Discorso del Santo Padre
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Alle ore 12 di oggi, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano è stato conferito a Sua Santità Papa Francesco il Premio Internazionale Carlo Magno 2016.
Alla presenza di numerose autorità, la cerimonia è stata introdotta dal discorso del Sindaco di Aachen, Sig. Marcel Philipp.
Quindi il Presidente del Comitato direttivo dell’Associazione per l’assegnazione del Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana – Per l’Unità dell’Europa, Sig. Jürgen Linden ha dato lettura dell’attestato del Premio che recita: “Il 6 maggio 2016, in Vaticano (Roma), a Sua Santità Papa Francesco è stato conferito il Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana in tributo al Suo straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori” e insieme al Sindaco di Aachen ha consegnato il Premio al Papa.
La cerimonia è proseguita con gli interventi del Presidente del Parlamento europeo, On.le Martin Schulz, del Presidente della Commissione europea, On.le Jean-Claude Junker e del Presidente del Consiglio europeo, On.le Donald Tusk.
Infine Papa Francesco ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.
La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.
Questa «famiglia di popoli»1, lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità»2.
Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).
Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?
Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).
A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.
Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto»3. Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»4. I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione»5.
Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.
Capacità di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale.
L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.
In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io»6.
Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.
Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.
Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.
In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.
Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?
«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».7 Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.
Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.
Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”8» (Enc. Laudato si’, 127).
Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».9 Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.
Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).
Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia»10. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.
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1 Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
2 Ibid.
3 Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
4 Ibid.
5 Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.
6 Discorso all'Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952.
7 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
8 Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
10 Discorso al Consiglio d'Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014.
[00735-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Honorables invités,
Je vous souhaite la bienvenue et je vous remercie de votre présence. Je suis reconnaissant, en particulier, à Messieurs Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker et Donald Tusk pour leurs aimables paroles. Je voudrais redire mon intention de dédier le prestigieux Prix, dont je viens d’être honoré, à l’Europe: en effet, nous ne sommes pas en train d’accomplir un geste de célébration; nous saisissons plutôt l’occasion pour souhaiter ensemble un élan nouveau et courageux à ce cher continent.
La créativité, le génie, la capacité de se relever et de sortir de ses propres limites caractérisent l’âme de l’Europe. Au siècle dernier, elle a témoigné à l’humanité qu’un nouveau départ était possible: après des années de conflits tragiques, qui ont abouti à la plus terrible guerre dont on se souvienne, est apparue dans l’histoire, par la grâce de Dieu, une nouveauté sans précédent. Les cendres des décombres n’ont pas pu éteindre l’espérance et la recherche de l’autre, qui brûlaient dans le cœur des Pères fondateurs du projet européen. Ils ont jeté les fondations d’un rempart de paix, d’un édifice construit par des États qui ne s’étaient pas unis de force, mais par un choix libre du bien commun, en renonçant pour toujours à s’affronter. L’Europe, après tant de divisions, s’est finalement retrouvée elle-même et a commencé à édifier sa maison.
Cette «famille de peuples»1, admirablement agrandie entre temps, dernièrement semble moins sentir comme siens les murs de la maison commune, érigés parfois en s’éloignant du judicieux projet conçu par les Pères. Cette atmosphère de nouveauté, cet ardent désir de construire l’unité paraissent de plus en plus éteints: nous, les enfants de ce rêve, nous sommes tentés de céder à nos égoïsmes, en ayant en vue notre propre intérêt et en pensant construire des enclos particuliers. Cependant, je suis convaincu que la résignation et la fatigue ne font pas partie de l’âme de l’Europe et qu’également « lesdifficultés peuvent devenir des promotrices puissantes d’unité »2.
Au Parlement européen, je me suis permis de parler d’une Europe grand-mère. Je disais aux Eurodéputés qu’en bien des endroits grandissait l’impression générale d’une Europe fatiguée et vieillie, stérile et sans vitalité, où les grands idéaux qui ont inspiré l’Europe semblent avoir perdu leur force attractive; une Europe en déclin qui semble avoir perdu sa capacité génératrice et créative. Une Europe tentée de vouloir assurer et dominer des espaces plutôt que de créer des processus d’inclusion et de transformation: une Europe qui est en train de ‘‘se retrancher’’ au lieu de privilégier des actions qui promeuvent de nouveaux dynamismes dans la société; des dynamismes capables d’impliquer et de mettre en mouvement tous les acteurs sociaux (groupes et personnes) dans la recherche de solutions nouvelles aux problèmes actuels, qui portent du fruit dans d’importants événements historiques; une Europe qui, loin de protéger les espaces, devienne une mère génératrice de processus (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 223).
Que t’est-il arrivé, Europe humaniste, paladin des droits de l’homme, de la démocratie et de la liberté? Que t’est-il arrivé, Europe terre de poètes, de philosophes, d’artistes, de musiciens, d’hommes de lettres? Que t’est-il arrivé, Europe mère de peuples et de nations, mère de grands hommes et de grandes femmes qui ont su défendre et donner leur vie pour la dignité de leurs frères?
L’écrivain Elie Wiesel, survivant des camps d’extermination nazis, disait qu’il est capital aujourd’hui de réaliser une ‘‘transfusion de mémoire’’. Il est nécessaire de ‘‘faire mémoire’’, de prendre un peu de distance par rapport au présent pour écouter la voix de nos ancêtres. Non seulement la mémoire nous permettra de ne pas commettre les mêmes erreurs du passé (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 108), mais aussi elle nous donnera accès à ces acquis qui ont aidé nos peuples à traverser, avec un esprit positif, les carrefours historiques qu’ils trouvaient marchant. La transfusion de la mémoire nous libère de cette tendance actuelle, souvent plus attrayante, de fabriquer en hâte sur les sables mouvants des résultats immédiats qui pourraient produire un gain « politique facile, rapide et éphémère, mais qui ne construisent pas la plénitude humaine » (ibid., n. 224).
A cette fin, cela nous fera du bien d’évoquer les Pères fondateurs de l’Europe. Ils ont su chercher des routes alternatives, innovatrices dans un contexte marqué par les blessures de la guerre. Ils ont eu l’audace non seulement de rêver l’idée d’Europe, mais ils ont osé transformer radicalement les modèles qui ne provoquaient que violence et destruction. Ils ont osé chercher des solutions multilatérales aux problèmes qui peu à peu devenaient communs.
Robert Schuman, dans ce que beaucoup reconnaissent comme l’acte de naissance de la première communauté européenne, a dit: « l'Europe ne se fera pas d'un coup, ni dans une construction d'ensemble : elle se fera par des réalisations concrètes, créant d'abord une solidarité de fait »3. À présent justement, dans notre monde divisé et blessé, il faut retourner à cette solidarité de fait, à la même générosité concrète qui a suivi le deuxième conflit mondial, parce que, – continuait Schuman – « la paix mondiale ne saurait être sauvegardée sans des efforts créateurs à la mesure des dangers qui la menacent »4. Les projets des Pères fondateurs, hérauts de la paix et prophètes de l’avenir, ne sont pas dépassés: ils inspirent, aujourd’hui plus que jamais, à construire des ponts et à abattre des murs. Ils semblent exprimer une invitation angoissée à ne pas se contenter de retouches cosmétiques ou de compromis bancals pour corriger quelques traités, mais à poser courageusement de nouvelles bases, fortement enracinées; comme l’affirmait Alcide De Gasperi, «tous également animés par le souci du bien commun de nos patries européennes, de notre Patrie l’Europe », recommencer, sans peur un «travail constructif qui exige tous nos efforts d’une coopération patiente et longue »5.
Cette transfusion de la mémoire nous permet de nous inspirer du passé pour affronter avec courage le complexe cadre multipolaire actuel, en acceptant avec détermination le défi d’‘‘actualiser’’ l’idée de l’Europe. Une Europe capable de donner naissance à un nouvel humanisme fondé sur trois capacités: la capacité d’intégrer, la capacité de dialoguer et la capacité de générer.
Capacité d’intégrer
Erich Przywara, dans sa magnifique œuvre L’idée de l’Europe, nous invite à penser la ville comme un lieu de cohabitation entre diverses instances et divers niveaux. Il connaissait cette tendance réductionniste qui habite chaque tentative de penser et de rêver le tissu social. La beauté enracinée dans beaucoup de nos villes est due au fait qu’elles ont réussi à conserver dans le temps les différences d’époques, de nations, de styles, de visions. Il suffit de regarder l’inestimable patrimoine culturel de Rome pour confirmer encore une fois que la richesse et la valeur d’un peuple s’enracine justement dans le fait de savoir articuler tous ces niveaux dans une saine cohabitation. Les réductionnismes et toutes les tentatives d’uniformisation, loin de générer des valeurs, condamnent nos peuples à une cruelle pauvreté: celle de l’exclusion. Et loin d’apporter grandeur, richesse et beauté, l’exclusion provoque la lâcheté, l’étroitesse et la brutalité. Loin de donner de la noblesse à l’esprit, ils lui apportent la mesquinerie.
Les racines de nos peuples, les racines de l’Europe se sont consolidées au cours de son histoire du fait qu’elle a appris à intégrer dans une synthèse toujours neuve les cultures les plus diverses et sans lien apparent entre elles. L’identité européenne est, et a toujours été, une identité dynamique et multiculturelle.
L’activité politique sait qu’elle a entre les mains cette tâche fondamentale et urgente. Nous savons que «le tout est plus que la partie, et plus aussi que la simple somme de celles-ci », par conséquent, on devra toujours travailler pour « élargir le regard pour reconnaître un bien plus grand qui sera bénéfique à tous » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 235). Nous sommes invités à promouvoir une intégration qui trouve dans la solidarité la manière de faire les choses, la manière de construire l’histoire. Une solidarité qui ne peut jamais se confondre avec l’aumône, mais comme la création d’opportunités pour que tous les habitants de nos villes – et de tant d’autres villes – puissent mener leur vie avec dignité. Le temps nous enseigne que la seule insertion géographique des personnes ne suffit pas, mais que le défi est celui d’une forte intégration culturelle.
Ainsi, la communauté des peuples européens pourra vaincre la tentation de se replier sur des paradigmes unilatéraux et de s’aventurer dans des ‘‘colonisations idéologiques’’; elle redécouvrira plutôt la grandeur de l’âme européenne, née de la rencontre de civilisations et de peuples, plus vaste que les frontières actuelles de l’Union et appelée à devenir un modèle de nouvelles synthèses et de dialogue. Le visage de l’Europe ne se distingue pas, en effet, par l’opposition aux autres, mais par le fait de porter imprimés les traits de diverses cultures et la beauté de vaincre les fermetures. Sans cette capacité d’intégration, les paroles prononcées par Konrad Adenauer dans le passé résonneront aujourd’hui comme une prophétie de l’avenir: «L’avenir de l’Occident n’est pas tant menacé par la tension politique que par le danger de la massification, de l’uniformité de pensée et de sentiment; bref, par tout le système de vie, de la fuite de responsabilité, avec l’unique préoccupation de son propre moi»6.
Capacité de dialogue
S’il y a un mot que nous devons répéter jusqu’à nous en lasser, c’est celui-ci: dialogue. Nous sommes invités à promouvoir une culture du dialogue en cherchant par tous les moyens à ouvrir des instances afin qu’il soit possible et que cela nous permette de reconstruire le tissu social. La culture du dialogue implique un apprentissage authentique, une ascèse qui nous aide à reconnaître l’autre comme un interlocuteur valable; qui nous permette de regarder l’étranger, le migrant, celui qui appartient à une autre culture comme un sujet à écouter, considéré et apprécié. Il est urgent pour nous aujourd’hui d’impliquer tous les acteurs sociaux dans la promotion d’« une culture qui privilégie le dialogue comme forme de rencontre», en promouvant «la recherche de consensus et d’accords, mais sans la séparer de la préoccupation d’une société juste, capable de mémoire, et sans exclusions » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 239). La paix sera durable dans la mesure où nous armons nos enfants des armes du dialogue, dans la mesure où nous leur enseignons le bon combat de la rencontre et de la négociation. Ainsi, nous pourrons leur laisser en héritage une culture qui sait définir des stratégies non pas de mort mais de vie, non pas d’exclusion mais d’intégration.
