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Santa Messa in occasione del Giubileo degli ammalati e delle persone disabili, 12.06.2016


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

 

Alle ore 10.30 di oggi, XI Domenica del Tempo Ordinario, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa sul Sagrato della Basilica Vaticana in occasione del Giubileo degli ammalati e delle persone disabili.
Le letture sono state proclamate da persone con diverse disabilità e tradotte nella Lingua dei segni Internazionale. La lettura del Vangelo è stata anche drammatizzata da un gruppo di persone disabili intellettive per permettere che il testo fosse compreso soprattutto dai fedeli con disabilità mentale-intellettiva.

Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

Omelia del Santo Padre

«Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,19). L’apostolo Paolo usa parole molto forti per esprimere il mistero della vita cristiana: tutto si riassume nel dinamismo pasquale di morte e risurrezione, ricevuto nel Battesimo. Infatti, con l’immersione nell’acqua ognuno è come se fosse morto e sepolto con Cristo (cfr Rm 6,3-4), mentre, quando riemerge da essa, manifesta la vita nuova nello Spirito Santo. Questa condizione di rinascita coinvolge l’intera esistenza, in ogni suo aspetto: anche la malattia, la sofferenza e la morte sono inserite in Cristo, e trovano in Lui il loro senso ultimo. Oggi, nella giornata giubilare dedicata a quanti portano i segni della malattia e della disabilità, questa Parola di vita trova nella nostra Assemblea una particolare risonanza.

In realtà, tutti prima o poi siamo chiamati a confrontarci, talvolta a scontrarci, con le fragilità e le malattie nostre e altrui. E quanti volti diversi assumono queste esperienze così tipicamente e drammaticamente umane! In ogni caso, esse pongono in maniera più acuta e pressante l’interrogativo sul senso dell’esistenza. Nel nostro animo può subentrare anche un atteggiamento cinico, come se tutto si potesse risolvere subendo o contando solo sulle proprie forze. Altre volte, all’opposto, si ripone tutta la fiducia nelle scoperte della scienza, pensando che certamente in qualche parte del mondo esiste una medicina in grado di guarire la malattia. Purtroppo non è così, e anche se quella medicina ci fosse, sarebbe accessibile a pochissime persone.

La natura umana, ferita dal peccato, porta inscritta in sé la realtà del limite. Conosciamo l’obiezione che, soprattutto in questi tempi, viene mossa davanti a un’esistenza segnata da forti limitazioni fisiche. Si ritiene che una persona malata o disabile non possa essere felice, perché incapace di realizzare lo stile di vita imposto dalla cultura del piacere e del divertimento. Nell’epoca in cui una certa cura del corpo è divenuta mito di massa e dunque affare economico, ciò che è imperfetto deve essere oscurato, perché attenta alla felicità e alla serenità dei privilegiati e mette in crisi il modello dominante. Meglio tenere queste persone separate, in qualche “recinto” – magari dorato – o nelle “riserve” del pietismo e dell’assistenzialismo, perché non intralcino il ritmo del falso benessere. In alcuni casi, addirittura, si sostiene che è meglio sbarazzarsene quanto prima, perché diventano un peso economico insostenibile in un tempo di crisi. Ma, in realtà, quale illusione vive l’uomo di oggi quando chiude gli occhi davanti alla malattia e alla disabilità! Egli non comprende il vero senso della vita, che comporta anche l’accettazione della sofferenza e del limite. Il mondo non diventa migliore perché composto soltanto da persone apparentemente “perfette”, per non dire “truccate”, ma quando crescono la solidarietà tra gli esseri umani, l’accettazione reciproca e il rispetto. Come sono vere le parole dell’apostolo: «Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1 Cor 1,27)!

Anche il Vangelo di questa domenica (Lc 7,36–8,3) presenta una particolare situazione di debolezza. La donna peccatrice viene giudicata ed emarginata, mentre Gesù la accoglie e la difende: «Ha molto amato» (v. 47). E’ questa la conclusione di Gesù, attento alla sofferenza e al pianto di quella persona. La sua tenerezza è segno dell’amore che Dio riserva per coloro che soffrono e sono esclusi. Non esiste solo la sofferenza fisica; oggi, una delle patologie più frequenti è anche quella che tocca lo spirito. E’ una sofferenza che coinvolge l’animo e lo rende triste perché privo di amore. La patologia della tristezza. Quando si fa esperienza della delusione o del tradimento nelle relazioni importanti, allora ci si scopre vulnerabili, deboli e senza difese. La tentazione di rinchiudersi in sé stessi si fa molto forte, e si rischia di perdere l’occasione della vita: amare nonostante tutto. Amare nonostante tutto!

