Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana, 29.03.2018


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 9.30 di questa mattina, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.

La Messa del Crisma è stata concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri (diocesani e religiosi) presenti a Roma.

Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi ha avuto luogo la benedizione dell’olio degli infermi, dell’olio dei catecumeni e del crisma.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

Omelia del Santo Padre

Cari fratelli, sacerdoti della diocesi di Roma e delle altre diocesi del mondo!

Leggendo i testi della liturgia di oggi mi veniva alla mente, con insistenza, il passo del Deuteronomio che dice: «Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (4,7). La vicinanza di Dio… la nostra vicinanza apostolica.

Nel testo del profeta Isaia contempliamo l’inviato di Dio già “unto e mandato”, in mezzo al suo popolo, vicino ai poveri, ai malati, ai prigionieri…; e lo Spirito che “è su di Lui”, che lo spinge e lo accompagna lungo il cammino.

Nel Salmo 88 vediamo come la compagnia di Dio, che fin dalla giovinezza ha guidato per mano il re Davide e gli ha prestato il suo braccio, adesso che è anziano prende il nome di fedeltà: la vicinanza mantenuta nel corso del tempo si chiama fedeltà.

L’Apocalisse ci fa avvicinare, fino a rendercelo visibile, all’«Erchomenos», al Signore in persona che sempre «viene», sempre. L’allusione al fatto che lo vedranno «anche quelli che lo trafissero» ci fa sentire che sono sempre visibili le piaghe del Signore risorto, che il Signore ci viene sempre incontro se noi vogliamo “farci prossimi” alla carne di tutti coloro che soffrono, specialmente dei bambini.

Nell’immagine centrale del Vangelo di oggi, contempliamo il Signore attraverso gli occhi dei suoi compaesani che erano «fissi su di Lui» (Lc 4,20). Gesù si alzò per leggere nella sinagoga di Nazaret. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Lo srotolò finché trovò il passo dell’inviato di Dio. Lesse ad alta voce: «Lo spirito del Signore è su di me […], mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato…» (61,1). E concluse stabilendo la vicinanza così provocatrice di quelle parole: «Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Gesù trova il passo e legge con la competenza degli scribi. Egli avrebbe potuto perfettamente essere uno scriba o un dottore della legge, ma ha voluto essere un “evangelizzatore”, un predicatore di strada, il «Messaggero di buone notizie» per il suo popolo, il predicatore i cui piedi sono belli, come dice Isaia (cfr 52,7). Il predicatore è vicino.

Questa è la grande scelta di Dio: il Signore ha scelto di essere uno che sta vicino al suo popolo. Trent’anni di vita nascosta! Solo dopo comincerà a predicare. E’ la pedagogia dell’incarnazione, dell’inculturazione; non solo nelle culture lontane, anche nella propria parrocchia, nella nuova cultura dei giovani…

La vicinanza è più che il nome di una virtù particolare, è un atteggiamento che coinvolge tutta la persona, il suo modo di stabilire legami, di essere contemporaneamente in sé stessa e attenta all’altro. Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”: “Lo so, padre, che Lei è molto occupato” – dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti – dice la gente –: coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono… Preti vicini, che ci sono, che parlano con tutti… Preti di strada.

E uno che ha imparato bene da Gesù a essere predicatore di strada è stato Filippo. Dicono gli Atti che andava di luogo in luogo annunciando la Buona Notizia della Parola predicando in tutte le città, e che queste si riempivano di gioia (cfr 8,4-8). Filippo era uno di quelli che lo Spirito poteva “sequestrare” in qualsiasi momento e farli partire per evangelizzare, andando da un posto all’altro, uno capace anche di battezzare gente di buona fede, come il ministro della regina di Etiopia, e di farlo lì per lì, lungo la strada (cfr At 8,5; 36-40).

La vicinanza, cari fratelli, è la chiave dell’evangelizzatore perché è un atteggiamento-chiave nel Vangelo (il Signore la usa per descrivere il Regno). Noi diamo per acquisito che la prossimità è la chiave della misericordia, perché la misericordia non sarebbe tale se non si ingegnasse sempre, come “buona samaritana”, per eliminare le distanze. Credo però che abbiamo bisogno di acquisire meglio il fatto che la vicinanza è anche la chiave della verità; non solo della misericordia, ma anche la chiave della verità. Si possono eliminare le distanze nella verità? Sì, si può. Infatti la verità non è solo la definizione che permette di nominare le situazioni e le cose tenendole a distanza con concetti e ragionamenti logici. Non è solo questo. La verità è anche fedeltà (emeth), quella che ti permette di nominare le persone col loro nome proprio, come le nomina il Signore, prima di classificarle o di definire “la loro situazione”. E qui, c’è questa abitudine – brutta, no? – della “cultura dell’aggettivo”: questo è così, questo è un tale, questo è un quale … No, questo è figlio di Dio. Poi, avrà le virtù o i difetti, ma la verità fedele della persona e non l’aggettivo fatto sostanza.

Bisogna stare attenti a non cadere nella tentazione di farsi idoli di alcune verità astratte. Sono idoli comodi, a portata di mano, che danno un certo prestigio e potere e sono difficili da riconoscere. Perché la “verità-idolo” si mimetizza, usa le parole evangeliche come un vestito, ma non permette che le si tocchi il cuore. E, ciò che è molto peggio, allontana la gente semplice dalla vicinanza risanatrice della Parola e dei Sacramenti di Gesù.

Su questo punto, rivolgiamoci a Maria, Madre dei sacerdoti. La possiamo invocare come “Madonna della Vicinanza”: «Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), in modo tale che nessuno si senta escluso. La nostra Madre non solo è vicina per il suo mettersi al servizio con quella «premura» (ibid., 288) che è una forma di vicinanza, ma anche col suo modo di dire le cose. A Cana, la tempestività e il tono con cui dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5), farà sì che quelle parole diventino il modello materno di ogni linguaggio ecclesiale. Ma, per dirle come lei, oltre a chiedere la grazia, bisogna saper stare lì dove si “cucinano” le cose importanti, quelle che contano per ogni cuore, ogni famiglia, ogni cultura. Solo in questa vicinanza – possiamo dire “di cucina” - si può discernere qual è il vino che manca e qual è quello di migliore qualità che il Signore vuole dare.

Vi suggerisco di meditare tre ambiti di vicinanza sacerdotale nei quali queste parole: “Fate tutto quello che Gesù vi dirà” devono risuonare – in mille modi diversi ma con un medesimo tono materno – nel cuore delle persone con cui parliamo: l’ambito dell’accompagnamento spirituale, quello della Confessione e quello della predicazione.

La vicinanza nel dialogo spirituale, la possiamo meditare contemplando l’incontro del Signore con la Samaritana. Il Signore le insegna a riconoscere prima di tutto come adorare, in Spirito e verità; poi, con delicatezza, la aiuta a dare un nome al suo peccato, senza offenderla; e infine il Signore si lascia contagiare dal suo spirito missionario e va con lei a evangelizzare nel suo villaggio. Modello di dialogo spirituale, questo del Signore, che sa far venire alla luce il peccato della Samaritana senza che getti ombra sulla sua preghiera di adoratrice né che ponga ostacoli alla sua vocazione missionaria.

La vicinanza nella Confessione la possiamo meditare contemplando il passo della donna adultera. Lì si vede chiaramente come la vicinanza è decisiva perché le verità di Gesù sempre avvicinano e si dicono (si possono dire sempre) a tu per tu. Guardare l’altro negli occhi – come il Signore quando si alza in piedi dopo essere stato in ginocchio vicino all’adultera che volevano lapidare e le dice: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8,11) – non è andare contro la legge. E si può aggiungere: «D’ora in poi non peccare più» (ibid.) non con un tono che appartiene all’ambito giuridico della verità-definizione – il tono di chi deve determinare quali sono i condizionamenti della Misericordia divina – ma con un’espressione che si dice nell’ambito della verità-fedele, che permette al peccatore di guardare avanti e non indietro. Il tono giusto di questo «non peccare più» è quello del confessore che lo dice disposto a ripeterlo settanta volte sette.

Da ultimo, l’ambito della predicazione. Meditiamo su di esso pensando a coloro che sono lontani, e lo facciamo ascoltando la prima predica di Pietro, che si colloca nel contesto dell’avvenimento di Pentecoste. Pietro annuncia che la parola è «per tutti quelli che sono lontani» (At 2,39), e predica in modo tale che il kerygma “trafigge il loro cuore” e li porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Domanda che, come dicevamo, dobbiamo fare e alla quale dobbiamo rispondere sempre in tono mariano, ecclesiale. L’omelia è la pietra di paragone «per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 135). Nell’omelia si vede quanto vicini siamo stati a Dio nella preghiera e quanto vicini siamo alla nostra gente nella sua vita quotidiana.

La buona notizia si attua quando queste due vicinanze si alimentano e si curano a vicenda. Se ti senti lontano da Dio, ma per favore, avvicinati al suo popolo, che ti guarirà dalle ideologie che ti hanno intiepidito il fervore. I piccoli ti insegneranno a guardare Gesù in un modo diverso. Ai loro occhi, la Persona di Gesù è affascinante, il suo buon esempio dà autorità morale, i suoi insegnamenti servono per la vita. E se tu, ti senti lontano dalla gente, avvicinati al Signore, alla sua Parola: nel Vangelo Gesù ti insegnerà il suo modo di guardare la gente, quanto vale ai suoi occhi ognuno di coloro per i quali ha versato il suo sangue sulla croce. Nella vicinanza con Dio, la Parola si farà carne in te e diventerai un prete vicino ad ogni carne. Nella vicinanza con il popolo di Dio, la sua carne dolorosa diventerà parola nel tuo cuore e avrai di che parlare con Dio, diventerai un prete intercessore.

Il sacerdote vicino, che cammina in mezzo alla sua gente con vicinanza e tenerezza di buon pastore (e, nella sua pastorale, a volte sta davanti, a volte in mezzo e a volte indietro), la gente non solo lo apprezza molto, va oltre: sente per lui qualcosa di speciale, qualcosa che sente soltanto alla presenza di Gesù. Perciò non è una cosa in più questo riconoscere la nostra vicinanza. In essa ci giochiamo se Gesù sarà reso presente nella vita dell’umanità, oppure se rimarrà sul piano delle idee, chiuso in caratteri a stampatello, incarnato tutt’al più in qualche buona abitudine che poco alla volta diventa routine.

