsabili pastorali e accademici di tante Chiese e Confessioni cristiane di tutto il mondo. La Chiesa Cattolica, da molti anni, collabora in quest’opera educativa con la presenza di un professore cattolico nella Facoltà; e ogni anno ho la gioia di salutare il gruppo di studenti che compie la visita di studio a Roma. Vorrei anche menzionare, quale buon segno di “affiatamento ecumenico”, la crescente adesione alla Giornata di preghiera per la cura del creato.

Oltre a ciò, il lavoro tipicamente ecclesiale ha un sinonimo ben definito: diakonia. È la via sulla quale seguire il Maestro, che «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Il variegato e intenso servizio delle Chiese-membri del Consiglio trova un’espressione emblematica nel Pellegrinaggio di giustizia e di pace. La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti. I deboli sono sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi. Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione, perché «il programma del cristiano è un cuore che vede» (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 31). Vediamo ciò che è possibile fare concretamente, piuttosto che scoraggiarci per ciò che non lo è. Guardiamo anche a tanti nostri fratelli e sorelle che in varie parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, soffrono perché sono cristiani. Stiamo loro vicini. E ricordiamo che il nostro cammino ecumenico è preceduto e accompagnato da un ecumenismo già realizzato, l’ecumenismo del sangue, che ci esorta ad andare avanti.

Incoraggiamoci a superare la tentazione di assolutizzare determinati paradigmi culturali e di farci assorbire da interessi di parte. Aiutiamo gli uomini di buona volontà a dare maggior spazio a situazioni e vicende che riguardano tanta parte dell’umanità, ma che occupano un posto troppo marginale nella grande informazione. Non possiamo disinteressarci, e c’è da inquietarsi quando alcuni cristiani si mostrano indifferenti nei confronti di chi è disagiato. Ancora più triste è la convinzione di quanti ritengono i propri benefici puri segni di predilezione divina, anziché chiamata a servire responsabilmente la famiglia umana e a custodire il creato. Sull’amore per il prossimo, per ogni prossimo, il Signore, Buon Samaritano dell’umanità (cfr Lc 10,29-37), ci interpellerà (cfr Mt 25,31-46). Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?

Cari fratelli e sorelle, vi rinnovo il mio cordiale ringraziamento. Aiutiamoci a camminare, pregare e lavorare insieme perché, con l’aiuto di Dio, l’unità progredisca e il mondo creda. Grazie.

[00994-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs,

Je suis heureux de vous rencontrer et je vous remercie de votre chaleureux accueil. Je suis reconnaissant, en particulier, au Secrétaire général, le Révérend Olav Fykse Tveit, et à la modératrice, Madame Agnes Abuom, pour leurs paroles et pour m‘avoir invité à l’occasion du 70ème anniversaire de l’institution du Conseil œcuménique des Eglises.

Bibliquement, soixante-dix années évoquent une période de temps accompli, signe de bénédiction divine. Mais soixante-dix est aussi un nombre qui fait affleurer à l’esprit deux célèbres passages évangéliques. Dans le premier, le Seigneur nous a commandé de nous pardonner non jusqu’à sept, mais «jusqu’à soixante-dix fois sept fois» (Mt 18, 22). Le nombre n’indique certainement pas un terme quantitatif mais ouvre un horizon qualitatif: il ne mesure pas la justice, mais il ouvre tout grand le critère d’une charité démesurée, capable de pardonner sans limites. C’est cette charité qui, après des siècles d’oppositions, nous permet d’être ensemble, comme des frères et des sœurs réconciliés et reconnaissants envers Dieu notre Père.

Si nous sommes ici c’est aussi grâce à ceux qui nous ont précédés sur le chemin, choisissant la voie du pardon et se dépensant pour répondre à la volonté du Seigneur: «que tous soient un» (Jn 17, 21). Poussés par le désir pressant de Jésus, ils ne se sont pas laissés freiner par les nœuds embrouillés des controverses, mais ils ont trouvé l’audace de regarder au-delà et de croire dans l’unité, dépassant les barrières des soupçons et de la peur. Ce qu’a affirmé un ancien Père dans la foi est vrai: «Si l’amour chasse parfaitement la crainte et si la crainte se transforme en amour, alors on découvre que l’unité consiste en cet aboutissement du salut» (S. Grégoire de Nysse - Homélie 15 sur le Cantique des Cantiques). Nous sommes les bénéficiaires de la foi, de la charité et de l’espérance de tous ceux qui, avec la force sans défense de l’Evangile, ont eu le courage d’inverser le cours de l’histoire, de cette histoire qui nous avait porté à nous méfier les uns des autres et à nous mettre à l’écart réciproquement, favorisant la spirale diabolique des cloisonnements continuels. Grâce à l’Esprit Saint, inspirateur et guide de l’œcuménisme, la direction a changé et une voie aussi nouvelle qu’ancienne a été tracée d’une façon indélébile: la voie de la communion réconciliée, vers la manifestation visible de cette fraternité qui unit déjà les croyants.

Le nombre soixante-dix offre un second souffle évangélique. Il rappelle ces disciples que, durant son ministère public, Jésus envoie en mission (cf. Lc 10, 1) et qui sont célébrés dans l’Orient chrétien. Le nombre de ces disciples renvoie à celui des nations connues, énumérées dans les débuts de l’Ecriture (cf. Gn 10). Qu’est-ce-que cela nous suggère? Que la mission est adressée à tous les peuples et que chaque disciple, pour être tel, doit devenir apôtre, missionnaire. Le Conseil œcuménique des Eglises est né comme instrument de ce mouvement œcuménique suscité par un fort appel à la mission: comment les chrétiens peuvent-ils évangéliser s’ils sont divisés entre eux? Cette interrogation urgente oriente encore notre chemin et traduit la prière du Seigneur à être unis «pour que le monde croie» (Jn 17, 21).

Permettez-moi, chers frères et sœurs, de vous exprimer, outre mon vif remerciement pour l’engagement que vous déployez pour l’unité, aussi une préoccupation. Elle dérive de l’impression qu’œcuménisme et mission ne sont plus aussi étroitement liées qu’à l’origine. Pourtant le mandat missionnaire, qui est plus que la diakonia et la promotion du développement humain, ne peut être oublié ni évacué. Il en va de notre identité. L’annonce de l’Evangile jusqu’aux extrêmes confins est connaturelle à notre être chrétien. Certainement, la manière d’exercer la mission varie selon les temps et les lieux et, devant la tentation, malheureusement récurrente, de s’imposer selon des logiques mondaines, il faut rappeler que l’Eglise du Christ grandit par attraction.

Mais en quoi consiste cette force d’attraction? Certainement pas dans nos idées, stratégies ou programmes: on ne croit pas à Jésus Christ au moyen de l’obtention de consensus et le Peuple de Dieu n’est pas réductible au rang d’une organisation non gouvernementale. Non, la force d’attraction est toute dans ce don sublime qui a conquis l’Apôtre Paul: «Connaître [le Christ], éprouver la puissance de sa résurrection et communier aux souffrances de sa Passion» (Ph 3, 10). C’est notre unique avantage: la «connaissance de la gloire de Dieu qui rayonne sur le visage du Christ» (2 Co 4, 6), qui nous est donnée par l’Esprit vivifiant. C’est le trésor que nous, fragiles vases d’argile (cf. v. 7), nous devons offrir à ce monde aimé et tourmenté. Nous ne serions pas fidèles à la mission qui nous est confiée si nous réduisions ce trésor à la valeur d’un humanisme purement immanent, adaptable aux modes du moment. Et nous serions de mauvais gardiens si nous voulions seulement le préserver, en l’enterrant par peur d’être provoqués par les défis du monde (cf. Mt 25, 25).

Ce dont nous avons véritablement besoin, c’est d’un nouvel élan évangélisateur. Nous sommes appelés à être un peuple qui vit et qui partage la joie de l’Evangile, qui loue le Seigneur et sert les frères, avec l’âme qui brûle du désir d’ouvrir des horizons de bonté et de beauté inouïs à qui n’a pas encore eu la grâce de connaître vraiment Jésus. Je suis convaincu que, si le souffle missionnaire grandit, l’unité entre nous grandira aussi. Comme aux origines, l’annonce a marqué le printemps de l’Eglise, ainsi l’évangélisation marquera l’éclosion d’un nouveau printemps œcuménique. Comme aux origines, serrons-nous en communion autour du Maître, non sans éprouver de honte pour nos continuelles hésitations et disons-lui, avec Pierre: «Seigneur, à qui irions-nous? Tu as les paroles de la vie éternelle» (Jn 6, 68).

Chers frères et sœurs, j’ai désiré participer personnellement aux célébrations de cet anniversaire du Conseil pour rappeler aussi l’engagement de l’Eglise catholique dans la cause œcuménique et pour encourager la coopération avec les Eglises-membres et avec les partenaires œcuméniques. A ce sujet, je voudrais m’arrêter un peu, moi aussi, sur le thème choisi pour cette journée: Marcher – Prier – Travailler ensemble.

Marcher: oui, mais vers où? Sur la base de ce que j’ai dit, je suggérerai un double mouvement: en entrée et en sortie. En entrée, pour nous diriger constamment au centre, pour nous reconnaître sarments greffés sur l’unique vigne qui est Jésus (cf. Jn 15, 1-8). Nous ne porterons pas de fruit sans nous aider mutuellement à rester unis à Lui. En sortie, vers les multiples périphéries existentielles d’aujourd’hui, pour porter ensemble la grâce guérissante de l’Evangile à l’humanité souffrante. Nous pourrions nous demander si nous marchons vraiment ou seulement en paroles, si nous présentons les frères au Seigneur et si nous les avons véritablement à cœur ou s’ils sont éloignés de nos intérêts réels. Nous pourrions aussi nous demander si notre chemin est un retour sur nos pas ou une marche convaincue vers le monde pour y porter le Seigneur.