La felicità che ognuno desidera, d’altronde, può esprimersi in tanti modi e può essere raggiunta solo se siamo capaci di amare. Questa è la strada. E’ sempre una questione di amore, non c’è un’altra strada. La vera sfida è quella di chi ama di più. Quante persone disabili e sofferenti si riaprono alla vita appena scoprono di essere amate! E quanto amore può sgorgare da un cuore anche solo per un sorriso! La terapia del sorriso. Allora la fragilità stessa può diventare conforto e sostegno alla nostra solitudine. Gesù, nella sua passione, ci ha amato sino alla fine (cfr Gv 13,1); sulla croce ha rivelato l’Amore che si dona senza limiti. Che cosa potremmo rimproverare a Dio per le nostre infermità e sofferenze che non sia già impresso sul volto del suo Figlio crocifisso? Al suo dolore fisico si aggiungono la derisione, l’emarginazione e il compatimento, mentre Egli risponde con la misericordia che tutti accoglie e tutti perdona: «per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5; 1 Pt 2,24). Gesù è il medico che guarisce con la medicina dell’amore, perché prende su di sé la nostra sofferenza e la redime. Noi sappiamo che Dio sa comprendere le nostre infermità, perché Lui stesso le ha provate in prima persona (cfr Eb 4,15).

Il modo in cui viviamo la malattia e la disabilità è indice dell’amore che siamo disposti a offrire. Il modo in cui affrontiamo la sofferenza e il limite è criterio della nostra libertà di dare senso alle esperienze della vita, anche quando ci appaiono assurde e non meritate. Non lasciamoci turbare, pertanto, da queste tribolazioni (cfr 1 Ts 3,3). Sappiamo che nella debolezza possiamo diventare forti (cfr 2 Cor 12,10), e ricevere la grazia di completare ciò che manca in noi delle sofferenze di Cristo, a favore della Chiesa suo corpo (cfr Col 1,24); un corpo che, ad immagine di quello del Signore risorto, conserva le piaghe, segno della dura lotta, ma sono piaghe trasfigurate per sempre dall’amore.

[00988-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

«Avec le Christ, je suis crucifié. Je vis, mais ce n’est plus moi, c’est le Christ qui vit en moi» (Ga 2, 19-20). L’apôtre Paul utilise des mots très forts pour exprimer le mystère de la vie chrétienne: tout est résumé dans le dynamisme pascal de mort et de résurrection, reçu dans le Baptême. En effet, avec l’immersion dans l’eau, c’est comme si chacun était mort et enseveli avec le Christ (cf. Rm 6, 3-4), tandis que, lorsqu’il en émerge, il manifeste la vie nouvelle dans l’Esprit Saint. Cette condition de renaissance touche l’existence tout entière, dans chacun de ses aspects: la maladie, la souffrance et la mort sont aussi insérées dans le Christ, et trouvent en lui leur ultime sens. Aujourd’hui, en la journée jubilaire consacrée à ceux qui portent les signes de la maladie et du handicap, cette Parole de vie trouve dans notre Assemblée une résonnance particulière.

En réalité, tous, tôt ou tard, nous sommes appelés à nous confronter - parfois à nous affronter - à la fragilité et aux maladies en nous-mêmes et chez les autres. Et que de visages différents prennent ces expériences si typiquement et dramatiquement humaines! En tout cas, de manière plus aiguë et pressante, elles posent une interrogation sur le sens de l’existence. Une attitude cynique peut aussi gagner notre esprit, comme si tout pouvait se résoudre en supportant ou en comptant seulement sur nos propres forces. D’autres fois, au contraire, toute la confiance se reporte sur les découvertes de la science, en pensant que sûrement quelque part dans le monde, il existe un médicament à même de guérir la maladie. Malheureusement, il n’en est pas ainsi, et même s’il y avait un tel médicament, il serait accessible à très peu de personnes.

La nature humaine, blessée par le péché, porte inscrite en elle-même la réalité de la limite. Nous connaissons l’objection qui, surtout ces temps-ci, est soulevée face à une existence marquée par de fortes limitations physiques. On considère qu’une personne malade ou portant un handicap ne peut pas être heureuse, parce qu’elle est incapable de mener le style de vie imposé par la culture du plaisir et du divertissement. À cette époque où un certain soin du corps est devenu un mythe de masse et donc une affaire économique, ce qui est imparfait doit être masqué, parce que cela porte atteinte au bonheur et à la sérénité des privilégiés et met en crise le modèle dominant. Il vaut mieux maintenir ces personnes séparées, dans une ‘‘enceinte’’ – peut-être dorée – ou dans les ‘‘réserves’’ du piétisme et de l’assistantialisme, afin qu’elles n’entravent pas le rythme du faux bien-être. Dans certains cas, on soutient même qu’il vaut mieux s’en débarrasser le plus tôt possible, parce qu’elles deviennent un poids économique insoutenable en un temps de crise. Mais, en réalité, quelle illusion vit l’homme d’aujourd’hui lorsqu’il ferme les yeux face à la maladie et au handicap! Il ne comprend pas le vrai sens de la vie, qui comporte aussi l’acceptation de la souffrance et de la limite. Le monde ne devient pas meilleur, parce que composé uniquement de personnes apparemment ‘‘parfaites’’, pour ne pas dire “maquillées”, mais lorsque la solidarité entre les hommes, l’acceptation réciproque et le respect croissent. Comme sont vraies les paroles de l’apôtre: «Ce qu’il y a de faible dans le monde, voilà ce que Dieu a choisi, pour couvrir de confusion ce qui est fort» (1 Co 1, 27)!