Cari fratelli sacerdoti, chiediamo a Maria, “Madonna della Vicinanza”, che ci avvicini tra di noi e, al momento di dire alla nostra gente di “fare tutto quello che Gesù dice”, ci unifichi il tono, perché nella diversità delle nostre opinioni si renda presente la sua vicinanza materna, quella che col suo “sì” ci ha avvicinato a Gesù per sempre.

[00507-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères, prêtres du diocèse de Rome et des autres diocèses du monde!

En lisant les textes de la liturgie de ce jour il me venait à l’esprit, avec insistance, le passage du Deutéronome qui dit: «Quelle est en effet la grande nation dont les dieux soient aussi proches que le Seigneur notre Dieu est proche de nous chaque fois que nous l’invoquons» (4, 7). La proximité de Dieu… notre proximité apostolique.

Dans le texte du prophète Isaïe nous contemplons l’envoyé de Dieu autrefois “oint et envoyé”, au milieu de son peuple, proche des pauvres, des malades, des prisonniers…; et l’Esprit qui “est sur lui”, qui le pousse et l’accompagne le long du chemin.

Dans le Psaume 88 nous voyons comment la compagnie de Dieu, qui a guidé par la main le roi David dès son enfance et qui lui a prêté son bras, maintenant que celui-ci est âgé prend le nom de fidélité: la proximité qui se conserve au cours du temps s’appelle fidélité.

L’Apocalypse nous rapproche, au point de nous le rendre visible, de l’Erchomenos, le Seigneur en personne qui, toujours, «vient», toujours. L’allusion au fait que le verront «aussi ceux qui l’ont crucifié» nous fait sentir que les plaies du Seigneur ressuscité sont toujours visibles, que le Seigneur vient toujours à notre rencontre si nous voulons“nous faire proches” de la chair de tous ceux qui souffrent, spécialement des enfants.

Dans l’image centrale de l’Evangile de ce jour, nous contemplons le Seigneur à travers les yeux de ses compatriotes qui étaient «fixés sur lui» (Lc 4, 20). Jésus se leva pour lire dans la synagogue de Nazareth. Le rouleau du prophète Isaïe lui fut donné. Il le déroula jusqu’à ce qu’il trouve le passage de l’envoyé de Dieu. Il lut à voix haute: «L’Esprit du Seigneur Dieu est sur moi […] il m’a consacré par l’onction. Il m’a envoyé…» (61,1). Et il conclut en établissant la proximité si provocatrice de ces paroles: «Aujourd’hui s’accomplit ce passage de l’Ecriture que vous venez d’entendre» (Lc 4, 21).

Jésus trouve le passage et lit avec la compétence des scribes. Il aurait pu parfaitement être un scribe ou un docteur de la loi, mais il a voulu être un “évangélisateur”, un prédicateur de rue, le «Messager des Bonnes Nouvelles» pour son peuple, le prédicateur dont les pieds sont beaux, comme dit Isaïe (cf. 52,7). Le prédicateur est proche.

Voilà le grand choix de Dieu: le Seigneur a choisi d’être quelqu’un qui se tient proche de son peuple. Trente ans de vie cachée! Après seulement, il commencera à prêcher. C’est la pédagogie de l’incarnation, de l’inculturation; pas seulement dans les cultures lointaines, mais aussi dans la paroisse même, dans la nouvelle culture des jeunes…

La proximité est plus que le nom d’une vertu particulière, elle est une attitude qui implique toute la personne, sa manière d’établir des liens, d’être en même temps en soi-même et attentif à l’autre. Quand les gens disent d’un prêtre qu’il “est proche”, cela fait ressortir en général deux choses: la première, qu’ “il est toujours là” (contrairement au fait qu’ “il ne soit jamais là”. On dit souvent: “je sais, mon père, que vous êtes très occupé”). Et l’autre chose est qu’il sait trouver une parole pour chacun. Les gens disent: “Il parle avec tout le monde; avec les grands, avec les petits, avec les pauvres, avec ceux qui ne croient pas…” Des prêtres proches, qui sont présents, qui parlent avec tout le monde… Des prêtres de rue.

Et quelqu’un qui a bien appris de Jésus à être un prédicateur de rue, c’est Philippe. Les Actes disent qu’il allait de lieu en lieu en annonçant la Bonne Nouvelle de la Parole en prêchant dans toutes les villes et que celles-ci étaient pleines de joie (cf. 8, 4.5-8). Philippe était un de ceux que l’Esprit pouvait «saisir» à tout moment, le faire partir pour évangéliser en allant d’un endroit à un autre, quelqu’un capable aussi de baptiser les personnes de bonne foi, comme le ministre de la reine d’Ethiopie, et de le faire n’importe où, le long de la route (cf. Ac 8,5; 36-40).

La proximité, chers frères, est la clé de l’évangélisateur car elle est une attitude-clé dans l’Evangile (le Seigneur l’utilise pour décrire le Royaume). Nous considérons pour acquis le fait que la proximité est la clé de la miséricorde, parce que la miséricorde, comme une “bonne Samaritaine”, ne serait pas ce qu’elle est si l’on ne s’efforçait pas toujours de réduire les distances. Mais je crois que nous avons besoin de mieux percevoir le fait que la proximité est aussi la clé de la vérité; non seulement de la miséricorde, mais aussi la clé de la vérité. Peut-on supprimer les distances dans la vérité? Oui, on le peut. La vérité n’est pas seulement en effet la définition qui permet de nommer les situations et les choses en les tenant à distance avec des concepts et des raisonnements logiques. Elle n’est pas seulement cela. La vérité est aussi fidélité (emeth), celle qui te permet de désigner les personnes par leur nom propre, comme le Seigneur les nomme, avant de les classifier ou de définir “ leur situation”. Et là, il y a cette habitude – mauvaise, non? – de la “culture de l’adjectif”: celui-ci est ainsi, celui-ci est comme ci, celui-là est comme ça… Non, il est enfant de Dieu. Ensuite, il aura des qualités ou des défauts, mais ce sera la vérité fidèle à la personne et non l’adjectif devenu substance.

Il faut faire attention à ne pas tomber dans la tentation de se faire des idoles de certaines vérités abstraites. Ce sont des idoles commodes, à portée de main, qui donnent un certain prestige et pouvoir, et qui sont difficiles à reconnaître. Car la “vérité-idole” se déguise, elle utilise les paroles évangéliques comme un vêtement mais elle ne permet pas de toucher le cœur. Et, ce qui est pire, elle éloigne les gens simples de la proximité de la Parole et des Sacrements de Jésus, qui guérit.

Sur ce point, adressons-nous à Marie, Mère des prêtres. Nous pouvons l’invoquer comme “Vierge de la Proximité”: «Comme une vraie mère, elle marche avec nous, lutte avec nous, et répand sans cesse la proximité de l’amour de Dieu» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 286), de telle manière que personne ne se sente exclu. Notre Mère est non seulement proche en se mettant au service avec cet «empressement» (ibid., n. 288) qui est une forme de proximité, mais aussi avec sa manière de dire les choses. A Cana, l’à-propos et le ton avec lesquels elle dit aux serviteurs: «Tout ce qu’il vous dira, faites-le» (Jn 2, 5), feront que ces mots deviendront le modèle maternel de tout langage ecclésial. Mais, pour les dire comme elle, en plus de demander la grâce, il faut savoir se trouver là où les choses importantes se «mijotent», celles qui comptent pour tout cœur, pour toute famille, pour toute culture. C’est seulement avec cette proximité – nous pouvons dire “de cuisine” - que l’on peut discerner quel est le vin qui manque, et quel est celui de meilleure qualité que le Seigneur veut donner.

Je vous suggère de méditer trois domaines de proximité sacerdotale dans lesquels ces paroles: “Tout ce qu’il vous dira, faites-le” doivent résonner – de mille manières différentes mais avec un même ton maternel – dans le cœur des personnes auxquelles nous parlons: le domaine de l’accompagnement spirituel, celui de la Confession et celui de la prédication.

Nous pouvons méditer la proximité dans le dialogue spirituel en contemplant la rencontre du Seigneur avec la Samaritaine. Le Seigneur lui apprend à reconnaître avant tout comment adorer, en Esprit et en vérité. Puis, avec délicatesse, il l’aide à donner un nom à son péché, sans l’offenser; enfin le Seigneur se laisse gagner par son esprit missionnaire et va avec elle évangéliser dans son village. Modèle de dialogue spirituel que celui du Seigneur qui sait mettre au jour le péché de la Samaritaine sans faire de l’ombre à sa prière d’adoratrice ni mettre d’obstacles à sa vocation missionnaire.

Nous pouvons méditer la proximité dans la Confession en contemplant le passage de la femme adultère. On voit là clairement comment la proximité est décisive, car les vérités de Jésus s’approchent toujours et se disent (on peut dire, toujours) seul à seul. Regarder l’autre dans les yeux – comme le Seigneur quand il se met debout après avoir été à genoux près de la femme adultère qu’ils voulaient lapider et quand il lui dit: «Moi non plus je ne te condamne pas» (Jn 8, 11) – ce n’est pas aller contre la loi. Et l’on peut ajouter: «désormais ne pèche plus» (ibid.) non pas avec un ton qui appartient au domaine juridique de la vérité-définition – le ton de celui qui doit décider quelles sont les conditions de la Miséricorde divine – mais avec une expression que l’on emploie dans le domaine de la vérité-fidélité, qui permet au pécheur de regarder en avant et non en arrière. Le ton juste de ce «ne pèche plus» est celui du confesseur qui le dit en étant prêt à le répéter soixante-dix fois sept fois.

