Intervento del Card. Gianfranco Ravasi
Intervento del Prof. Francesco Dal Co
Alle ore 11.00 di questa mattina, nella Sala Stampa della Santa Sede, ha luogo la Conferenza Stampa di presentazione del Padiglione della Santa Sede alla 16a Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia: Vatican Chapels.
Intervengono l’Em.mo Card. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e Commissario del Padiglione della Santa Sede; il Prof. Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia e il Prof. Francesco Dal Co, Curatore del Padiglione della Santa Sede.
Riportiamo di seguito gli interventi del Card. Ravasi e del Prof. Dal Co:
Intervento del Card. Gianfranco Ravasi
Testo in lingua italiana
Traduzione in lingua inglese
Testo in lingua italiana
LA SANTA SEDE ALLA BIENNALE DI ARCHITETTURA 2018
Per la prima volta la Santa Sede, che rappresenta la Chiesa cattolica nella sua universalità, entra nello spazio della Biennale di Architettura di Venezia. E lo fa approdando su un’isola affascinante della Laguna, quella di San Giorgio, e penetrando nell’oasi di un bosco non attraverso rappresentazioni grafiche o modelli ma con una vera e propria sequenza di cappelle. Nel culto cristiano esse sono veri e propri templi, sia pure in forma minore rispetto alle cattedrali, alle basiliche e alle chiese. In esse sono inserite due componenti fondamentali della liturgia, l’ambone (o pulpito) e l’altare, cioè le espressioni della Parola sacra proclamata e della Cena eucaristica celebrata dall’assemblea dei credenti.
Il numero delle cappelle è anch’esso simbolico perché esprime quasi un decalogo di presenze incastonate all’interno dello spazio: sono simili a voci fatte architettura che risuonano con la loro armonia spirituale nella trama della vita quotidiana. Per questo la visita alle dieci Vatican Chapels è una sorta di pellegrinaggio non solo religioso ma anche laico, condotto da tutti coloro che desiderano riscoprire la bellezza, il silenzio, la voce interiore e trascendente, la fraternità umana dello stare insieme nell’assemblea di un popolo, ma anche la solitudine del bosco ove si può cogliere il fremito della natura che è come un tempio cosmico. A precedere questa sfilata c’è un emblema: è la «Cappella nel bosco» dell’architetto svedese Gunnar Asplund che, attraverso i suoi disegni progettuali, a distanza di quasi un secolo (1920) e da una regione diversa, rievoca la costante ricerca dell’umanità nei confronti del sacro all’interno dell’orizzonte spaziale della natura in cui si vive.
Proprio per rappresentare questa «incarnazione» del tempio nella storia, il dialogo con la pluralità delle culture e delle società e per confermare la «cattolicità», cioè l’universalità della Chiesa, sull’isola di San Giorgio sono giunti architetti provenienti da origini ed esperienze diverse, dalla vicina Europa con la sua configurazione storicamente variegata al lontano Giappone dotato di radici religiose originali, dalla vivace spiritualità latino-americana a quella apparentemente più secolarizzata degli Stati Uniti, fino alla remota Australia che in realtà riflette la comune contemporaneità.
Alle spalle di questo ingresso della Santa Sede nella Biennale di Venezia c’è, però, un antefatto. Già nel 2013 e nel 2015 la San Sede era entrata con un suo padiglione in due edizioni della Biennale d’Arte proponendo un messaggio «primordiale» affidato all’«In principio» delle stesse Scritture Sacre ebraico-cristiane. Nella prima edizione gli artisti riprendevano tra le mani, come si era fatto per secoli, il libro biblico della Genesi e il suo incipit, che è anche l’avvio dell’essere e dell’esistere: «In principio Dio creò il cielo e la terra...». Creazione dell’universo e dell’umanità, de-creazione (diluvio e Babele) e ri-creazione con l’inizio della storia della redenzione con Abramo ritornavano a essere un soggetto tematico per l’arte contemporanea. Nella seconda presenza alla Biennale d’Arte era stato, invece, l’ideale incipit del Nuovo Testamento a riproporre un altro inizio assoluto che dall’eternità divina discendeva e s’intrecciava con la carnalità umana storica e contingente: «In principio era il Verbo... e il Verbo carne divenne», come si legge nel celebre inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni.