L’Évangile de ce dimanche (Lc 7, 36-8, 3), présente également une situation particulière de faiblesse. La femme pécheresse est jugée et marginalisée, tandis que Jésus l’accueille et la défend: «Elle a montré beaucoup d’amour» (v. 47). Voilà la conclusion de Jésus, attentif à la souffrance et aux pleurs de cette personne. Sa tendresse est signe de l’amour que Dieu réserve à ceux qui souffrent et sont exclus. Il n’y a pas que la souffrance physique; aujourd’hui, l’une des plus fréquentes pathologies est aussi celle qui touche l’esprit. C’est une souffrance qui touche l’esprit et le rend triste parce qu’il est privé d’amour. La pathologie de la tristesse. Lorsqu’on fait l’expérience de la déception ou de la trahison dans les relations importantes, alors on se découvre vulnérables, faibles et sans défense. La tentation de se replier sur soi devient très forte, et l’on risque de perdre l’occasion de la vie: aimer malgré tout. Aimer malgré tout!

Le bonheur que chacun désire, par ailleurs, peut s’exprimer de tant de manières et peut être atteint uniquement si nous sommes capables d’aimer. C’est cela la route. C’est toujours une question d’amour, il n’y a pas d’autre voie. Le vrai défi est celui de qui aime le plus. Que de personnes avec un handicap et souffrantes s’ouvrent de nouveau à la vie dès qu’elles découvrent qu’elles sont aimées! Et que d’amour peut jaillir d’un cœur même seulement pour un sourire! La thérapie du sourire. Alors, la fragilité elle-même peut devenir un réconfort et un soutien à notre solitude. Jésus, dans sa passion, nous a aimés jusqu’au bout (cf. Jn 13, 1); sur la croix, il a révélé l’Amour qui se donne sans limites. Que pourrions-nous reprocher à Dieu pour nos infirmités et nos souffrances qui ne soit déjà imprimé sur le visage de son Fils crucifié? À sa souffrance physique, s’ajoutent la dérision, la marginalisation et la commisération, tandis qu’il répond par la miséricorde qui accueille tous et pardonne à tous: «par ses blessures, nous sommes guéris» (Is 53, 5; 1P 2, 24). Jésus est le médecin qui guérit avec le médicament de l’amour, parce qu’il prend sur lui notre souffrance et la rachète. Nous savons que Dieu sait comprendre nos infirmités, parce que lui-même les a éprouvées personnellement (cf. He 4, 15).

La manière dont nous vivons la maladie et le handicap est un indice de l’amour que nous sommes disposés à offrir. La manière dont nous affrontons la souffrance et la limitation est un critère de notre liberté de donner sens aux expériences de la vie, même lorsqu’elles nous semblent absurdes et imméritées. Ne nous laissons pas troubler, par conséquent, par ces épreuves (cf. 1 Th 3, 3). Sachons que dans la faiblesse nous pouvons devenir forts (cf. 2 Co 12, 10), et recevoir la grâce de compléter en nous ce qui manque aux souffrances du Christ, en faveur de l’Église son corps (cf. Col 1, 24); un corps qui, à l’image de celui du Seigneur ressuscité, garde les plaies, signe de la lutte dure, mais qui sont des plaies transfigurées pour toujours par l’amour.

[00988-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

“I have been crucified with Christ; it is no longer I who live, but it is Christ who lives in me” (Gal 2:19). In these words, the Apostle Paul powerfully expresses the mystery of the Christian life, which can be summed up in the paschal dynamic of death and resurrection received at baptism. Indeed, through immersion in water, each of us, as it were, dies and is buried with Christ (cf. Rom 6:3-4), and remerging, shows forth new life in the Holy Spirit. This rebirth embraces every aspect of our lives: even sickness, suffering and death are taken up in Christ and in him find their ultimate meaning. Today, on the Jubilee day devoted to the sick and bearers of disabilities, this word of life has a special resonance for our assembly.

Each of us, sooner or later, is called to face – at times painfully – frailty and illness, both our own and those of others. How many different faces do these common yet dramatically human experiences take! Yet all of them directly raise the pressing question of the meaning of life. Our hearts may quietly yield to cynicism, as if the only solution were simply to put up with these experiences, trusting only in our own strength. Or we may put complete trust in science, thinking that surely somewhere in the world there is a medicine capable of curing the illness. Sadly, however, this is not always the case, and, even if the medicine did exist, it would be accessible to very few people.

