Omelia del Santo Padre
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Traduzione in lingua polacca
Alle ore 20.30 di questa sera, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la solenne Veglia Pasquale nella Notte Santa.
Il Rito ha avuto inizio nell’atrio della Basilica di San Pietro con la benedizione del fuoco e la preparazione del cero pasquale. Alla processione verso l’Altare, con il cero pasquale acceso e il canto dell’Exultet, ha fatto seguito la Liturgia della Parola e la Liturgia Battesimale, nel corso della quale il Papa ha amministrato i Sacramenti dell’iniziazione cristiana a 8 neofiti provenienti da: Albania, Italia, Nigeria, Perù e Stati Uniti d’America.
Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Veglia Pasquale, dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
Omelia del Santo Padre
Questa celebrazione l’abbiamo cominciata all’esterno, immersi nell’oscurità della notte e nel freddo che l’accompagna. Sentiamo il peso del silenzio davanti alla morte del Signore, un silenzio in cui ognuno di noi può riconoscersi e che cala profondo nelle fenditure del cuore del discepolo che dinanzi alla croce rimane senza parole.
Sono le ore del discepolo ammutolito di fronte al dolore generato dalla morte di Gesù: che dire davanti a questa realtà? Il discepolo che rimane senza parole prendendo coscienza delle proprie reazioni durante le ore cruciali della vita del Signore: di fronte all’ingiustizia che ha condannato il Maestro, i discepoli hanno fatto silenzio; di fronte alle calunnie e alla falsa testimonianza subite dal Maestro, i discepoli hanno taciuto. Durante le ore difficili e dolorose della Passione, i discepoli hanno sperimentato in modo drammatico la loro incapacità di rischiare e di parlare in favore del Maestro; di più, lo hanno rinnegato, si sono nascosti, sono fuggiti, sono stati zitti (cfr Gv 18,25-27).
E’ la notte del silenzio del discepolo che si trova intirizzito e paralizzato, senza sapere dove andare di fronte a tante situazioni dolorose che lo opprimono e lo circondano. E’ il discepolo di oggi, ammutolito davanti a una realtà che gli si impone facendogli sentire e, ciò che è peggio, credere che non si può fare nulla per vincere tante ingiustizie che vivono nella loro carne tanti nostri fratelli.
E’ il discepolo frastornato perché immerso in una routine schiacciante che lo priva della memoria, fa tacere la speranza e lo abitua al “si è fatto sempre così”. E’ il discepolo ammutolito e ottenebrato che finisce per abituarsi e considerare normale l’espressione di Caifa: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50).
E in mezzo ai nostri silenzi, quando tacciamo in modo così schiacciante, allora le pietre cominciano a gridare (cfr Lc 19,40)[1] e a lasciare spazio al più grande annuncio che la storia abbia mai potuto contenere nel suo seno: «Non è qui. E’ risorto» (Mt 28,6). La pietra del sepolcro gridò e col suo grido annunciò a tutti una nuova via. Fu il creato il primo a farsi eco del trionfo della Vita su tutte le realtà che cercarono di far tacere e di imbavagliare la gioia del vangelo. Fu la pietra del sepolcro la prima a saltare e, a modo suo, a intonare un canto di lode e di entusiasmo, di gioia e di speranza a cui tutti siamo invitati a partecipare.
E se ieri, con le donne, abbiamo contemplato «colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; cfr Zc 12,10), oggi con esse siamo chiamati a contemplare la tomba vuota e ad ascoltare le parole dell’angelo: «Non abbiate paura […] E’ risorto» (Mt 28,5-6). Parole che vogliono raggiungere le nostre convinzioni e certezze più profonde, i nostri modi di giudicare e di affrontare gli avvenimenti quotidiani; specialmente il nostro modo di relazionarci con gli altri. La tomba vuota vuole sfidare, smuovere, interrogare, ma soprattutto vuole incoraggiarci a credere e ad aver fiducia che Dio “avviene” in qualsiasi situazione, in qualsiasi persona, e che la sua luce può arrivare negli angoli più imprevedibili e più chiusi dell’esistenza. E’ risorto dalla morte, è risorto dal luogo da cui nessuno aspettava nulla e ci aspetta – come aspettava le donne – per renderci partecipi della sua opera di salvezza. Questo è il fondamento e la forza che abbiamo come cristiani per spendere la nostra vita e la nostra energia, intelligenza, affetti e volontà nel ricercare e specialmente nel generare cammini di dignità. Non è qui… E’ risorto! E’ l’annuncio che sostiene la nostra speranza e la trasforma in gesti concreti di carità. Quanto abbiamo bisogno di lasciare che la nostra fragilità sia unta da questa esperienza! Quanto abbiamo bisogno che la nostra fede sia rinnovata, che i nostri miopi orizzonti siano messi in discussione e rinnovati da questo annuncio! Egli è risorto e con Lui risorge la nostra speranza creativa per affrontare i problemi attuali, perché sappiamo che non siamo soli.