Prier: dans la prière aussi, comme sur le chemin, nous ne pouvons pas avancer seuls, parce que la grâce de Dieu, plus que de se découper en mesure individuelle, se diffuse harmonieusement entre les croyants qui s’aiment. Quand nous disons “notre Père” résonne en nous notre filiation, mais aussi notre être frères. La prière est l’oxygène de l’œcuménisme. Sans prière, la communion est asphyxiée et n’avance pas, parce que nous empêchons le vent de l’Esprit de la pousser en avant. Demandons-nous: prions-nous vraiment les uns pour les autres? Le Seigneur a prié pour que nous soyons un: l’imitons-nous en cela?

Travailler ensemble. A ce sujet, je voudrais rappeler que l’Eglise catholique reconnaît l’importance spéciale du travail qu’accomplit le Commission Foi et Constitution et désire continuer à y contribuer à travers la participation de théologiens hautement qualifiés. La recherche de Foi et Constitution pour une vision commune de l’Eglise et son travail sur le discernement des questions morales et éthiques touchent des points névralgiques du défi œcuménique. De la même manière, la présence active dans la Commission pour la mission et l’Evangélisation; la collaboration avec le Bureau pour le Dialogue interreligieux et la Coopération, dernièrement sur le thème important de l’éducation à la paix; la préparation conjointe des textes pour la Semaine de prière pour l’unité des chrétiens et d’autres formes variées de synergie sont des éléments constitutifs d’une solide collaboration qui a fait ses preuves. En outre, j’apprécie le rôle incontournable de l’Institut œcuménique de Bossey dans la formation œcuménique des jeunes générations de responsables pastoraux et académiques de nombreuses Eglises et Confessions chrétiennes du monde entier. L’Église catholique, depuis de nombreuses années, collabore à cette œuvre éducative par la présence d’un professeur catholique dans la Faculté; et chaque année, j’ai la joie de saluer le groupe d’étudiants qui accomplit une visite d’étude à Rome. Je voudrais aussi mentionner, comme un bon signe d’“entente œcuménique”, la récente adhésion à la Journée de prière pour la protection de la création.

Outre cela, le travail typiquement ecclésial a un synonyme bien défini: diakonia. C’est la route sur laquelle suivre le Maître, qui «n’est pas venu pour être servi, mais pour servir» (Mc 10, 45). Le service varié et intense des Eglises-membres du Conseil trouve une expression emblématique dans le Pèlerinage de justice et de paix. La crédibilité de l’Evangile est mise à l’épreuve par la manière avec laquelle les chrétiens répondent au cri de ceux qui, en toute partie de la terre, sont injustement victimes de l’augmentation tragique d’une exclusion qui, engendrant la pauvreté, attise les conflits. Les faibles sont toujours plus mis à l’écart, sans pain, sans travail ni avenir, tandis que les riches sont toujours moins nombreux et toujours plus riches. Sentons-nous interpelés par les pleurs de ceux qui souffrent, et éprouvons de la compassion parce que «le programme du chrétien est un cœur qui voit» (BenoÎt XVI, Lett. Enc. Deus caritas est, n. 31). Voyons ce qu’il est possible de faire concrètement, plutôt que de nous décourager pour ce qui ne l’est pas. Regardons aussi nos frères et sœurs qui dans différentes parties du monde, spécialement au Moyen Orient, souffrent parce qu’ils sont chrétiens. Soyons proches d’eux. Et rappelons-nous que notre chemin œcuménique est précédé et accompagné par un œcuménisme déjà réalisé, l’œcuménisme du sang, qui nous exhorte à aller de l’avant.

Encourageons nous à dépasser la tentation d’absolutiser des paradigmes culturels déterminés et de nous faire absorber par des intérêts de partis. Aidons les hommes de bonne volonté à donner plus d’espace à des situations et à des questions qui concernent une grande partie de l’humanité, mais qui occupent une place trop marginale dans la grande information. Nous ne pouvons pas nous en désintéresser, et il faut s’inquiéter quand certains chrétiens se montrent indifférents face à celui qui est dans l’indigence. Encore plus triste est la conviction de ceux qui considèrent leurs propres bénéfices comme des signes de prédilection divine, plutôt que comme un appel à servir avec responsabilité la famille humaine et à protéger la création. Sur l’amour du prochain, de tout prochain, le Seigneur, Bon Samaritain de l’humanité (cf. Lc 10, 29-37), nous interpellera (cf. Mt 25, 31-46). Demandons-nous alors: que pouvons-nous faire ensemble? Si un service est possible, pourquoi ne pas en faire le projet et l’accomplir ensemble, en commençant par faire l’expérience d’une fraternité plus intense dans l’exercice de la charité concrète?

Chers frères et sœurs, je vous renouvelle ma cordiale gratitude. Aidons-nous à marcher, prier et travailler ensemble pour que, avec l’aide de Dieu, l’unité progresse et que le monde croie. Merci.

[00994-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear Brothers and Sisters,

I am happy to meet you and I thank you for your warm welcome. In particular, I express my gratitude to the General Secretary, the Reverend Dr. Olav Fykse Tveit, and the Moderator, Dr. Agnes Abuom, for their kind words and for their invitation on this seventieth anniversary of the founding of the World Council of Churches.

In the Bible, seventy years represents a significant span of time, a sign of God’s blessing. But seventy is also a number that reminds us of two important passages in the Gospel. In the first, the Lord commands us to forgive one another not only seven times, but “seventy times seven” (Mt 18:22). That number, of course, does not serve as a limit, but opens up a vast horizon; it does not quantify justice, but serves as the measure of a charity capable of infinite forgiveness. After centuries of conflict, that charity now allows us to come together as brothers and sisters, at peace and full of gratitude to God our Father.

If we are here today, it is also thanks to all those who went before us, choosing the path of forgiveness and sparing no effort to respond to the Lord’s will “that all may be one” (cf. Jn 17:21). Out of heartfelt love for Jesus, they did not allow themselves to be mired in disagreements, but instead looked courageously to the future, believing in unity and breaking down barriers of suspicion and of fear. As an ancient Father in the faith rightly observed: “When love has entirely cast out fear, and fear has been transformed into love, then the unity brought us by our Saviour will be fully realized” (SAINT GREGORY OF NYSSA, Homily XV on the Song of Songs). We are heirs to the faith, charity and hope of all those who, by the nonviolent power of the Gospel, found the courage to change the course of history, a history that had led us to mutual distrust and estrangement, and thus contributed to the infernal spiral of continual fragmentation. Thanks to the Holy Spirit, who inspires and guides the journey of ecumenism, the direction has changed and a path both old and new has been irrevocably paved: the path of a reconciled communion aimed at the visible manifestation of the fraternity that even now unites believers.

The number seventy reminds us of yet another Gospel passage. It recalls those disciples whom Jesus, during his public ministry, sent out on mission (cf. Lk 10:1), and who are commemorated in some Churches of the Christian East. The number of those disciples reflects the number of the world’s peoples found on the first pages of the Bible (cf. Gen 10). What does this suggest to us, if not that mission is directed to all nations and that every disciple, in order to be such, must become an apostle, a missionary. The World Council of Churches was born in service to the ecumenical movement, which itself originated in a powerful summons to mission: for how can Christians proclaim the Gospel if they are divided among themselves? This pressing concern still guides our journey and is grounded in the Lord’s prayer that all may be one, “so that the world may believe” (Jn 17:21).

Dear brothers and sisters, allow me to thank you for your commitment to unity, but also to express a concern. It comes from an impression that ecumenism and mission are no longer as closely intertwined as they were at the beginning. Yet the missionary mandate, which is more than diakonia and the promotion of human development, cannot be neglected nor emptied of its content. It determines our very identity. The preaching of the Gospel to the ends of the earth is part of our very being as Christians. The way in which the mission is carried out will, of course, vary in different times and places. In the face of the recurring temptation to tailor it to worldly ways of thinking, we must constantly remind ourselves that Christ’s Church grows by attraction.

But what makes for this power of attraction? Certainly not our own ideas, strategies or programmes. Faith in Jesus Christ is not the fruit of consensus, nor can the People of God be reduced to a non-governmental organization. No, the power of attraction consists completely in the sublime gift that so amazed the Apostle Paul: “to know Christ and the power of his resurrection and the sharing of his sufferings” (Phil 3:10). This is our only boast: “the knowledge of the glory of God in the face of Jesus Christ” (2 Cor 4:6), granted us by the Holy Spirit, the Giver of Life. This is the treasure that we, though earthen vessels (cf. v. 7), must offer to our world, so beloved yet so deeply troubled. We would not be faithful to the mission entrusted to us, were we to debase this treasure to a purely immanent humanism, adapted to the fashion of the moment. Nor would we be good guardians if we tried only to preserve it, burying it for fear of the world and its challenges (cf. Mt 25:25).

What is really needed is a new evangelical outreach. We are called to be a people that experiences and shares the joy of the Gospel, praises the Lord and serves our brothers and sisters with hearts burning with a desire to open up horizons of goodness and beauty unimaginable to those who have not been blessed truly to know Jesus. I am convinced that an increased missionary impulse will lead us to greater unity. Just as in the early days, preaching marked the springtime of the Church, so evangelization will mark the flowering of a new ecumenical spring. As in those days, let us gather in fellowship around the Master, not without a certain embarrassment about our constant vacillations, and, together with Peter, let us say to him: “Lord, to whom can we go? You have the words of eternal life (Jn 6:68).