Human nature, wounded by sin, is marked by limitations. We are familiar with the objections raised, especially nowadays, to a life characterized by serious physical limitations. It is thought that sick or disabled persons cannot be happy, since they cannot live the lifestyle held up by the culture of pleasure and entertainment. In an age when care for one’s body has become an obsession and a big business, anything imperfect has to be hidden away, since it threatens the happiness and serenity of the privileged few and endangers the dominant model. Such persons should best be kept apart, in some “enclosure” – even a gilded one – or in “islands” of pietism or social welfare, so that they do not hold back the pace of a false well-being. In some cases, we are even told that it is better to eliminate them as soon as possible, because they become an unacceptable economic burden in time of crisis. Yet what an illusion it is when people today shut their eyes in the face of sickness and disability! They fail to understand the real meaning of life, which also has to do with accepting suffering and limitations. The world does not become better because only apparently “perfect” people live there – I say “perfect” rather than “false” – but when human solidarity, mutual acceptance and respect increase. How true are the words of the Apostle: “God chose what is weak in the world to shame the strong” (1 Cor 1:27)!

This Sunday’s Gospel (Lk 7:36-8:3) presents us with a specific situation of weakness. The woman caught in sin is judged and rejected, yet Jesus accepts and defends her: “She has shown great love” (7:47). This is the conclusion of Jesus, who is attentive to her suffering and her plea. This tenderness is a sign of the love that God shows to those who suffer and are cast aside. Suffering need not only be physical; one of today’s most frequent pathologies is also spiritual. It is a suffering of the heart; it causes sadness for lack of love. It is the pathology of sadness. When we experience disappointment or betrayal in important relationships, we come to realize how vulnerable and defenceless we are. The temptation to become self-absorbed grows stronger, and we risk losing life’s greatest opportunity: to love in spite of everything!

The happiness that everyone desires, for that matter, can be expressed in any number of ways and attained only if we are capable of loving. This is the way. It is always a matter of love; there is no other path. The true challenge is that of who loves the most. How many disabled and suffering persons open their hearts to life again as soon as they realize they are loved! How much love can well up in a heart simply with a smile! The therapy of smiling. Then our frailness itself can become a source of consolation and support in our solitude. Jesus, in his passion, loved us to the end (cf. Jn 13:1); on the cross he revealed the love that bestows itself without limits. Can we reproach God for our infirmities and sufferings when we realize how much suffering shows on the face of his crucified Son? His physical pain was accompanied by mockery, condescension and scorn, yet he responds with a mercy that accepts and forgives everything: “by his wounds we are healed” (Is 53:5; 1 Pet 2:24). Jesus is the physician who heals with the medicine of love, for he takes upon himself our suffering and redeems it. We know that God can understand our infirmities, because he himself has personally experienced them (cf. Heb 4:15).

The way we experience illness and disability is an index of the love we are ready to offer. The way we face suffering and limitation is the measure of our freedom to give meaning to life’s experiences, even when they strike us as meaningless and unmerited. Let us not be disturbed, then, by these tribulations (cf. 1 Th 3:3). We know that in weakness we can become strong (cf. 2 Cor 12:10) and receive the grace to fill up what is lacking in the sufferings of Christ for his body, the Church (cf. Col 1:24). For that body, in the image of the risen Lord’s own, keeps its wounds, the mark of a hard struggle, but they are wounds transfigured for ever by love.

[00988-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

»Ich bin mit Christus gekreuzigt worden; nicht mehr ich lebe, sondern Christus lebt in mir« (Gal 2,19-20). Der Apostel Paulus gebraucht sehr starke Worte, um das Geheimnis des christlichen Lebens auszudrücken: Alles ist in der österlichen Dynamik von Tod und Auferstehung zusammengefasst, die man in der Taufe empfangen hat. Mit dem Eintauchen ins Wasser ist nämlich jeder mit Christus gleichsam gestorben und begraben (vgl. Röm 6,3-4), während er, wenn er wieder daraus auftaucht, das neue Leben im Heiligen Geist zum Ausdruck bringt. Dieser Zustand der Wiedergeburt bezieht das gesamte Leben in all seinen Aspekten ein: Auch Krankheit, Leiden und Tod sind in Christus eingefügt und finden in ihm ihren letzten Sinn. Heute, an dem Tag, der dem Jubiläum derer gewidmet ist, welche die Zeichen der Krankheit und der Behinderung tragen, hat dieses Wort des Lebens in unserer Versammlung eine besondere Resonanz.