Celebrare la Pasqua significa credere nuovamente che Dio irrompe e non cessa di irrompere nelle nostre storie, sfidando i nostri determinismi uniformanti e paralizzanti. Celebrare la Pasqua significa lasciare che Gesù vinca quell’atteggiamento pusillanime che tante volte ci assedia e cerca di seppellire ogni tipo di speranza.
La pietra del sepolcro ha fatto la sua parte, le donne hanno fatto la loro parte, adesso l’invito viene rivolto ancora una volta a voi e a me: invito a rompere le abitudini ripetitive, a rinnovare la nostra vita, le nostre scelte e la nostra esistenza. Un invito che ci viene rivolto là dove ci troviamo, in ciò che facciamo e che siamo; con la “quota di potere” che abbiamo. Vogliamo partecipare a questo annuncio di vita o resteremo muti davanti agli avvenimenti?
Non è qui, è risorto! E ti aspetta in Galilea, ti invita a tornare al tempo e al luogo del primo amore, per dirti: “Non avere paura, seguimi”.
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[1] «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
[00516-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Nous avons commencé cette célébration à l’extérieur, immergés dans l’obscurité de la nuit et dans le froid qui l’accompagne. Nous sentons le poids du silence devant la mort du Seigneur, un silence dans lequel chacun de nous peut se reconnaître et qui descend profondément dans les replis du cœur du disciple qui, devant la croix, reste sans parole.
Ce sont les heures du disciple, sans voix devant la douleur engendrée par la mort de Jésus: que dire devant une telle réalité? Le disciple qui reste sans voix prenant conscience de ses propres réactions durant les heures cruciales de la vie du Seigneur: devant l’injustice qui a condamné le Maître, les disciples ont fait silence; devant les calomnies et le faux témoignage subi par le Maître, les disciples se sont tus. Durant les heures difficiles et douloureuses de la Passion, les disciples ont fait l’expérience de manière dramatique de leur incapacité à prendre un risque et à parler en faveur du Maître; de plus, ils l’ont renié, ils se sont cachés, ils ont fui, ils sont restés muets (cf. Jn 18, 25-27).
C’est la nuit du silence du disciple qui se trouve transi et paralysé, sans savoir où aller face à tant de situations douloureuses qui l’oppriment et l’entourent. C’est le disciple d’aujourd’hui, sans voix devant une réalité qui s’impose à lui, lui faisant sentir et, ce qui est pire, croire qu’on ne peut rien faire pour vaincre tant d’injustices que nombre de nos frères vivent dans leur chair.
C’est le disciple étourdi parce qu’immergé dans une routine accablante qui le prive de la mémoire, qui fait taire l’espérance et l’habitue au “on a toujours fait ainsi”. C’est le disciple sans voix et enténébré qui finit par s’habituer et par considérer normale l’expression de Caïphe: «Vous ne voyez pas quel est votre intérêt: il vaut mieux qu’un seul homme meure pour le peuple, et que l’ensemble de la nation ne périsse pas» (Jn 11, 50)
Et au milieu de nos silences, quand nous nous taisons de manière si accablante, alors les pierres commencent à crier (cf. Lc 19, 40)[1] et à laisser la place à la plus grande annonce que l’histoire ait jamais pu contenir dans son sein: «Il n’est pas ici, car il est ressuscité» (Mt 28, 6). La pierre du tombeau a crié et par son cri, elle a annoncé à tous un nouveau chemin. Ce fut la création la première à se faire l’écho du triomphe de la Vie sur toutes les réalités qui chercheront à faire taire et à museler la joie de l’Evangile. Ce fut la pierre du tombeau la première à sauter et, à sa manière, à entonner un chant de louange et d’enthousiasme, de joie et d’espérance auquel nous sommes tous invités à prendre part.
Et si hier, avec les femmes, nous avons contemplé «celui qu’ils ont transpercé» (Jn 19, 37; cf. Za 12, 10), aujourd’hui avec elles nous sommes appelés à contempler la tombe vide et à écouter les paroles de l’ange: «Vous, soyez sans crainte! […] Il est ressuscité» (Mt 28, 5-6). Paroles qui veulent atteindre nos convictions et nos certitudes les plus profondes, nos manières de juger et d’affronter les événements quotidiens; spécialement notre manière d’entrer en relation avec les autres. Le tombeau vide veut défier, secouer, interroger, mais surtout il veut nous encourager à croire et à avoir confiance que Dieu “vient” dans toute situation, dans toute personne, et que sa lumière peut arriver dans les coins les plus imprévisibles et les plus fermés de l’existence. Il est ressuscité de la mort, il est ressuscité du lieu dont personne n’attendait rien et il nous attend – comme il attendait les femmes – pour nous rendre participants de son œuvre de salut. Voilà le fondement et la force que nous avons comme chrétiens pour répandre notre vie et notre énergie, notre intelligence, nos affections et notre volonté dans la recherche et spécialement dans le fait de produire des chemins de dignité. Il n’est pas ici… Il est ressuscité! C’est l’annonce qui soutient notre espérance et la transforme en gestes concrets de charité. Comme nous avons besoin de faire en sorte que notre fragilité soit marquée de cette expérience! Comme nous avons besoin que notre foi soit renouvelée, que nos horizons myopes soient remis en question et renouvelés par cette annonce! Il est ressuscité et avec Lui ressuscite notre espérance créative pour affronter les problèmes actuels, parce que nous savons que nous ne sommes pas seuls.