Dear brothers and sisters, I wanted to take part personally in the celebrations marking this anniversary of the World Council, not least to reaffirm the commitment of the Catholic Church to the cause of ecumenism and to encourage cooperation with the member churches and with our ecumenical partners. In this regard, I would like to reflect briefly on the motto chosen for this day: Walking, Praying and Working Together.

Walking. Yes, but where? From all that has been said, I would suggest a two-fold movement: in and out. In, so as to move constantly to the centre, to acknowledge that we are branches grafted onto the one vine who is Jesus (cf. Jn 15:1-8). We will not bear fruit unless we help one another to remain united to him. Out, towards the many existential peripheries of today’s world, in order to join in bringing the healing grace of the Gospel to our suffering brothers and sisters. We might ask ourselves whether we are walking in truth or simply in words, whether we present our brothers and sisters to the Lord out of true concern for them, or if they are removed from our real interests. We might ask ourselves too, whether we keep walking in our own footsteps, or are setting out with conviction to bring the Lord to our world.

Praying. In prayer too, like walking, we cannot move forward by ourselves because God’s grace is not so much tailored to fit each individual as spread harmoniously among believers who love one another. Whenever we say “Our Father”, we feel an echo within us of our being sons and daughters, but also of our being brothers and sisters. Prayer is the oxygen of ecumenism. Without prayer, communion becomes stifling and makes no progress, because we prevent the wind of the Spirit from driving us forward. Let us ask ourselves: How much do we pray for one another? The Lord prayed that we would be one: do we imitate him in this regard?

Working together. Here I would like to reaffirm that the Catholic Church acknowledges the special importance of the work carried out by the Faith and Order Commission and desires to keep contributing to that work through the participation of highly qualified theologians. The quest of Faith and Order for a common vision of the Church, together with its work of studying moral and ethical issues, touch areas crucial for the future of ecumenism. I would also mention the active presence of the Church in the Commission on World Mission and Evangelism; collaboration with the Office for Interreligious Dialogue and Cooperation, most recently on the important theme of education for peace; and the joint preparation of texts for the Week of Prayer for Christian Unity. These and various other forms of working together are fundamental elements in a sound and time-tested cooperation. I also value the essential role played by the Bossey Ecumenical Institute in the training of future pastoral and academic leaders in many Christian Churches and Confessions worldwide. The Catholic Church has long participated in this educational project through the presence of a Catholic professor on the faculty, and each year I have the joy of greeting the group of students who visit Rome. I would likewise mention, as a good sign of “ecumenical team spirit”, the growing participation in the Day of Prayer for the Care of Creation.

I would also note that the work of our Christian communities is rightly defined by the word diakonia. It is our way of following the Master who came “not to be served but to serve” (Mk 10:45). The broad gamut of services provided by the member churches of the World Council finds emblematic expression in the Pilgrimage of Justice and Peace. The credibility of the Gospel is put to the test by the way Christians respond to the cry of all those, in every part of the world, who suffer unjustly from the baleful spread of an exclusion that, by generating poverty, foments conflicts. The more vulnerable are increasingly marginalized, lacking their daily bread, employment and a future, while the rich are fewer and ever more wealthy. Let us be challenged to compassion by the cry of those who suffer: “the programme of the Christian is a heart that sees” (BENEDICT XVI, Deus Caritas Est, 31). Let us see what we can do concretely, rather than grow discouraged about what we cannot. Let us also look to our many brothers and sisters in various parts of the world, particularly in the Middle East, who suffer because they are Christians. Let us draw close to them. May we never forget that our ecumenical journey is preceded and accompanied by an ecumenism already realized, the ecumenism of blood, which urges us to go forward.

Let us encourage one another to overcome the temptation to absolutize certain cultural paradigms and get caught up in partisan interests. Let us help men and women of good will to grow in concern for events and situations that affect a great part of humanity but seldom make it to the front page. We cannot look the other way. It is problematic when Christians appear indifferent towards those in need. Even more troubling is the conviction on the part of some, who consider their own blessings clear signs of God’s predilection rather than a summons to responsible service of the human family and the protection of creation. The Lord, the Good Samaritan of mankind (cf. Lk 10:29-37), will examine us on our love for our neighbour, for each of our neighbours (cf. Mt 25:31-46). So let us ask ourselves: What can we do together? If a particular form of service is possible, why not plan and carry it out together, and thus start to experience a more intense fraternity in the exercise of concrete charity?

Dear brothers and sisters, I renew to you my cordial thanks. Let us help one another to walk, pray and work together, so that, with God’s help, unity may grow and the world may believe. Thank you.

[00994-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern,

es freut mich, euch zu treffen, und ich danke euch für den herzlichen Empfang. Insbesondere bin ich dem Generalsekretär Pastor Dr. Olav Fykse Tveit und der Moderatorin Dr. Agnes Abuom für ihre Worte und für die Einladung anlässlich des 70. Jahrestages der Gründung des Ökumenischen Rates der Kirchen dankbar.

In der Bibel erinnern siebzig Jahre an eine erfüllte Zeit, ein Zeichen des göttlichen Segens. Aber siebzig ist auch eine Zahl, die uns zwei berühmte Stellen aus dem Evangelium in den Sinn kommen lässt. In der ersten hat uns der Herr aufgetragen, einander nicht nur siebenmal, sondern „bis zu siebzigmal siebenmal“ (Mt 18,22) zu vergeben. Die Zahl bezeichnet gewiss nicht eine quantitative Größe, sondern eröffnet einen qualitativen Horizont, der nicht die Gerechtigkeit abmisst, sondern das Maß einer maßlosen Liebe ausbreitet, die fähig ist, grenzenlos zu vergeben. Es ist diese Liebe, die uns nach Jahrhunderten von Konflikten erlaubt, als versöhnte und Gott unserem Vater dankbare Brüder und Schwestern zusammen zu sein.

Wenn wir hier sind, so auch dank derer, die uns auf dem Weg vorausgegangen sind, indem sie den Weg des Verzeihens wählten und sich dafür einsetzten, um dem Willen des Herrn zu entsprechen: „Alle sollen eins sein« (Joh 17,21). Angetrieben vom sehnlichen Verlangen Jesu haben sie sich nicht von den verwickelten Knoten der Streitigkeiten im Zaum halten lassen, sondern sie hatten die Kühnheit, weiter zu schauen und an die Einheit zu glauben, wobei sie die Zäune des Verdachts und der Angst überwinden wollten. Es ist wahr, was ein altehrwürdiger Vater im Glauben sagte: »Falls die Liebe die Furcht vollständig vertreiben sollte (…) und die Furcht sich verändern und zu Liebe werden sollte, dann wird man entdecken, dass das, was rettet, gerade die Einheit ist.« (vgl. Hl. Gregor von Nyssa, Homilie 15 über das Hohelied zu Cant. 6,8-9c). Wir sind die Nutznießer des Glaubens, der Liebe und der Hoffnung vieler, die mit der unbewaffneten Kraft des Evangeliums den Mut hatten, die Richtung der Geschichte umzukehren, jener Geschichte, die uns dazu geführt hatte, uns gegenseitig zu misstrauen und uns voneinander zu entfremden und so der diabolischen Spirale fortdauernder Zersplitterung nachzugeben. Dank des Heiligen Geistes, der die Ökumene angeregt hat und sie führt, hat sich die Richtung geändert und ein neuer wie alter Weg ist unauslöschlich markiert worden: der Weg der versöhnten Gemeinschaft in Richtung auf das Offenbarwerden jener Brüderlichkeit hin, die die Glaubenden schon vereint.

Die Zahl siebzig bietet im Evangelium eine zweite Anregung. Sie ruft jene Jünger in Erinnerung, die Jesus während seines öffentlichen Wirkens aussandte (vgl. Lk 10,1) und die im christlichen Orient verehrt werden. Die Anzahl dieser Jünger verweist auf die der bekannten Nationen, die am Anfang der Heiligen Schrift aufgelistet werden (vgl. Gen 10). Was legt uns dies nahe? Dass die Mission sich an alle Völker richtet und dass jeder Jünger, um ein solcher zu sein, Apostel, Missionar werden muss. Der Ökumenische Rat der Kirchen ist als Werkzeug jener ökumenischen Bewegung entstanden, die durch einen starken Aufruf zur Mission wachgerufen wurde: Wie können die Christen evangelisieren, wenn sie untereinander getrennt sind? Diese dringende Fragestellung lenkt immer noch unseren Weg und setzt die Bitte des Herrn um, eins zu sein, »damit die Welt glaubt« (Joh 17,21).

Gestattet mir, liebe Brüder und Schwestern, euch über meinen aufrichtigen Dank für euren Einsatz zugunsten der Einheit hinaus auch eine Sorge zum Ausdruck zu bringen. Diese kommt vom Eindruck, dass die Ökumene und die Mission nicht mehr so eng miteinander verbunden sind wie am Ursprung. Und doch darf der missionarische Auftrag, der mehr ist als die diakonia und die Entwicklungshilfe, weder vergessen noch entleert werden. Unsere Identität hängt davon ab. Die Verkündigung des Evangeliums bis zu den äußersten Grenzen gehört zum Wesen unseres Christseins. Gewiss variiert die Art und Weise der Ausübung der Mission je nach Zeitepoche und örtlichen Gegebenheiten; und angesichts der leider oft wiederkehrenden Versuchung, sich entsprechend weltlicher Denkmuster aufzudrängen, ist es notwendig, daran zu erinnern, dass die Kirche Christi durch Anziehung wächst.