In Wirklichkeit sind wir alle früher oder später aufgerufen, uns mit unseren Gebrechlichkeiten und Krankheiten sowie mit denen anderer auseinanderzusetzen, manchmal sogar mit ihnen zu „kollidieren“. Und wie viele verschiedene Gesichter nehmen diese so typisch und dramatisch menschlichen Erfahrungen an! In jedem Fall stellen sie in zugespitzter und drängenderer Weise die Frage nach dem Sinn des Lebens. Es kann sich auch eine zynische Einstellung in unsere Seele einschleichen, als könne alles gelöst werden, indem man es geduldig erträgt oder indem man sich allein auf die eigenen Kräfte verlässt. Im Gegensatz dazu setzt man andere Male sein ganzes Vertrauen auf die Entdeckungen der Wissenschaft und denkt, dass es sicher irgendwo auf der Welt eine Medizin gibt, die imstande ist, die Krankheit zu heilen. Leider ist es nicht so, und selbst wenn es diese Medizin gäbe, wäre sie nur ganz wenigen Menschen zugänglich.

Die von der Sünde verletzte menschliche Natur trägt die Wirklichkeit der Einschränkung in sich eingeschrieben. Wir kennen den Einwand, der vor allem in diesen Zeiten angesichts eines durch starke physische Einschränkungen gezeichneten Lebens erhoben wird. Man meint, ein kranker oder behinderter Mensch könne nicht glücklich sein, weil er nicht imstande ist, den von der Genuss- und Unterhaltungskultur aufoktroyierten Lebensstil zu verwirklichen. In der Zeit, in der eine gewisse Pflege des Körpers zum Massenmythos und daher zum Geschäft geworden ist, muss das, was unvollkommen ist, verschleiert werden, weil es das Glück und die Unbeschwertheit der Privilegierten gefährdet und das herrschende Modell in Schwierigkeiten bringt. Diese Menschen hält man besser im Abseits; man versteckt sie in irgendeinem – vielleicht vergoldeten – „Gehege“ oder in den „Reservaten“ der frömmelnden Fürsorge und des Wohlfahrtsstaates, damit sie den Rhythmus des künstlichen Wohlbefindens nicht stören. In einigen Fällen wird sogar die Meinung vertreten, es sei besser, sich baldmöglichst von ihnen zu befreien, weil sie in einer Krisenzeit zu einer unhaltbaren wirtschaftlichen Last werden. Doch in welcher Selbsttäuschung lebt in Wirklichkeit der Mensch von heute, wenn der vor Krankheit und Behinderung die Augen schließt! Er versteht nicht den wahren Sinn des Lebens, der auch die Annahme von Leid und Begrenzung verlangt. Die Welt wird nicht besser, wenn sie nur aus augenscheinlich „perfekten“ – um nicht zu sagen perfekt aufgemachten – Menschen besteht, sondern wenn die Solidarität unter den Menschen, die gegenseitige Annahme und die Achtung zunehmen. Wie wahr sind die Worte des Apostels Paulus: »Das Schwache in der Welt hat Gott erwählt, um das Starke zuschanden zu machen« (1Kor 1,27)!

Auch das Evangelium von diesem Sonntag (vgl. Lk 7,36-8.3) verweist auf eine besondere Situation der Schwäche. Die Sünderin wird verurteilt und ausgegrenzt, während Jesus sie annimmt und verteidigt: „Sie hat viel Liebe gezeigt“ (vgl. V. 47). Das ist die Schlussfolgerung Jesu, der auf das Leiden und die Tränen dieser Frau achtet. Seine Zärtlichkeit ist ein Zeichen der Liebe, die Gott denen vorbehält, die leiden und ausgeschlossen sind. Es gibt nicht nur das physische Leiden; heute ist eine der häufigsten Pathologien auch jene, die den Geist ergreift. Es ist ein Leiden, welches das Gemüt einbezieht und es traurig stimmt, weil ihm die Liebe fehlt. Die Pathologie der Traurigkeit. Wenn man in den wichtigen Beziehungen enttäuscht oder verraten wird, dann entdeckt man, dass man verwundbar, schwach und wehrlos ist. Dann wird die Versuchung, sich in sich selbst zu verschließen, sehr stark, und man läuft Gefahr, die Gelegenheit des Lebens zu verpassen: trotz allem zu lieben – trotz allem zu lieben!

Das Glück, das jeder sich wünscht, kann im Übrigen in vielen Formen seinen Ausdruck finden und kann nur erreicht werden, wenn wir fähig sind zu lieben. Das ist der Weg. Es ist immer eine Frage der Liebe; einen anderen Weg gibt es nicht. Die wahre Herausforderung ist die, mehr zu lieben. Wie viele behinderte und leidende Menschen öffnen sich wieder dem Leben, sobald sie entdecken, dass sie geliebt werden! Und wie viel Liebe kann aus einem Herzen entspringen, auch nur für ein Lächeln! Die Therapie des Lächelns. Dann kann uns die Gebrechlichkeit selbst zum Trost und zur Stütze werden in unserer Einsamkeit. Jesus hat uns in seinem Leiden bis zur Vollendung geliebt (vgl. Joh 13,1); am Kreuz hat er die Liebe offenbart, die sich rückhaltlos verschenkt. Was könnten wir Gott vorwerfen wegen unserer Krankheiten und Leiden, das nicht bereits in das Antlitz seines gekreuzigten Sohnes eingeprägt ist? Zu seinem körperlichen Schmerz gesellen sich die Verspottung, die Ausgrenzung und die herablassende Bemitleidung, während er mit der Barmherzigkeit antwortet, die alle annimmt und ihnen vergibt: »Durch seine Wunden sind wir geheilt« (Jes 53,5; 1Petr 2,24). Jesus ist der Arzt, der mit der Arznei der Liebe heilt, denn er nimmt unser Leiden auf sich und erlöst es. Wir wissen, dass Gott unsere Krankheiten verstehen kann, denn er selbst hat sie persönlich erlebt (vgl. Hebr 4,15).