Célébrer Pâques signifie croire de nouveau que Dieu fait irruption et ne cesse de faire irruption dans nos histoires, défiant nos déterminismes uniformisants et paralysants. Célébrer Pâques signifie faire en sorte que Jésus soit vainqueur de cette attitude lâche qui tant de fois, nous assiège et cherche à ensevelir tout type d’espérance.
La pierre du tombeau a fait sa part, les femmes ont fait leur part, maintenant l’invitation est adressée encore une fois à vous et à moi: invitation à rompre avec les habitudes répétitives, à renouveler notre vie, nos choix et notre existence. Une invitation qui nous est adressée là où nous nous trouvons, dans ce que nous faisons et ce que nous sommes; avec la “part de pouvoir” que nous avons. Voulons-nous participer à cette annonce de vie ou resterons-nous muets devant les événements?
Il n’est pas ici, il est ressuscité! Et il t’attend en Galilée, il t’invite à retourner au temps et au lieu du premier amour pour te dire: “N’aies pas peur, suis-moi”.
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[1] «Je vous le dis: si eux se taisent, les pierres crieront».
[00518-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
We began this celebration outside, plunged in the darkness of the night and the cold. We felt an oppressive silence at the death of the Lord, a silence with which each of us can identify, a silence that penetrates to the depths of the heart of every disciple, who stands wordless before the cross.
These are the hours when the disciple stands speechless in pain at the death of Jesus. What words can be spoken at such a moment? The disciple keeps silent in the awareness of his or her own reactions during those crucial hours in the Lord’s life. Before the injustice that condemned the Master, his disciples were silent. Before the calumnies and the false testimony that the Master endured, his disciples said nothing. During the trying, painful hours of the Passion, his disciples dramatically experienced their inability to put their lives on the line to speak out on behalf of the Master. What is more, not only did they not acknowledge him: they hid, they escaped, they kept silent (cf. Jn 18:25-27).
It is the silent night of the disciples who remained numb, paralyzed and uncertain of what to do amid so many painful and disheartening situations. It is also that of today’s disciples, speechless in the face of situations we cannot control, that make us feel and, even worse, believe that nothing can be done to reverse all the injustices that our brothers and sisters are experiencing in their flesh.
It is the silent night of those disciples who are disoriented because they are plunged in a crushing routine that robs memory, silences hope and leads to thinking that “this is the way things have always been done”. Those disciples who, overwhelmed, have nothing to say and end up considering “normal” and unexceptional the words of Caiaphas: “Can you not see that it is better for you to have one man die for the people than to have the whole nation destroyed?” (Jn 11:50).
Amid our silence, our overpowering silence, the stones begin to cry out (cf. Lk 19:40)[1] and to clear the way for the greatest message that history has ever heard: “He is not here, for he has been raised” (Mt 28:6). The stone before the tomb cried out and proclaimed the opening of a new way for all. Creation itself was the first to echo the triumph of life over all that had attempted to silence and stifle the joy of the Gospel. The stone before the tomb was the first to leap up and in its own way intone a song of praise and wonder, of joy and hope, in which all of us are invited to join.
Yesterday, we joined the women in contemplating “the one who was pierced” (cf. Jn 19:36; cf. Zech 12:10). Today, with them, we are invited to contemplate the empty tomb and to hear the words of the angel: “Do not be afraid… for he has been raised” (Mt 28:5-6). Those words should affect our deepest convictions and certainties, the ways we judge and deal with the events of our daily lives, especially the ways we relate to others. The empty tomb should challenge us and rally our spirits. It should make us think, but above all it should encourage us to trust and believe that God “happens” in every situation and every person, and that his light can shine in the least expected and most hidden corners of our lives. He rose from the dead, from that place where nobody waits for anything, and now he waits for us – as did the women – to enable us to share in his saving work. On this basis and with this strength, we Christians place our lives and our energy, our intelligence, our affections and our will, at the service of discovering, and above all creating, paths of dignity.
He is not here… he is risen! This is the message that sustains our hope and turns it into concrete gestures of charity. How greatly we need to let our frailty be anointed by this experience! How greatly we need to let our faith be revived! How greatly we need our myopic horizons to be challenged and renewed by this message! Christ is risen, and with him he makes our hope and creativity rise, so that we can face our present problems in the knowledge that we are not alone.