La scelta era netta ed esplicita e compiva un’inversione rispetto al passato recente. A partire dal secolo scorso, infatti, s’era compiuto un divorzio lacerante tra arte e fede. Esse, in realtà, erano state a lungo sorelle, al punto tale che Marc Chagall non esitava a dire che «per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia», il «grande codice» della cultura occidentale, come la definiva un altro artista, William Blake. Ora, invece, le loro strade si erano divaricate.
Da un lato, l’arte aveva lasciato il tempio, l’artista aveva relegato sullo scaffale polveroso del passato la Bibbia, si era avviato lungo le strade «laiche» e secolari della modernità, rifuggendo spesso dal ricorso a figure, simboli, narrazioni, parole sacre. Anzi, l’artista non di rado ha considerato il messaggio come un capestro ideologico e si è dedicato a esercizi stilistici sempre più elaborati e autoreferenziali, oppure talora a provocazioni dissacranti. L’arte si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato sovente artificioso e fin eccessivo.
D’altro lato, la teologia si è rivolta quasi esclusivamente alla speculazione sistematica che crede di non aver bisogno di segni o metafore; anch’essa ha relegato nel deposito del passato il grande repertorio simbolico cristiano. In ambito ecclesiale si è ricorsi prevalentemente al ricalco di moduli, stili e generi delle epoche precedenti, o ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato, o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri modesti, privi di spiritualità, di bellezza e di confronto coi nuovi linguaggi artistici e architettonici che frattanto si stavano elaborando.
È da questa situazione che è rinato il desiderio di un nuovo incontro tra arte e fede, due mondi che nei secoli passati erano quasi sovrapponibili e che erano divenuti invece reciprocamente estranei. Si tratta di un percorso certamente arduo e complesso che si nutre ancora di mutui sospetti ed esitazioni e persino di timori di eventuali degenerazioni. È un dialogo che in architettura ha già registrato tappe significative e che, a livello generale, è iniziato già a metà del secolo scorso non solo attraverso l’opera di teologi e di pastori ecclesiali sensibili ma anche nella voce dello stesso magistero ufficiale della Chiesa, a partire da Paolo VI col suo incontro nel 1964 nella Cappella Sistina con gli artisti, per procedere poi con la Lettera a loro indirizzata nel 1999 da san Giovanni Paolo II, col nuovo incontro di Benedetto XVI nella stessa Cappella Sistina nel 2009.
Questo primo ingresso della Chiesa cattolica nella Biennale di Architettura di Venezia avviene sotto il pontificato di papa Francesco. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, che è stata una sorta di manifesto programmatico agli inizi del suo ministero petrino (24 novembre 2013), egli ha voluto rinnovare una traiettoria classica nel cristianesimo, la cosiddetta via pulchritudinis, cioè la bellezza come strada religiosa, consapevole dell’asserto di sant’Agostino secondo il quale «noi non amiamo se non ciò che è bello» (De Musica VI, 13, 38). Concretamente, il papa esalta «l’uso delle arti nella stessa opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo linguaggio parabolico».
È suggestivo che gli Statuti d’arte degli artisti senesi del Trecento si aprivano con questa dichiarazione: «Noi siamo coloro che manifestano agli uomini che non sanno lettura le cose miracolose operate per virtù della fede». Già san Giovanni Damasceno, il grande difensore nell’VIII secolo dell’arte cristiana contro l’iconoclasmo propugnato dall’imperatore e da ampi strati della Chiesa di allora, aveva suggerito: «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri».