Cette culture du dialogue, qui devrait être insérée dans tous les cursus scolaires comme axe transversal des disciplines, aidera à inculquer aux jeunes générations une manière de résoudre les conflits différente de celle à laquelle nous nous habituons. Aujourd’hui, il est urgent de pouvoir réaliser des ‘‘coalitions’’ non plus uniquement militaires ou économiques mais culturelles, éducatives, philosophiques, religieuses. Des coalitions qui mettent en évidence que, derrière beaucoup de conflits, le pouvoir de groupes économiques est souvent en jeu. Des coalitions capables de défendre le peuple de l’utilisation qu’on fait de lui à des fins impropres. Armons nos gens de la culture du dialogue et de la rencontre.
Capacité de générer
Le dialogue, et tout qu’il comporte, nous rappelle que personne ne peut se contenter d’être spectateur ni simple observateur. Tous, du plus petit au plus grand, sont des acteurs de la construction d’une société intégrée et réconciliée. Cette culture est possible si nous participons tous à son élaboration et à sa construction. La situation actuelle n’admet pas de simples observateurs des luttes d’autrui. Au contraire, c’est un appel fort à la responsabilité personnelle et sociale.
En ce sens, nos jeunes ont un rôle prépondérant. Ils ne constituent pas l’avenir de nos peuples, mais ils sont le présent; ils sont ceux qui, déjà par leurs rêves, par leur vie, sont en train de forger l’esprit européen. Nous ne pouvons pas penser l’avenir sans leur offrir une réelle participation comme agents de changement et de transformation. Nous ne pouvons pas imaginer l’Europe sans les rendre participants et protagonistes de ce rêve.
Ces derniers temps, j’ai réfléchi à cet aspect et je me suis demandé: comment pouvons-nous faire participer nos jeunes à cette construction lorsque nous les privons de travail; de travaux dignes qui leur permettent de se développer grâce à leurs mains, grâce à leur intelligence et à leur énergie? Comment voulons-nous leur reconnaître la valeur de protagonistes, lorsque les taux de chômage et de sous-emploi de millions de jeunes européens sont en augmentation? Comment éviter de perdre nos jeunes, qui finissent par aller ailleurs à la recherche d’idéaux et de sens d’appartenance parce qu’ici, sur leur terre, nous ne savons pas leur offrir des opportunités et des valeurs?
«La juste distribution des fruits de la terre et du travail humain n'est pas de la pure philanthropie. C’est un devoir moral»7. Si nous voulons penser nos sociétés d’une manière différente, nous avons besoin de créer des postes d’un travail digne et bien rémunéré, surtout pour nos jeunes.
Cela demande la recherche de nouveaux modèles économiques plus inclusifs et équitables, non orientés vers le service d’un petit nombre, mais au bénéfice des gens et de la société. Et cela nous demande le passage d’une économie liquide à une économie sociale. Je pense par exemple à l’économie sociale de marché, encouragée par mes Prédécesseurs (cf. Jean-Paul II, Discours à l’Ambassadeur de la République Fédérale d’Allemagne, 8 novembre 1990). Passer d’une économie, qui vise au revenu et au profit sur la base de la spéculation et du prêt à intérêt, à une économie sociale qui investit dans les personnes en créant des postes de travail et de la qualification.
Nous devons passer d’une économie liquide, qui tend à favoriser la corruption comme moyen pour obtenir des profits, à une économie sociale qui garantit l’accès à la terre, au toit grâce au travail comme milieu où les personnes et les communautés peuvent mettre en jeu « plusieurs dimensions de la vie […] : la créativité, la projection vers l’avenir, le développement des capacités, la mise en pratique de valeurs, la communication avec les autres, une attitude d’adoration. C’est pourquoi, dans la réalité sociale mondiale actuelle, au-delà des intérêts limités des entreprises et d’une rationalité économique discutable, il est nécessaire que ‘‘l’on continue à se donner comme objectif prioritaire l’accès au travail...pour tous ”8» (Enc. Laudato si’, n. 127).
Si nous voulons envisager un avenir qui soit digne, si nous voulons un avenir de paix pour nos sociétés, nous pourrons l’atteindre uniquement en misant sur la vraie inclusion: «celle qui donne le travail digne, libre, créatif, participatif et solidaire ».9 Ce passage (d’une économie liquide à une économie sociale) non seulement donnera de nouvelles perspectives et opportunités concrètes d’intégration et d’inclusion, mais aussi nous ouvrira de nouveau la capacité de rêver de cet humanisme dont l’Europe a été le berceau et la source.
L’Eglise peut et doit contribuer à la renaissance d’une Europe affaiblie, mais encore dotée d’énergie et de potentialités. Son devoir coïncide avec sa mission: l’annonce de l’Évangile, qui aujourd’hui plus que jamais se traduit surtout par le fait d’aller à la rencontre des blessures de l’homme, en portant la présence forte et simple de Jésus, sa miséricorde consolante et encourageante. Dieu désire habiter parmi les hommes, mais il ne peut le faire qu’à travers des hommes et des femmes qui, comme les grands évangélisateurs du continent, soient touchés par lui et vivent l’Évangile, sans chercher autre chose. Seule une Église riche de témoins pourra redonner l’eau pure de l’Évangile aux racines de l’Europe. En cela, le chemin des chrétiens vers la pleine unité est un grand signe des temps, mais aussi l’exigence pressante de répondre à l’appel du Seigneur «pour que tous soient un» (Jn 17, 21).
Avec l’esprit et avec le cœur, avec espérance et sans vaine nostalgie, comme un fils qui retrouve dans la mère Europe ses racines de vie et de foi, je rêve d’un nouvel humanisme européen, d’« un chemin constant d’humanisation », requérant « la mémoire, du courage, une utopie saine et humaine »10. Je rêve d’une Europe jeune, capable d’être encore mère: une mère qui ait de la vie, parce qu’elle respecte la vie et offre l’espérance de vie. Je rêve d’une Europe qui prend soin de l’enfant, qui secourt comme un frère le pauvre et celui qui arrive en recherche d’accueil parce qu’il n’a plus rien et demande un refuge. Je rêve d’une Europe qui écoute et valorise les personnes malades et âgées, pour qu’elles ne soient pas réduites à des objets de rejet improductifs. Je rêve d’une Europe où être migrant ne soit pas un délit mais plutôt une invitation à un plus grand engagement dans la dignité de l’être humain tout entier. Je rêve d’une Europe où les jeunes respirent l’air pur de l’honnêteté, aiment la beauté de la culture et d’une vie simple, non polluée par les besoins infinis du consumérisme; où se marier et avoir des enfants sont une responsabilité et une grande joie, non un problème du fait du manque d’un travail suffisamment stable. Je rêve d’une Europe des familles, avec des politiques vraiment effectives, centrées sur les visages plus que sur les chiffres, sur les naissances d’enfants plus que sur l’augmentation des biens. Je rêve d’une Europe qui promeut et défend les droits de chacun, sans oublier les devoirs envers tous. Je rêve d’une Europe dont on ne puisse pas dire que son engagement pour les droits humains a été sa dernière utopie. Merci.
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1 Discours au Parlement européen, Strasbourg, 25 novembre 2014.
2 Ibid.
3 Déclaration du 9 mai 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Paris.
4 Ibid.
5 Discours à la Conférence Parlementaire Européenne, Paris, 21 avril 1954.
6 Discours à l’Assemblée des artisans allemands, Düsseldorf, 27 avril 1952.
7 Discours aux mouvements populaires en Bolivie, Santa Cruz de la Sierra, 9 juillet 2015.
8 Benoît XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 juin 2009), n. 32 : AAS 101 (2009), p. 666.
9 Discours aux mouvements populaires en Bolivie, Santa Cruz de la Sierra, 9 juillet 2015.
10 Discours au Conseil d'Europe, Strasbourg, 25 novembre 2014.
[00735-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Distinguished Ladies and Gentlemen,
I offer you a cordial welcome and I thank you for your presence. I am particularly grateful to Messrs Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker and Donald Tusk for their kind words. I would like to reiterate my intention to offer this prestigious award for Europe. For ours is not so much a celebration as a moment to express our shared hope for a new and courageous step forward for this beloved continent.
Creativity, genius and a capacity for rebirth and renewal are part of the soul of Europe. In the last century, Europe bore witness to humanity that a new beginning was indeed possible. After years of tragic conflicts, culminating in the most horrific war ever known, there emerged, by God’s grace, something completely new in human history. The ashes of the ruins could not extinguish the ardent hope and the quest of solidarity that inspired the founders of the European project. They laid the foundations for a bastion of peace, an edifice made up of states united not by force but by free commitment to the common good and a definitive end to confrontation. Europe, so long divided, finally found its true self and began to build its house.
This “family of peoples”,1 which has commendably expanded in the meantime, seems of late to feel less at home within the walls of the common home. At times, those walls themselves have been built in a way varying from the insightful plans left by the original builders. Their new and exciting desire to create unity seems to be fading; we, the heirs of their dream, are tempted to yield to our own selfish interests and to consider putting up fences here and there. Nonetheless, I am convinced that resignation and weariness do not belong to the soul of Europe, and that even “our problems can become powerful forces for unity”.2
In addressing the European Parliament, I used the image of Europe as a grandmother. I noted that there is a growing impression that Europe is weary, aging, no longer fertile and vital, that the great ideals that inspired Europe seem to have lost their appeal. There is an impression that Europe is declining, that it has lost its ability to be innovative and creative, and that it is more concerned with preserving and dominating spaces than with generating processes of inclusion and change. There is an impression that Europe is tending to become increasingly “entrenched”, rather than open to initiating new social processes capable of engaging all individuals and groups in the search for new and productive solutions to current problems. Europe, rather than protecting spaces, is called to be a mother who generates processes (cf. Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium, 223).
What has happened to you, the Europe of humanism, the champion of human rights, democracy and freedom? What has happened to you, Europe, the home of poets, philosophers, artists, musicians, and men and women of letters? What has happened to you, Europe, the mother of peoples and nations, the mother of great men and women who upheld, and even sacrificed their lives for, the dignity of their brothers and sisters?
The writer Elie Wiesel, a survivor of the Nazi death camps, has said that what we need today is a “memory transfusion”. We need to “remember”, to take a step back from the present to listen to the voice of our forebears. Remembering will help us not to repeat our past mistakes (cf. Evangelii Gaudium, 108), but also to re-appropriate those experiences that enabled our peoples to surmount the crises of the past. A memory transfusion can free us from today’s temptation to build hastily on the shifting sands of immediate results, which may produce “quick and easy short-term political gains, but do not enhance human fulfilment” (ibid., 224).
To this end, we would do well to turn to the founding fathers of Europe. They were prepared to pursue alternative and innovative paths in a world scarred by war. Not only did they boldly conceive the idea of Europe, but they dared to change radically the models that had led only to violence and destruction. They dared to seek multilateral solutions to increasingly shared problems.
Robert Schuman, at the very birth of the first European community, stated that “Europe will not be made all at once, or according to a single plan. It will be built through concrete achievements which first create a de facto solidarity”.3 Today, in our own world, marked by so much conflict and suffering, there is a need to return to the same de facto solidarity and concrete generosity that followed the Second World War, because, as Schuman noted, “world peace cannot be safeguarded without making creative efforts proportionate to the dangers threatening it”.4 The founding fathers were heralds of peace and prophets of the future. Today more than ever, their vision inspires us to build bridges and tear down walls. That vision urges us not to be content with cosmetic retouches or convoluted compromises aimed at correcting this or that treaty, but courageously to lay new and solid foundations. As Alcide De Gasperi stated, “equally inspired by concern for the common good of our European homeland”, all are called to embark fearlessly on a “construction project that demands our full quota of patience and our ongoing cooperation”.5
Such a “memory transfusion” can enable us to draw inspiration from the past in order to confront with courage the complex multipolar framework of our own day and to take up with determination the challenge of “updating” the idea of Europe. A Europe capable of giving birth to a new humanism based on three capacities: the capacity to integrate, the capacity for dialogue and the capacity to generate.