To celebrate Easter is to believe once more that God constantly breaks into our personal histories, challenging our “conventions”, those fixed ways of thinking and acting that end up paralyzing us. To celebrate Easter is to allow Jesus to triumph over the craven fear that so often assails us and tries to bury every kind of hope.
The stone before the tomb shared in this, the women of the Gospel shared in this, and now the invitation is addressed once more to you and to me. An invitation to break out of our routines and to renew our lives, our decisions and our existence. An invitation that must be directed to where we stand, what we are doing and what we are, with the “power ratio” that is ours. Do we want to share in this message of life or do we prefer simply to continue standing speechless before events as they happen?
He is not here… he is raised! And he awaits you in Galilee. He invites you to go back to the time and place of your first love and he says to you: Do not be afraid, follow me.
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[1] “I tell you, if these were silent, the stones would shout out”.
[00518-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Wir haben diese Feier draußen begonnen, eingetaucht in die Dunkelheit der Nacht und die mit ihr einhergehende Kälte. Wir spüren die Last der Stille angesichts des Todes des Herrn, eine Stille, in der sich ein jeder von uns wiedererkennt und die sich tief in die Risse des Herzens des Jüngers hinabsenkt, der angesichts des Kreuzes ohne Worte bleibt.
Es sind die Stunden des Jüngers, der angesichts des durch den Tod Jesu hervorgerufenen Schmerzes verstummt: Was soll man in Anbetracht dieser Wirklichkeit sagen? Der Jünger, der ohne Worte bleibt, weil er sich seiner Reaktionen während der entscheidenden Stunden des Lebens des Herrn bewusst wird: Angesichts der Ungerechtigkeit, die den Meister verurteilt hat, waren die Jünger still; angesichts der Verleumdungen und der falschen Zeugenaussagen, die der Meister erleiden musste, haben die Jünger geschwiegen. Während der schwierigen und schmerzhaften Stunden der Passion haben die Jünger auf dramatische Weise ihre Unfähigkeit erfahren, für den Meister etwas zu riskieren und zu seinen Gunsten zu sprechen; schlimmer noch, sie haben ihn verleugnet, sie haben sich versteckt, sie sind geflüchtet, sie waren still (vgl. Joh 18,25-27).
Es ist die Nacht des Schweigens des Jüngers, der sich erstarrt und gelähmt wiederfindet, ohne zu wissen, wohin er angesichts so vieler schmerzlicher Situationen gehen soll, die ihn niederdrücken und umzingeln. Es ist der Jünger von heute, der in Anbetracht einer Wirklichkeit verstummt ist, die sich ihm aufzwingt, indem sie ihm den Eindruck vermittelt und – was noch schlimmer ist – glauben macht, dass man nichts tun kann, um so viele Ungerechtigkeiten zu überwinden, die viele unserer Brüder in ihrem Fleisch durchleben.
Es ist der verwirrte Jünger. Denn er ist in eine erdrückende Routine eingetaucht, die ihn des Gedächtnisses beraubt, die Hoffnung zum Schweigen bringt und ihn an die Parole des „Man hat es immer schon so gemacht“ gewöhnt. Es ist der verstummte und umnachtete Jünger, der sich schließlich an den Ausdruck des Kajaphas gewöhnt und ihn als normal betrachtet: »Ihr bedenkt nicht, dass es besser für euch ist, wenn ein einziger Mensch stirbt, als wenn das ganze Volk zugrunde geht« (Joh 11,50).
Und inmitten all unseres Schweigens, wenn wir auf so erdrückende Weise schweigen, dann beginnen die Steine zu schreien (vgl. Lk 19,40)[1] und der größten Verkündigung, die die Geschichte jemals in ihrem Schoß tragen konnte, Raum zu lassen: »Er ist nicht hier; denn er ist auferstanden« (Mt 28,6). Der Stein vor dem Grab schrie, und mit seinem Schrei verkündete er allen einen neuen Weg. Die Schöpfung war die Erste, die den Triumph des Lebens über alle Wirklichkeiten widerhallen ließ, die versuchten, die Freude des Evangeliums zum Schweigen zu bringen und zu knebeln. Der Stein vor dem Grab war der Erste, der aufsprang und auf seine Weise einen Gesang des Lobes und der Begeisterung, der Freude und der Hoffnung anstimmte, an dem wir alle teilhaben dürfen.