Aber worin besteht diese Kraft der Anziehung? Gewiss nicht in unseren Ideen, Strategien oder Projekten: An Jesus Christus glaubt man nicht mittels einer Sammlung von Ja-Stimmen, und das Volk Gottes ist nicht auf den Rang einer NGO herabzustufen. Nein, die Kraft der Anziehung liegt ganz in jener erhabenen Gabe, die den Apostel Paulus gewann: »Christus will ich erkennen und die Macht seiner Auferstehung und die Gemeinschaft mit seinen Leiden« (Phil 3,10). Dies ist unser einziger Ruhm: »die Erkenntnis des göttlichen Glanzes auf dem Antlitz Christi« (2 Kor 4,6), die uns vom lebensspendenden Geist geschenkt wird. Dies ist der Schatz, den wir als zerbrechliche Gefäße (vgl. V. 7) dieser unserer geliebten und geplagten Welt anbieten müssen. Wir wären der uns anvertrauten Sendung nicht treu, wenn wir diesen Schatz auf den Wert eines rein diesseitigen Humanismus reduzieren würden, der sich den Moden des Augenblicks anpasst. Und wir wären schlechte Hüter, wenn wir ihn nur bewahren und ihn aus Angst vor den Provokationen der Herausforderungen der Welt zurückhalten wollten (vgl. Mt 25,25).

Das, was wir wirklich brauchen, ist ein neuer Schwung bei der Evangelisierung. Wir sind gerufen ein Volk zu sein, das die Freude des Evangeliums lebt und teilt, das den Herrn lobt und den Brüdern dient, mit dem brennenden Wunsch in der Seele, die unerhörten Horizonte der Güte und der Schönheit denjenigen zu erschließen, die noch nicht die Gnade erhalten haben, Jesus wirklich zu kennen. Ich bin überzeugt, dass, wenn der missionarische Schub wachsen wird, auch die Einheit unter uns wachsen wird. Wie an den Ursprüngen die Verkündigung den Frühling der Kirche kennzeichnete, so wird die Evangelisierung die Blüte eines neuen ökumenischen Frühlings kennzeichnen. Schmiegen wir uns, wie zu Anfang, gemeinsam an unseren Meister an, nicht ohne eine gewisse Scham aufgrund unseres ständigen Zauderns zu empfinden, und sagen wir ihm mit Petrus: »Herr, zu wem sollen wir gehen? Du hast Worte ewigen Lebens« (Joh 6,68).

Liebe Brüder und Schwestern, ich wollte persönlich an den Feierlichkeiten dieses Jahrestages des Rates teilnehmen, auch um den Einsatz der katholischen Kirche für die ökumenische Sache zu bekräftigen und zur Zusammenarbeit mit den Mitgliedskirchen und den ökumenischen Partnern zu ermutigen. In dieser Hinsicht möchte ich etwas bei dem für diesen Tag gewählten Motto verweilen: Gemeinsam gehen – beten – arbeiten.

Gehen: Ja, aber wohin? Auf der Grundlage des Gesagten würde ich eine doppelte Bewegung empfehlen: eine hineingehende und eine herausgehende: Hineingehend, um uns beständig auf den Mittelpunkt auszurichten, um uns als Weinreben zu erkennen, die dem einzigen Weinstock, der Jesus ist, eingepfropft sind (vgl. Joh 15,1-8). Wir werden keine Frucht bringen, wenn wir uns nicht gegenseitig dabei helfen, mit ihm vereint zu bleiben. Herausgehend zu den vielfältigen existentiellen Peripherien von heute, um gemeinsam der leidenden Menschheit die heilende Gnade des Evangeliums zu bringen. Wir könnten uns fragen, ob wir wirklich oder nur mit Worten weitergehen, ob wir die Brüder dem Herrn darbringen und sie uns tatsächlich am Herzen liegen, oder ob sie fern von unseren echten Interessen sind. Wir könnten uns auch fragen, ob unser Weg ein Kehrtmachen ist oder ein überzeugtes Gehen zur Welt, um den Herrn dorthin zu bringen.

Beten: Auch im Gebet können wir wie beim Gehen nicht alleine voranschreiten, weil die Gnade Gottes sich eher harmonisch unter den Glaubenden ausbreitet, die sich lieben, als dass sie sich auf Einzelmaß zuschneiden ließe. Wenn wir „Vater unser“ sagen, erklingt in uns unsere Kindschaft, aber auch unser Geschwistersein. Das Gebet ist der Sauerstoff der Ökumene. Ohne Gebet wird die Gemeinschaft leblos und sie schreitet nicht voran, weil wir dem Windhauch des Geistes verwehren, sie anzutreiben. Fragen wir uns: Wie viel beten wir füreinander? Der Herr hat gebetet, dass wir eins seien: Ahmen wir ihn darin nach?

Gemeinsam arbeiten: Diesbezüglich möchte ich unterstreichen, dass die katholische Kirche die besondere Wichtigkeit der Arbeit anerkennt, die die Kommission für Glaube und Kirchenverfassung leistet, und sie möchte weiterhin ihren Beitrag durch die Teilnahme hochqualifizierter Theologen erbringen. Die Suche der Kommission nach einer gemeinsamen Vision von Kirche und ihre Arbeit über die Unterscheidung der moralischen und ethischen Fragen berühren neuralgische Punkte der ökumenischen Aufgabe. Ebenso sind die aktive Anwesenheit in der Kommission für Weltmission und Evangelisation, die Mitarbeit mit dem Büro für den interreligiösen Dialog und in letzter Zeit die Kooperation hinsichtlich des wichtigen Themas der Erziehung zum Frieden sowie die gemeinsame Vorbereitung der Texte für die Gebetwoche für die Einheit der Christen und verschiedene andere Formen des vereinten Wirkens grundlegende Elemente einer soliden und erprobten Zusammenarbeit. Darüber hinaus wertschätze ich die unverzichtbare Rolle des Ökumenischen Instituts in Bossey bei der ökumenischen Ausbildung der jungen Generationen der pastoralen und akademischen Verantwortungsträger vieler christlicher Kirchen und Konfessionen aus der ganzen Welt. Die katholische Kirche wirkt seit vielen Jahren an diesem Ausbildungswerk durch die Anwesenheit eines katholischen Professors an der Fakultät mit; und jedes Jahr habe ich die Freude, die Studentengruppe zu begrüßen, die ihre Studienreise nach Rom unternimmt. Ich möchte auch als gutes Zeichen des „ökumenischen Einvernehmens“ die wachsende Teilnahme am Gebetstag für die Bewahrung der Schöpfung erwähnen.

Überdies hat die typische kirchliche Arbeit ein klar definiertes Synonym: diakonia. Sie ist der Weg, auf dem wir dem Meister nachfolgen müssen, »der nicht gekommen ist, um sich dienen zu lassen, sondern um zu dienen« (Mk 10,45). Der vielfältige und intensive Dienst der Mitgliedskirchen des Rates findet sinnbildlichen Ausdruck im Pilgerweg der Gerechtigkeit und des Friedens. Die Glaubwürdigkeit des Evangeliums wird durch die Art und Weise auf die Probe gestellt, in der die Christen auf den Ruf derer antworten, die in allen Winkeln der Erde durch Ungerechtigkeit Opfer der tragischen Zunahme eines Ausschlusses sind, der Armut erzeugt und die Konflikte nährt. Die Schwachen werden immer mehr ausgegrenzt, ohne Brot, Arbeit und Zukunft, während die Reichen immer weniger und immer reicher werden. Fühlen wir uns vom Weinen der Leidenden angesprochen und empfinden wir Mitleid, denn das »Programm des Christen ist ein sehendes Herz« (Benedikt XVI., Enzyklika Deus caritas est, 31). Sehen wir das, was konkret machbar ist, anstatt uns durch das entmutigen zu lassen, was nicht getan werden kann. Schauen wir auch auf so viele unserer Brüder und Schwestern, die in verschiedenen Teilen der Welt, vor allem im Nahen Osten, leiden, weil sie Christen sind. Seien wir ihnen nahe. Und erinnern wir uns, dass unserem ökumenischen Weg eine schon verwirklichte Ökumene vorausgeht und ihn begleitet, die Ökumene des Blutes, die uns auffordert, weiterzugehen.

Machen wir uns einander Mut, die Versuchung zu überwinden, bestimmte kulturelle Denkmuster zu verabsolutieren und uns von parteilichen Interessen vereinnahmen zu lassen. Helfen wir den Menschen guten Willens, Situationen und Angelegenheiten, die einen Großteil der Menschheit betreffen, aber einen Platz zu sehr am Rande der vielen Meldungen einnehmen, mehr Raum zu geben. Wir können nicht teilnahmslos sein, und es ist Grund zur Beunruhigung, wenn sich einige Christen gegenüber den Bedürftigen gleichgültig zeigen. Noch trauriger ist die Überzeugung derer, die ihre eigenen Vorteile als reine Zeichen der göttlichen Bevorzugung erachten, anstatt als einen Ruf, der Menschheitsfamilie verantwortungsvoll zu dienen und die Schöpfung zu bewahren. Der Herr wird uns zu unserer Liebe zum Nächsten, jedem Nächsten, fragen, der Gute Samariter der Menschheit (vgl. Lk 10,29-37) wird uns fragen. Fragen wir uns also: Was können wir gemeinsam tun? Wenn ein Dienst möglich ist, warum ihn nicht gemeinsam planen und durchführen, um so allmählich eine intensivere Brüderlichkeit in der Ausübung der konkreten Nächstenliebe zu erfahren?