The capacity to integrate
Erich Przywara, in his splendid work Idee Europa [The Idea of Europe], challenges us to think of the city as a place where various instances and levels coexist. He was familiar with the reductionist tendency inherent in every attempt to rethink the social fabric. Many of our cities are remarkably beautiful precisely because they have managed to preserve over time traces of different ages, nations, styles and visions. We need but look at the inestimable cultural patrimony of Rome to realize that the richness and worth of a people is grounded in its ability to combine all these levels in a healthy coexistence. Forms of reductionism and attempts at uniformity, far from generating value, condemn our peoples to a cruel poverty: the poverty of exclusion. Far from bestowing grandeur, riches and beauty, exclusion leads to vulgarity, narrowness, and cruelty. Far from bestowing nobility of spirit, it brings meanness.
The roots of our peoples, the roots of Europe, were consolidated down the centuries by the constant need to integrate in new syntheses the most varied and discrete cultures. The identity of Europe is, and always has been, a dynamic and multicultural identity.
Political activity cannot fail to see the urgency of this fundamental task. We know that “the whole is greater than the part, but it is also greater than the sum of the parts”, and this requires that we work to “broaden our horizons and see the greater good which will benefit us all” (Evangelii Gaudium, 235). We are asked to promote an integration that finds in solidarity a way of acting, a means of making history. Solidarity should never be confused with charitable assistance, but understood as a means of creating opportunities for all the inhabitants of our cities – and of so many other cities – to live with dignity. Time is teaching us that it is not enough simply to settle individuals geographically: the challenge is that of a profound cultural integration.
The community of European peoples will thus be able to overcome the temptation of falling back on unilateral paradigms and opting for forms of “ideological colonization”. Instead, it will rediscover the breadth of the European soul, born of the encounter of civilizations and peoples. The soul of Europe is in fact greater than the present borders of the Union and is called to become a model of new syntheses and of dialogue. The true face of Europe is seen not in confrontation, but in the richness of its various cultures and the beauty of its commitment to openness. Without this capacity for integration, the words once spoken by Konrad Adenauer will prove prophetic: “the future of the West is not threatened as much by political tensions as by the danger of conformism, uniformity of thoughts and feelings: in a word, by the whole system of life, by flight from responsibility, with concern only for oneself.”6
The capacity for dialogue
If there is one word that we should never tire of repeating, it is this: dialogue. We are called to promote a culture of dialogue by every possible means and thus to rebuild the fabric of society. The culture of dialogue entails a true apprenticeship and a discipline that enables us to view others as valid dialogue partners, to respect the foreigner, the immigrant and people from different cultures as worthy of being listened to. Today we urgently need to engage all the members of society in building “a culture which privileges dialogue as a form of encounter” and in creating “a means for building consensus and agreement while seeking the goal of a just, responsive and inclusive society” (Evangelii Gaudium, 239). Peace will be lasting in the measure that we arm our children with the weapons of dialogue, that we teach them to fight the good fight of encounter and negotiation. In this way, we will bequeath to them a culture capable of devising strategies of life, not death, and of inclusion, not exclusion.
This culture of dialogue should be an integral part of the education imparted in our schools, cutting across disciplinary lines and helping to give young people the tools needed to settle conflicts differently than we are accustomed to do. Today we urgently need to build “coalitions” that are not only military and economic, but cultural, educational, philosophical and religious. Coalitions that can make clear that, behind many conflicts, there is often in play the power of economic groups. Coalitions capable of defending people from being exploited for improper ends. Let us arm our people with the culture of dialogue and encounter.
The capacity to generate
Dialogue, with all that it entails, reminds us that no one can remain a mere onlooker or bystander. Everyone, from the smallest to the greatest, has an active role to play in the creation of an integrated and reconciled society. This culture of dialogue can come about only if all of us take part in planning and building it. The present situation does not permit anyone to stand by and watch other people’s struggles. On the contrary, it is a forceful summons to personal and social responsibility.
In this sense, our young people have a critical role. They are not the future of our peoples; they are the present. Even now, with their dreams and their lives they are forging the spirit of Europe. We cannot look to the future without offering them the real possibility to be catalysts of change and transformation. We cannot envision Europe without letting them be participants and protagonists in this dream.
Lately I have given much thought to this. I ask myself: How we can involve our young people in this building project if we fail to offer them employment, dignified labour that lets them grow and develop through their handiwork, their intelligence and their abilities? How can we tell them that they are protagonists, when the levels of employment and underemployment of millions of young Europeans are continually rising? How can we avoid losing our young people, who end up going elsewhere in search of their dreams and a sense of belonging, because here, in their own countries, we don’t know how to offer them opportunities and values?
The just distribution of the fruits of the earth and human labour is not mere philanthropy. It is a moral obligation.7 If we want to rethink our society, we need to create dignified and well-paying jobs, especially for our young people.
To do so requires coming up with new, more inclusive and equitable economic models, aimed not at serving the few, but at benefiting ordinary people and society as a whole. This calls for moving from a liquid economy to a social economy; I think for example of the social market economy encouraged by my predecessors (cf. JOHN PAUL II, Address to the Ambassador of the Federal Republic of Germany, 8 November 1990). It would involve passing from an economy directed at revenue, profiting from speculation and lending at interest, to a social economy that invests in persons by creating jobs and providing training.
We need to move from a liquid economy prepared to use corruption as a means of obtaining profits to a social economy that guarantees access to land and lodging through labour. Labour is in fact the setting in which individuals and communities bring into play “many aspects of life: creativity, planning for the future, developing talents, living out values, relating to others, giving glory to God. It follows that, in the reality of today’s global society, it is essential that we ‘continue to prioritize the role of access to steady employment for everyone, no matter the limited interests of business and dubious economic reasoning’8” (Encyclical Laudato Si’, 127).
If we want a dignified future, a future of peace for our societies, we will only be able to achieve it by working for genuine inclusion, “an inclusion which provides worthy, free, creative, participatory and solidary work”.9 This passage (from a liquid economy to a social economy) will not only offer new prospects and concrete opportunities for integration and inclusion, but will makes us once more capable of envisaging that humanism of which Europe has been the cradle and wellspring.
To the rebirth of a Europe weary, yet still rich in energies and possibilities, the Church can and must play her part. Her task is one with her mission: the proclamation of the Gospel, which today more than ever finds expression in going forth to bind the wounds of humanity with the powerful yet simple presence of Jesus, and his mercy that consoles and encourages. God desires to dwell in our midst, but he can only do so through men and women who, like the great evangelizers of this continent, have been touched by him and live for the Gospel, seeking nothing else. Only a Church rich in witnesses will be able to bring back the pure water of the Gospel to the roots of Europe. In this enterprise, the path of Christians towards full unity is a great sign of the times and a response to the Lord’s prayer “that they may all be one” (Jn 17:21).
With mind and heart, with hope and without vain nostalgia, like a son who rediscovers in Mother Europe his roots of life and faith, I dream of a new European humanism, one that involves “a constant work of humanization” and calls for “memory, courage, [and] a sound and humane utopian vision”.10 I dream of a Europe that is young, still capable of being a mother: a mother who has life because she respects life and offers hope for life. I dream of a Europe that cares for children, that offers fraternal help to the poor and those newcomers seeking acceptance because they have lost everything and need shelter. I dream of a Europe that is attentive to and concerned for the infirm and the elderly, lest they be simply set aside as useless. I dream of a Europe where being a migrant is not a crime but a summons to greater commitment on behalf of the dignity of every human being. I dream of a Europe where young people breathe the pure air of honesty, where they love the beauty of a culture and a simple life undefiled by the insatiable needs of consumerism, where getting married and having children is a responsibility and a great joy, not a problem due to the lack of stable employment. I dream of a Europe of families, with truly effective policies concentrated on faces rather than numbers, on birth rates more than rates of consumption. I dream of a Europe that promotes and protects the rights of everyone, without neglecting its duties towards all. I dream of a Europe of which it will not be said that its commitment to human rights was its last utopia. Thank you.
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1 Address to the European Parliament, Strasbourg, 25 November 2014.
2 Ibid.
3 Declaration of 9 May 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Paris
4 Ibid.
5 Address to the European Parliamentary Conference, Paris, 21 April 1954.
6 Address to the Assembly of German Artesans, Düsseldorf, 27 April 1952.
7 Address to Popular Movements in Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 July 2015.
8 BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Address to Popular Movements in Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 July 2015.
10 Address to the Council of Europe, Strasbourg, 25 November 2014.
[00735-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Sehr verehrte Gäste,
herzlich heiße ich Sie willkommen und danke Ihnen, dass Sie da sind. Ein besonderer Dank gilt den Herren Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker und Donald Tusk für ihre freundlichen Worte. Ich möchte noch einmal meine Absicht bekräftigen, den ehrenvollen Preis, mit dem ich ausgezeichnet werde, Europa zu widmen: Wir wollen die Gelegenheit ergreifen, über dieses festliche Ereignis hinaus gemeinsam einen neuen kräftigen Schwung für diesen geliebten Kontinent herbeizuwünschen.
Die Kreativität, der Geist, die Fähigkeit, sich wieder aufzurichten und aus den eigenen Grenzen hinauszugehen, gehören zur Seele Europas. Im vergangenen Jahrhundert hat es der Menschheit bewiesen, dass ein neuer Anfang möglich war: Nach Jahren tragischer Auseinandersetzungen, die im furchtbarsten Krieg, an den man sich erinnert, gipfelten, entstand mit der Gnade Gottes etwas in der Geschichte noch nie dagewesenes Neues. Schutt und Asche konnten die Hoffnung und die Suche nach dem Anderen, die im Herzen der Gründerväter des europäischen Projekts brannten, nicht auslöschen. Sie legten das Fundament für ein Bollwerk des Friedens, ein Gebäude, das von Staaten aufgebaut ist, die sich nicht aus Zwang, sondern aus freier Entscheidung für das Gemeinwohl zusammenschlossen und dabei für immer darauf verzichtet haben, sich gegeneinander zu wenden. Nach vielen Teilungen fand Europa endlich sich selbst und begann sein Haus zu bauen.
Diese »Familie von Völkern«1, die in der Zwischenzeit lobenswerterweise größer geworden ist, scheint in jüngster Zeit die Mauern dieses gemeinsamen Hauses, die mitunter in Abweichung von dem glänzenden Projektentwurf der Väter errichtet wurden, weniger als sein Eigen zu empfinden. Jenes Klima des Neuen, jener brennende Wunsch, die Einheit aufzubauen, scheinen immer mehr erloschen. Wir Kinder dieses Traumes sind versucht, unseren Egoismen nachzugeben, indem wir auf den eigenen Nutzen schauen und daran denken, bestimmte Zäune zu errichten. Dennoch bin ich überzeugt, dass die Resignation und die Müdigkeit nicht zur Seele Europas gehören und dass auch die »Schwierigkeiten zu machtvollen Förderern der Einheit werden können«2.
Im Europäischen Parlament habe ich mir erlaubt, von Europa als Großmutter zu sprechen. Zu den Europaabgeordneten sagte ich, dass von verschiedenen Seiten der Gesamteindruck eines müden und gealterten Europa, das nicht fruchtbar und lebendig ist, zugenommen hat, wo die großen Ideale, welche Europa inspiriert haben, ihre Anziehungskraft verloren zu haben scheinen; ein heruntergekommenes Europa, das seine Fähigkeit, etwas hervorzubringen und zu schaffen, verloren zu haben scheint. Ein Europa, das versucht ist, eher Räume zu sichern und zu beherrschen, als Inklusions- und Transformationsprozesse hervorzubringen; ein Europa, das sich „verschanzt“, anstatt Taten den Vorrang zu geben, welche neue Dynamiken in der Gesellschaft fördern – Dynamiken, die in der Lage sind, alle sozialen Handlungsträger (Gruppen und Personen) bei der Suche nach neuen Lösungen der gegenwärtigen Probleme einzubeziehen und dazu zu bewegen, auf dass sie bei wichtigen historischen Ereignissen Frucht bringen. Ein Europa, dem es fern liegt, Räume zu schützen, sondern das zu einer Mutter wird, die Prozesse hervorbringt (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 223).