Und wenn wir gestern mit den Frauen den betrachtet haben, »den sie durchbohrt haben« (Joh 19,37; vgl. Sach 12,10), sind wir heute mit ihnen aufgerufen, das leere Grab zu betrachten und die Worte des Engels anzuhören: »Fürchtet euch nicht […] Er ist auferstanden« (Mt 28,5-6). Worte, die unsere tiefsten Überzeugungen und Gewissheiten treffen wollen, unsere Art, die täglichen Geschehnisse zu beurteilen und anzugehen; besonders unsere Art mit den anderen in Beziehung zu treten. Das leere Grab will herausfordern, aufrütteln, Fragen stellen, aber vor allem will es uns ermuntern, zu glauben und die Zuversicht zu haben, dass Gott in jegliche Situation, in jede Person „eintritt“ und dass sein Licht in die unberechenbarsten und verschlossensten Winkel unserer Existenz vordringen kann. Er ist vom Tod auferstanden; er ist von dem Ort auferstanden, von dem sich niemand etwas erwartete, und er erwartet uns – wie er die Frauen erwartete –, um uns an seinem Heilswerk teilhaben zu lassen. Dies ist die Grundlage und die Kraft, die wir als Christen haben, um unser Leben und unsere Energie, unsere Intelligenz, unsere Gefühle und unseren Willen bei der Suche nach Würde und insbesondere im Schaffen von Wegen zu ihr einzusetzen. Er ist nicht hier… Er ist auferstanden! Dies ist die Verkündigung, die unsere Hoffnung stützt und sie in konkrete Handlungen der Liebe umsetzt. Wie sehr tut es uns not, dass unsere Gebrechlichkeit von dieser Erfahrung „gesalbt“ wird. Wie sehr tut es uns not, dass unser Glaube erneuert wird, dass unsere kurzsichtigen Horizonte in Frage gestellt und von dieser Verkündigung erneuert werden! Er ist auferstanden und mit ihm ersteht unsere schöpferische Hoffnung, um uns den gegenwärtigen Problemen zu stellen, weil wir wissen, dass wir nicht allein sind.
Ostern feiern bedeutet, erneut zu glauben, dass Gott einbricht und nicht aufhört in unsere Geschichten einzubrechen, indem er unseren einförmigen und lähmenden Determinismus herausfordert. Ostern feiern bedeutet zuzulassen, dass Jesus jene kleinmütige Haltung überwindet, die uns oftmals belagert und versucht, jede Art der Hoffnung zu begraben.
Der Stein vor dem Grab hat seinen Teil getan, die Frauen haben ihren Teil getan, jetzt ergeht die Einladung nochmals an euch und an mich: eine Einladung, mit eintönigen Angewohnheiten zu brechen, unser Leben, unsere Entscheidungen und unsere Existenz zu erneuern. Eine Einladung, die dorthin ergeht, wo wir uns befinden, in dem, was wir tun und sind; mit dem „Machtanteil“, den wir haben. Wollen wir an dieser Verkündigung des Lebens teilhaben oder werden wir angesichts der Ereignisse stumm bleiben?
Er ist nicht hier, er ist auferstanden! Und er erwartet dich in Galiläa, er lädt dich ein, zur Zeit und zum Ort der ersten Liebe zurückzukehren, um dir zu sagen: „Fürchte dich nicht, folge mir nach“.
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[1] »Ich sage euch: Wenn sie schweigen, werden die Steine schreien«.
[00518-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Esta celebración la hemos comenzado fuera... inmersos en la oscuridad de la noche y en el frío que la acompaña. Sentimos el peso del silencio ante la muerte del Señor, un silencio en el que cada uno de nosotros puede reconocerse y cala hondo en las hendiduras del corazón del discípulo que ante la cruz se queda sin palabras.
Son las horas del discípulo enmudecido frente al dolor que genera la muerte de Jesús: ¿Qué decir ante tal situación? El discípulo que se queda sin palabras al tomar conciencia de sus reacciones durante las horas cruciales en la vida del Señor: frente a la injusticia que condenó al Maestro, los discípulos hicieron silencio; frente a las calumnias y al falso testimonio que sufrió el Maestro, los discípulos callaron. Durante las horas difíciles y dolorosas de la Pasión, los discípulos experimentaron de forma dramática su incapacidad de «jugársela» y de hablar en favor del Maestro. Es más, no lo conocían, se escondieron, se escaparon, callaron (cfr. Jn 18,25-27).
Es la noche del silencio del discípulo que se encuentra entumecido y paralizado, sin saber hacia dónde ir frente a tantas situaciones dolorosas que lo agobian y rodean. Es el discípulo de hoy, enmudecido ante una realidad que se le impone haciéndole sentir, y lo que es peor, creer que nada puede hacerse para revertir tantas injusticias que viven en su carne nuestros hermanos.
Es el discípulo atolondrado por estar inmerso en una rutina aplastante que le roba la memoria, silencia la esperanza y lo habitúa al «siempre se hizo así». Es el discípulo enmudecido que, abrumado, termina «normalizando» y acostumbrándose a la expresión de Caifás: «¿No les parece preferible que un solo hombre muera por el pueblo y no perezca la nación entera?» (Jn 11,50).