Papa Francesco conclude così: «Bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali, comprese quelle modalità non convenzionali di bellezza che possono essere poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli altri».
[00434-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua inglese
THE HOLY SEE AT THE BIENNALE ARCHITETTURA 2018
The Holy See, which represents the Catholic Church in its entirety, makes its first entrance to the arena of the Biennale di Architettura di Venezia. It does so landing in the lagoon on the splendid island of San Giorgio, penetrating a woodland oasis not with graphic representations or models but with a veritable sequence of chapels. These are true and proper temples in Christian worship, even if in a minor form compared with cathedrals, basilicas and churches. Each chapel contains two fundamental liturgical elements: the ambo (pulpit or lectern) and the altar. These are the expression of the Holy Word that is proclaimed and the Eucharistic Supper that is celebrated by the assembly of believers.
The number of chapels is also symbolic as it expresses a sort of decalogue of presences fitted within the space: they are similar to voices that have been transformed into architecture and resound with their spiritual harmony in the drama of daily life. A visit to the ten Vatican Chapels, then, is a sort of pilgrimage that is not only religious but also secular. It is a path for all who wish to rediscover beauty, silence, the interior and transcendent voice, the human fraternity of being together in the assembly of people, and the loneliness of the woodland where one can experience the rustle of nature which is like a cosmic temple. Preceding this procession is an emblem: the “Woodland Chapel” by Swedish architect Gunnar Asplund who, nearly a century ago (1920) and from a different region, evoked with his project the constant quest of humanity for the sacred within the spatial horizon of nature in which we live.
Architects from different backgrounds and diverse experiences have come to the island of San Giorgio to represent this “incarnation” of the temple in history, the dialogue with the plurality of cultures and of society, and to confirm the “catholicity” which is the universality of the Church. They come from nearby Europe with its complex historical configuration and from distant Japan with its unique religious roots, from the vivacious spirituality of Latin America and the seemingly secularized USA, as well as remote Australia that actually reflects contemporary concerns.
There was a precedent for this entrance of the Holy See into the Biennale Architettura. In 2013 and then in 2015, the Holy See entered two editions of the Biennale Arte with its own pavilions, offering a primordial message on the theme “In the Beginning” from the Judeo-Christian Holy Scriptures. In the first edition, the artists took into their hands, as had been done for centuries, the biblical book of Genesis with its opening line, “In the beginning God created the heavens and the earth.” This is also the start of being and of existing. Contemporary art saw the return of this thematic subject of the creation of the universe and of humanity, the de-creation (the Flood and Babel), and the re-creation with the beginning of the history of redemption in Abraham. During its second presence at the Biennale Arte, there was instead the ideal incipit of the New Testament. This proposes another completely new beginning that descended from divine eternity and became bound up with human historical and contingent fleshliness: “In the beginning was the Word … and the Word became flesh,” as we read in the famous hymn that is used as the prologue to John’s Gospel.
The choice was clear and explicit and meant a change of direction compared to the recent past. For the last century, in fact, a lacerating divorce had opened up between art and faith. They have actually always been sisters, to the point that Marc Chagall had no hesitation in saying that “for centuries the painters have dipped their brushes in the colored alphabet that was the Bible,” the “Great Code” of western culture, as defined by the artist William Blake. Then, however, the roads divided.
On one side, art had left the temple; the artist had placed the bible on a dusty shelf to pursue instead the secular road of modernity, often fleeing the use of figures, symbols, narrations and sacred words. Indeed, artists often considered the message as an ideological gallows and instead dedicated themselves to stylistic exercises that were more and more elaborate and self-referential or even sometimes desecrating provocations. Art was entrusted to an esoteric criticism that was incomprehensible to most people and became enslaved by the ways and means of a market that was often artificial and even excessive.