Was ist mit dir los, humanistisches Europa, du Verfechterin der Menschenrechte, der Demokratie und der Freiheit? Was ist mit dir los, Europa, du Heimat von Dichtern, Philosophen, Künstlern, Musikern, Literaten? Was ist mit dir los, Europa, du Mutter von Völkern und Nationen, Mutter großer Männer und Frauen, die die Würde ihrer Brüder und Schwestern zu verteidigen und dafür ihr Leben hinzugeben wussten?
Der Schriftsteller Elie Wiesel, Überlebender der Nazi-Vernichtungslager, sagte, dass heute eine „Transfusion des Gedächtnisses“ grundlegend ist. Es ist notwendig, „Gedächtnis zu halten“, ein wenig von der Gegenwart Abstand zu nehmen, um der Stimme unserer Vorfahren zu lauschen. Das Gedächtnis wird uns nicht nur erlauben, nicht dieselben Fehler der Vergangenheit zu begehen (vgl. Evangelii gaudium, 108), sondern gibt uns auch Zutritt zu den Errungenschaften, die unseren Völkern geholfen haben, die historischen Kreuzungswege, denen sie begegneten, positiv zu beschreiten. Die Transfusion des Gedächtnisses befreit uns von der oft attraktiveren gegenwärtigen Tendenz, hastig auf dem Treibsand unmittelbarer Ergebnisse zu bauen, die »einen leichten politischen Ertrag schnell und kurzlebig erbringen [könnten], aber nicht die menschliche Fülle aufbauen« (ebd., 224).
Zu diesem Zweck wird es uns gut tun, die Gründerväter Europas in Erinnerung zu rufen. Sie verstanden es, in einem von den Wunden des Krieges gezeichneten Umfeld nach alternativen, innovativen Wegen zu suchen. Sie hatten die Kühnheit, nicht nur von der Idee Europa zu träumen, sondern wagten, die Modelle, die bloß Gewalt und Zerstörung hervorbrachten, radikal zu verändern. Sie wagten, nach vielseitigen Lösungen für die Probleme zu suchen, die nach und nach von allen anerkannt wurden.
Robert Schuman sagte bei dem Akt, den viele als die Geburtsstunde der ersten europäischen Gemeinschaft ansehen: »Europa lässt sich nicht mit einem Schlage herstellen und auch nicht durch eine einfache Zusammenfassung: Es wird durch konkrete Tatsachen entstehen, die zunächst eine Solidarität der Tat schaffen.«3 Gerade jetzt, in dieser unserer zerrissenen und verwundeten Welt, ist es notwendig, zu dieser Solidarität der Tat zurückzukehren, zur selben konkreten Großzügigkeit, der auf den Zweiten Weltkrieg folgte, denn – wie Schuman weiter ausführte – »Der Friede der Welt kann nicht gewahrt werden ohne schöpferische Anstrengungen, die der Größe der Bedrohung entsprechen.«4 Die Pläne der Gründerväter, jener Herolde des Friedens und Propheten der Zukunft, sind nicht überholt: Heute mehr denn je regen sie an, Brücken zu bauen und Mauern einzureißen. Sie scheinen einen eindringlichen Aufruf auszusprechen, sich nicht mit kosmetischen Überarbeitungen oder gewundenen Kompromissen zur Verbesserung mancher Verträge zufrieden zu geben, sondern mutig neue, tief verwurzelte Fundamente zu legen. Wie Alcide De Gasperi sagte: »Von der Sorge um das Gemeinwohl unserer europäischen Vaterländer, unseres Vaterlandes Europa gleichermaßen beseelt, müssen alle ohne Furcht eine konstruktive Arbeit wieder neu beginnen, die alle unsere Anstrengungen einer geduldigen und dauerhaften Zusammenarbeit erfordert.«5
Diese Transfusion des Gedächtnisses macht es uns möglich, uns von der Vergangenheit inspirieren zu lassen, um mutig dem vielschichtigen mehrpoligen Kontext unserer Tage zu begegnen und dabei entschlossen die Herausforderung anzunehmen, die Idee Europa zu „aktualisieren“ – eines Europa, das imstande ist, einen neuen, auf drei Fähigkeiten gegründeten Humanismus zur Welt zu bringen: Fähigkeit zur Integration, Fähigkeit zum Dialog und Fähigkeit, etwas hervorzubringen.
Fähigkeit zur Integration
Erich Przywara fordert uns mit seinem großartigen Werk Idee Europa heraus, sich die Stadt als eine Stätte des Zusammenlebens verschiedener Einrichtungen auf unterschiedlichen Ebenen vorzustellen. Er kannte jene reduktionistische Tendenz, die jedem Versuch, das gesellschaftliche Gefüge zu denken und davon zu träumen, anhaftet. Die vielen unserer Städte innewohnende Schönheit verdankt sich der Tatsache, dass es ihnen gelungen ist, die Unterschiede der Epochen, Nationen, Stile, Visionen in der Zeit zu bewahren. Es genügt, auf das unschätzbare kulturelle Erbe Roms zu schauen, um noch einmal zu bekräftigen, dass der Reichtum und der Wert eines Volkes eben darin wurzelt, alle diese Ebenen in einem gesunden Miteinander auszudrücken zu wissen. Die Reduktionismen und alle Bestrebungen zur Vereinheitlichung – weit entfernt davon, Wert hervorzubringen – verurteilen unsere Völker zu einer grausamen Armut: jene der Exklusion. Und weit entfernt davon, Größe, Reichtum und Schönheit mit sich zu bringen, ruft die Exklusion Feigheit, Enge und Brutalität hervor. Weit entfernt davon, dem Geist Adel zu verleihen, bringt sie ihm Kleinlichkeit.
Die Wurzeln unserer Völker, die Wurzeln Europas festigten sich im Laufe seiner Geschichte. Dabei lernte es, die verschiedensten Kulturen, ohne sichtliche Verbindung untereinander, in immer neuen Synthesen zu integrieren. Die europäische Identität ist und war immer eine dynamische und multikulturelle Identität.
Die Politik weiß, dass sie vor dieser grundlegenden und nicht verschiebbaren Arbeit der Integration steht. Wir wissen: »Das Ganze ist mehr als der Teil, und es ist auch mehr als ihre einfache Summe.« Dafür muss man immer arbeiten und »den Blick ausweiten, um ein größeres Gut zu erkennen, das uns allen Nutzen bringt« (Evangelii gaudium, 235). Wir sind aufgefordert, eine Integration zu fördern, die in der Solidarität die Art und Weise findet, wie die Dinge zu tun sind, wie Geschichte gestaltet werden soll. Es geht um eine Solidarität, die nie mit Almosen verwechselt werden darf, sondern als Schaffung von Möglichkeiten zu sehen ist, damit alle Bewohner unserer – und vieler anderer – Städte ihr Leben in Würde entfalten können. Die Zeit lehrt uns gerade, dass die bloß geographische Eingliederung der Menschen nicht ausreicht, sondern dass die Herausforderung in einer starken kulturellen Integration besteht.
Auf diese Weise wird die Gemeinschaft der europäischen Völker die Versuchung überwinden können, sich auf einseitige Paradigmen zurückzuziehen und sich auf „ideologische Kolonialisierungen“ einzulassen. So wird sie vielmehr die Größe der europäischen Seele wiederentdecken, die aus der Begegnung von Zivilisationen und Völkern entstanden ist, die viel weiter als die gegenwärtigen Grenzen der Europäischen Union geht und berufen ist, zum Vorbild für neue Synthesen und des Dialogs zu werden. Das Gesicht Europas unterscheidet sich nämlich nicht dadurch, dass es sich anderen widersetzt, sondern dass es die Züge verschiedener Kulturen eingeprägt trägt und die Schönheit, die aus der Überwindung der Beziehungslosigkeit kommt. Ohne diese Fähigkeit zur Integration werden die einst von Konrad Adenauer gesprochenen Worte heute als Prophezeiung der Zukunft erklingen: »Die Zukunft der abendländischen Menschheit [ist] durch nichts, aber auch durch gar nichts, durch keine politische Spannung so sehr gefährdet wie durch die Gefahr der Vermassung, der Uniformierung des Denkens und Fühlens, kurz, der gesamten Lebensauffassung und durch die Flucht aus der Verantwortung, aus der Sorge für sich selbst.«6
Die Fähigkeit zum Dialog
Wenn es ein Wort gibt, das wir bis zur Erschöpfung wiederholen müssen, dann lautet es Dialog. Wir sind aufgefordert, eine Kultur des Dialogs zu fördern, indem wir mit allen Mitteln Instanzen zu eröffnen suchen, damit dieser Dialog möglich wird und uns gestattet, das soziale Gefüge neu aufzubauen. Die Kultur des Dialogs impliziert einen echten Lernprozess sowie eine Askese, die uns hilft, den Anderen als ebenbürtigen Gesprächspartner anzuerkennen, und die uns erlaubt, den Fremden, den Migranten, den Angehörigen einer anderen Kultur als Subjekt zu betrachten, dem man als anerkanntem und geschätztem Gegenüber zuhört. Es ist für uns heute dringlich, alle sozialen Handlungsträger einzubeziehen, um »eine Kultur, die den Dialog als Form der Begegnung bevorzugt,« zu fördern, indem wir »die Suche nach Einvernehmen und Übereinkünften [vorantreiben], ohne sie jedoch von der Sorge um eine gerechte Gesellschaft zu trennen, die erinnerungsfähig ist und niemanden ausschließt« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 239). Der Frieden wird in dem Maß dauerhaft sein, wie wir unsere Kinder mit den Werkzeugen des Dialogs ausrüsten und sie den „guten Kampf“ der Begegnung und der Verhandlung lehren. Auf diese Weise werden wir ihnen eine Kultur als Erbe überlassen können, die Strategien zu umreißen weiß, die nicht zum Tod, sondern zum Leben, nicht zur Ausschließung, sondern zur Integration führen.
Diese Kultur des Dialogs, die in alle schulischen Lehrpläne als übergreifende Achse der Fächer aufgenommen werden müsste, wird dazu verhelfen, der jungen Generation eine andere Art der Konfliktlösung einzuprägen als jene, an die wir sie jetzt gewöhnen. Heute ist es dringend nötig, „Koalitionen“ schaffen zu können, die nicht mehr nur militärisch oder wirtschaftlich, sondern kulturell, erzieherisch, philosophisch und religiös sind. Koalitionen, die herausstellen, dass es bei vielen Auseinandersetzungen oft um die Macht wirtschaftlicher Gruppen geht. Es braucht Koalitionen, die fähig sind, das Volk vor der Benutzung durch unlautere Ziele zu verteidigen. Rüsten wir unsere Leute mit der Kultur des Dialogs und der Begegnung aus.
Die Fähigkeit, etwas hervorzubringen
Der Dialog und alles, was er mit sich bringt, erinnern uns daran, dass keiner sich darauf beschränken kann, Zuschauer oder bloßer Beobachter zu sein. Alle, vom Kleinsten bis zum Größten, bilden einen aktiven Part beim Aufbau einer integrierten und versöhnten Gesellschaft. Diese Kultur ist möglich, wenn alle an ihrer Ausgestaltung und ihrem Aufbau teilhaben. Die gegenwärtige Situation lässt keine bloßen Zaungäste der Kämpfe anderer zu. Sie ist im Gegenteil ein deutlicher Appell an die persönliche und soziale Verantwortung.
In diesem Sinne spielen unsere jungen Menschen eine dominierende Rolle. Sie sind nicht die Zukunft unserer Völker, sie sind ihre Gegenwart. Schon heute schmieden sie mit ihren Träumen und mit ihrem Leben den europäischen Geist. Wir können nicht an ein Morgen denken, ohne dass wir ihnen eine wirkliche Teilhabe als Träger der Veränderung und des Wandels anbieten. Wir können uns Europa nicht vorstellen, ohne dass wir sie einbeziehen und zu Protagonisten dieses Traums machen.