Y en medio de nuestros silencios, cuando callamos tan contundentemente, entonces las piedras empiezan a gritar (cf. Lc 19,40)[1] y a dejar espacio para el mayor anuncio que jamás la historia haya podido contener en su seno: «No está aquí ha resucitado» (Mt 28,6). La piedra del sepulcro gritó y en su grito anunció para todos un nuevo camino. Fue la creación la primera en hacerse eco del triunfo de la Vida sobre todas las formas que intentaron callar y enmudecer la alegría del evangelio. Fue la piedra del sepulcro la primera en saltar y a su manera entonar un canto de alabanza y admiración, de alegría y de esperanza al que todos somos invitados a tomar parte.
Y si ayer, con las mujeres contemplábamos «al que traspasaron» (Jn 19,36; cf. Za 12,10); hoy con ellas somos invitados a contemplar la tumba vacía y a escuchar las palabras del ángel: «no tengan miedo… ha resucitado» (Mt 28,5-6). Palabras que quieren tocar nuestras convicciones y certezas más hondas, nuestras formas de juzgar y enfrentar los acontecimientos que vivimos a diario; especialmente nuestra manera de relacionarnos con los demás. La tumba vacía quiere desafiar, movilizar, cuestionar, pero especialmente quiere animarnos a creer y a confiar que Dios «acontece» en cualquier situación, en cualquier persona, y que su luz puede llegar a los rincones menos esperados y más cerrados de la existencia. Resucitó de la muerte, resucitó del lugar del que nadie esperaba nada y nos espera —al igual que a las mujeres— para hacernos tomar parte de su obra salvadora. Este es el fundamento y la fuerza que tenemos los cristianos para poner nuestra vida y energía, nuestra inteligencia, afectos y voluntad en buscar, y especialmente en generar, caminos de dignidad. ¡No está aquí…ha resucitado! Es el anuncio que sostiene nuestra esperanza y la transforma en gestos concretos de caridad. ¡Cuánto necesitamos dejar que nuestra fragilidad sea ungida por esta experiencia, cuánto necesitamos que nuestra fe sea renovada, cuánto necesitamos que nuestros miopes horizontes se vean cuestionados y renovados por este anuncio! Él resucitó y con él resucita nuestra esperanza y creatividad para enfrentar los problemas presentes, porque sabemos que no vamos solos.
Celebrar la Pascua, es volver a creer que Dios irrumpe y no deja de irrumpir en nuestras historias desafiando nuestros «conformantes» y paralizadores determinismos. Celebrar la Pascua es dejar que Jesús venza esa pusilánime actitud que tantas veces nos rodea e intenta sepultar todo tipo de esperanza.
La piedra del sepulcro tomó parte, las mujeres del evangelio tomaron parte, ahora la invitación va dirigida una vez más a ustedes y a mí: invitación a romper las rutinas, renovar nuestra vida, nuestras opciones y nuestra existencia. Una invitación que va dirigida allí donde estamos, en lo que hacemos y en lo que somos; con la «cuota de poder» que poseemos. ¿Queremos tomar parte de este anuncio de vida o seguiremos enmudecidos ante los acontecimientos?
¡No está aquí ha resucitado! Y te espera en Galilea, te invita a volver al tiempo y al lugar del primer amor y decirte: No tengas miedo, sígueme.
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[1] «Les aseguro que si ellos callan, gritarán las piedras».
[00518-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Começamos esta celebração no átrio externo, imersos na escuridão da noite e no frio que a acompanha. Sentimos o peso do silêncio diante da morte do Senhor, um silêncio em que cada um de nós se pode reconhecer e que penetra profundamente nas fendas do coração do discípulo, que, à vista da cruz, fica sem palavras.
São as horas do discípulo emudecido face à amargura gerada pela morte de Jesus: Que dizer diante desta realidade? O discípulo que fica sem palavras, tomando consciência das suas reações durante as horas cruciais da vida do Senhor: diante da injustiça que condenou o Mestre, os discípulos guardaram silêncio; diante das calúnias e falsos testemunhos sofridos pelo Mestre, os discípulos ficaram calados. Durante as horas difíceis e dolorosas da Paixão, os discípulos experimentaram, de forma dramática, a sua incapacidade de arriscar e falar a favor do Mestre; mais ainda, renegaram-No, esconderam-se, fugiram, ficaram calados (cf. Jo 18, 25-27).
É a noite do silêncio do discípulo que se sente enrijecido e paralisado, sem saber para onde ir diante de tantas situações dolorosas que o oprimem e envolvem. É o discípulo de hoje, emudecido diante duma realidade que se lhe impõe fazendo-lhe sentir e – pior ainda – crer que nada se pode fazer para vencer tantas injustiças que vivem na sua carne muitos dos nossos irmãos.
É o discípulo perplexo porque imerso numa rotina avassaladora que o priva da memória, faz calar a esperança e habitua-o ao «fez-se sempre assim». É o discípulo emudecido e ofuscado que acaba por se habituar e considerar normal a frase de Caifás: «Não vos dais conta de que vos convém que morra um só homem pelo povo, e não pereça a nação inteira» (Jo 11, 50).