Enfin, le domaine de la prédication. Méditons là-dessus en pensant à ceux qui sont loin, et faisons-le en écoutant la première prédication de Pierre, qui se situe dans le contexte de l’événement de la Pentecôte. Pierre annonce que la parole est «pour tous ceux qui sont loin» (Ac 2, 39) et prêche de telle sorte que le kérygme“transperce leurs cœurs” et les conduit à demander: «Que devons-nous faire?» (Ac 2, 37). Une question, comme nous le disions, que nous devons poser et à laquelle nous devons toujours répondre sur un ton marial, ecclésial. L’homélie est la pierre de touche «pour évaluer la proximité et la capacité de rencontre d’un pasteur avec son peuple» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 135). Dans l’homélie on voit combien nous avons été proches de Dieu dans la prière, et combien nous sommes proches de nos gens dans leur vie quotidienne.

La bonne nouvelle se réalise quand ces deux proximités se nourrissent et s’entretiennent mutuellement. Si tu te sens loin de Dieu, mais s’il te plaît, approche-toi de son peuple qui te guérira des idéologies qui ont refroidi ta ferveur. Les petits t’apprendront à regarder Jésus de manière différente. A leurs yeux, la personne de Jésus est attachante, son bon exemple donne de l’autorité morale, ses enseignements sont utiles pour la vie. Et si toi, tu te sens loin des gens, rapproche-toi du Seigneur, de sa Parole: dans l’Evangile, Jésus t’apprendra sa manière de regarder les gens, quelle valeur a, à ses yeux, chacun de ceux pour qui il a versé son sang sur la croix. Dans la proximité avec Dieu, la Parole se fera chair en toi et tu deviendras un prêtre proche de toute chair. Dans la proximité avec le peuple de Dieu, sa chair douloureuse deviendra parole dans ton cœur et tu auras de quoi parler avec Dieu, tu deviendras un prêtre intercesseur.

Le prêtre qui est proche, qui marche au milieu de ses gens avec la proximité et la tendresse du bon pasteur (et, dans sa pastorale, parfois devant, parfois au milieu et parfois derrière), les gens non seulement l’apprécient beaucoup, mais plus encore: ils sentent pour lui quelque chose de spécial, quelque chose qui se sent seulement en présence de Jésus. Par conséquent, cette reconnaissance de notre proximité n’est pas seulement une chose en plus. En elle se joue le fait que Jésus sera rendu présent dans la vie de l’humanité, ou bien qu’il restera au plan des idées, enfermé en lettres d’imprimerie, incarné tout au plus dans quelque bonne habitude qui peu à peu deviendra routine.

Chers frères prêtres, demandons à Marie, “Vierge de la Proximité”, de se faire proche de nous et d’unifier notre ton au moment où nous disons à notre peuple de “faire tout ce que Jésus dit”, afin que dans la diversité de nos opinions soit rendue présente sa proximité maternelle qui, par son “oui” nous a pour toujours rapprochés de Jésus.

[00507-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brother priests of the Diocese of Rome and other dioceses throughout the world!

When I was reading the texts of today’s liturgy, I kept thinking of the passage from Deuteronomy: “For what great nation is there that has a god so near to it as the Lord our God is to us, whenever we call upon him?” (4:7). The closeness of God... our apostolic closeness.

In the reading from the prophet Isaiah, we contemplate the Servant, “anointed and sent” among his people, close to the poor, the sick, the prisoners… and the Spirit who is “upon him”, who strengthens and accompanies him on his journey.

In Psalm 88, we see how the closeness of God, who led King David by the hand when he was young, and sustained him as he grew old, takes on the name of fidelity: closeness maintained over time is called fidelity.

The Book of Revelation brings us close to the Lord who always “comes” – erchómenos – in person, always. The words “every eye will see him, even those who pierced him” makes us realize that the wounds of the Risen Lord are always visible. The Lord always comes to us, if we choose to draw near, as “neighbours”, to the flesh of all those who suffer, especially children.

At the heart of today’s Gospel, we see the Lord through the eyes of his own people, which were “fixed on him” (Lk 4:20). Jesus stood up to read in his synagogue in Nazareth. He was given the scroll of the prophet Isaiah. He unrolled it until he found, near the end, the passage about the Servant. He read it aloud: “The Spirit of the Lord is upon me, because he has anointed and sent me...” (Is 61:1). And he concluded by challenging his hearers to recognize the closeness contained in those words: “Today this Scripture has been fulfilled in your hearing” (Lk 4:21).

Jesus finds the passage and reads it with the proficiency of a scribe. He could have been a scribe or a doctor of the law, but he wanted to be an “evangelizer”, a street preacher, the “bearer of joyful news” for his people, the preacher whose feet are beautiful, as Isaiah says. The Preacher is always close.

This is God’s great choice: the Lord chose to be close to his people. Thirty years of hidden life! Only then did he begin his preaching. Here we see the pedagogy of the Incarnation, a pedagogy of inculturation, not only in foreign cultures but also in our own parishes, in the new culture of young people…

Closeness is more than the name of a specific virtue; it is an attitude that engages the whole person, our way of relating, our way of being attentive both to ourselves and to others... When people say of a priest, “he is close to us”, they usually mean two things. The first is that “he is always there” (as opposed to never being there: in that case, they always begin by saying, “Father, I know you are very busy...”). The other is that he has a word for everyone. “He talks to everybody”, they say, with adults and children alike, with the poor, with those who do not believe... Priests who are “close”, available, priests who are there for people, who talk to everyone... street priests.

And one of those who learned from Jesus how to be a street preacher was Philip. In the Acts of the Apostles we read that he went about evangelizing in all the cities and that they were filled with joy (cf. 8:4.5-8). Philip was one of those whom the Spirit could “seize” at any moment and make him go out to evangelize, moving from place to place, someone capable of even baptizing people of good faith, like the court official of the Queen of the Ethiopians, and doing it right there at the roadside (cf. Acts 8:5.36-40).

Closeness, dear brothers, is crucial for an evangelizer because it is a key attitude in the Gospel (the Lord uses it to describe his Kingdom). We can be certain that closeness is the key to mercy, for mercy would not be mercy unless, like a Good Samaritan, it finds ways to shorten distances. But I also think we need to realize even more that closeness is also the key to truth; not just the key to mercy, but the key to truth. Can distances really be shortened where truth is concerned? Yes, they can. Because truth is not only the definition of situations and things from a certain distance, by abstract and logical reasoning. It is more than that. Truth is also fidelity (émeth). It makes you name people with their real name, as the Lord names them, before categorizing them or defining “their situation”. There is a distasteful habit, is there not, of following a “culture of the adjective”: this is so, this is such and such, this is like… No! This is a child of God. Then come the virtues or defects, but [first] the faithful truth of the person and not the adjective regarded as the substance.

We must be careful not to fall into the temptation of making idols of certain abstract truths. They can be comfortable idols, always within easy reach; they offer a certain prestige and power and are difficult to discern. Because the “truth-idol” imitates, it dresses itself up in the words of the Gospel, but does not let those words touch the heart. Much worse, it distances ordinary people from the healing closeness of the word and of the sacraments of Jesus.

Here, let us turn to Mary, Mother of priests. We can call upon her as “Our Lady of Closeness”. “As a true mother, she walks at our side, she shares our struggles and she constantly surrounds us with God’s love”, in such a way that no one feels left out (Evangelii Gaudium, 286). Our Mother is not only close when she sets out “with haste” to serve, which is one means of closeness, but also by her way of expressing herself (ibid., 288). At the right moment in Cana, the tone with which she says to the servants, “Do whatever he tells you”, will make those words the maternal model of all ecclesial language. But to say those words as she does, we must not only ask her for the grace to do so, but also to be present wherever the important things are “concocted”: the important things of each heart, each family, each culture. Only through this kind of closeness – “concocted” in the same way meals are prepared and cooked in a kitchen – can we discern that wine that is missing, and what is the best wine that the Lord wants to provide.

I suggest that you meditate on three areas of priestly closeness where the words, “Do everything Jesus tells you”, need to be heard – in a thousand different ways but with the same motherly tone – in the hearts of all those with whom we speak. Those words are “spiritual accompaniment”, “confession” and “preaching”.

Closeness in spiritual conversation. Let us reflect on this by considering the encounter of the Lord with the Samaritan woman. The Lord teaches her to discern first how to worship, in spirit and in truth. Then, he gently helps her to acknowledge her sin, without offending her. And finally, the Lord infects her with his missionary spirit and goes with her to evangelize her village. The Lord gives us a model of spiritual conversation; he knows how to bring the sin of the Samaritan woman to light without its overshadowing her prayer of adoration or casting doubt on her missionary vocation.

Closeness in confession. Let us reflect on this by considering the passage of the woman caught in adultery. It is clear that here closeness is everything, because the truths of Jesus always approach and can be spoken face to face. Looking the other in the eye, like the Lord, who, after kneeling next to the adulteress about to be stoned, stood up and said to her, “Nor do I condemn you” (Jn 8:11). This is not to go against the law. We too can add, “Go and sin no more”, not with the legalistic tone of truth as definition – the tone of those who feel that that they have to determine the parameters of divine mercy. On the contrary, those words need to be spoken with the tone of truth as fidelity, to enable the sinner to look ahead and not behind. The right tone of the words “sin no more” is seen in the confessor who speaks them and is willing to repeat them seventy times seven.

Finally, closeness in preaching. Let us reflect on this by thinking of those who are far away, and listening to Peter’s first sermon, which is part of the Pentecost event. Peter declares that the word is “for all that are far off” (Acts 2:39), and he preaches in such a way that they were “cut to the heart” by the kerygma, which led them to ask: “What shall we do?” (Acts 2:37). A question, as we said, we must always raise and answer in a Marian and ecclesial tone. The homily is the touchstone “for judging a pastor’s closeness and ability to communicate to his people” (Evangelii Gaudium, 135). In the homily, we can see how close we have been to God in prayer and how close we are to our people in their daily lives.