Kürzlich habe ich über diesen Aspekt nachgedacht, und ich habe mich gefragt: Wie können wir unsere jungen Menschen an diesem Aufbau teilhaben lassen, wenn wir ihnen die Arbeit vorenthalten? Wenn wir ihnen keine würdige Arbeiten geben, die ihnen erlauben, sich mit Hilfe ihrer Hände, ihrer Intelligenz und ihren Energien zu entwickeln? Wie können wir behaupten, ihnen die Bedeutung von Protagonisten zuzugestehen, wenn die Quoten der Arbeitslosigkeit und der Unterbeschäftigung von Millionen von jungen Europäern ansteigen? Wie können wir es vermeiden, unsere jungen Menschen zu verlieren, die auf der Suche nach Idealen und nach einem Zugehörigkeitsgefühl schließlich anderswohin gehen, weil wir ihnen hier in ihrem Land keine Gelegenheiten und keine Werte zu vermitteln vermögen?
»Die gerechte Verteilung der Früchte der Erde und der menschlichen Arbeit ist keine bloße Philanthropie. Es ist eine moralische Pflicht«7. Wenn wir unsere Gesellschaft anders konzipieren wollen, müssen wir würdige und lukrative Arbeitsplätze schaffen, besonders für unsere jungen Menschen.
Das erfordert die Suche nach neuen Wirtschaftsmodellen, die in höherem Maße inklusiv und gerecht sind. Sie sollen nicht darauf ausgerichtet sein, nur einigen wenigen zu dienen, sondern vielmehr dem Wohl jedes Menschen und der Gesellschaft. Und das verlangt den Übergang von einer „verflüssigten“ Wirtschaft zu einer sozialen Wirtschaft. Ich denke zum Beispiel an die soziale Marktwirtschaft, zu der auch meine Vorgänger ermutigt haben (vgl. Johannes Paul II. Ansprache an den Botschafter der Bundesrepublik Deutschland, 8. November 1990). Es ist nötig, von einer Wirtschaft, die auf den Verdienst und den Profit auf der Basis von Spekulation und Darlehen auf Zinsen zielt, zu einer sozialen Wirtschaft überzugehen, die in die Menschen investiert, indem sie Arbeitsplätze und Qualifikation schafft.
Von einer „verflüssigten“ Wirtschaft, die dazu neigt, Korruption als Mittel zur Erzielung von Gewinnen zu begünstigen, müssen wir zu einer sozialen Wirtschaft gelangen, die den Zugang zum Land und zum Dach über dem Kopf garantiert. Und dies mittels der Arbeit als dem Umfeld, in dem die Menschen und die Gemeinschaften »viele Dimensionen des Lebens ins Spiel [bringen können]: die Kreativität, die Planung der Zukunft, die Entwicklung der Fähigkeiten, die Ausübung der Werte, die Kommunikation mit den anderen, eine Haltung der Anbetung. In der weltweiten sozialen Wirklichkeit von heute ist es daher über die begrenzten Interessen der Unternehmen und einer fragwürdigen wirtschaftlichen Rationalität hinaus notwendig, ‚dass als Priorität weiterhin das Ziel verfolgt wird, allen Zugang zur Arbeit zu verschaffen‘8« (Enzyklika Laudato si‘, 127).
Wenn wir eine menschenwürdige Zukunft anstreben wollen, wenn wir eine friedliche Zukunft für unsere Gesellschaft wünschen, können wir sie nur erreichen, indem wir auf die wahre Inklusion setzen: »die, welche die würdige, freie, kreative, beteiligte und solidarische Arbeit gibt«9. Dieser Übergang (von einer „verflüssigten“ zu einer sozialen Wirtschaft) vermittelt nicht nur neue Perspektiven und konkrete Gelegenheiten zur Integration und Inklusion, sondern eröffnet uns von neuem die Fähigkeit von jenem Humanismus zu träumen, dessen Wiege und Quelle Europa einst war.
Am Wiederaufblühen eines zwar müden, aber immer noch an Energien und Kapazitäten reichen Europas kann und soll die Kirche mitwirken. Ihre Aufgabe fällt mit ihrer Mission zusammen, der Verkündigung des Evangeliums. Diese zeigt sich heute mehr denn je vor allem dahin, dass wir dem Menschen mit seinen Verletzungen entgegenkommen, indem wir ihm die starke und zugleich schlichte Gegenwart Christi bringen, seine tröstende und ermutigende Barmherzigkeit. Gott möchte unter den Menschen wohnen, aber das kann er nur mit Männern und Frauen erreichen, die – wie einst die großen Glaubensboten des Kontinents – von ihm angerührt sind und das Evangelium leben, ohne nach etwas anderem zu suchen. Nur eine Kirche, die reich an Zeugen ist, vermag von neuem das reine Wasser des Evangeliums auf die Wurzeln Europas zu geben. Dabei ist der Weg der Christen auf die volle Gemeinschaft hin ein großes Zeichen der Zeit, aber auch ein dringendes Erfordernis, um dem Ruf des Herrn zu entsprechen, dass alle eins sein sollen (vgl. Joh 17,21).
Mit dem Verstand und mit dem Herz, mit Hoffnung und ohne leere Nostalgien, als Sohn, der in der Mutter Europa seine Lebens- und Glaubenswurzeln hat, träume ich von einem neuen europäischen Humanismus: »Es bedarf eines ständigen Weges der Humanisierung«, und dazu braucht es »Gedächtnis, Mut und eine gesunde menschliche Zukunftsvision«10. Ich träume von einem jungen Europa, das fähig ist, noch Mutter zu sein: eine Mutter, die Leben hat, weil sie das Leben achtet und Hoffnung für das Leben bietet. Ich träume von einem Europa, das sich um das Kind kümmert, das dem Armen brüderlich beisteht und ebenso dem, der Aufnahme suchend kommt, weil er nichts mehr hat und um Hilfe bittet. Ich träume von einem Europa, das die Kranken und die alten Menschen anhört und ihnen Wertschätzung entgegenbringt, auf dass sie nicht zu unproduktiven Abfallsgegenständen herabgesetzt werden. Ich träume von einem Europa, in dem das Migrantsein kein Verbrechen ist, sondern vielmehr eine Einladung zu einem größeren Einsatz mit der Würde der ganzen menschlichen Person. Ich träume von einem Europa, wo die jungen Menschen die reine Luft der Ehrlichkeit atmen, wo sie die Schönheit der Kultur und eines einfachen Lebens lieben, die nicht von den endlosen Bedürfnissen des Konsumismus beschmutzt ist; wo das Heiraten und der Kinderwunsch eine Verantwortung wie eine große Freude sind und kein Problem darstellen, weil es an einer hinreichend stabilen Arbeit fehlt. Ich träume von einem Europa der Familien mit einer echt wirksamen Politik, die mehr in die Gesichter als auf die Zahlen blickt und mehr auf die Geburt von Kindern als auf die Vermehrung der Güter achtet. Ich träume von einem Europa, das die Rechte des Einzelnen fördert und schützt, ohne die Verpflichtungen gegenüber der Gemeinschaft außer Acht zu lassen. Ich träume von einem Europa, von dem man nicht sagen kann, dass sein Einsatz für die Menschenrechte an letzter Stelle seiner Visionen stand. Danke!
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1 Ansprache an das Europäische Parlament, Straßburg, 25. November 2015.
2 Ebd.
3 Erklärung am 9. Mai 1950 im Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Paris.
4 Ebd.
5 Vgl. Rede auf der Europäischen Parlamentarischen Konferenz, Paris, 21. April 1954.
6 Ansprache auf dem Deutschen Handwerkertag, Düsseldorf, 27. April 1952.
7 Ansprache beim Welttreffen der Volksbewegungen, Santa Cruz de la Sierra, 9. Juli 2015.
8 Benedikt XVI., Enzyklika Caritas in veritate (29. Juni 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Ansprache beim Welttreffen der Volksbewegungen, Santa Cruz de la Sierra, 9. Juli 2015.
10 Ansprache an den Europarat, Straßburg, 25. November 2014.
[00735-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Ilustres señoras y señores:
Les doy mi cordial bienvenida y gracias por su presencia. Agradezco especialmente sus amables palabras a los señores Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker y Donald Tusk. Deseo reiterar mi intención de ofrecer a Europa el prestigioso premio con el cual he sido honrado: no hagamos un mero un gesto celebrativo, sino que aprovechemos más bien esta ocasión para desear todos juntos un impulso nuevo y audaz para este amado Continente.
La creatividad, el ingenio, la capacidad de levantarse y salir de los propios límites pertenecen al alma de Europa. En el siglo pasado, ella ha dado testimonio a la humanidad de que un nuevo comienzo era posible; después de años de trágicos enfrentamientos, que culminaron en la guerra más terrible que se recuerda, surgió, con la gracia de Dios, una novedad sin precedentes en la historia. Las cenizas de los escombros no pudieron extinguir la esperanza y la búsqueda del otro, que ardían en el corazón de los padres fundadores del proyecto europeo. Ellos pusieron los cimientos de un baluarte de la paz, de un edificio construido por Estados que no se unieron por imposición, sino por la libre elección del bien común, renunciando para siempre a enfrentarse. Europa, después de muchas divisiones, se encontró finalmente a sí misma y comenzó a construir su casa.
Esta «familia de pueblos»,1 que entretanto se ha hecho de modo meritorio más amplia, en los últimos tiempos parece sentir menos suyos los muros de la casa común, tal vez levantados apartándose del clarividente proyecto diseñado por los padres. Aquella atmósfera de novedad, aquel ardiente deseo de construir la unidad, parecen estar cada vez más apagados; nosotros, los hijos de aquel sueño estamos tentados de caer en nuestros egoísmos, mirando lo que nos es útil y pensando en construir recintos particulares. Sin embargo, estoy convencido de que la resignación y el cansancio no pertenecen al alma de Europa y que también «las dificultades puedan convertirse en fuertes promotoras de unidad»2.
En el Parlamento Europeo me permití hablar de la Europa anciana. Decía a los eurodiputados que en diferentes partes crecía la impresión general de una Europa cansada y envejecida, no fértil ni vital, donde los grandes ideales que inspiraron a Europa parecen haber perdido fuerza de atracción. Una Europa decaída que parece haber perdido su capacidad generativa y creativa. Una Europa tentada de querer asegurar y dominar espacios más que de generar procesos de inclusión y de transformación; una Europa que se va «atrincherando» en lugar de privilegiar las acciones que promueven nuevos dinamismos en la sociedad; dinamismos capaces de involucrar y poner en marcha todos los actores sociales (grupos y personas) en la búsqueda de nuevas soluciones a los problemas actuales, que fructifiquen en importantes acontecimientos históricos; una Europa que, lejos de proteger espacios, se convierta en madre generadora de procesos (cf. Evangelii gaudium, 223).
¿Qué te ha sucedido Europa humanista, defensora de los derechos humanos, de la democracia y de la libertad? ¿Qué te ha pasado Europa, tierra de poetas, filósofos, artistas, músicos, escritores? ¿Qué te ha ocurrido Europa, madre de pueblos y naciones, madre de grandes hombres y mujeres que fueron capaces de defender y dar la vida por la dignidad de sus hermanos?
El escritor Elie Wiesel, superviviente de los campos de exterminio nazis, decía que hoy en día es imprescindible realizar una «transfusión de memoria». Es necesario «hacer memoria», tomar un poco de distancia del presente para escuchar la voz de nuestros antepasados. La memoria no sólo nos permitirá que no se cometan los mismos errores del pasado (cf. Evangelii gaudium, 108), sino que nos dará acceso a aquellos logros que ayudaron a nuestros pueblos a superar positivamente las encrucijadas históricas que fueron encontrando. La transfusión de memoria nos libera de esa tendencia actual, con frecuencia más atractiva, a obtener rápidamente resultados inmediatos sobre arenas movedizas, que podrían producir «un rédito político fácil, rápido y efímero, pero que no construyen la plenitud humana» (ibíd. 224).