Liebe Brüder und Schwestern, ich danke euch erneut herzlich. Helfen wir uns, gemeinsam zu gehen, zu beten und zu arbeiten, damit die Einheit mit der Hilfe Gottes voranschreite und die Welt glaube. Danke.

[00994-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas:

Me es grato encontrarme con vosotros y os agradezco vuestra amable acogida. En particular, doy las gracias al Secretario General, Reverendo Dr. Olav Fykse Tveit, y a la Moderadora, Dra. Agnes Abuom, por sus palabras y por haberme invitado con ocasión del 70º aniversario de la institución del Consejo Ecuménico de las Iglesias.

En la Biblia, setenta años evocan un período de tiempo cumplido, signo de la bendición de Dios. Pero setenta es también un número que hace aflorar en la mente dos célebres pasajes evangélicos. En el primero, el Señor nos ha mandado perdonarnos no siete, sino «hasta setenta veces siete» (Mt 18,22). El número no se refiere desde luego a un concepto cuantitativo, sino que abre un horizonte cualitativo: no mide la justicia, sino que inaugura el criterio de una caridad sin medida, capaz de perdonar sin límites. Esta caridad que, después de siglos de controversias, nos permite estar juntos, como hermanos y hermanas reconciliados y agradecidos con Dios nuestro Padre.

Si estamos aquí es gracias también a cuantos nos han precedido en el camino, eligiendo la senda del perdón y gastándose por responder a la voluntad del Señor: «que todos sean uno» (Jn 17,21). Impulsados por el deseo apremiante de Jesús, no se han dejado enredar en los nudos intrincados de las controversias, sino que han encontrado la audacia para mirar más allá y creer en la unidad, superando el muro de las sospechas y el miedo. Tenía razón un antiguo padre en la fe cuando afirmaba: «Si el amor logra expulsar completamente al temor y este, transformado, se convierte en amor, entonces veremos que la unidad es una consecuencia de la salvación» (S. Gregorio de Nisa, Homilía 15, Comentario sobre el libro del Cantar de los Cantares).

Somos los depositarios de la fe, de la caridad, de la esperanza de tantos que, con la fuerza inerme del Evangelio, han tenido la valentía de cambiar la dirección de la historia, esa historia que nos había llevado a desconfiar los unos de los otros y a distanciarnos recíprocamente, cediendo a la diabólica espiral de continuas fragmentaciones. Gracias al Espíritu Santo, inspirador y guía del ecumenismo, la dirección ha cambiado y se ha trazado de manera indeleble un camino nuevo y antiguo a la vez: el camino de la comunión reconciliada, hacia la manifestación visible de esa fraternidad que ya une a los creyentes.

El número setenta ofrece en el Evangelio un segundo punto de reflexión. Se refiere a los discípulos que Jesús envió a la misión durante su ministerio público (Lc 10,1) y cuya memoria se celebra en el Oriente cristiano. El número de estos discípulos remite a las naciones conocidas, enumeradas al comienzo de la Escritura (cf. Gn 10). ¿Qué nos sugiere esto? Que la misión está dirigida a todos los pueblos y que cada discípulo, por ser tal, debe convertirse en apóstol, en misionero. El Consejo Ecuménico de las Iglesias ha nacido como un instrumento de aquel movimiento ecuménico suscitado por una fuerte llamada a la misión: ¿cómo pueden los cristianos evangelizar si están divididos entre ellos? Esta apremiante pregunta es la que dirige también hoy nuestro caminar y traduce la oración del Señor a estar unidos «para que el mundo crea» (Jn 17,21).

Permitidme, queridos hermanos y hermanas, manifestaros también, además del vivo agradecimiento por el esfuerzo que realizáis en favor de la unidad, una preocupación. Esta nace de la impresión de que el ecumenismo y la misión no están tan estrechamente unidos como al principio. Y, sin embargo, el mandato misionero, que es más que la diakonia y que la promoción del desarrollo humano, no puede ser olvidado ni vaciado. Se trata de nuestra identidad. El anuncio del Evangelio hasta el último confín es connatural a nuestro ser cristianos. Ciertamente, el modo como se realiza la misión cambia según los tiempos y los lugares y, frente a la tentación ―lamentablemente frecuente―, de imponerse siguiendo lógicas mundanas, conviene recordar que la Iglesia de Cristo crece por atracción.

¿En qué consiste esta fuerza de atracción? Evidentemente, no en nuestras ideas, estrategias o programas. No se cree en Jesucristo mediante un acuerdo de voluntades y el Pueblo de Dios no es reductible al rango de una organización no gubernamental. No, la fuerza de atracción radica en aquel don sublime que conquistó al apóstol Pablo: «conocerlo a él [Cristo], y la fuerza de su resurrección, y la comunión con sus padecimientos» (Flp 3,10). Solo de esto podemos presumir: del «conocimiento de la gloria de Dios reflejada en el rostro de Cristo» (2 Co 4,6), que nos da el Espíritu vivificador. Este es el tesoro que nosotros, frágiles vasijas de barro (cf. v. 7), debemos ofrecer a nuestro amado y atormentado mundo. No seríamos fieles a la misión que se nos ha confiado si redujéramos este tesoro al valor de un humanismo puramente inmanente, adaptable a las modas del momento. Y seríamos malos custodios si quisiéramos solo preservarlo, enterrándolo por miedo a los desafíos del mundo (cf. Mt 25,25).

Tenemos necesidad de un nuevo impulso evangelizador. Estamos llamados a ser un pueblo que vive y comparte la alegría del Evangelio, que alaba al Señor y sirve a los hermanos, con un espíritu que arde por el deseo de abrir horizontes de bondad y de belleza insospechados para quien no ha tenido aún la gracia de conocer verdaderamente a Jesús. Estoy convencido de que, si aumenta la fuerza misionera, crecerá también la unidad entre nosotros. Así como en los orígenes el anuncio marcó la primavera de la Iglesia, la evangelización marcará el florecimiento de una nueva primavera ecuménica. Como en los orígenes, estrechémonos en comunión en torno al Maestro, no sin antes arrepentirnos de nuestras continuas vacilaciones y digámosle, con Pedro: «Señor, ¿a quién vamos a acudir? Tú tienes palabras de vida eterna» (Jn 6,68).

Queridos hermanos y hermanas: He deseado estar presente en las celebraciones de este aniversario del Consejo también para reafirmar el compromiso de la Iglesia Católica en la causa ecuménica y para animar la cooperación con las Iglesias miembros y con los interlocutores ecuménicos. En este contexto, también quisiera detenerme un poco en el lema elegido para esta jornada: Caminar – Rezar – Trabajar juntos.

Caminar: sí, pero ¿hacia dónde? En base a cuanto se ha dicho, propongo un doble movimiento: de entrada y de salida. De entrada, para dirigirnos constantemente hacia el centro, para reconocernos sarmientos injertados en la única vid que es Jesús (cf. Jn 15,1-8). No daremos fruto si no nos ayudamos mutuamente a permanecer unidos a él. De salida, hacia las múltiples periferias existenciales de hoy, para llevar juntos la gracia sanadora del Evangelio a la humanidad que sufre. Preguntémonos si estamos caminando de verdad o solo con palabras, si los hermanos nos importan de verdad y los encomendamos al Señor o están lejos de nuestros intereses reales. También preguntémonos si nuestro camino es un volver sobre nuestros propios pasos o si es un ir al mundo con convicción para llevar allí al Señor.

Rezar: También en la oración, como en el camino, no podemos avanzar solos, porque la gracia de Dios, más que hacerse a medida individual, se difunde armoniosamente entre los creyentes que se aman. Cuando decimos «Padre nuestro» resuena dentro de nosotros nuestra filiación, pero también nuestro ser hermanos. La oración es el oxígeno del ecumenismo. Sin oración la comunión se queda sin oxígeno y no avanza, porque impedimos al viento del Espíritu empujarla hacia adelante. Preguntémonos: ¿Cuánto rezamos los unos por los otros? El Señor ha rezado para que fuésemos una sola cosa, ¿lo imitamos en esto?

Trabajar juntos: En este sentido quisiera subrayar que la Iglesia Católica reconoce la especial importancia del trabajo que desempeña la Comisión Fe y Constitución, y desea seguir contribuyendo a través de la participación de teólogos altamente cualificados. El estudio de Fe y Constitución, para una visión común de la Iglesia y su trabajo en el discernimiento de las cuestiones morales y éticas tocan puntos neurálgicos del desafío ecuménico. Del mismo modo, la presencia activa en la Comisión para la Misión y la Evangelización; la colaboración con la Oficina para el Diálogo Interreligioso y la Cooperación, últimamente sobre el importante tema de la educación y la paz; la preparación conjunta de los textos para la Semana de oración por la unidad de los cristianos y otras formas de sinergia son elementos constitutivos de una sólida y auténtica colaboración. Asimismo, agradezco la importante labor del Instituto Ecuménico de Bossey en la formación ecuménica de las jóvenes generaciones de responsables pastorales y académicos de tantas Iglesias y Confesiones cristianas de todo el mundo. Desde hace muchos años, la Iglesia Católica colabora en esta obra educativa con la presencia de un profesor católico en la Facultad; y cada año tengo la alegría de saludar al grupo de estudiantes que realiza el viaje de estudios a Roma. Quisiera mencionar también, como signo positivo de “armonía ecuménica”, la creciente adhesión a la Jornada de oración por el cuidado de la creación.