The good news becomes present when these two forms of closeness nourish and support one another. If you feel far from God, please draw nearer to your people, who will heal you from the ideologies that cool your fervour. The little ones will teach you to look at Jesus in a different way. For in their eyes, the person of Jesus is attractive, his good example has moral authority, his teachings are helpful for the way we live our lives. And if you feel far from people, approach the Lord and his word: in the Gospel, Jesus will teach you his way of looking at people, and how precious in his eyes is every individual for whom he shed his blood on the Cross. In closeness to God, the Word will become flesh in you and you will become a priest close to all flesh. Through your closeness to the people of God, their suffering flesh will speak to your heart and you will be moved to speak to God. You will once again become an intercessory priest.

A priest who is close to his people walks among them with the closeness and tenderness of a good shepherd; in shepherding them, he goes at times before them, at times remains in their midst and at other times walks behind them. Not only do people greatly appreciate such a priest; even more, they feel that there is something special about him: something they only feel in the presence of Jesus. That is why discerning our closeness to them is not simply one more thing to do. In it, we either make Jesus present in the life of humanity or let him remain on the level of ideas, letters on a page, incarnate at most in some good habit gradually becoming routine.

Dear brother priests, let us ask Mary, “Our Lady of Closeness” to bring us closer to one another, and, when we need to tell our people to “do everything Jesus tells them”, to speak with one tone of voice, so that in the diversity of our opinions, her maternal closeness may become present. For she is the one who, by her “yes”, has brought us close to Jesus forever.

[00507-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder im Priesteramt aus der Diözese Rom und den anderen Diözesen der Welt,

als ich die Texte der heutigen Liturgie las, stach mir der Satz aus dem Buch Deuteronomium eindrücklich ins Auge: »Denn welche große Nation hätte Götter, die ihr so nah sind, wie Jahwe, unser Gott, uns nah ist, wo immer wir ihn anrufen?« (4,7). Die Nähe Gottes… unsere apostolische Nähe.

Im Text des Propheten Jesaja betrachten wir den schon von Gott »Gesalbten und Gesandten«, inmitten seines Volkes, der den Armen, den Kranken und den Gefangenen nahe ist…; und den Geist, der »auf ihm ruht«, der ihn antreibt und auf dem Weg begleitet.

In Psalm 89 sehen wir, wie die Begleitung Gottes, der den König David seit seiner Jugend an der Hand geführt und ihm seinen Arm geliehen hat, nun im Alter den Namen der Treue annimmt. Die im Lauf der Zeit aufrechterhaltene Nähe heißt Treue.

Die Offenbarung des Johannes bringt uns in Sichtweite mit dem »ἐρχόμενος« (»Erchomenos«), dem Herrn in Person, der immer »kommt«, immer. Der Hinweis, dass sie »auf den blicken werden, den sie durchbohrt haben«, lässt uns erkennen, dass die Wunden des auferstandenen Herrn weiterhin sichtbar sind, dass der Herr uns immer entgegenkommt, wenn wir uns dem Fleisch all derer, die leiden, besonders der Kinder, zum »Nächsten machen«.

Im zentralen Bild des heutigen Evangeliums betrachten wir den Herrn mit den Augen seiner Landsleute, die »auf ihn gerichtet waren« (Lk 4,20). Jesus stand auf, um in der Synagoge von Nazaret vorzulesen. Man reichte ihm die Schriftrolle des Propheten Jesaja. Er öffnete sie und fand die Stelle über den von Gott Gesandten. Er las vor: »Der Geist Gottes, des Herrn, ruht auf mir. Denn der Herr hat mich gesalbt; er hat mich gesandt…« (61,1). Und er schloss, indem er die so provozierende Nähe jener Worte feststellte: »Heute hat sich das Schriftwort, das ihr eben gehört habt, erfüllt« (Lk4,21).

Jesus findet die Stelle und liest sie in der Vollmacht der Schriftgelehrten. Er hätte ohne weiteres ein Schriftgelehrter oder ein Gesetzeslehrer sein können, aber er wollte ein „Evangelisierer“ sein, ein Straßenprediger, der „Freudenbote“ für sein Volk, der Prediger, dessen Schritte willkommen sind, wie Jesaja sagt (vgl. Jes 52,7). Der Prediger ist nahe.

Dies ist die großartige Wahl Gottes: Der Herr entschied sich dafür, jemand zu sein, der seinem Volk nahe ist. Dreißig Jahre des verborgenen Lebens! Nur danach wird er anfangen zu predigen. Es ist die Pädagogik der Inkarnation… der Inkulturation; nicht nur in den fernen Kulturen, auch in der eigenen Pfarrei, in der neuen Kultur der jungen Menschen…

Die Nähe ist mehr als die Bezeichnung für eine besondere Tugend; sie ist eine Haltung, die die gesamte Person betrifft, ihre Art, Bindungen aufzubauen, in sich selbst festzustehen und zugleich auf den anderen zu achten… Wenn die Leute von einem Priester sagen, dass er »volksnah« ist, möchten sie normalerweise zwei Dinge hervorheben: erstens, dass er »immer da« ist (im Gegensatz zur Feststellung, dass er »nie da« ist: »Ich weiß, Pater, dass sie sehr beschäftigt sind…« – sagen sie oft). Und das zweite Kennzeichen ist, dass er ein Wort für jeden zu finden vermag. »Er spricht mit allen«, sagen die Leute: mit den Großen, den Kleinen, den Armen, mit denjenigen, die nicht glauben… Volksnahe Priester, die da sind, die mit allen sprechen… Straßenpriester.

Und einer, der von Jesus gut gelernt hat, Straßenprediger zu sein, ist Philippus. Die Apostelgeschichte berichtet, dass Philippus umherzog und die Frohbotschaft des Wortes verkündete, indem er in allen Städten predigte, und dass sie mit großer Freude erfüllt wurden (vgl. 8,4.5-8). Philippus war einer von denen, die der Geist in jedem Augenblick „entführen“ und überallhin zur Evangelisierung aufbrechen lassen konnte, um von einem Ort zum anderen zu gehen; einer, der auch fähig war, Menschen soliden Glaubens zu taufen, wie den Kämmerer der Königin von Äthiopien, und dies auf der Stelle zu tun, während sie noch unterwegs sind (vgl. Apg 8,5; 36-40).

Die Nähe, liebe Brüder, ist der Schlüssel des Evangelisierers, weil sie eine Schlüsselhaltung im Evangelium ist (der Herr verwendet sie, um das Reich Gottes zu beschreiben). Wir haben verinnerlicht, dass die Nähe der Schlüssel der Barmherzigkeit ist, weil die Barmherzigkeit keine wäre, wenn sie sich nicht immer bemühen würde, als gute Samariterin die Distanz zu überwinden. Aber ich glaube, dass wir die Tatsache noch mehr verinnerlichen müssen, dass die Nähe auch der Schlüssel der Wahrheit ist; nicht nur der Barmherzigkeit, sondern auch der Schlüssel der Wahrheit. Kann man die Distanz in der Wahrheit überwinden? Ja, man kann es. Denn die Wahrheit ist nicht nur die Definition, die es ermöglicht, Situationen und Dinge aus der Ferne eines Konzepts oder einer logischen Überlegung heraus zu benennen. Sie ist nicht nur das. Die Wahrheit ist auch Treue (emeth), jene, die es dir ermöglicht, die Personen mit ihrem eigenen Namen zu nennen, so wie der Herr sie beim Namen ruft, bevor man sie einer Kategorie zuordnet oder »ihre Situation« definiert. Und hier gibt es diese – hässliche, oder? – Gewohnheit, der „Kultur des Adjektivs“: der ist so, der ist anders, dieser ist so einer… Nein, das ist ein Sohn Gottes. Darüber hinaus wird er Tugenden oder Fehler besitzen, aber hier geht es um die treue Wahrheit der Person und nicht um ein Adjektiv das zu einem Substantiv geworden ist.

Man muss sich hüten, nicht der Versuchung zu verfallen, aus einigen abstrakten Wahrheiten einen Abgott zu machen. Es sind bequeme, praktische Götzen, die ein gewisses Prestige und Macht verleihen und schwer zu erkennen sind. Denn die „Wahrheit als Götze“ tarnt sich, sie verwendet Worte aus dem Evangelium wie ein Kleid, aber sie lässt es nicht zu, dass diese Worte das Herz berühren. Und was noch viel schlimmer ist: Sie entfernt die einfachen Menschen von der heilenden Nähe des Wortes und der Sakramente Jesu.

An diesem Punkt wollen wir uns an Maria, die Mutter der Priester, wenden. Wir können sie als »Mutter Gottes von der Nähe« anrufen: »Als wahre Mutter geht sie mit uns, streitet für uns und verbreitet unermüdlich die Nähe der Liebe Gottes« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 286), so dass niemand sich ausgeschlossen fühlt. Unsere Mutter ist nicht nur nahe, um mit jener »Bereitschaft« (ebd., 288) zu dienen, die eine Art der Nähe ist, sondern auch durch ihre Weise, die Dinge zu sagen. In Kana führen der rechte Augenblick und der Tonfall, mit dem sie zu den Dienern sagt »Was er euch sagt, das tut«, dazu, dass diese Worte zum mütterlichen Stil der ganzen kirchlichen Sprache werden. Aber um sie wie sie auszusprechen, muss man nicht nur um die Gnade bitten, sondern auch dort sein können, wo die wichtigen Dinge »gekocht« werden, die für jedes Herz, jede Familie und jede Kultur Bedeutung haben. Nur aus dieser Nähe – wir könnten sie die Nähe der „Küche“ nennen - kann man unterscheiden, welcher Wein fehlt und welcher der qualitativ bessere ist, den der Herr geben will.

Ich rate euch drei Bereiche der priesterlichen Nähe zu betrachten, in denen die Worte »Was er euch sagt, das tut« in den Herzen der Personen, mit denen wir im Bereich der geistlichen Begleitung, der Beichte und der Predigt sprechen, widerhallen müssen, auf tausend verschiedene Weisen, aber mit demselben mütterlichen Ton.