Die Weise, wie wir die Krankheit und die Behinderung leben, ist ein Anzeichen für die Liebe, die zu geben wir bereit sind. Die Weise, wie wir uns mit dem Leiden und der Einschränkung auseinandersetzen, ist ein Maßstab für unsere Freiheit, den Erfahrungen des Lebens Sinn zu verleihen auch wenn sie uns widersinnig und unverdient erscheinen. Lassen wir uns daher von diesen Bedrängnissen nicht verwirren (vgl. 1Thess 3,3). Wir wissen, dass wir in der Schwachheit stark werden (vgl. 2Kor 12,10) und die Gnade empfangen können, das, was in uns an den Leiden Christi noch fehlt, für die Kirche, seinen Leib, zu ergänzen (vgl. Kol 1,24) – ein Leib, der nach dem Bild des auferstandenen Herrn die Wundmale als Zeichen seines harten Kampfes behält, doch es sind Wundmale, die von der Liebe für immer verklärt sind.

[00988-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

«Estoy crucificado con Cristo: vivo yo, pero no soy yo, es Cristo quien vive en mi» (Ga 2,19). El apóstol Pablo usa palabras muy fuertes para expresar el misterio de la vida cristiana: todo se resume en el dinamismo pascual de muerte y resurrección, que se nos da en el bautismo. En efecto, con la inmersión en el agua es como si cada uno hubiese sido muerto y sepultado con Cristo (cf. Rm 6,3-4), mientras que, el salir de ella manifiesta la vida nueva en el Espíritu Santo. Esta condición de volver a nacer implica a toda la existencia y en todos sus aspectos: también la enfermedad, el sufrimiento y la muerte esta contenidas en Cristo, y encuentran en él su sentido definitivo. Hoy, en el día jubilar dedicado a todos los que llevan en sí las señales de la enfermedad y de la discapacidad, esta Palabra de vida encuentra una particular resonancia en nuestra asamblea.

En realidad, todos, tarde o temprano, estamos llamados a enfrentarnos, y a veces a combatir, con la fragilidad y la enfermedad nuestra y la de los demás. Y esta experiencia tan típica y dramáticamente humana asume una gran variedad de rostros. En cualquier caso, ella nos plantea de manera aguda y urgente la pregunta por el sentido de la existencia. En nuestro animo se puede dar incluso una actitud cínica, como si todo se pudiera resolver soportando o contando sólo con las propias fuerzas. Otras veces, por el contrario, se pone toda la confianza en los descubrimientos de la ciencia, pensando que ciertamente en alguna parte del mundo existe una medicina capaz de curar la enfermedad. Lamentablemente no es así, e incluso aunque esta medicina se encontrase no sería accesible a todos.

La naturaleza humana, herida por el pecado, lleva inscrita en sí la realidad del limite. Conocemos la objeción que, sobre todo en estos tiempos, se plantea ante una existencia marcada por grandes limitaciones físicas. Se considera que una persona enferma o discapacitada no puede ser feliz, porque es incapaz de realizar el estilo de vida impuesto por la cultura del placer y de la diversión. En esta época en la que el cuidado del cuerpo se ha convertido en un mito de masas y por tanto en un negocio, lo que es imperfecto debe ser ocultado, porque va en contra de la felicidad y de la tranquilidad de los privilegiados y pone en crisis el modelo imperante. Es mejor tener a estas personas separadas, en algún «recinto» -tal ves dorado- o en las «reservas» del pietismo y del asistencialismo, para que no obstaculicen el ritmo de un falso bienestar. En algunos casos, incluso, se considera que es mejor deshacerse cuanto antes, porque son una carga económica insostenible en tiempos de crisis. Pero, en realidad, con qué falsedad vive el hombre de hoy al cerrar los ojos ante la enfermedad y la discapacidad. No comprende el verdadero sentido de la vida, que incluye también la aceptación del sufrimiento y de la limitación. El mundo no será mejor cuando este compuesto solamente por personas aparentemente «perfectas», por no decir «maquilladas», sino cuando crezca la solidaridad entre los seres humanos, la aceptación y el respeto mutuo. Qué ciertas son las palabras del apóstol: «Lo necio del mundo lo ha escogido Dios para humillar a los sabios» (1 Co 1,27).