Por otra parte, el trabajo típicamente eclesial tiene un sinónimo bien definido: diakonia. Es el camino por el que seguimos al Maestro, que «no ha venido a ser servido, sino a servir» (Mc 10,45). El servicio variado e intenso de las Iglesias miembros del Consejo encuentra una expresión emblemática en la Peregrinación de justicia y paz. La credibilidad del Evangelio se ve afectada por el modo cómo los cristianos responden al clamor de todos aquellos que, en cualquier rincón de la tierra, son injustamente víctimas del trágico aumento de una exclusión que, generando pobreza, fomenta los conflictos. Mientras los débiles son cada vez más marginados, sin pan, trabajo ni futuro, los ricos son cada vez menos y más ricos. Dejémonos interpelar por el llanto de los que sufren, y sintamos compasión, porque «el programa del cristiano es un corazón que ve» (Benedicto XVI, Carta enc. Deus caritas est, 31). Veamos qué podemos hacer concretamente, antes de desanimarnos por lo que no podemos. Miremos también a tantos hermanos y hermanas nuestros que en diversas partes del mundo, especialmente en Oriente Medio, sufren porque son cristianos. Estemos cerca de ellos. Y recordemos que nuestro camino ecuménico está precedido y acompañado por un ecumenismo ya realizado, el ecumenismo de la sangre, que nos exhorta a seguir adelante.

Animémonos a superar la tentación de absolutizar determinados paradigmas culturales y dejarnos absorber por intereses personales. Ayudemos a los hombres de buena voluntad a dar mayor relieve a situaciones y acontecimientos que afectan a una parte importante de la humanidad, pero que ocupan un lugar muy marginal en el ámbito de la información a gran escala. No podemos desinteresarnos, y es preocupante cuando algunos cristianos se muestran indiferentes frente al necesitado. Más triste aún es la convicción de quienes consideran los propios bienes como signo de predilección divina, en vez de una llamada a servir con responsabilidad a la familia humana y a custodiar la creación. El Señor, Buen Samaritano de la humanidad (cf. Lc 10,29-37), nos interpelará sobre el amor al prójimo, cualquiera que sea (cf. Mt 25,31-46). Preguntémonos entonces: ¿Qué podemos hacer juntos? Si es posible hacer un servicio, ¿por qué no proyectarlo y realizarlo juntos, comenzando por experimentar una fraternidad más intensa en el ejercicio de la caridad concreta?

Queridos hermanos y hermanas: Os renuevo mi cordial agradecimiento. Ayudémonos a caminar, a rezar y a trabajar juntos para que, con la ayuda de Dios, la unidad avance y el mundo crea. Gracias.

[00994-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Amados irmãos e irmãs!

Estou feliz por vos encontrar e grato pela vossa calorosa receção. Agradeço de modo particular ao Secretário-Geral, Reverendo Dr. Olav Fykse Tveit, e à Moderadora, Dra. Agnes Abuom, pelas suas palavras e por me terem convidado por ocasião do septuagésimo aniversário da criação do Conselho Mundial das Igrejas.

Biblicamente, o cômputo de setenta anos evoca a duração completa duma vida, sinal de bênção divina. Mas, setenta é também um número que traz à mente duas passagens famosas do Evangelho. Na primeira, o Senhor mandou perdoar-nos, não até sete vezes, mas «até setenta vezes sete» (Mt 18, 22). O número não pretende por certo indicar um limite quantitativo, mas abrir um horizonte qualitativo: não mede a justiça, mas alonga a medida para uma caridade desmesurada, capaz de perdoar sem limites. É esta caridade que nos permite, depois de séculos de contrastes, estar juntos como irmãos e irmãs reconciliados e agradecidos a Deus nosso Pai.

O facto de nos encontrarmos aqui deve-se também a quantos nos precederam no caminho, escolhendo a estrada do perdão e consumindo-se para responder à vontade do Senhor: que «todos sejam um só» (Jo 17, 21). Impelidos pelo desejo ardente de Jesus, não se deixaram manietar pelos nós complicados das controvérsias, mas encontraram a audácia de olhar mais além e acreditar na unidade, superando as barreiras das suspeitas e do medo. É verdade aquilo que afirmava um antigo pai na fé: «Se verdadeiramente o amor conseguir eliminar o medo e este se transformar em amor, então descobrir-se-á que o que salva é precisamente a unidade» (São Gregório de Nissa, Homilia 15 sobre o Cântico dos Cânticos). Somos os beneficiários da fé, da caridade e da esperança de muitos que tiveram, com a força desarmada do Evangelho, a coragem de inverter o sentido da história; aquela história que nos levara a desconfiar uns dos outros e a alhear-nos mutuamente, seguindo a espiral diabólica de incessantes fragmentações. Graças ao Espírito Santo, inspirador e guia do ecumenismo, o sentido mudou e ficou indelevelmente traçado um caminho novo e, ao mesmo tempo, antigo: o caminho da comunhão reconciliada, rumo à manifestação visível daquela fraternidade que já une os crentes.

Mas, o número setenta proporciona-nos um segundo motivo evangélico: lembra aqueles discípulos que Jesus, durante o ministério público, enviou em missão (cf. Lc 10, 1) e são objeto de celebração no Oriente cristão. O número destes discípulos alude ao número das nações conhecidas, elencadas nos primeiros capítulos da Sagrada Escritura (cf. Gn 10). Que sugestão nos deixa isto? Que a missão tem em vista todos os povos, e cada discípulo, para ser tal, deve tornar-se apóstolo, missionário. O Conselho Ecuménico das Igrejas nasceu como instrumento do movimento ecuménico que foi suscitado por um forte apelo à missão: como podem os cristãos evangelizar, se estão divididos entre si? Esta premente interpelação orienta ainda o nosso caminho e traduz o pedido do Senhor para permanecermos unidos a fim de que «o mundo creia» (Jo 17, 21).

Permiti-me, amados irmãos e irmãs, que, além de viva gratidão pelo empenho que dedicais à unidade, vos manifeste também uma preocupação. Esta deriva da impressão de que o ecumenismo e a missão já não aparecem tão intimamente interligados como no princípio. E todavia o mandato missionário, que é mais do que a diakonia e a promoção do desenvolvimento humano, não pode ser esquecido nem anulado. Em causa está a nossa identidade. O anúncio do Evangelho até aos últimos confins da terra é conatural ao nosso ser de cristãos. Com certeza, a maneira de exercer a missão varia segundo os tempos e lugares e, perante a tentação – infelizmente habitual – de se impor seguindo lógicas mundanas, é preciso lembrar-se de que a Igreja de Cristo cresce por atração.

Mas, em que consiste esta força de atração? Não está por certo nas nossas ideias, estratégias ou programas: não se crê em Jesus Cristo através duma recolha de consensos, nem o Povo de Deus se pode reduzir ao nível duma organização não-governamental. Não! A força de atração está toda naquele dom sublime que conquistou o apóstolo Paulo: «Conhecer a [Cristo], na força da sua ressurreição e na comunhão com os seus sofrimentos» (Flp 3, 10). Este é o nosso único motivo de glória: «o conhecimento da glória de Deus, que resplandece na face de Cristo» (2 Cor 4, 6) e que nos foi dado pelo Espírito vivificador. Este é o tesouro que nós, frágeis vasos de barro (cf. 2 Cor 4, 7), devemos oferecer a este nosso amado e atribulado mundo. Não seríamos fiéis à missão que nos foi confiada, se reduzíssemos este tesouro ao valor dum humanismo puramente imanente, ao sabor das modas do momento. E seríamos maus guardiões, se quiséssemos apenas preservá-lo, enterrando-o com medo de sermos provocados pelos desafios do mundo (cf. Mt 25, 25).

Aquilo de que temos verdadeiramente necessidade é dum novo ímpeto evangelizador. Somos chamados a ser um povo que vive e partilha a alegria do Evangelho, que louva ao Senhor e serve os irmãos, com o espírito que deseja ardentemente descerrar horizontes de bondade e beleza inauditos a quem ainda não teve a graça de conhecer verdadeiramente a Jesus. Estou convencido que, se aumentar o impulso missionário, crescerá também a unidade entre nós. Como nos primórdios o anúncio marcou a primavera da Igreja, assim a evangelização marcará o florescimento duma nova primavera ecuménica. Como nos primórdios, estreitemo-nos em comunhão ao redor do Mestre, envergonhando-nos das nossas contínuas hesitações e dizendo-Lhe com Pedro: «A quem iremos nós, Senhor? Tu tens palavras de vida eterna» (Jo 6, 68).

Amados irmãos e irmãs, desejei participar pessoalmente nas comemorações deste aniversário do Conselho inclusive para reafirmar o empenhamento da Igreja Católica na causa ecuménica e encorajar a cooperação com as Igrejas-membros e com os parceiros ecuménicos. A propósito, quero deter-me um pouco, também eu, no lema escolhido para este dia: Caminhar - Rezar - Trabalhar juntos.