Über die Nähe im geistlichen Gespräch können wir nachdenken, indem wir die Begegnung des Herrn mit der Samariterin betrachten. Der Herr lehrt sie zuerst, wie man im Geist und in der Wahrheit anbetet; dann hilft er ihr mit Feingefühl, ihre Sünde zu benennen, ohne sie zu beleidigen; und schließlich lässt der Herr sich von ihrem missionarischen Geist anstecken und geht mit ihr, um ihr Dorf zu evangelisieren. Das Modell des geistlichen Gesprächs ist das des Herrn, der es vermag, die Sünde der Samariterin offenzulegen, ohne auf ihre Anbetung einen Schatten zu werfen oder ihrer missionarischen Berufung Hindernisse in den Weg zu legen.

Über die Nähe in der Beichte können wir nachdenken, indem wir die Stelle von der Ehebrecherin betrachten. Dort sieht man deutlich, wie die Nähe entscheidend ist, weil die Wahrheiten Jesu immer von Mensch zu Mensch nahegebracht und gesagt werden müssen (man kann sie immer sagen). Dem anderen in die Augen schauen – wie der Herr, der aufsteht, nachdem er neben der Ehebrecherin, die man steinigen wollte, auf Knien war, und zu ihr sagt: »Auch ich verurteile dich nicht« (Joh8,11) – bedeutet nicht, sich gegen das Gesetz zu wenden. Und man kann hinzufügen »Geh und sündige von jetzt an nicht mehr!« (ebd.): nicht mit einem Ton, der dem rechtlichen Bereich der definierten Wahrheit angehört – dem Ton desjenigen, der die Bedingungen der göttlichen Barmherzigkeit festsetzen muss –, sondern mit einer Ausdrucksweise, die man im Bereich der Wahrheit als Treue anwendet, die dem Sünder erlaubt, vorwärts zu schauen und nicht zurück. Der richtige Ton dieses »Sündige nicht mehr« ist derjenige des Beichtvaters, der ihn in der Bereitschaft ausspricht, ihn siebzigmal siebenmal (vgl. Mt 18,22) zu wiederholen.

Zuletzt der Bereich der Predigt. Denken wir darüber nach, indem wir an die Fernstehenden denken, und tun wir es im Hören auf die erste Predigt des Petrus, die im Zusammenhang mit dem Pfingstereignis steht. Petrus verkündet, dass das Wort »all denen in der Ferne« (Apg 2,39) gilt, und predigt auf eine Weise, dass das Kerygma sie »mitten ins Herz« traf und sie dazu führte zu fragen: »Was sollen wir tun?« (Apg 2,37). Eine Frage, welche, wie wir sagten, wir immer in marianischem, kirchlichem Ton stellen und beantworten müssen. Die Homilie ist »Prüfstein, um die Nähe und die Kontaktfähigkeit eines Hirten zu seinem Volk zu beurteilen« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 135). In der Homilie sieht man, wie nahe wir Gott im Gebet waren und wie nahe wir unserem Volk in seinem Alltag sind.

Die Frohbotschaft wird umgesetzt, wenn diese zwei Arten der Nähe sich gegenseitig befruchten und stützen. Wenn du dich fern von Gott fühlst, bitte, gehe auf sein Volk zu, das dich von den Ideologien heilen wird, die deinen Eifer lau werden ließen. Die Kleinen werden dich lehren, Jesus auf andere Weise anzuschauen. In ihren Augen ist die Person Jesu faszinierend, sein gutes Beispiel gibt moralische Autorität, seine Lehren nützen dem Leben. Und wenn du dich fern von den Menschen fühlst, komme dem Herrn und seinem Wort näher: Im Evangelium wird Jesus dich seine Weise lehren, auf das Volk zu schauen, wie wertvoll in seinen Augen ein jeder von denen ist, für die er sein Blut am Kreuz vergoss. In der Nähe zu Gott wird das Wort in dir Fleisch werden, und du wirst wieder ein Priester, der allem Fleisch nahe ist. In der Nähe zum Volk Gottes wird sein schmerzvolles Fleisch in deinem Herzen Wort werden, und du wirst wissen, worüber du mit Gott sprechen sollst, du wirst zu einem fürbittenden Priester werden.

Den nahen Priester, denjenigen, der inmitten seines Volkes mit der Nähe und der Zärtlichkeit eines guten Hirten geht (und in seinem pastoralen Dienst einmal vorausgeht, ein anderes Mal in der Mitte und wieder ein anderes Mal zum Schluss geht), schätzen die Leute nicht nur sehr; sie gehen weit darüber hinaus; sie empfinden für ihn etwas Besonderes, etwas, das sie nur in der Gegenwart Jesu verspüren. Deshalb ist dieses Erkennen unserer Nähe nicht nur ein zusätzlicher Schnörkel. Darin riskieren wir, ob Jesus im Leben der Menschheit gegenwärtig wird oder er auf der Ebene der Ideen verbleibt, eingeschlossen in Druckbuchstaben und höchstens in einigen guten Angewohnheiten inkarniert, die sich aber allmählich in Routine verwandeln.

Liebe Brüder im Priesteramt, bitten wir Maria, »Unsere Liebe Frau von der Nähe«, dass sie uns einander näher bringe und dass wir in dem Augenblick, in dem wir unserem Volk sagen müssen, »all das zu tun, was Jesus ihm sagt«, unseren Tonfall vereinheitliche, damit in der Verschiedenheit unserer Meinungen ihre mütterliche Nähe gegenwärtig werde, jene, die uns mit ihrem „Ja“ für immer in die Nähe Jesu gebracht hat.

[00507-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos, sacerdotes de la diócesis de Roma y de las demás diócesis del mundo:

Leyendo los textos de la liturgia de hoy me venía a la mente, de manera insistente, el pasaje del Deuteronomio que dice: «Porque ¿dónde hay una nación tan grande que tenga unos dioses tan cercanos como el Señor, nuestro Dios, siempre que lo invocamos?» (4,7). La cercanía de Dios... nuestra cercanía apostólica.

En el texto del profeta Isaías contemplamos al enviado de Dios ya «ungido y enviado», en medio de su pueblo, cercano a los pobres, a los enfermos, a los prisioneros... y al Espíritu que «está sobre él», que lo impulsa y lo acompaña por el camino.

En el Salmo 88, vemos cómo la compañía de Dios, que ha conducido al rey David de la mano desde que era joven y que le prestó su brazo, ahora que es anciano, toma el nombre de fidelidad: la cercanía mantenida a lo largo del tiempo se llama fidelidad.

El Apocalipsis nos acerca, hasta que podemos verlo, al «Erjómenos», al Señor que siempre «está viniendo» en Persona. La alusión a que «lo verán los que lo traspasaron» nos hace sentir que siempre están a la vista las llagas del Señor resucitado, siempre está viniendo a nosotros el Señor si nos queremos «hacer próximos» en la carne de todos los que sufren, especialmente de los niños.

En la imagen central del Evangelio de hoy, contemplamos al Señor a través de los ojos de sus paisanos que estaban «fijos en él» (Lc 4,20). Jesús se alzó para leer en su sinagoga de Nazaret. Le fue dado el rollo del profeta Isaías. Lo desenrolló hasta que encontró el pasaje del enviado de Dios. Leyó en voz alta: «El Espíritu del Señor está sobre mí, me ha ungido y enviado...» (61,1). Y terminó estableciendo la cercanía tan provocadora de esas palabras: «Hoy se ha cumplido esta Escritura que acabáis de oír» (Lc 4,21).

Jesús encuentra el pasaje y lee con la competencia de los escribas. Él habría podido perfectamente ser un escriba o un doctor de la ley, pero quiso ser un «evangelizador», un predicador callejero, el «portador de alegres noticias» para su pueblo, el predicador cuyos pies son hermosos, como dice Isaías (cf. 52,7). El predicador es cercano.

Esta es la gran opción de Dios: el Señor eligió ser alguien cercano a su pueblo. ¡Treinta años de vida oculta! Después comenzará a predicar. Es la pedagogía de la encarnación, de la inculturación; no solo en las culturas lejanas, también en la propia parroquia, en la nueva cultura de los jóvenes...

La cercanía es más que el nombre de una virtud particular, es una actitud que involucra a la persona entera, a su modo de vincularse, de estar a la vez en sí mismo y atento al otro. Cuando la gente dice de un sacerdote que «es cercano» suele resaltar dos cosas: la primera es que «siempre está» (contra el que «nunca está»: «Ya sé, padre, que usted está muy ocupado», suelen decir). Y la otra es que sabe encontrar una palabra para cada uno. «Habla con todos», dice la gente: con los grandes, los chicos, los pobres, con los que no creen... Curas cercanos, que están, que hablan con todos... Curas callejeros.

Y uno que aprendió bien de Jesús a ser predicador callejero fue Felipe. Dicen los Hechos que recorría anunciando la Buena Nueva de la Palabra predicando en todas las ciudades y que estas se llenaban de alegría (cf. 8,4.5-8). Felipe era uno de esos a quienes el Espíritu podía «arrebatar» en cualquier momento y hacerlo salir a evangelizar, yendo de un lado para otro, uno capaz hasta de bautizar gente de buena fe, como el ministro de la reina de Etiopía, y hacerlo ahí mismo, en la calle (cf. Hch 8,5; 36-40).

Queridos hermanos, la cercanía es la clave del evangelizador porque es una actitud clave en el Evangelio (el Señor la usa para describir el Reino). Nosotros tenemos incorporado que la proximidad es la clave de la misericordia, porque la misericordia no sería tal si no se las ingeniara siempre, como «buena samaritana», para acortar distancias. Pero creo que nos falta incorporar más el hecho de que la cercanía es también la clave de la verdad. No sólo de la misericordia, sino también de la verdad. ¿Se pueden acortar distancias en la verdad? Sí se puede. Porque la verdad no es solo la definición que hace nombrar las situaciones y las cosas a distancia de concepto y de razonamiento lógico. No es solo eso. La verdad es también fidelidad (emeth), esa que te hace nombrar a las personas con su nombre propio, como las nombra el Señor, antes de ponerles una categoría o definir «su situación». Y aquí hay una costumbre –fea, ¿verdad?– de la «cultura del adjetivo»: «Este es así, este es un tal, este es un cual…». No, este es hijo de Dios. Después, tendrá virtudes o defectos, pero… la verdad fiel de la persona y no el adjetivo convertido en sustancia.