A este propósito, nos hará bien evocar a los padres fundadores de Europa. Ellos supieron buscar vías alternativas e innovadoras en un contexto marcado por las heridas de la guerra. Ellos tuvieron la audacia no sólo de soñar la idea de Europa, sino que osaron transformar radicalmente los modelos que únicamente provocaban violencia y destrucción. Se atrevieron a buscar soluciones multilaterales a los problemas que poco a poco se iban convirtiendo en comunes.
Robert Schuman, en el acto que muchos reconocen como el nacimiento de la primera comunidad europea, dijo: «Europa no se hará de una vez, ni en una obra de conjunto: se hará gracias a realizaciones concretas, que creen en primer lugar una solidaridad de hecho».3 Precisamente ahora, en este nuestro mundo atormentado y herido, es necesario volver a aquella solidaridad de hecho, a la misma generosidad concreta que siguió al segundo conflicto mundial, porque —proseguía Schuman— «la paz mundial no puede salvaguardarse sin unos esfuerzos creadores equiparables a los peligros que la amenazan»4. Los proyectos de los padres fundadores, mensajeros de la paz y profetas del futuro, no han sido superados: inspiran, hoy más que nunca, a construir puentes y derribar muros. Parecen expresar una ferviente invitación a no contentarse con retoques cosméticos o compromisos tortuosos para corregir algún que otro tratado, sino a sentar con valor bases nuevas, fuertemente arraigadas. Como afirmaba Alcide De Gasperi, «todos animados igualmente por la preocupación del bien común de nuestras patrias europeas, de nuestra patria Europa», se comience de nuevo, sin miedo un «trabajo constructivo que exige todos nuestros esfuerzos de paciente y amplia cooperación».5
Esta transfusión de memoria nos permite inspirarnos en el pasado para afrontar con valentía el complejo cuadro multipolar de nuestros días, aceptando con determinación el reto de «actualizar» la idea de Europa. Una Europa capaz de dar a luz un nuevo humanismo basado en tres capacidades: la capacidad de integrar, capacidad de comunicación y la capacidad de generar.
Capacidad de integrar
Erich Przywara, en su magnífica obra La idea de Europa, nos reta a considerar la ciudad como un lugar de convivencia entre varias instancias y niveles. Él conocía la tendencia reduccionista que mora en cada intento de pensar y soñar el tejido social. La belleza arraigada en muchas de nuestras ciudades se debe a que han conseguido mantener en el tiempo las diferencias de épocas, naciones, estilos y visiones. Basta con mirar el inestimable patrimonio cultural de Roma para confirmar, una vez más, que la riqueza y el valor de un pueblo tiene precisamente sus raíces en el saber articular todos estos niveles en una sana convivencia. Los reduccionismos y todos los intentos de uniformar, lejos de generar valor, condenan a nuestra gente a una pobreza cruel: la de la exclusión. Y, más que aportar grandeza, riqueza y belleza, la exclusión provoca bajeza, pobreza y fealdad. Más que dar nobleza de espíritu, les aporta mezquindad.
Las raíces de nuestros pueblos, las raíces de Europa se fueron consolidando en el transcurso de su historia, aprendiendo a integrar en síntesis siempre nuevas las culturas más diversas y sin relación aparente entre ellas. La identidad europea es, y siempre ha sido, una identidad dinámica y multicultural.
La actividad política es consciente de tener entre las manos este trabajo fundamental y que no puede ser pospuesto. Sabemos que «el todo es más que la parte, y también es más que la mera suma de ellas», por lo que se tendrá siempre que trabajar para «ampliar la mirada para reconocer un bien mayor que nos beneficiará a todos» (Evangelii gaudium, 235). Estamos invitados a promover una integración que encuentra en la solidaridad el modo de hacer las cosas, el modo de construir la historia. Una solidaridad que nunca puede ser confundida con la limosna, sino como generación de oportunidades para que todos los habitantes de nuestras ciudades —y de muchas otras ciudades— puedan desarrollar su vida con dignidad. El tiempo nos enseña que no basta solamente la integración geográfica de las personas, sino que el reto es una fuerte integración cultural.
De esta manera, la comunidad de los pueblos europeos podrá vencer la tentación de replegarse sobre paradigmas unilaterales y de aventurarse en «colonizaciones ideológicas»; más bien redescubrirá la amplitud del alma europea, nacida del encuentro de civilizaciones y pueblos, más vasta que los actuales confines de la Unión y llamada a convertirse en modelo de nuevas síntesis y de diálogo. En efecto, el rostro de Europa no se distingue por oponerse a los demás, sino por llevar impresas las características de diversas culturas y la belleza de vencer todo encerramiento. Sin esta capacidad de integración, las palabras pronunciadas por Konrad Adenauer en el pasado resonarán hoy como una profecía del futuro: «El futuro de Occidente no está amenazado tanto por la tensión política, como por el peligro de la masificación, de la uniformidad de pensamiento y del sentimiento; en breve, por todo el sistema de vida, de la fuga de la responsabilidad, con la única preocupación por el propio yo».6
Capacidad de diálogo
Si hay una palabra que tenemos que repetir hasta cansarnos es esta: diálogo. Estamos invitados a promover una cultura del diálogo, tratando por todos los medios de crear instancias para que esto sea posible y nos permita reconstruir el tejido social. La cultura del diálogo implica un auténtico aprendizaje, una ascesis que nos permita reconocer al otro como un interlocutor válido; que nos permita mirar al extranjero, al emigrante, al que pertenece a otra cultura como sujeto digno de ser escuchado, considerado y apreciado. Para nosotros, hoy es urgente involucrar a todos los actores sociales en la promoción de «una cultura que privilegie el diálogo como forma de encuentro, la búsqueda de consensos y acuerdos, pero sin separarla de la preocupación por una sociedad justa, memoriosa y sin exclusiones» (Evangelii gaudium, 239). La paz será duradera en la medida en que armemos a nuestros hijos con las armas del diálogo, les enseñemos la buena batalla del encuentro y la negociación. De esta manera podremos dejarles en herencia una cultura que sepa delinear estrategias no de muerte, sino de vida, no de exclusión, sino de integración.
Esta cultura de diálogo, que debería ser incluida en todos los programas escolares como un eje transversal de las disciplinas, ayudará a inculcar a las nuevas generaciones un modo diferente de resolver los conflictos al que les estamos acostumbrando. Hoy urge crear «coaliciones», no sólo militares o económicas, sino culturales, educativas, filosóficas, religiosas. Coaliciones que pongan de relieve cómo, detrás de muchos conflictos, está en juego con frecuencia el poder de grupos económicos. Coaliciones capaces de defender las personas de ser utilizadas para fines impropios. Armemos a nuestra gente con la cultura del diálogo y del encuentro.
Capacidad de generar
El diálogo, y todo lo que este implica, nos recuerda que nadie puede limitarse a ser un espectador ni un mero observador. Todos, desde el más pequeño al más grande, tienen un papel activo en la construcción de una sociedad integrada y reconciliada. Esta cultura es posible si todos participamos en su elaboración y construcción. La situación actual no permite meros observadores de las luchas ajenas. Al contrario, es un firme llamamiento a la responsabilidad personal y social.
En este sentido, nuestros jóvenes desempeñan un papel preponderante. Ellos no son el futuro de nuestros pueblos, son el presente; son los que ya hoy con sus sueños, con sus vidas, están forjando el espíritu europeo. No podemos pensar en el mañana sin ofrecerles una participación real como autores de cambio y de transformación. No podemos imaginar Europa sin hacerlos partícipes y protagonistas de este sueño.
He reflexionado últimamente sobre este aspecto, y me he preguntado: ¿Cómo podemos hacer partícipes a nuestros jóvenes de esta construcción cuando les privamos del trabajo; de empleo digno que les permita desarrollarse a través de sus manos, su inteligencia y sus energías? ¿Cómo pretendemos reconocerles el valor de protagonistas, cuando los índices de desempleo y subempleo de millones de jóvenes europeos van en aumento? ¿Cómo evitar la pérdida de nuestros jóvenes, que terminan por irse a otra parte en busca de ideales y sentido de pertenencia porque aquí, en su tierra, no sabemos ofrecerles oportunidades y valores?
«La distribución justa de los frutos de la tierra y el trabajo humano no es mera filantropía. Es un deber moral».7 Si queremos entender nuestra sociedad de un modo diferente, necesitamos crear puestos de trabajo digno y bien remunerado, especialmente para nuestros jóvenes.
Esto requiere la búsqueda de nuevos modelos económicos más inclusivos y equitativos, orientados no para unos pocos, sino para el beneficio de la gente y de la sociedad. Pienso, por ejemplo, en la economía social de mercado, alentada también por mis predecesores (cf. Juan Pablo II, Discurso al Embajador de la R. F. de Alemania, 8 noviembre 1990). Pasar de una economía que apunta al rédito y al beneficio, basados en la especulación y el préstamo con interés, a una economía social que invierta en las personas creando puestos de trabajo y cualificación.
Tenemos que pasar de una economía líquida, que tiende a favorecer la corrupción como medio para obtener beneficios, a una economía social que garantice el acceso a la tierra y al techo por medio del trabajo como ámbito donde las personas y las comunidades puedan poner en juego «muchas dimensiones de la vida: la creatividad, la proyección del futuro, el desarrollo de capacidades, el ejercicio de los valores, la comunicación con los demás, una actitud de adoración. Por eso, en la actual realidad social mundial, más allá de los intereses limitados de las empresas y de una cuestionable racionalidad económica, es necesario que “se siga buscando como prioridad el objetivo del acceso al trabajo […] para todos”8 » (Laudato si’,127).
Si queremos mirar hacia un futuro que sea digno, si queremos un futuro de paz para nuestras sociedades, solamente podremos lograrlo apostando por la inclusión real: «esa que da el trabajo digno, libre, creativo, participativo y solidario».9 Este cambio (de una economía líquida a una economía social) no sólo dará nuevas perspectivas y oportunidades concretas de integración e inclusión, sino que nos abrirá nuevamente la capacidad de soñar aquel humanismo, del que Europa ha sido la cuna y la fuente.
La Iglesia puede y debe ayudar al renacer de una Europa cansada, pero todavía rica de energías y de potencialidades. Su tarea coincide con su misión: el anuncio del Evangelio, que hoy más que nunca se traduce principalmente en salir al encuentro de las heridas del hombre, llevando la presencia fuerte y sencilla de Jesús, su misericordia que consuela y anima. Dios desea habitar entre los hombres, pero puede hacerlo solamente a través de hombres y mujeres que, al igual que los grandes evangelizadores del continente, estén tocados por él y vivan el Evangelio sin buscar otras cosas. Sólo una Iglesia rica en testigos podrá llevar de nuevo el agua pura del Evangelio a las raíces de Europa. En esto, el camino de los cristianos hacia la unidad plena es un gran signo de los tiempos, y también la exigencia urgente de responder al Señor «para que todos sean uno» (Jn 17,21).
Con la mente y el corazón, con esperanza y sin vana nostalgia, como un hijo que encuentra en la madre Europa sus raíces de vida y fe, sueño un nuevo humanismo europeo, «un proceso constante de humanización», para el que hace falta «memoria, valor y una sana y humana utopía».10 Sueño una Europa joven, capaz de ser todavía madre: una madre que tenga vida, porque respeta la vida y ofrece esperanza de vida. Sueño una Europa que se hace cargo del niño, que como un hermano socorre al pobre y a los que vienen en busca de acogida, porque ya no tienen nada y piden refugio. Sueño una Europa que escucha y valora a los enfermos y a los ancianos, para que no sean reducidos a objetos improductivos de descarte. Sueño una Europa, donde ser emigrante no sea un delito, sino una invitación a un mayor compromiso con la dignidad de todo ser humano. Sueño una Europa donde los jóvenes respiren el aire limpio de la honestidad, amen la belleza de la cultura y de una vida sencilla, no contaminada por las infinitas necesidades del consumismo; donde casarse y tener hijos sea una responsabilidad y una gran alegría, y no un problema debido a la falta de un trabajo suficientemente estable. Sueño una Europa de las familias, con políticas realmente eficaces, centradas en los rostros más que en los números, en el nacimiento de hijos más que en el aumento de los bienes. Sueño una Europa que promueva y protega los derechos de cada uno, sin olvidar los deberes para con todos. Sueño una Europa de la cual no se pueda decir que su compromiso por los derechos humanos ha sido su última utopía. Gracias.