E no meio dos nossos silêncios, quando calamos de modo tão oprimente, então começam a gritar as pedras (cf. Lc 19, 40: «Digo-vos que, se eles se calarem, gritarão as pedras») dando lugar ao maior anúncio que alguma vez a história tenha podido conter dentro de si: «Não está aqui, pois ressuscitou» (Mt 28, 6). A pedra do sepulcro gritou e, com o seu grito, anunciou a todos um novo caminho. Foi a criação a primeira a fazer ecoar o triunfo da Vida sobre todas as realidades que procuraram silenciar e amordaçar a alegria do evangelho. Foi a pedra do sepulcro a primeira a saltar e, à sua maneira, a entoar um cântico de louvor e entusiasmo, de júbilo e esperança no qual todos somos convidados a participar.
E se ontem, com as mulheres, contemplamos «Aquele que trespassaram» (Jo 19, 37, cf. Zc 12, 10), hoje, com elas, somos chamados a contemplar o túmulo vazio e ouvir as palavras do anjo: «Não tenhais medo! (…) Ressuscitou» (Mt 28, 5-6). Palavras que querem alcançar as nossas convicções e certezas mais profundas, as nossas maneiras de julgar e enfrentar os acontecimentos diários; especialmente o nosso modo de nos relacionarmos com os outros. O túmulo vazio quer desafiar, mover, interpelar, mas sobretudo quer encorajar-nos a crer e confiar que Deus «Se faz presente» em qualquer situação, em qualquer pessoa, e que a sua luz pode chegar até aos ângulos mais imprevisíveis e fechados da existência. Ressuscitou da morte, ressuscitou do lugar donde ninguém esperava nada e espera-nos – como esperava as mulheres – para nos tornar participantes da sua obra de salvação. Esta é a base e a força que temos, como cristãos, para gastar a nossa vida e o nosso ardor, inteligência, afetos e vontade na busca e, especialmente, na criação de caminhos de dignidade. «Não está aqui... Ressuscitou!» (28, 6). É o anúncio que sustenta a nossa esperança e a transforma em gestos concretos de caridade. Como precisamos de deixar que a nossa fragilidade seja ungida por esta experiência! Como precisamos que a nossa fé seja renovada, que os nossos horizontes míopes sejam questionados e renovados por este anúncio! Jesus ressuscitou e, com Ele, ressurge a nossa esperança criativa para enfrentar os problemas atuais, porque sabemos que não estamos sozinhos.
Celebrar a Páscoa significa voltar a crer que Deus irrompe sem cessar nas nossas vicissitudes, desafiando os nossos determinismos uniformizadores e paralisantes. Celebrar a Páscoa significa deixar que Jesus vença aquela atitude pusilânime que tantas vezes nos cerca procurando sepultar qualquer tipo de esperança.
A pedra do sepulcro desempenhou o seu papel, as mulheres fizeram a sua parte, agora o convite é dirigido mais uma vez a ti e a mim: convite a quebrar os hábitos rotineiros, renovar a nossa vida, as nossas escolhas e a nossa existência; convite que nos é dirigido na situação em que nos encontramos, naquilo que fazemos e somos; com a «quota de poder» que temos. Queremos participar neste anúncio de vida ou ficaremos mudos perante os acontecimentos?
Não está aqui, ressuscitou! E espera por ti na Galileia, convida-te a voltar ao tempo e lugar do primeiro amor, para te dizer: «Não tenhas medo, segue-Me».
[00518-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Rozpoczęliśmy tę uroczystość na zewnątrz, zanurzając się w ciemność nocy i towarzyszące jej zimno. Odczuwamy ciężar milczenia w obliczu śmierci Pana, milczenia, w którym każdy z nas może się rozpoznać, a które zapada głęboko w szczeliny serca ucznia, który w obliczu krzyża pozostaje bez słów.
Oto godziny ucznia, któremu odjęło mowę w obliczu cierpienia spowodowanego śmiercią Jezusa: co powiedzieć wobec takiej rzeczywistości? Ucznia, który pozostaje bez słów uświadamiając sobie swoje reakcje w kluczowych godzinach życia Pana: w obliczu niesprawiedliwości, która skazała Nauczyciela, uczniowie milczeli; w obliczu oszczerstw i fałszywych świadectw znoszonych przez Nauczyciela, uczniowie milczeli. W trudnych i bolesnych godzinach Męki uczniowie doświadczali radykalnie swej niezdolności do podjęcia ryzyka i przemawiania na rzecz Nauczyciela; co więcej, zaparli się, ukryli, uciekli, milczeli (por. J 18, 25-27).
To noc milczenia ucznia odrętwiałego i sparaliżowanego, niewiedzącego, gdzie pójść w obliczu wielu sytuacji bolesnych, które go dręczą i osaczają. To uczeń dnia dzisiejszego oniemiały wobec rzeczywistości, która się jemu narzuca, sprawiając iż czuje, a co gorsza sądzi, że nie można nic zrobić, by przezwyciężyć wiele niesprawiedliwości, jakie przeżywa w swoim ciele wielu naszych braci.