Caminhar sim, mas para onde? Na base do que ficou dito, sugeriria um movimento duplo: de entrada e de saída. De entrada, a fim de nos dirigirmos constantemente para o centro, reconhecendo-nos ramos enxertados na única videira que é Jesus (cf. Jo 15, 1-8). Não daremos fruto sem nos ajudarmos mutuamente a permanecer unidos a Ele. De saída, rumo às múltiplas periferias existenciais de hoje, para levarmos juntos a graça sanadora do Evangelho à humanidade atribulada. Poderíamos interrogar-nos se estamos a caminhar de verdade ou apenas em palavras, se apresentamos os irmãos ao Senhor e os temos verdadeiramente a peito, ou se estão longe dos nossos reais interesses. Poderíamos interrogar-nos também se o nosso caminho é um mero cirandar sobre os nossos passos, ou uma convicta saída pelo mundo levando-lhe o Senhor.

Rezar: como no caminho, também na oração não podemos avançar sozinhos, porque a graça de Deus, mais do que retalhar-se à medida do indivíduo, difunde-se harmoniosamente entre os crentes que se amam. Quando dizemos «Pai nosso», ressoa dentro de nós a nossa filiação, mas também o nosso ser de irmãos. A oração é o oxigénio do ecumenismo. Sem oração, a comunhão asfixia e não avança, porque impedimos que o vento do Espírito a empurre para diante. Interroguemo-nos: Quanto rezamos uns pelos outros? O Senhor rezou para sermos um só; imitamo-Lo nisto?

Trabalhar juntos: a propósito, quero reiterar que a Igreja Católica reconhece a importância particular do trabalho realizado pela Comissão Fé e Constituição e deseja continuar a contribuir para ele através da participação de teólogos altamente qualificados. A pesquisa de Fé e Constituição em ordem a uma visão comum da Igreja e o seu trabalho no discernimento das questões morais e éticas tocam pontos nevrálgicos do desafio ecuménico. De igual modo a presença ativa na Comissão para a Missão e a Evangelização, a colaboração com o Departamento para o Diálogo Inter-religioso e a Cooperação – ainda recentemente sobre o tema importante da educação para a paz –, a preparação conjunta dos textos para a Semana de Oração pela Unidade dos Cristãos e várias outras formas de sinergia são elementos constitutivos duma sólida e corroborada colaboração. Além disso, aprecio o papel imprescindível do Instituto Ecuménico de Bossey na formação ecuménica das jovens gerações de responsáveis pastorais e académicos de muitas Igrejas e Confissões Cristãs de todo o mundo. Há muitos anos que a Igreja Católica colabora nesta obra educativa com a presença dum professor católico na Faculdade; e cada ano tenho a alegria de saudar o grupo de alunos que realiza a sua visita de estudo a Roma. Quero também mencionar, como bom sinal de «harmonia ecuménica», a crescente adesão ao Dia de Oração pela Salvaguarda da Criação.

Além disso, o trabalho tipicamente eclesial tem um sinónimo bem definido: diakonia. É o caminho por onde podemos seguir o Mestre, que «não veio para ser servido, mas para servir» (Mc 10, 45). O serviço variado e intenso das Igrejas-membros do Conselho encontra uma expressão emblemática na Peregrinação de Justiça e de Paz. A credibilidade do Evangelho é testada pela maneira como os cristãos respondem ao clamor de quantos injustamente, nos diferentes cantos da terra, são vítimas do trágico aumento duma exclusão que, gerando pobreza, fomenta os conflitos. Os fracos são cada vez mais marginalizados, vendo-se sem pão, sem trabalho nem futuro, enquanto os ricos são sempre menos e sempre mais ricos. Sintamo-nos interpelados pelo pranto dos que sofrem e compadeçamo-nos, porque «o programa do cristão (…) é um coração que vê» (Bento XVI, Carta enc. Deus caritas est, 31). Vejamos o que é possível fazer concretamente, em vez de nos desencorajar pelo que não o é. Olhemos também para muitos dos nossos irmãos e irmãs que em várias partes do mundo, especialmente no Médio Oriente, sofrem porque são cristãos. Estejamos ao seu lado. E lembremo-nos de que o nosso caminho ecuménico é precedido e acompanhado por um ecumenismo já realizado, o ecumenismo do sangue, que nos exorta a avançar.

Encorajemo-nos a superar a tentação de absolutizar certos paradigmas culturais e de nos deixar absorver por interesses de parte. Ajudemos as pessoas de boa vontade a dar maior espaço a situações e vicissitudes que afetam grande parte da humanidade, mas ocupam um lugar demasiado marginal na grande informação. Não podemos desinteressar-nos, e devemos inquietar-nos quando alguns cristãos se mostram indiferentes face a quem passa necessidade. E mais triste ainda é a convicção de quantos consideram os seus benefícios como puros sinais de predileção divina, e não como apelo a servir responsavelmente a família humana e salvaguardar a criação. É sobre o amor ao próximo, a cada pessoa que nos está próxima, que nos interpelará o Senhor (cf. Mt 25, 31-46), o Bom Samaritano da humanidade (cf. Lc 10, 29-37). Perguntemo-nos então: que podemos fazer juntos? Se um serviço é possível, por que não projetá-lo e realizá-lo conjuntamente, começando a experimentar uma fraternidade mais intensa no exercício da caridade concreta?

Amados irmãos e irmãs, reitero-vos a minha cordial gratidão. Ajudemo-nos a caminhar, rezar e trabalhar juntos, para que, com a ajuda de Deus, progrida a unidade e o mundo acredite. Obrigado.

[00994-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia i siostry,

Cieszę się, że mogę się z wami spotkać i dziękuję wam za życzliwe przyjęcie. Szczególnie jestem wdzięczny sekretarzowi generalnemu, wielebnemu dr. Olav Fykse Tveit, oraz pani moderator dr Agnes Abuom, za ich słowa i za zaproszenie z okazji 70-lecia Światowej Rady Kościołów.

Biblijnie, siedemdziesiąt lat przywołuje okres czasu wypełnionego, będącego znakiem Bożego błogosławieństwa. Ale siedemdziesiąt to także liczba, która przywodzi na myśl dwa słynne fragmenty Ewangelii. W pierwszym Pan nakazał nam przebaczać nie siedem, ale „siedemdziesiąt siedem razy” (Mt 18,22). Liczba ta z pewnością nie wskazuje na określenie ilościowe, lecz otwiera perspektywę jakościową: nie mierzy sprawiedliwości, ale otwiera na oścież miarę bezgranicznej miłości, zdolnej przebaczyć bez ograniczeń. To właśnie ta miłość, po wiekach konfliktów pozwala nam być razem, jako bracia i siostry pojednani i wdzięczni Bogu naszemu Ojcu.

Jeśli tu jesteśmy, to także dzięki tym, którzy nas poprzedzili w wędrówce, obierając drogę przebaczenia i poświęcając swą energię, by odpowiedzieć na wolę Bożą: aby „wszyscy stanowili jedno” (J 17, 21). Pobudzani żarliwym pragnieniem Jezusa, nie dali się powstrzymać przez zagmatwane węzły sporów, ale znaleźli odwagę, aby spojrzeć dalej i wierzyć w jedność, przezwyciężając mury podejrzeń i lęku. To prawda, co twierdził starożytny ojciec w wierze: „Gdy jednak miłość całkowicie usunie lęk i lęk przemieni się w miłość, wtedy okaże się, że wszyscy zbawieni stworzyli jedność” (św. GRZEGORZ Z NYSSY, Homilia 15, w: Homilie do Pieśni nad pieśniami, Kraków, 2007, s. 238). Jesteśmy beneficjentami wiary, miłości i nadziei wielu tych, którzy z bezbronną mocą Ewangelii, mieli odwagę, by odwrócić kierunek dziejów, tej historii, która doprowadziła nas do wzajemnej nieufności i oddalenia, wspierając diaboliczną spiralę nieustannego dzielenia się. Dzięki Duchowi Świętemu, inspiratorowi i przewodnikowi ekumenizmu nastąpiła zmiana kierunku i wytyczono drogę nową choć antyczną: drogę pojednanej komunii, ku widzialnemu ukazaniu tego braterstwa, które już jednoczy wierzących.

Liczba siedemdziesiąt podsuwa drugi motyw ewangeliczny. Przypomina o tych uczniach, których Jezus podczas posługi publicznej posłał na misję (por. Łk 10,1) i którym od dawna oddawana jest cześć na chrześcijańskim Wschodzie. Liczba tych uczniów odnosi do liczby znanych narodów, wymienionych na początku Pisma Świętego (por. Rdz 10). Cóż to nam sugeruje? Że misja skierowana jest do wszystkich narodów, i że każdy uczeń, aby nim być, musi stać się apostołem, misjonarzem. Światowa Rada Kościołów zrodziła się jako narzędzie tego ruchu ekumenicznego pobudzonego silnym powołaniem do misji: jakże chrześcijanie mogą ewangelizować, jeśli są podzieleni między sobą? To naglące pytanie wciąż ukierunkowuje nasze pielgrzymowanie i tłumaczy modlitwę Pana, abyśmy byli zjednoczeni, „aby świat uwierzył” (J 17, 21).

Pozwólcie mi, drodzy bracia i siostry, okazać wam, oprócz głębokiej wdzięczności za zaangażowanie, które poświęcacie jedności, także zatroskanie. Wypływa ono z wrażenia, że ekumenizm i misja nie są już tak ściśle ze sobą powiązane, jak pierwotnie. Jednak nie można zapominać o nakazie misyjnym ani pozbawiać go treści. Jest on czymś więcej niż diakonią i promocją ludzkiego rozwoju. Od tego zależy nasza tożsamość. Głoszenie Ewangelii aż po krańce ziemi jest nieodłączne od naszego bycia chrześcijanami. Z pewnością sposób, w jaki pełniona jest misja, jest różny w zależności od czasu i miejsca, a wobec powracającej niestety pokusy narzucania się według logiki światowej, należy pamiętać, że Kościół Chrystusowy rośnie przez przyciąganie.