También el Evangelio de este domingo (Lc 7,36-8,3) nos presenta una situación de debilidad particular. La mujer pecadora es juzgada y marginada, mientras Jesús la acoge y la defiende: «Porque tiene mucho amor» (v. 47). Es esta la conclusión de Jesús, atento al sufrimiento y al llanto de aquella persona. Su ternura es signo del amor que Dios reserva para los que sufren y son excluidos. No existe sólo el sufrimiento físico; hoy, una de las patologías más frecuentes son las que afectan al espíritu. Es un sufrimiento que afecta al animo y hace que esté triste porque está privado de amor. La patología de la tristeza. Cuando se experimenta la desilusión o la traición en las relaciones importantes, entonces descubrimos nuestra vulnerabilidad, debilidad y desprotección. La tentación de replegarse sobre sí mismo llega a ser muy fuerte, y se puede hasta perder la oportunidad de la vida: amar a pesar de todo, amar a pesar de todo.

La felicidad que cada uno desea, por otra parte, puede tener muchos rostros, pero sólo puede alcanzarse si somos capaces de amar. Este es el camino. Es siempre una cuestión de amor, no hay otro camino. El verdadero desafío es el de amar más. Cuantas personas discapacitadas y que sufren se abren de nuevo a la vida apenas sienten que son amadas. Y cuanto amor puede brotar de un corazón aunque sea sólo a causa de una sonrisa. La terapia de la sonrisa. En tal caso la fragilidad misma puede convertirse en alivio y apoyo en nuestra soledad. Jesús, en su pasión, nos ha amado hasta el final (cf. Jn 13,1); en la cruz ha revelado el Amor que se da sin limites. ¿Qué podemos reprochar a Dios por nuestras enfermedades y sufrimiento que no este ya impreso en el rostro de su Hijo crucificado? A su dolor físico se agrega la afrenta, la marginación y la compasión, mientras él responde con la misericordia que a todos acoge y perdona: «Por sus heridas fuimos sanados» (Is 53,5; 1 P 2,24). Jesús es el médico que cura con la medicina del amor, porque toma sobre sí nuestro sufrimiento y lo redime. Nosotros sabemos que Dios comprende nuestra enfermedad, porque él mismo la ha experimentado en primera persona (cf. Hb 4,5).

El modo en que vivimos la enfermedad y la discapacidad es signo del amor que estamos dispuestos a ofrecer. El modo en que afrontamos el sufrimiento y la limitación es el criterio de nuestra libertad de dar sentido a las experiencias de la vida, aun cuando nos parezcan absurdas e inmerecidas. No nos dejemos turbar, por tanto, de estás tribulaciones (cf. 1 Tm 3,3). Sepamos que en la debilidad podemos ser fuertes (cf. 2 Co 12,10), y recibiremos la gracia de completar lo que falta en nosotros al sufrimiento de Cristo, en favor de la Iglesia, su cuerpo (cf. Col 1,24); un cuerpo que, a imagen de aquel del Señor resucitado, conserva las heridas, signo del duro combate, pero son heridas transfiguradas para siempre por el amor.

[00988-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

«Estou crucificado com Cristo; já não sou eu que vivo, mas é Cristo que vive em mim» (Gal 2, 19). O apóstolo Paulo usa palavras muito fortes para expressar o mistério da vida cristã: tudo se resume ao dinamismo pascal de morte e ressurreição recebido no Batismo. De facto cada um, pela imersão na água, é como se tivesse morrido e fosse sepultado com Cristo (cf. Rm 6, 3-4), e quando reemerge dela, manifesta a vida nova no Espírito Santo. Esta condição de renascidos envolve a vida inteira, em todos os seus aspetos; também a doença, o sofrimento e a morte ficam inseridos em Cristo, encontrando n’Ele o seu sentido último. No dia de hoje, jornada jubilar dedicada a todos aqueles que carregam os sinais da doença e da deficiência, esta Palavra de vida tem uma ressonância especial na nossa assembleia.

Na realidade todos nós, mais cedo ou mais tarde, somos chamados a encarar e, às vezes, a lutar contra as fragilidades e as doenças, nossas e alheias. E como são diferentes os rostos com que se apresentam estas experiências, tão típica e dramaticamente humanas! Mas sempre nos colocam, de forma mais aguda e premente, a questão do sentido da vida. Perante isso, no nosso íntimo, pode algumas vezes sobrevir uma atitude cínica, como se fosse possível resolver tudo suportando ou contando apenas com as próprias forças; outras vezes, pelo contrário, coloca-se toda a confiança nas descobertas da ciência, pensando que certamente deverá haver, nalgum lugar da terra, um remédio capaz de curar a doença. Infelizmente não é assim; e ainda que existisse tal remédio, seria acessível a muito poucas pessoas.