To uczeń zdezorientowany, ponieważ zanurzony jest w przytłaczającej rutynie, która pozbawia go pamięci, ucisza nadzieję i przyzwyczaja go, by mówić „zawsze tak było”. To uczeń, oniemiały i zamroczony, który w końcu przyzwyczaja się i uważa za normalne słowa Kajfasza: „Nie bierzecie tego pod uwagę, że lepiej jest dla was, gdy jeden człowiek umrze za lud, niż miałby zginąć cały naród” (J 11,50).
I pośród naszego braku odzewu, gdy milczymy w sposób tak przytłaczający, zaczynają wołać kamienie (por. Łk 19,40)[1] czyniąc miejsce na najwspanialszą wieść, jaką dzieje mogły kiedykolwiek pomieścić w swym łonie: „Nie ma Go tu, bo zmartwychwstał” (Mt 28, 6). Zawołał kamień u grobu, a swoim wołaniem ogłosił wszystkim nową drogę. To stworzenie jako pierwsze odpowiedziało echem na triumf Życia nad tym wszystkim, co usiłowało wyciszyć i kneblować radość Ewangelii. To kamień od grobu jako pierwszy podskoczył i na swój sposób zaczął śpiewać kantyk uwielbienia i entuzjazmu, radości i nadziei, do którego udziału jesteśmy zaproszeni wszyscy.
A jeśli wczoraj, razem z kobietami, patrzyliśmy na „Tego, którego przebodli” (J 19,37; por. Za 12,10), to dziś wraz z nimi jesteśmy wezwani do kontemplowania pustego grobu i słuchania słów anioła: „Wy się nie bójcie! [...] bo zmartwychwstał” (Mt 28, 5-6). Są to słowa, które chcą dotrzeć do naszych najgłębszych przekonań i pewników, naszego sposobu osądzania i radzenia sobie z codziennymi wydarzeniami; szczególnie naszego sposobu nawiązywania relacji z innymi. Pusty grób chce stawiać wyzwania, wstrząsnąć, stawiać pytania, ale przede wszystkim chce nas zachęcić do wiary i ufności, że Bóg „działa” w każdej sytuacji, w każdej osobie, i że Jego światło może dotrzeć do najbardziej nieoczekiwanych zakątków istnienia. Powstał z martwych, zmartwychwstał z miejsca, z którego nikt niczego nie oczekiwał, i czeka na nas – tak jak oczekiwał na kobiety – by nas uczynić uczestnikami swego dzieła zbawienia. To jest podstawa i siła, którą mamy jako chrześcijanie, aby poświęcić nasze życie i naszą energię, inteligencję, uczucia i wolę w poszukiwaniu, a zwłaszcza w tworzeniu procesów godności. Nie ma go tutaj... Zmartwychwstał! Ta wieść wspiera naszą nadzieję i ją przekształca w konkretne gesty miłości. Jakże bardzo potrzebujemy, aby nasza słabość została namaszczona przez to doświadczenie! Jakże bardzo potrzebujemy odnowienia naszej wiary, aby nasze krótkowzroczne horyzonty zostały zakwestionowane i odnowione tą wieścią! Powstał z martwych, a wraz z Nim powstaje z martwych nasza twórcza nadzieja, by stawić czoło obecnym problemom, bo wiemy, że nie jesteśmy sami.
Świętowanie Wielkanocy oznacza ponowne uwierzenie, że Bóg wdziera się i nieustannie wkracza w nasze dzieje, stawiając wyzwanie naszym ujednolicającym i paraliżującym determinizmom. Świętowanie Wielkanocy to pozwolenie Jezusowi, by przezwyciężył tę małoduszną postawę, która tak często nas zamyka i próbuje pogrzebać wszelką nadzieję.
Kamień od grobu zrobił swoje, podobnie kobiety, a teraz zaproszenie skierowane jest po raz kolejny do was i do mnie: zachęta do przełamania powtarzających się nawyków, do odnowienia naszego życia, naszych decyzji i naszej egzystencji. Jest to zaproszenie kierowane do nas tam, gdzie jesteśmy, w tym co czynimy i czym jesteśmy, z takim udziałem we władzy, jaki mamy. Czy chcemy uczestniczyć w tym głoszeniu życia, czy też będziemy milczeć w obliczu wydarzeń?
Nie ma go tutaj, zmartwychwstał! I czeka na ciebie w Galilei, zaprasza cię do powrotu, do czasu i miejsca pierwszej miłości, aby ci powiedzieć: „Nie lękaj się, pójdź za mną”.
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[1] „Powiadam wam: Jeśli ci umilkną, kamienie wołać będą”.
[00518-PL.01] [Testo originale: Italiano]
[B0240-XX.02]