On the other side, theology looked almost exclusively to systematic speculation that believes it has no need of signs or metaphors; it too had put into storage the great repertoire of Christian symbols. In the ecclesial sphere, there was a return to copying the modules, styles and genres of the past, or alternatively the use of a simpler amateurism, or worse, we adapted to the ugliness that pervades the new urban suburbs and the aggressive building schemes, raising modest sacred buildings that are devoid of spirituality, beauty or an encounter with the new artistic and architectural languages that were meanwhile being elaborated.
From this situation, a desire emerged for a new encounter between art and faith, two worlds that in earlier times intertwined but that had then become mutual strangers. It is a path of encounter that is certainly hard and complex and that feeds on reciprocal suspicion and hesitation and even fear of making things worse. It is a dialogue that in architecture has already registered significant steps and that began halfway through the last century, not just through the work of theologians and pastors who were sensitive to the issue, but also in the official magisterium beginning with Paul VI and his 1964 meeting in the Sistine Chapel with the artists. John Paul II’s 1999 Letter to Artists followed and then the new encounter of Benedict XVI in the same Sistine Chapel in 2009.
This first entrance of the Catholic Church to the Biennale Architettura occurs during the pontificate of Pope Francis. In the apostolic exhortation Evangelii Gaudium – a sort of programmatic manifesto he authored at the beginning of his Petrine ministry (November 24, 2013) – he wanted to renew a classic trajectory of Christianity, the so-called via pulchritudinis, that is, beauty as a religious path, aware of St. Augustine’s assertion that “we do not love, except what is beautiful” (De Musica VI, 13, 38). Concretely, the pope exalted “the use of the arts in evangelization, building on the treasures of the past but also drawing upon the wide variety of contemporary expressions so as to transmit the faith in a new language of parables.”
It is striking that the following declaration appears in the Statutes of Art from the 14th century artists of Siena: “We are those who show the illiterate people the marvelous works carried out by virtue of the faith.” And St. John Damascene, the great defender of art in the 8th century against the iconoclasm that was being pushed by the emperor and large sections of the Church at that time, suggested: “If a pagan comes to you and says: ‘Show me your faith!’ You must take him to a church and show him the decorations and explain the series of sacred paintings.”
Pope Francis concludes as follows: “We must be bold enough to discover new signs and new symbols, new flesh to embody and communicate the word, and different forms of beauty which are valued in different cultural settings, including those unconventional modes of beauty which may mean little to the evangelizers, yet prove particularly attractive for others.”
[00434-EN.01] [Original text: Italian]
Intervento del Prof. Francesco Dal Co
Testo in lingua italiana
Traduzione in lingua inglese
Testo in lingua italiana
Vatican chapels
Vatican chapels è formato da dieci cappelle e dall’Asplund Pavilion.
Il progetto per il Padiglione della Santa Sede alla XVI Mostra Internazionale di Architettura de La Biennale deriva da un modello preciso, la “cappella nel bosco” costruita nel 1920 dal celebre architetto Gunnar Asplund nel Cimitero di Stoccolma.
Allo scopo di rendere il pubblico partecipe delle ragioni di questa scelta, verrà allestito uno spazio espositivo, che sarà il primo episodio che si incontrerà all’ingresso del Padiglione della Santa Sede, per la presentazione dei disegni e del plastico della “cappella nel bosco” di Asplund. Con questo piccolo capolavoro, Asplund definì la cappella come un luogo di orientamento, incontro, meditazione casualmente o naturalmente formatosi all’interno di un vasto terreno alberato, inteso quale fisica evocazione del labirintico percorso della vita e del peregrinare dell’uomo in attesa dell’incontro.
Questo medesimo tema è stato proposto ai dieci architetti invitati a costruire altrettante cappelle, riunite nell’area fittamente alberata che si trova all’estremità dell’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, per formare, unitamente allo spazio espositivo riservato ai disegni di Asplund, il Padiglione della Santa Sede.