Hay que estar atentos a no caer en la tentación de hacer ídolos con algunas verdades abstractas. Son ídolos cómodos que están a mano, que dan cierto prestigio y poder y son difíciles de discernir. Porque la «verdad-ídolo» se mimetiza, usa las palabras evangélicas como un vestido, pero no deja que le toquen el corazón. Y, lo que es mucho peor, aleja a la gente simple de la cercanía sanadora de la Palabra y de los sacramentos de Jesús.

En este punto, acudimos a María, Madre de los sacerdotes. La podemos invocar como «Nuestra Señora de la Cercanía»: «Como una verdadera madre, ella camina con nosotros, lucha con nosotros, y derrama incesantemente la cercanía del amor de Dios» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 286), de modo tal que nadie se sienta excluido. Nuestra Madre no solo es cercana por ir a servir con esa «prontitud» (ibíd., 288) que es un modo de cercanía, sino también por su manera de decir las cosas. En Caná, el momento oportuno y el tono suyo con el cual dice a los servidores «Hagan todo lo que él les diga» (Jn 2,5), hará que esas palabras sean el molde materno de todo lenguaje eclesial. Pero para decirlas como ella, además de pedirle la gracia, hay que saber estar allí donde «se cocinan» las cosas importantes, las de cada corazón, las de cada familia, las de cada cultura. Solo en esta cercanía –podemos decir «de cocina»– uno puede discernir cuál es el vino que falta y cuál es el de mejor calidad que quiere dar el Señor.

Les sugiero meditar tres ámbitos de cercanía sacerdotal en los que estas palabras: «Hagan todo lo que Jesús les diga» deben resonar ―de mil modos distintos pero con un mismo tono materno― en el corazón de las personas con las que hablamos: el ámbito del acompañamiento espiritual, el de la confesión y el de la predicación.

La cercanía en la conversación espiritual la podemos meditar contemplando el encuentro del Señor con la Samaritana. El Señor le enseña a discernir primero cómo adorar, en Espíritu y en verdad; luego, con delicadeza, la ayuda a poner nombre a su pecado, sin ofenderla; y, por fin, el Señor se deja contagiar por su espíritu misionero y va con ella a evangelizar a su pueblo. Modelo de conversación espiritual es el del Señor, que sabe hacer salir a la luz el pecado de la Samaritana sin que proyecte su sombra sobre su oración de adoradora ni ponga obstáculos a su vocación misionera.

La cercanía en la confesión la podemos meditar contemplando el pasaje de la mujer adúltera. Allí se ve claro cómo la cercanía lo es todo porque las verdades de Jesús siempre acercan y se dicen (se pueden decir siempre) cara a cara. Mirando al otro a los ojos ―como el Señor cuando se puso de pie después de haber estado de rodillas junto a la adúltera que querían apedrear, y puede decir: «Yo tampoco te condeno» (Jn 8,11), no es ir contra la ley. Y se puede agregar «En adelante no peques más» (ibíd.), no con un tono que pertenece al ámbito jurídico de la verdad-definición ―el tono de quien siente que tiene que determinar cuáles son los condicionamientos de la Misericordia divina― sino que es una frase que se dice en el ámbito de la verdad-fiel, que le permite al pecador mirar hacia adelante y no hacia atrás. El tono justo de este «no peques más» es el del confesor que lo dice dispuesto a repetirlo setenta veces siete.

Por último, el ámbito de la predicación. Meditamos en él pensando en los que están lejos, y lo hacemos escuchando la primera prédica de Pedro, que debe incluirse dentro del acontecimiento de Pentecostés. Pedro anuncia que la palabra es «para los que están lejos» (Hch 2,39), y predica de modo tal que el kerigma les «traspasó el corazón» y les hizo preguntar: «¿Qué tenemos que hacer?» (Hch 2,37). Pregunta que, como decíamos, debemos hacer y responder siempre en tono mariano, eclesial. La homilía es la piedra de toque «para evaluar la cercanía y la capacidad de encuentro de un Pastor con su pueblo» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 135). En la homilía se ve qué cerca hemos estado de Dios en la oración y qué cerca estamos de nuestro pueblo en su vida cotidiana.

La buena noticia se da cuando estas dos cercanías se alimentan y se curan mutuamente. Si te sientes lejos de Dios, por favor, acércate a su pueblo, que te sanará de las ideologías que te entibiaron el fervor. Los pequeños te enseñarán a mirar de otra manera a Jesús. Para sus ojos, la Persona de Jesús es fascinante, su buen ejemplo da autoridad moral, sus enseñanzas sirven para la vida. Y si tú te sientes lejos de la gente, acércate al Señor, a su Palabra: en el Evangelio, Jesús te enseñará su modo de mirar a la gente, qué valioso es a sus ojos cada uno de aquellos por los que derramó su sangre en la Cruz. En la cercanía con Dios, la Palabra se hará carne en ti y te volverás un cura cercano a toda carne. En la cercanía con el pueblo de Dios, su carne dolorosa se volverá palabra en tu corazón y tendrás de qué hablar con Dios, te volverás un cura intercesor.

Al sacerdote cercano, ese que camina en medio de su pueblo con cercanía y ternura de buen pastor (y unas veces va adelante, otras en medio y otras veces va atrás, pastoreando), no es que la gente solamente lo aprecie mucho; va más allá: siente por él una cosa especial, algo que solo siente en presencia de Jesús. Por eso, no es una cosa más esto de «discernir nuestra cercanía». En ella nos jugamos «hacer presente a Jesús en la vida de la humanidad» o dejar que se quede en el plano de las ideas, encerrado en letras de molde, encarnado a lo sumo en alguna buena costumbre que se va convirtiendo en rutina.

Queridos hermanos sacerdotes, pidamos a María, «Nuestra Señora de la Cercanía», que «nos acerque» entre nosotros y, a la hora de decirle a nuestro pueblo que «haga todo lo que Jesús le diga», nos unifique el tono, para que en la diversidad de nuestras opiniones, se haga presente su cercanía materna, esa que con su «sí» nos acercó a Jesús para siempre.

[00507-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Amados irmãos, sacerdotes da diocese de Roma e doutras dioceses do mundo!

Ao ler os textos da liturgia de hoje, vinha-me com insistência à mente a passagem do Deuteronómio que diz: «Que grande nação haverá que tenha um deus tão próximo de si como está próximo de nós o Senhor, nosso Deus, sempre que o invocamos?» (4, 7). A proximidade de Deus... a nossa proximidade apostólica.

No texto do profeta Isaías, contemplamos o Servo de Deus já «ungido e enviado», presente no meio do seu povo, próximo dos pobres, dos doentes, dos presos... e o Espírito que «está sobre Ele», que O impele e acompanha ao longo do caminho.

No Salmo 88, vemos como a companhia de Deus – que conduziu pela mão o rei David desde a sua juventude e lhe emprestou o seu braço até agora que é idoso – toma o nome de fidelidade: a proximidade mantida ao longo do tempo chama-se fidelidade.

O Apocalipse aproxima-nos – até no-Lo fazer ver – do Erchomenos, do Senhor em pessoa que «vem» sempre, sempre. A alusão ao facto de que «O verão até mesmo os que O trespassaram» faz-nos sentir que as chagas do Senhor ressuscitado permanecem visíveis, que o Senhor vem sempre ao nosso encontro, se quisermos «fazer-nos próximo» da carne de todos aqueles que sofrem, especialmente das crianças.

Na imagem central do Evangelho de hoje, contemplamos o Senhor através dos olhos dos seus compatriotas, que estavam «fixos n’Ele» (Lc 4, 20). Jesus levantou-Se para ler na sinagoga de Nazaré. Foi-Lhe entregue o rolo do profeta Isaías. Desenrolou-o até encontrar a passagem do enviado de Deus. Leu em voz alta: «O Espírito do Senhor está sobre Mim, (…) Me ungiu e enviou...» (61, 1). E concluiu afirmando a proximidade tão provocadora daquelas palavras: «Cumpriu-se hoje esta passagem da Escritura, que acabais de ouvir».

Jesus encontra a passagem e lê com a competência dos escribas. Poderia perfeitamente ter sido um escriba ou um doutor da lei, mas quis ser um «evangelizador», um pregador de estrada, o «Mensageiro de boas novas» para o seu povo, o pregador cujos pés são formosos, como diz Isaías (cf. 52, 7). O pregador faz-se vizinho.

Esta é a grande opção de Deus: o Senhor escolheu ser Alguém que está próximo do seu povo. Trinta anos de vida oculta! Só depois começará a pregar. É a pedagogia da encarnação, da inculturação; não só nas culturas distantes, mas também na própria paróquia, na nova cultura dos jovens...

A proximidade é mais do que o nome duma virtude particular, é uma atitude que envolve a pessoa inteira, o seu modo de estabelecer laços, de estar contemporaneamente em si mesma e atenta ao outro. Quando as pessoas afirmam, dum sacerdote, que «está perto» da gente, habitualmente fazem ressaltar duas coisas: a primeira é que «está sempre» (ao contrário do que «nunca está»; deste costumam dizer: «Já sei, padre, que está muito ocupado!»). E a outra coisa é que sabe ter uma palavra para cada um. «Fala com todos – dizem as pessoas –, com os grandes, com os pequenos, com os pobres, com aqueles que não creem... Padres próximos, que estão, que falam com todos…, padres de estrada.

E um que aprendeu bem, de Jesus, a ser pregador de estrada foi Filipe. Narram os Atos dos Apóstolos que ia de terra em terra, anunciando a Boa-Nova da Palavra, pregando em todas as cidades e que estas ficavam inundadas de alegria. Filipe era um daqueles que o Espírito podia «arrebatar» em qualquer momento e fazê-lo sair para evangelizar, deslocando-se dum lugar para outro, alguém capaz de batizar pessoas de boa fé, como o ministro da rainha da Etiópia, e fazê-lo ali mesmo, na estrada (cf. At 8, 5-8.26-40).