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1 Discurso al Parlamento Europeo, Estrasburgo, 25 de noviembre de 2014.
2 Ibíd.
3 Declaración del 9 de mayo de 1950, Salón de l’Horloge, Quai d’Orsay, Paris
4 Ibíd.
5 Discurso a la Conferencia Parlamentaria Europea, París, 21 de abril de 1954.
6 Discurso a la Asamblea de los artesanos alemanes, Düsseldorf, 27 de abril de 1952.
7 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 de julio de 2015.
8 Benedicto XVI, Carta. Enc. Caritas in veritate (29 junio 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 de julio 2015.
10 Discurso al Consejo de Europa, Estrasburgo, 25 de noviembre de 2014.
[00735-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Ilustres Senhoras e Senhores!
Dou-vos as minhas cordiais boas-vindas e agradeço a vossa presença. Sinto-me particularmente agradecido aos senhores Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk pelas suas amáveis palavras. Desejo reiterar a minha intenção de dedicar à Europa este prestigioso Prémio com que sou honrado: com efeito não estamos a comemorar qualquer gesto, mas queremos aproveitar o ensejo para, juntos, almejarmos um novo e corajoso impulso a este amado Continente.
A criatividade, o engenho, a capacidade de se levantar e sair dos seus limites pertencem à alma da Europa. No século passado, ela deu testemunho à humanidade de que era possível um novo começo: depois de anos de trágicos confrontos, culminados na guerra mais terrível de que se tem memória, surgiu – com a graça de Deus – uma novidade sem precedentes na história. As cinzas dos escombros não puderam extinguir a esperança e a busca do outro que ardiam no coração dos Pais fundadores do projeto europeu. Estes lançaram os alicerces dum baluarte de paz, dum edifício construído por Estados que se uniram, não por imposição, mas por livre escolha do bem comum, renunciando para sempre a guerrear-se. Finalmente, depois de tantas divisões, a Europa reencontrou-se a si mesma e começou a edificar a sua casa.
Esta «família de povos»,1 que entretanto se foi louvavelmente ampliando, nos últimos tempos parece sentir como menos suas as paredes da casa comum distanciando-se por vezes, na sua consolidação, do luminoso projeto arquitetado pelos Pais. Aquela atmosfera de novidade e aquele desejo ardente de construir a unidade aparecem sempre mais amortecidos; nós, filhos daquele sonho, somos tentados a ceder aos nossos egoísmos, tendo em vista apenas os próprios interesses e pensando em construir recintos particulares. Estou convencido, porém, de que a resignação e o cansaço não pertencem à alma da Europa e que as próprias «dificuldades podem revelar-se, fortemente, promotoras de unidade».2
No Parlamento Europeu, tomei a liberdade de falar de Europa avó. Dizia aos eurodeputados que crescia, de diferentes partes, a impressão geral duma Europa cansada e envelhecida, não fértil e sem vitalidade, onde os grandes ideais que a inspiraram parecem ter perdido o seu fascínio; uma Europa decadente que parece ter perdido a sua capacidade geradora e criativa; uma Europa tentada mais a querer garantir e dominar espaços do que a gerar processos de inclusão e transformação; uma Europa que se vai «entrincheirando», em vez de privilegiar ações que promovam novos dinamismos na sociedade; dinamismos capazes de envolver e mobilizar todos os atores sociais (grupos e indivíduos) na busca de novas soluções para os problemas atuais, que frutifiquem em acontecimentos históricos importantes; uma Europa que, longe de proteger espaços, se torne mãe geradora de processos (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 223).
Que te sucedeu, Europa humanista, paladina dos direitos humanos, da democracia e da liberdade? Que te sucedeu, Europa terra de poetas, filósofos, artistas, músicos, escritores? Que te sucedeu, Europa mãe de povos e nações, mãe de grandes homens e mulheres que souberam defender e dar a vida pela dignidade dos seus irmãos?
O escritor Elie Wiesel, sobrevivente dos campos nazistas de extermínio, dizia que hoje é de importância capital realizar uma «transfusão de memória». É preciso «fazer memória», distanciar-se um pouco do presente para ouvir a voz dos nossos antepassados. A memória permitir-nos-á não só de evitar cometer os mesmos erros do passado (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 108), mas dar-nos-á acesso também às conquistas que ajudaram os nossos povos a ultrapassar com êxito as encruzilhadas históricas que iam encontrando. A transfusão de memória liberta-nos da tendência atual, muitas vezes mais fascinante, de forjar à pressa, sobre areias movediças, resultados imediatos que poderiam produzir «ganhos políticos fáceis, rápidos e efémeros, mas que não constroem a plenitude humana» (ibid., 224).
Para isso, será útil evocar os Pais fundadores da Europa. Eles souberam procurar estradas alternativas, inovadoras num contexto marcado pelas feridas de guerra. Tiveram a audácia não só de sonhar a ideia de Europa, mas ousaram transformar radicalmente os modelos que provocavam apenas violência e destruição. Ousaram procurar soluções multilaterais para os problemas que pouco a pouco se iam tornando comuns.
No ato que muitos reconhecem como o nascimento da primitiva comunidade europeia, disse Robert Schuman: «A Europa não se fará duma só vez, nem através duma construção de conjunto; far-se-á através de realizações concretas que criem, antes de tudo, uma solidariedade de facto».3 Precisamente agora, neste nosso mundo dilacerado e ferido, é preciso voltar àquela solidariedade de facto, à mesma generosidade concreta que se seguiu à II Guerra Mundial, porque «a paz mundial – continuava Schuman – não poderá ser salvaguardada sem esforços criativos à altura dos perigos que a ameaçam».4 Os projetos dos Pais fundadores, arautos da paz e profetas do futuro, não estão superados: inspiram-nos hoje, mais do que nunca, a construir pontes e a derrubar muros. Parecem expressar um premente convite a não contentar-se com retoques cosméticos ou compromissos tortuosos para se corrigir qualquer Tratado, mas a estabelecer corajosamente bases novas, com raízes fortes; como afirmava Alcide De Gasperi, é preciso que nós «todos, igualmente animados pela preocupação do bem comum das nossas pátrias europeias, da nossa Pátria Europa», recomecemos, sem medo, um «trabalho construtivo que requer todos os nossos esforços de paciente e longa cooperação».5
Esta transfusão de memória permite inspirar-nos no passado para enfrentar corajosamente o complexo quadro multipolar dos nossos dias, aceitando com determinação o desafio de «atualizar» a ideia de Europa; uma Europa capaz de dar à luz um novo humanismo baseado sobre três capacidades: a capacidade de integrar, a capacidade de dialogar e a capacidade de gerar.
Capacidade de integrar
Na sua estupenda obra A ideia de Europa, Erich Przywara desafia-nos a pensar a cidade como um lugar de convivência entre vários órgãos e níveis. Estava ciente da tendência reducionista que está presente em cada tentativa de pensar e sonhar o tecido social. A beleza, encontrada em muitas das nossas cidades, deve-se ao facto de serem capazes de conservar ao longo do tempo as diferenças de épocas, nações, estilos, perspetivas. Basta olhar o inestimável património cultural de Roma, para se confirmar uma vez mais que a riqueza e o valor dum povo se radicam precisamente no facto de saber articular todos estes níveis numa sadia convivência. Os reducionismos e todas as tentativas uniformizadoras, longe de gerar valor, condenam os nossos povos a uma pobreza cruel: a da exclusão. E a exclusão, longe de trazer grandeza, riqueza e beleza, provoca vilania, penúria e brutalidade. Longe de proporcionar nobreza ao espírito, fá-lo cair na mesquinhez.
As raízes dos nossos povos, as raízes da Europa foram-se consolidando no decurso da sua história, aprendendo a integrar em sínteses sempre novas as culturas mais diversas e sem aparente ligação entre elas. A identidade europeia é, e sempre foi, uma identidade dinâmica e multicultural.
A atividade política sabe que tem entre mãos este trabalho fundamental e inadiável. Sabemos que «o todo é mais do que a parte, sendo também mais do que a simples soma delas», pelo que será preciso esforçar-se por «alargar sempre o olhar para reconhecer um bem maior que trará benefícios a todos nós» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 235). Somos convidados a promover uma integração que encontra na solidariedade a forma de fazer as coisas, a forma de construir a história; uma solidariedade que nunca se pode confundir com a esmola, mas há de ser entendida como geração de oportunidades para que todos os habitantes das nossas cidades – e de muitas outras cidades – possam desenvolver a sua vida com dignidade. O tempo tem-nos ensinado que não é suficiente a mera inserção geográfica das pessoas; o desafio é uma vigorosa integração cultural.
Assim a comunidade dos povos europeus poderá vencer a tentação de refugiar-se em paradigmas unilaterais e aventurar-se em «colonizações ideológicas»; em vez disso redescobrirá a amplitude da alma europeia, nascida do encontro de civilizações e povos, mais vasta do que as fronteiras atuais da União e chamada a tornar-se modelo de novas sínteses e de diálogo. Com efeito, o que caracteriza o rosto da Europa não é contrapor-se aos outros, mas trazer impressos os traços de várias culturas e a beleza de vencer os confinamentos. Sem esta capacidade de integração, as palavras pronunciadas outrora por Konrad Adenauer ressoarão hoje como profecia de futuro: «O futuro do Ocidente não está ameaçado tanto pela tensão política, como sobretudo pelo perigo da massificação, da uniformidade do pensamento e do sentimento; em resumo, por todo o sistema de vida, pela fuga da responsabilidade, tendo como única preocupação o próprio eu».6
Capacidade de diálogo
Se há uma palavra que devemos repetir, sem nunca nos cansarmos, é esta: diálogo. Somos convidados a promover uma cultura do diálogo, procurando por todos os meios abrir instâncias para o tornar possível e permitir-nos reconstruir o tecido social. A cultura do diálogo implica uma autêntica aprendizagem, uma ascese que nos ajude a reconhecer o outro como um interlocutor válido, que nos permita ver o forasteiro, o migrante, a pessoa que pertence a outra cultura como sujeito a ser ouvido, considerado e apreciado. Hoje é urgente envolvermos todos os atores sociais na promoção duma «cultura que privilegie o diálogo como forma de encontro», fomentando «a busca de consenso e de acordos mas sem a separar da preocupação por uma sociedade justa, capaz de memória e sem exclusões» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 239). A paz será duradoura na medida em que armarmos os nossos filhos com as armas do diálogo, lhes ensinarmos a boa batalha do encontro e da negociação. Desta forma, poderemos deixar-lhes em herança uma cultura que saiba delinear estratégias não de morte mas de vida, não de exclusão mas de integração.
Esta cultura do diálogo, que deveria constar em todos os currículos escolares como eixo transversal das disciplinas, ajudará a incutir nas gerações jovens uma forma de resolver os conflitos diferente daquela a que os temos habituado. Hoje é urgente poder realizar alianças já não apenas militares ou económicas, mas culturais, educacionais, filosóficas, religiosas; alianças que ponham em evidência que frequentemente, por trás de muitos conflitos, está em jogo o poder de grupos económicos; alianças, capazes de defender o povo de ser manipulado para fins impróprios. Armemos o nosso povo com a cultura do diálogo e do encontro.
Capacidade de gerar
O diálogo, com tudo o que implica, lembra-nos que ninguém se pode limitar a ser espetador, nem mero observador. Todos, desde o menor ao maior, são parte ativa na construção duma sociedade integrada e reconciliada. Esta cultura é possível, se todos participarmos na sua elaboração e construção. A situação atual não admite meros observadores de lutas alheias; pelo contrário, é um forte apelo à responsabilidade pessoal e social.
Neste sentido, têm um papel preponderante os nossos jovens. Estes não são apenas o futuro dos nossos povos, mas o presente; são aqueles que já hoje estão a forjar, com os seus sonhos, com a sua vida, o espírito europeu. Não podemos pensar no amanhã, sem lhes proporcionar uma participação real como operadores de mudança e transformação. Não podemos imaginar a Europa sem os tornar participantes e protagonistas deste sonho.