Per la nostra cultura è usuale identificare la cappella con un ambiente ricavato per ragioni e finalità diverse all’interno di spazi religiosi più ampi e per lo più preesistenti. La pratica all’origine di questa percezione ha prodotto numerosi modelli che hanno in comune il fatto essersi formati e di appartenere sempre a uno spazio altro, ovvero a un ambiente di culto, a una cattedrale, a una chiesa o più semplicemente ad un luogo individuato per avere accolto un accadimento inusuale, oppure per essere stato individuato come meta riconosciuta. In epoca moderna questi modelli hanno dato luogo al consolidarsi di un canone.
La richiesta rivolta agli architetti invitati a costruire il Padiglione della Santa Sede ha implicato, quindi, una sfida inusuale, poiché ai progettisti è stato chiesto di confrontarsi con un tipo edilizio che non ha precedenti né modelli. Le cappelle che gli architetti hanno progettato, infatti, saranno isolate e accolte da un ambiente naturale del tutto astratto, connotato unicamente dal suo emergere dalla laguna e dal suo aprirsi sull’acqua. Nel bosco dove il “Padiglione Asplund” e le cappelle verranno collocati non vi sono mete e l’ambiente è soltanto una metafora del peregrinare della vita. Questa metafora, nel caso del Padiglione della Santa Sede, è ancora più radicale di quella configurata da Asplund, che costruì la sua cappella tra gli alberi, ma all’interno di un cimitero. Per queste ragioni gli architetti del Padiglione della Santa Sede hanno lavorato senza alcun riferimento ai canoni comunemente riconosciuti e senza poter contare su alcun modello dal punto di vista tipologico, come dimostra la varietà, solo in apparenza sorprendente, dei progetti da loro elaborati.
[00435-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua inglese
Vatican chapels
Vatican chapels is composed of 10 chapels and of the Asplund Pavilion.
The project for the Pavilion of the Holy See at the 16th International Architecture Exhibition of the Venice Biennale is based on a precise model, the “woodland chapel” built in 1920 by the famous architect Gunnar Asplund in the Cemetery of Stockholm. To help visitors understand the reasoning behind this choice, an exhibit space will be set up as the first episode encountered at the entrance of the Pavilion of the Holy See, displaying the drawings and model of Asplund’s chapel.
With this small masterpiece Asplund defined the chapel as a place of orientation, encounter and meditation, seemingly formed by chance or natural forces inside a vast forest, seen as the physical suggestion of the labyrinthine progress of life, the wandering of humankind as a prelude to the encounter.
This theme has been proposed to the ten architects invited to build ten chapels, gathered in the densely wooded area at the end of the island of San Giorgio Maggiore in Venice, to form the Pavilion of the Holy See, together with the space set aside for Asplund’s drawings.
In our culture we are accustomed to seeing the chapel as a space created for different reasons and aims inside a larger and often already existing religious space. The practice behind this perception has produced many models that share the factor of taking form in and belonging to an “other” space, a space of worship, a cathedral, a church, or more simply a place identified for having hosted an unusual occurrence, selected as being a recognized destination. In the modern era these models have given rise to the consolidation of a canon.
The request addressed to the architects invited to construct the Pavilion of the Holy See thus implies an unusual challenge, since the designers have been asked to come to terms with a building type that has no precedents or models. The chapels designed by the architects, in fact, will be isolated and inserted in an utterly abstract natural setting, characterized only by its way of emerging from the lagoon, its openness to the water. In the forest where the “Asplund pavilion” and the chapels will be located there are no destinations, and the environment is simply a metaphor of the wandering of life. This metaphor, in the case of the Pavilion of the Holy See, is even more radical than the one configured by Asplund, who built his chapel amidst the trees, but inside a cemetery. For these reasons, the architects of the Pavilion of the Holy See have worked without any reference to generally recognized canons, and without being able to rely on any model from a typological viewpoint, as is demonstrated by the only apparently surprising variety of the projects they have developed.
[00435-EN.01] [Original text: Italian]
[B0209-XX.02]