A proximidade, amados irmãos, é a chave do evangelizador, porque é uma atitude-chave no Evangelho (o Senhor usa-a para descrever o Reino). Já temos por adquirido que a proximidade é a chave da misericórdia, pois não seria misericórdia senão fizesse sempre de tudo, como boa samaritana, para eliminar as distâncias. Mas penso que precisamos de assumir melhor o facto de que a proximidade é também a chave da verdade; não só da misericórdia, mas também a chave da verdade. Podem-se eliminar as distâncias na verdade? Certamente. Com efeito, a verdade não é só a definição que permite nomear situações e coisas mantendo-as à distância com conceitos e raciocínios lógicos. Não é só isso. A verdade é também fidelidade (emeth), aquela que te consente de designar as pessoas pelo seu próprio nome, como o Senhor as designa, antes de as classificar ou definir «a sua situação». A propósito, existe o hábito – mau, não é? – da «cultura do adjetivo»: este é assim, este é assado… Não! Este é filho de Deus. Depois, terá virtudes ou defeitos; mas digamos a verdade fiel da pessoa e não o adjetivo feito substância.

Devemos estar atentos para não cair na tentação de fazer ídolos com algumas verdades abstratas. São ídolos cómodos, ao alcance da mão, que dão um certo prestígio e poder e são difíceis de reconhecer. Porque a «verdade-ídolo» se mimetiza, usa as palavras evangélicas como um vestido, mas não deixa que lhe toquem o coração. E, pior ainda, afasta as pessoas simples da proximidade sanadora da Palavra e dos Sacramentos de Jesus.

Chegados aqui, voltemo-nos para Maria, Mãe dos sacerdotes. Podemos invocá-La como «Nossa Senhora da Proximidade»: «como uma verdadeira mãe, caminha connosco, luta connosco e aproxima-nos incessantemente do amor de Deus» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 286), infunde sem cessar a proximidade do amor de Deus, de tal maneira que ninguém se sinta excluído. A nossa Mãe está próxima não só por partir com «prontidão» (Ibid., 288) para servir, que é uma forma de proximidade, mas também pela sua maneira de dizer as coisas. Em Caná, a tempestividade e o tom com que Ela diz aos serventes «fazei o que Ele vos disser» (Jo 2, 5) farão com que estas palavras se tornem o modelo materno de toda a linguagem eclesial. Mas, para as dizer como Ela devemos, além de pedir a graça, saber estar onde «se cozinham» as coisas importantes, aquelas que contam para cada coração, cada família, cada cultura. Só com esta proximidade – podemos dizer «de cozinha» – será possível discernir qual é o vinho que falta e qual é o de melhor qualidade que o Senhor quer dar.

Sugiro, para meditação, três âmbitos de proximidade sacerdotal nos quais estas palavras «fazei o que Ele vos disser» devem ressoar – de mil modos diferentes, mas com o mesmo tom materno – no coração das pessoas com quem falamos: o âmbito do acompanhamento espiritual, o da Confissão e o da pregação.

A proximidade no diálogo espiritual, podemos meditá-la contemplando o encontro do Senhor com a Samaritana (cf. Jo 4, 5-41). O Senhor começa por lhe ensinar a reconhecer como adorar, em Espírito e em verdade; depois, com delicadeza, ajuda-a a dar um nome ao seu pecado, sem a ofender; e, por fim, o Senhor deixa-Se contagiar pelo seu espírito missionário e vai, com ela, evangelizar a sua povoação. Modelo de diálogo espiritual é este do Senhor, que sabe trazer à luz o pecado da Samaritana sem ensombrar a sua oração de adoração nem pôr obstáculos à sua vocação missionária.

A proximidade na Confissão, podemos meditá-la contemplando a passagem da mulher adúltera (cf. Jo 8, 3-11). Lá se vê claramente como a proximidade é decisiva, porque as verdades de Jesus sempre aproximam e se dizem (podem-se dizer sempre) face a face. Fixar o outro nos olhos – como o Senhor, quando Se levanta depois de ter estado de joelhos junto da adúltera que queriam lapidar, e lhe diz «também Eu não te condeno» (8, 11) – não é ir contra a lei. E pode-se acrescentar «de agora em diante não tornes a pecar», não com um tom que pertence à esfera jurídica da verdade-definição (o tom de quem deve determinar quais são as condições da Misericórdia divina), mas com uma frase dita na área da verdade-fiel que permita ao pecador olhar em frente e não para trás. O tom justo deste «não tornes a pecar» é o do confessor que o diz disposto a repeti-lo setenta vezes sete.

Por último, o âmbito da pregação. Meditemos nele pensando nas pessoas que estão afastadas e façamo-lo escutando a primeira pregação de Pedro, que teve lugar no contexto do Pentecostes (At 2, 14-36.38-40). Pedro anuncia que a palavra é «para todos os que estão longe» (2, 39), e prega de tal maneira que o querigma «os emocionou até ao fundo dos corações» e os fez perguntar: «Que havemos de fazer?» (2, 37). Uma pergunta que, como dizíamos, devemos pôr e responder sempre em tom mariano, eclesial. A homilia é a pedra de toque «para avaliar a proximidade e a capacidade de encontro de um Pastor com o seu povo» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 135). Na homilia, vê-se quão próximo temos estado de Deus na oração e quão próximo estamos do nosso povo na sua vida diária.

A boa notícia concretiza-se quando estas duas proximidades se alimentam e ajudam mutuamente. Se te sentes longe de Deus, por favor aproxima-te do seu povo, que te curará das ideologias que te entorpeceram o fervor. As pessoas simples ensinar-te-ão a ver Jesus doutra maneira. Aos seus olhos, a Pessoa de Jesus é fascinante, o seu bom exemplo dá autoridade moral, os seus ensinamentos servem para a vida. E se tu te sentes longe das pessoas, aproxima-te do Senhor, da sua Palavra: no Evangelho, Jesus ensinar-te-á o seu modo de ver as pessoas, quanto vale aos seus olhos cada um daqueles por quem derramou o seu sangue na cruz. Na proximidade com Deus, a Palavra far-se-á carne em ti e tornar-te-ás um padre próximo de toda a carne. Na proximidade com o povo de Deus, a sua carne dolorosa tornar-se-á palavra no teu coração e terás de que falar com Deus, tornar-te-ás um padre intercessor.

O sacerdote vizinho, que caminha no meio do seu povo com proximidade e ternura de bom pastor (e, na sua pastoral, umas vezes vai à frente, outras vezes no meio e outras vezes ainda atrás), as pessoas não só o veem com muito apreço; mas vão mais além: sentem por ele qualquer coisa de especial, algo que só sentem na presença de Jesus. Por isso, reconhecer a nossa proximidade não é apenas…mais uma coisa. Com efeito nisso se decide se queremos tornar Jesus presente na vida da humanidade ou se, pelo contrário, O deixamos no plano das ideias, encerrado em belas letras, quando muito encarnado nalgum bom hábito que pouco a pouco se torna rotina.

Amados irmãos sacerdotes, peçamos a Maria, «Nossa Senhora da Proximidade», que nos aproxime entre nós e, na hora de dizer ao nosso povo «fazei o que Ele vos disser», nos unifique o tom, para que, na diversidade das nossas opiniões, se torne presente a sua proximidade materna, aquela que com o seu «sim» nos aproximou de Jesus para sempre.

[00507-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia, kapłani z diecezji rzymskiej i innych diecezji świata!

Gdy czytałem teksty dzisiejszej liturgii, natarczywie przychodził mi na myśl fragment Księgi Powtórzonego Prawa: „Bo któryż naród wielki ma bogów tak bliskich, jak Pan, Bóg nasz, ilekroć Go wzywamy?” (Pwt 4, 7). Bliskość Boga ... nasza bliskość apostolska.

W tekście proroka Izajasza kontemplujemy Bożego posłańca, już „namaszczonego i posłanego”, pośród swego ludu, bliskiego ubogim, chorym, więźniom...; i Ducha, który jest „nad Nim”, który go pobudza i towarzyszy mu w drodze.

W Psalmie 88 widzimy, w jaki sposób towarzyszenie Boga, który od młodości prowadził za rękę króla Dawida, i który wsparł go swoim ramieniem, teraz, gdy jest stary, przybiera imię wierności: bliskość dochowywana na przestrzeni lat nazywa się wiernością.

Apokalipsa przybliża nas do „Erchomenosa”, [gr. ἐρχόμενος] Pana w osobie własnej, który zawsze „przychodzi”, zawsze. Aluzja, że zobaczą Go także ci, „którzy, Go przebodli”, sprawi, że czujemy, iż rany zmartwychwstałego Pana są zawsze widoczne, że Pan zawsze wychodzi nam na spotkanie, jeśli chcemy „zbliżyć się” do ciała wszystkich cierpiących, a szczególnie dzieci.

W centralnym obrazie Ewangelii dnia dzisiejszego kontemplujemy Pana oczyma jego rodaków, które były w Nim „utkwione” (Łk 4,20). Jezus wstał, aby czytać w synagodze w Nazarecie. Podano Jemu zwój proroka Izajasza. Rozwinął go, aż znalazł fragment o Bożym posłańcu. Przeczytał głośno: „Duch Pański spoczywa na mnie [...] namaścił i posłał mnie” (Iz 61,1). I zakończył ustanawiając jakże prowokującą bliskość, następujących słów: „Dziś spełniły się te słowa Pisma, któreście słyszeli” (Łk 4,21).

Jezus znajduje ten fragment i czyta z kompetencją uczonych w Piśmie. Mógłby doskonale być uczonym w Piśmie lub uczonym w Prawie, ale zechciał być „ewangelizatorem”, wędrownym kaznodzieją, „zwiastunem radosnej nowiny” dla swojego ludu, kaznodzieją, którego stopy są piękne, jak mówi Izajasz (por. 52,7). Kaznodzieja jest blisko.

To jest wspaniały wybór Boga: Pan postanowił być kimś bliskim swojego ludu. Trzydzieści lat życia ukrytego! Dopiero później zacznie głosić dobrą nowinę. Jest to pedagogia wcielenia, inkulturacji; nie tylko w odległych kulturach, ale także we własnej parafii, w nowej kulturze ludzi młodych...