Ale na czym polega ta siła przyciągania? Z pewnością nie na naszych pomysłach, strategiach czy programach: nie wierzy się w Jezusa Chrystusa poprzez pozyskiwanie poparcia, a Ludu Bożego nie można sprowadzić do rangi organizacji pozarządowej. Nie, siła przyciągania polega całkowicie na tym wzniosłym darze, który zdobył apostoł Paweł: „poznanie [Chrystusa]: zarówno mocy Jego zmartwychwstania, jak i udziału w Jego cierpieniach” (Flp 3,10). To jest nasza jedyna chluba: „poznanie chwały Bożej na obliczu Chrystusa” (2 Kor 4, 6), dane nam przez ożywiającego Ducha. To jest skarb, który my, kruche gliniane naczynia (zob. w. 7), musimy ofiarować temu naszemu umiłowanemu i udręczonemu światu. Nie bylibyśmy wierni powierzonej nam misji, gdybyśmy sprowadzili ten skarb do wartości czysto immanentnego humanizmu, dostosowanego do chwilowej mody. I bylibyśmy złymi stróżami, gdybyśmy tylko chcieli go zachować, grzebiąc go w ziemi z obawy, że zostaniemy sprowokowani wyzwaniami świata (por. Mt 25,25).

To, czego potrzebujemy naprawdę, to nowy rozmach ewangelizacyjny. Jesteśmy wezwani, aby być ludem, który żyje i dzieli się radością Ewangelii, który chwali Pana i służy braciom, z duszą, która płonie pragnieniem ukazywania niezwykłych horyzontów dobroci i piękna tym, którzy jeszcze nie mieli łaski prawdziwego poznania Jezusa. Jestem przekonany, że jeśli wzrośnie impuls misyjny, to wzrośnie także jedność wśród nas. Podobnie, jak na początku przepowiadanie znaczyło wiosnę Kościoła, tak też ewangelizacja naznaczy rozkwitanie nowej ekumenicznej wiosny. Podobnie, jak na początku, gromadźmy się w komunii wokół Nauczyciela, doświadczając zawstydzenia z powodu naszych ciągłych wahań i mówiąc mu: „Panie, do kogóż pójdziemy? Ty masz słowa życia wiecznego” (J 6, 68).

Drodzy bracia i siostry, pragnąłem osobiście uczestniczyć w obchodach tej rocznicy Rady, także po to, aby potwierdzić zaangażowanie Kościoła katolickiego w sprawę ekumeniczną i zachęcać do współpracy z Kościołami członkowskimi oraz z partnerami ekumenicznymi. W związku z tym chciałbym się trochę zastanowić nad mottem obranym na ten dzień: pielgrzymować – modlić się – razem pracować.

Iść: tak, ale dokąd? Na podstawie tego, co powiedziałem chciałbym zasugerować podwójny ruch: wejście i wyjście. Wejście - aby nieustannie kierować się do centrum, aby uznać siebie za latorośle wszczepione w jedyny krzew winny, którym jest Jezus (por. J 15, 1-8). Nie wydamy owocu, jeśli nie będziemy sobie wzajemnie pomagać, aby trwać zjednoczonymi z Nim. Wyjście – ku wielu dzisiejszym peryferiom egzystencjalnym, aby razem zanieść cierpiącej ludzkości uzdrawiającą łaskę Ewangelii. Możemy zadać sobie pytanie, czy pielgrzymujemy naprawdę, czy też tylko werbalnie, czy przedstawiamy braci Panu i naprawdę leżą nam oni na sercu, czy też może są oni dalecy od naszych rzeczywistych zainteresowań. Możemy również zadać sobie pytanie, czy nasza wędrówka to powrót do naszych kroków, czy też zdecydowane pójście do świata, aby zanieść tam Pana.

Modlić się: także w modlitwie, podobnie jak w pielgrzymowaniu nie możemy iść naprzód samotnie, gdyż łaska Boża, zamiast dostosowywać się do miary jednostki, rozprzestrzenia się harmonijnie wśród wierzących, którzy nawzajem się miłują. Kiedy odmawiamy „Ojcze nasz”, rozbrzmiewa w nas nasze synostwo, ale także fakt, że jesteśmy braćmi. Modlitwa jest tlenem ekumenizmu. Bez modlitwy komunia staje się bez wyrazu i nie posuwa się, ponieważ stawiamy przeszkody, żeby wiatr Ducha popychał ją naprzód. Zadajmy sobie pytanie: jak bardzo się modlimy za siebie nawzajem? Pan modlił się, abyśmy byli jedno: czy my Go w tym naśladujemy?

Razem pracować. Odnośnie do tego chciałbym podkreślić, że Kościół katolicki uznaje szczególne znaczenie pracy wykonywanej przez Komisję Wiara i Ustrój i pragnie nadal wnosić w nią swój wkład poprzez udział wysoko wykwalifikowanych teologów. Poszukiwania Wiary i Ustroju na rzecz wspólnej wizji Kościoła i jej praca nad rozeznaniem kwestii moralnych i etycznych dotykają kluczowych punktów wyzwania ekumenicznego. Podobnie, aktywna obecność w Komisji ds. Misji i Ewangelizacji; współdziałanie z Biurem ds. Dialogu i Współpracy Międzyreligijnej, ostatnio w ważnej dziedzinie wychowania do pokoju; wspólne przygotowanie tekstów na Tydzień Modlitw o Jedność Chrześcijan oraz różne inne formy współdziałania są znamionami solidnej i wypróbowanej współpracy. Ponadto, doceniam bardzo znaczącą rolę Bossejskiego Instytutu Ekumenicznego w formacji ekumenicznej młodych pokoleń odpowiedzialnych za działalność pasterską i naukową w wielu Kościołach i Wyznaniach chrześcijańskich całego świata. Od wielu lat Kościół katolicki współpracuje w tym dziele edukacyjnym przez obecność katolickiego profesora na Wydziale; a co roku mam radość pozdrawiać grupę studentów, która przybywa z wizytą studyjną do Rzymu. Chciałbym również wspomnieć, jako dobry znak „zgody ekumenicznej”, o rosnącym udziale w Dniu Modlitwy o Ochronę Świata Stworzonego.

Oprócz tego, praca typowo kościelna ma dobrze określony synonim: diakonia. Jest to droga, którą należy iść za Nauczycielem, który „nie przyszedł, aby Mu służono, lecz żeby służyć” (Mk 10,45). Różnorodna i intensywna posługa Kościołów - członków Rady znajduje doskonały wyraz w Pielgrzymce Sprawiedliwości i Pokoju. Wiarygodność Ewangelii jest poddawana próbie przez sposób, w jaki chrześcijanie reagują na wołanie tych, którzy w każdym zakątku ziemi niesprawiedliwie są ofiarami tragicznego narastania wykluczenia, które rodząc ubóstwo podsyca konflikty. Słabsi są coraz bardziej marginalizowani, pozbawieni chleba, pracy i przyszłości, podczas gdy bogatych jest coraz mniej i są coraz bogatsi. Czujmy się wzywani przez płacz tych, którzy cierpią i okazujmy współczucie, ponieważ „program chrześcijański to serce, które widzi” (BENEDYKT XVI, Enc. Deus caritas est, 31). Zobaczmy raczej, co można konkretnie uczynić, zamiast zniechęcać się tym, czego nie ma. Spójrzmy także na wielu naszych braci i siostry, którzy w różnych częściach świata, szczególnie na Bliskim Wschodzie cierpią, ponieważ są chrześcijanami. Bądźmy blisko nich. I pamiętajmy, że nasza pielgrzymka ekumeniczna jest poprzedzona i wspierana ekumenizmem już dokonanym, ekumenizmem krwi, który zachęca nas do podążania naprzód.

Zachęcajmy się do przezwyciężenia pokusy absolutyzowania pewnych paradygmatów kulturowych i dania się pochłonąć przez niesprawiedliwe interesy. Pomagajmy ludziom dobrej woli, aby dawać więcej miejsca sytuacjom i zdarzeniom, które dotykają znacznej części ludzkości, ale które zajmują nazbyt marginalne miejsce w wielkiej informacji. Nie może nas to nie obchodzić, a przeciwnie jest to niepokojące, gdy niektórzy chrześcijanie okazują obojętność wobec tych, którzy są ubodzy. Jeszcze bardziej smutne jest przekonanie tych, którzy uważają własne korzyści za wyraźne oznaki szczególnej Bożej miłości, zamiast traktować je jako powołanie do odpowiedzialnego służenia rodzinie ludzkiej i do strzeżenia stworzenia. O miłość bliźniego, każdego bliźniego, Pan, Dobry Samarytanin ludzkości (por. Łk 10, 29-37), zapyta nas (por. Mt 25, 31-46). Zadajmy sobie zatem pytanie: co możemy uczynić razem? Jeśli służba jest możliwa, to dlaczego nie zaprojektować jej i nie wypełnić razem, poczynając od doświadczenia bardziej intensywnego braterstwa w wypełnianiu konkretnej miłości?

Drodzy bracia i siostry, ponawiam moje serdecznie podziękowanie. Pomagajmy sobie w wędrowaniu, modlitwie i wspólnej pracy, aby z Bożą pomocą jedność była coraz pełniejsza i by świat uwierzył. Dziękuję.

[00994-PL.01] [Testo originale: Italiano]

[B0466-XX.02]