A natureza humana, ferida pelo pecado, traz inscrita em si mesma a realidade da limitação. Conhecemos a objeção que se levanta, sobretudo nestes tempos, à vista duma vida marcada por graves limitações físicas; considera-se que é impossível ser feliz uma pessoa enferma ou deficiente, porque incapaz de realizar o estilo de vida imposto pela cultura do prazer e da diversão. Num tempo como o nosso, em que o cuidado do corpo se tornou um mito de massa e consequentemente um negócio, aquilo que é imperfeito deve ser ocultado, porque atenta contra a felicidade e a serenidade dos privilegiados e põe em crise o modelo dominante. É melhor manter tais pessoas segregadas em qualquer «recinto» – eventualmente dourado – ou em «reservas» criadas por um compassivo assistencialismo, para não estorvar o ritmo dum bem-estar falso. Por vezes chega-se a sustentar que é melhor desembaraçar-se o mais rapidamente possível de tais pessoas, porque se tornam um encargo financeiro insuportável em tempos de crise. Na realidade, porém, como é grande a ilusão em que vive o homem de hoje, quando fecha os olhos à enfermidade e à deficiência! Não compreende o verdadeiro sentido da vida, que inclui também a aceitação do sofrimento e da limitação. O mundo não se torna melhor quando se compõe apenas de pessoas aparentemente «perfeitas» (para não dizer «maquilhadas»), mas quando crescem a solidariedade, a mútua aceitação e o respeito entre os seres humanos. Como são verdadeiras as palavras do Apóstolo: «O que há de fraco no mundo é que Deus escolheu para confundir o que é forte» (1 Cor 1, 27)!

O Evangelho deste domingo (Lc 7, 36 – 8, 3) apresenta também uma situação particular de fraqueza. A mulher pecadora é julgada e marginalizada pelos circunstantes, mas Jesus acolhe-a e defende-a «porque muito amou» (v. 47). Tal é a conclusão de Jesus, atento como está ao sofrimento e às lágrimas daquela pessoa. A sua ternura é sinal do amor que Deus reserva àqueles que sofrem e são excluídos. Não existe apenas o sofrimento físico; entre as patologias mais frequentes nos dias de hoje conta-se uma que tem a ver precisamente com o espírito: é um sofrimento que envolve a alma tornando-a triste, porque carente de amor. A patologia da tristeza. Quando se experimenta a deceção ou a traição nas relações importantes, então descobrimo-nos vulneráveis, fracos e sem defesas. Consequentemente torna-se muito forte a tentação de se fechar em si mesmo e corre-se o risco de perder a ocasião da vida: amar apesar de tudo. Amar apesar de tudo.

Aliás, a felicidade que deseja cada um pode exprimir-se de muitos modos, mas só é possível alcançá-la se se for capaz de amar. Esta é a estrada. É sempre uma questão de amor, não há outra estrada. O verdadeiro desafio é o de quem ama mais. Quantas pessoas com deficiência e enfermas se reabrem à vida, logo que descobrem que são amadas! E quão grande amor pode brotar dum coração, mesmo só através dum sorriso! A terapia do sorriso. Então a própria fragilidade pode tornar-se conforto e apoio para a nossa solidão. Jesus, na sua paixão, amou-nos até ao fim (cf. Jo 13, 1); na cruz, revelou o Amor que se dá sem limites. Que poderíamos nós censurar a Deus, nas nossas enfermidades e tribulações, que não esteja já impresso no rosto do seu Filho crucificado? Ao seu sofrimento físico, juntam-se a zombaria, a marginalização e a lástima, enquanto Ele responde com a misericórdia que a todos acolhe e perdoa: «fomos curados pelas suas chagas» (Is 53, 5; 1 Ped 2, 24). Jesus é o médico que cura com o remédio do amor, porque toma sobre Si o nosso sofrimento e redime-o. Sabemos que Deus pode compreender as nossas enfermidades, porque Ele mesmo foi pessoalmente provado por elas (cf. Heb 4, 15).

O modo como vivemos a doença e a deficiência é indicação do amor que estamos dispostos a oferecer. A forma como enfrentamos o sofrimento e a limitação é critério da nossa liberdade em dar sentido às experiências da vida, mesmo quando nos parecem absurdas e não merecidas. Por isso, não nos deixemos turbar por estas tribulações (cf. 1 Ts 3, 3). Sabemos que, na fraqueza, podemos tornar-nos fortes (cf. 2 Cor 12, 10) e receber a graça de completar em nós o que falta dos sofrimentos de Cristo em favor do seu corpo, que é a Igreja (cf. Col 1, 24); um corpo que, à imagem do corpo do Senhor ressuscitado, conserva as chagas, sinal da dura luta que trava, mas chagas transfiguradas para sempre pelo amor.

[00988-PO.02] [Texto original: Italiano]

[B0428-XX.02]