Bliskość jest czymś więcej niż nazwą konkretnej cnoty, jest to postawa obejmująca całą osobę, jej sposób nawiązywania więzi, bycia jednocześnie w sobie i wrażliwymi na innych... Kiedy ludzie mówią o jakimś księdzu, że „jest blisko" zwykle podkreślają dwie rzeczy: pierwsza – że jest „zawsze” (w przeciwieństwie do takiego, którego „nigdy nie ma”, mówią: „wiem, ojcze, że jesteś bardzo zajęty...”). Druga – że umie znaleźć słowo dla każdego. Ludzie mówią: „Rozmawia ze wszystkimi – z wielkimi, małymi, biednymi, z niewierzącymi… Księża bliscy, którzy są, którzy rozmawiają ze wszystkimi... Księża wędrowni.

Jednym z tych, którzy dobrze nauczyli się od Jezusa jak być kaznodzieją wędrownym był Filip. Dzieje Apostolskie mówią, że przechodził z miejsca w miejsce głosząc dobrą nowinę Słowa we wszystkich miastach, które napełniały się radością (por. Dz 8,4.5-8). Filip był jednym z tych, których Duch mógł „porwać” w każdej chwili i sprawić, by wychodzili głosić dobrą nowinę, przechodząc z jednego miejsca w drugie, człowiekiem zdolnym nawet do ochrzczenia ludzi dobrej wiary, jak dworzanin królowej Etiopii, i uczynić to natychmiast, podczas drogi (por. Dz 8, 5; 36-40).

Bliskość, drodzy bracia, jest kluczem ewangelizatora, ponieważ jest kluczową postawą w Ewangelii (Pan używa jej do opisania Królestwa). Uważamy za coś oczywistego, że bliskość jest kluczem do miłosierdzia, ponieważ miłosierdzie nie byłoby możliwe, gdyby zawsze nie pobudzało, jak dobry Samarytanin, do skracania dystansów. Ale myślę, że musimy w większym stopniu przyswoić sobie fakt, że bliskość jest również kluczem do prawdy; nie tylko do miłosierdzia, ale także kluczem do prawdy. Czy można skrócić dystanse w prawdzie? Tak, można. Ponieważ prawda jest nie tylko definicją, która pozwala nazywać ​​sytuacje i rzeczy trzymając je na dystans za pomocą pojęć i rozumowania logicznego. Nie tylko to. Prawda jest także wiernością (emeth), tą, która pozwala ci nazywać osoby ich własnym imieniem, tak jak je nazywa Pan, zanim je sklasyfikuje, albo określi „ich sytuację”. W związku z tym jest pewien zwyczaj – brzydki, nieprawdaż? – „kultury przymiotnika”: ten jest taki, ten owaki, tamten jeszcze inny… Nie, to jest Boży syn. Potem będzie miał cnoty albo wady, ale istotna jest wierna prawda osoby, a nie przymiotnik.

Musimy uważać, aby nie popaść w pokusę czynienia sobie bożków z pewnych prawd abstrakcyjnych. Są to bożki wygodne, w zasięgu ręki, nadające w sposób pewny prestiż i władzę, a trudno je rozpoznać. Ponieważ „prawda-bożek” używa kamuflażu, wykorzystuje słowa ewangeliczne jako szaty, ale nie pozwala im dotknąć serca. Co gorsza, oddala prostych ludzi od uzdrawiającej bliskości Słowa i sakramentów Jezusa.

W tym punkcie zwróćmy się do Maryi, Matki kapłanów. Możemy Jej przyzywać jako „Matki Bożej bliskości”: „Jako prawdziwa mama, idzie z nami, walczy razem z nami i szerzy nieustannie bliskość Bożej miłości” (Adhort. ap. Evangelii guadium, 286), tak że nikt nie czuje się wykluczony. Nasza Matka jest nie tylko blisko ze względu na to, że służy z ową „troskliwością” (tamże, 288), będącą pewnym sposobem bliskości, ale również ze względu na swój sposób mówienia o pewnych sprawach. W Kanie, odpowiedni czas i ton, z jakim powiedziała do sług: „Zróbcie wszystko, cokolwiek wam powie” (J 2,5), sprawia, że słowa te staną się macierzyńskim wzorem wszelkiego języka kościelnego. Ale, aby mówić tak jak Ona, trzeba umieć przebywać tam, gdzie przygotowują się rzeczy ważne, te które liczą się dla każdego serca, każdej rodziny, każdej kultury. Tylko w takiej bliskości – możemy powiedzieć „od kuchni” – można rozeznać, którego wina brakuje i które jest tej najlepszej jakości, jakie chce dać Pan.

Proponuję wam rozważenie trzech obszarów bliskości kapłańskiej, w których te słowa: „Zróbcie wszystko, cokolwiek Jezus wam powie” powinny rozbrzmiewać – na tysiące różnych sposobów, ale z tym samym tonem macierzyńskim – w sercu ludzi, z którymi rozmawiamy: obszary towarzyszenia duchowego, spowiedzi i kaznodziejstwa.

Bliskość w dialogu duchowym możemy rozważać kontemplując spotkanie Pana z Samarytanką. Pan uczy ją, aby najpierw rozpoznała, jak oddawać cześć Bogu w Duchu i prawdzie. Następnie delikatnie pomaga jej nazywać swój grzech, nie obrażając jej; wreszcie Pan daje się zarazić jej duchem misyjnym i idzie wraz z nią, aby ewangelizować w jej wiosce. Ukazany przez Pana wzór dialogu duchowego potrafi sprawić, by wyszedł na jaw grzech Samarytanki, nie rzucając cienia na jej modlitwę adorującą, ani też nie stawiając przeszkód jej powołaniu misyjnemu.

Bliskość w spowiedzi możemy rozważać kontemplując fragment o kobiecie cudzołożnej. Widać tam jasno, że bliskość ma znaczenie decydujące, by prawdy Jezusa zawsze zbliżały i były wypowiadane (zawsze je można głosić) twarzą w twarz. Spojrzenie drugiej osobie w oczy – tak, jak Pan, gdy podniósłszy się z klęczek obok cudzołożnicy, którą chciano ukamienować, powiedział do niej: „I Ja ciebie nie potępiam” (J 8,11) – nie jest sprzeczne z prawem. I można dodać: „a od tej chwili już nie grzesz!” (tamże), nie tonem, który przynależy do sfery prawnej prawdy-definicji, tonem kogoś, kto musi określić, jakie są uwarunkowania Bożego miłosierdzia – ale za pomocą wyrażenia, jakiego używa się w dziedzinie prawdy-wiernej, która pozwala grzesznikowi patrzeć naprzód, a nie do tyłu. Właściwym tonem owego „nie grzesz więcej” jest ton spowiednika wypowiadającego te słowa, będąc gotowym, by powtórzyć je siedemdziesiąt siedem razy.

Wreszcie dziedzina kaznodziejstwa. Rozważmy tę kwestię myśląc o tych, którzy są daleko, a uczyńmy to słuchając pierwszego wystąpienia Piotra, które umieszczone jest w kontekście wydarzenia Pięćdziesiątnicy. Piotr zapowiada, że ​​słowo jest „dla wszystkich, którzy są daleko” (Dz 2,39), a głosi je w taki sposób, że kerygma przenika ich „do głębi serca” i sprawia, iż stawiają pytanie: „co mamy czynić?” (Dz 2, 37). Jest to pytanie, które jak powiedzieliśmy, musimy postawić i na które musimy odpowiedzieć zawsze w tonie maryjnym, kościelnym. Homilia jest miernikiem „oceny bliskości i zdolności spotkania pasterza ze swoim ludem” (Adhort. ap. Evangelii guadium, 135). W homilii możemy zobaczyć, jak blisko jesteśmy Boga w modlitwie i jak blisko jesteśmy wobec naszego ludu w jego codziennym życiu.

Dobra nowina realizuje się wówczas, gdy te dwie bliskości wzajemnie się umacniają i gdy o nie się troszczymy. Jeśli czujesz, że jesteś daleko od Boga, proszę, zbliż się do Jego ludu, który uleczy cię z ideologii, które osłabiły twój zapał. Maluczcy nauczą cię, by spoglądać na Jezusa w inny sposób. Dla ich oczu osoba Jezusa jest fascynująca, Jego dobry przykład obdarza autorytetem moralnym, Jego nauczanie służy życiu. Jeśli czujesz się daleko od ludzi, zbliż się do Pana, do Jego Słowa: w Ewangelii Jezus nauczy ciebie swojego sposobu patrzenia na ludzi, jak wielką wartość ma w Jego oczach każdy z tych, za których przelał swoją krew na krzyżu. W bliskości z Bogiem Słowo w tobie stanie się ciałem, a ty staniesz się kapłanem bliskim każdemu ciału. W bliskości z ludem Boga, Jego cierpiące ciało stanie się słowem w twoim sercu i będziesz miał o kim mówić z Bogiem, staniesz się księdzem wstawiającym się za ludem.

Kapłana bliskiego, podążającego pośród swego ludu z bliskością i czułością dobrego pasterza (a w swoim duszpasterstwie niekiedy staje przed ludem, czasami pośród niego, a niekiedy idzie za nim), ludzie nie tylko bardzo cenią, ale co więcej odczuwają do niego coś szczególnego, coś, co odczuwają tylko w obecności Jezusa. Dlatego to rozpoznanie naszej bliskości nie jest jakąś rzeczą dodatkową. Toczy się w niej gra o to, czy Jezus będzie obecny w życiu ludzkości, czy pozostanie na płaszczyźnie idei, zamknięty w drukowanych literach, ucieleśniony co najwyżej w jakimś dobrym nawyku, który krok po kroku staje się rutyną.

Drodzy bracia kapłani, prośmy Maryję, „Matkę Bożą bliskości”, aby zbliżyła nas między nami, a w chwili, gdy będziemy mówili naszemu ludowi, by „czynił wszystko, co Jezus mu mówi”, zjednoczyła nasz ton, aby w różnorodności naszych poglądów uobecniała się Jej macierzyńska bliskość, ta która ze swoim „tak” przybliżyła nas do Jezusa na zawsze.

[00507-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0232-XX.02]