Refletindo recentemente sobre este aspeto, interrogava-me: Como podemos fazer os nossos jovens participantes desta construção, quando os privamos de emprego, de trabalhos dignos que lhes permitam desenvolver-se com as suas mãos, a sua inteligência e as suas energias? Como pretendemos reconhecer-lhes o valor de protagonistas, quando não param de crescer as taxas de desemprego e subemprego de milhões de jovens europeus? Como evitar a perda dos nossos jovens, que acabam por sair para outros lugares à procura de ideais e sentido de pertença, porque aqui, na sua terra, não lhes sabemos oferecer oportunidades nem valores?
«A justa distribuição dos frutos da terra e do trabalho humano não é mera filantropia. É um dever moral».7 Se queremos imaginar diferentes as nossas sociedades, precisamos de criar postos de trabalho digno e bem remunerado, especialmente para os nossos jovens.
Isto requer a busca de novos modelos económicos, mais inclusivos e equitativos, orientados não para o serviço de poucos, mas para benefício do povo e da sociedade. Isto pede-nos a passagem duma economia líquida a uma economia social. Penso, por exemplo, na economia social de mercado, encorajada pelos meus Predecessores.8 Passar duma economia que tenha em vista o rendimento e o lucro com base na especulação e empréstimo com juros, para uma economia social que invista nas pessoas criando postos de trabalho e qualificação.
Devemos passar duma economia líquida, que tende a favorecer a corrupção como meio para obter lucro, a uma economia social que garanta o acesso à terra, à casa, por meio do trabalho como âmbito onde as pessoas e as comunidades possam fazer valer as suas «muitas dimensões da vida: a criatividade, a projetação do futuro, o desenvolvimento das capacidades, a exercitação dos valores, a comunicação com os outros, uma atitude de adoração. Por isso, a realidade social do mundo atual exige que, acima dos limitados interesses das empresas e duma discutível racionalidade económica, “se continue a perseguir como prioritário o objetivo do acesso ao trabalho para todos”9» (Enc. Laudato si’, 127).
Se queremos apontar para um futuro que seja digno, se queremos um futuro de paz para as nossas sociedades, só o poderemos alcançar apostando na verdadeira inclusão: «a inclusão que dá o trabalho digno, livre, criativo, participativo e solidário».10 Esta passagem (duma economia líquida a uma economia social) não só criará novas perspetivas e concretas oportunidades de integração e inclusão, mas dar-nos-á novamente a capacidade de sonhar aquele humanismo, cujo berço e fonte é a Europa.
Para o renascimento duma Europa cansada mas ainda rica de energias e potencialidades, pode e deve contribuir a Igreja. A sua tarefa coincide com a sua missão: o anúncio do Evangelho, que hoje, mais do que nunca, se traduz sobretudo em sair ao encontro das feridas do homem, levando a presença forte e simples de Jesus, a sua misericórdia consoladora e encorajante. Deus quer habitar entre os homens, mas só o pode fazer através de homens e mulheres que, como os grandes evangelizadores do Continente, sejam tocados por Ele e vivam o Evangelho sem outras ambições. Só uma Igreja rica de testemunhas poderá de novo dar a água pura do Evangelho às raízes da Europa. A propósito, o caminho dos cristãos rumo à plena unidade é um grande sinal dos tempos, ditado pela exigência de responder urgentemente ao apelo do Senhor «para que todos sejam um só» (Jo 17, 21).
Com a mente e o coração, com esperança e sem vãs nostalgias, como um filho que reencontra na mãe Europa as suas raízes de vida e de fé, sonho um novo humanismo europeu, «um caminho constante de humanização», ao qual servem «memória, coragem e utopia sadia e humana».11 Sonho uma Europa jovem, capaz de ainda ser mãe: uma mãe que tenha vida, porque respeita a vida e dá esperanças de vida. Sonho uma Europa que cuida da criança, que socorre como um irmão o pobre e quem chega à procura de acolhimento porque já não tem nada e pede abrigo. Sonho uma Europa que escuta e valoriza as pessoas doentes e idosas, para que não sejam reduzidas a objetos de descarte porque improdutivas. Sonho uma Europa, onde ser migrante não seja delito, mas apelo a um maior compromisso com a dignidade de todos os seres humanos. Sonho uma Europa onde os jovens respirem o ar puro da honestidade, amem a beleza da cultura e duma vida simples, não poluída pelas solicitações sem fim do consumismo; onde casar e ter filhos sejam uma responsabilidade e uma alegria grande, não um problema criado pela falta de trabalho suficientemente estável. Sonho uma Europa das famílias, com políticas realmente eficazes, centradas mais nos rostos do que nos números, mais no nascimento dos filhos do que no aumento dos bens. Sonho uma Europa que promova e tutele os direitos de cada um, sem esquecer os deveres para com todos. Sonho uma Europa da qual não se possa dizer que o seu compromisso em prol dos direitos humanos constituiu a sua última utopia. Obrigado.
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1 Francisco, Discurso ao Parlamento Europeu (Estrasburgo, 25 de novembro de 2014).
2 Ibidem.
3 Declaração de 9 de maio de 1950 (Salon de l’Horologe, Quai d’Orsay, Paris).
4 Ibidem.
5 Discurso à Conferência Parlamentar Europeia (Paris, 21 de abril de 1954).
6 Discurso à Assembleia dos Artesãos Alemães (Dusseldórfia, 27 de abril de 1952).
7 Francisco, Discurso aos Movimentos Populares (Bolívia – Santa Cruz da Serra, 9 de julho de 2015).
8 Cf. João Paulo II, Discurso ao Embaixador da República Federal Alemã, 8 de novembro de 1990.
9 Bento XVI, Carta enc. Caritas in veritate (29 de junho de 2009), 32.
10 Francisco, Discurso aos Movimentos Populares (Bolívia - Santa Cruz da Serra, 9 de julho de 2015)
11 Francisco, Discurso ao Conselho da Europa (Estrasburgo, 25 de novembro de 2014).
[00735-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Szanowni Panie i Panowie,
Witam was serdeczne i dziękuję za waszą obecność. Jestem szczególnie wdzięczny panom Marcelowi Philippowi, Jürgenowi Lindenowi, Martinowi Schulzowi, Jean-Claude Junckerowi i Donaldowi Tuskowi za ich uprzejme słowa. Pragnę podkreślić moją intencję dedykowania prestiżowej Nagrody, którą zostaję zaszczycony, Europie. Nie celebrujemy bowiem uroczystego gestu. Wykorzystujemy raczej okazję, aby wspólnie wyrazić życzenie nowego i odważnego impulsu dla tego umiłowanego kontynentu.
Kreatywność, geniusz, zdolność do powstania i wyjścia poza własne ograniczenia należą do duszy Europy. W ubiegłym wieku zaświadczyła ona ludzkości, że możliwy był nowy początek: po latach tragicznych konfliktów, których kulminacją była najstraszliwsza wojna, jaką pamiętamy, dzięki Bożej łasce zrodziła się bezprecedensowa nowość w historii. Popioły ruin nie były w stanie zagasić nadziei i poszukiwania drugiej osoby, które zapłonęły w sercach ojców założycieli projektu europejskiego. Położyli oni podwaliny bastionu pokoju, budowli postawionej przez państwa, które nie zjednoczyły się pod przymusem, ale ze względu na wolny wybór dobra wspólnego, wyrzekając się konfrontacji na zawsze. Europa, po wielu podziałach, w końcu odnalazła samą siebie i zaczęła budować swój dom.
Ta „rodzina narodów”1, w międzyczasie stając się chwalebnie większą, w ostatnich czasach zdaje się mniej odczuwać swoje mury wspólnego domu, niekiedy wznoszone w oddaleniu od światłego projektu opracowanego przez ojców założycieli. Owa atmosfera nowości, to żarliwe pragnienie budowania jedności zdają się coraz bardziej przygasłe. My, dzieci tego marzenia jesteśmy kuszeni, aby ulec naszemu egoizmowi, patrząc na swoje zyski i myśląc o budowaniu specjalnych ogrodzeń. Jestem jednak przekonany, że rezygnacja i zmęczenie nie należą do duszy Europy i że „trudności mogą stać się silnymi katalizatorami jedności”2.
W Parlamencie Europejskim pozwoliłem sobie mówić o Europie-babci. Powiedziałem eurodeputowanym, że z wielu stron narastało ogóle wrażenie Europy zmęczonej i zestarzałej, która nie jest już płodna i nie tętni życiem, gdzie wielkie ideały, które inspirowały Europę, straciły siłę przyciągania; Europy podupadłej, która zdaje się utraciła swoją zdolność generowania i kreatywności. Europy kuszonej, by raczej chcieć zapewnić przestrzenie i panować nad przestrzeniami, niż generować procesy integracji i przekształcenia; Europy, która się „okopuje”, zamiast dawać pierwszeństwo działaniom promującym nową dynamikę w społeczeństwie; dynamizmy zdolne by angażować i poruszyć wszystkich uczestników życia społecznego (grupy i osoby) w poszukiwaniu nowych rozwiązań aktualnych problemów, przynoszących owoce w postaci ważnych wydarzeń historycznych; Europy która nie będzie chroniła przestrzeni, a stanie się matką generującą procesy (por. Adhort. apost. Evangelii gaudium, 223).
Cóż ci się stało, Europo humanistyczna, obrończyni praw człowieka, demokracji i wolności? Cóż ci się stało, Europo, ojczyzno poetów, filozofów, artystów, muzyków, pisarzy? Cóż ci się stało, Europo, matko ludów i narodów, matko wspaniałych mężczyzn i kobiet, którzy potrafili bronić i dawać swoje życie za godność swoich braci?
Ocalały z hitlerowskich obozów zagłady pisarz Elie Wiesel, powiedział, że dziś kapitalne znaczenie ma dokonanie „transfuzji pamięci”. Trzeba „upamiętnić”, nabrać nieco dystansu do chwili obecnej, aby usłyszeć głos naszych przodków. Pamięć nie tylko pozwoli nam nie powtarzać tych samych błędów z przeszłości (por. Adhort. apost. Evangelii gaudium, 108), ale da nam dostęp do tych osiągnięć, które pomogły naszym narodom na pozytywne przejście przez napotkane historyczne momenty węzłowe. Transfuzja pamięci uwalnia nas od tej aktualnej skłonności, często znacznie bardziej pociągającej, aby pospiesznie wytwarzać na ruchomych piaskach doraźne rezultaty, które mogłyby przynieść „łatwy polityczny zysk – szybki i ulotny – ale nie budujący pełni człowieczeństwa” (tamże, 224).
Warto w tym celu przywołać ojców założycieli Europy. Umieli oni poszukiwać dróg alternatywnych, innowacyjnych w sytuacji naznaczonej ranami wojny. Mieli odwagę nie tylko, by marzyć o idei Europy, ale ośmielili się radykalnie przekształcić wzorce, które powodowały jedynie przemoc i zniszczenie. Odważyli się poszukiwać wielostronnych rozwiązań problemów, które stopniowo stawały się wspólne.
Robert Schuman, w tym co wielu uznaje za akt narodzin pierwszej wspólnoty europejskiej, powiedział: „Europa nie powstanie od razu ani w całości: będzie powstawała przez konkretne realizacje, tworząc najpierw rzeczywistą solidarność”3. Właśnie teraz, w naszym świecie rozdartym i poranionym musimy powrócić do tej faktycznej solidarności, do tej samej konkretnej hojności, która miała miejsce po II wojnie światowej, ponieważ – jak kontynuował Schuman – „pokój na świecie nie mógłby być zachowany bez twórczych wysiłków na miarę grożących mu niebezpieczeństw”4. Projekty ojców założycieli, zwiastunów pokoju i proroków przyszłości, nie straciły na aktualności: dzisiaj bardziej niż kiedykolwiek inspirują do budowania mostów i burzenia murów. Zdają się wyrażać stanowczą zachętę, by nie zadowalać się zmianami kosmetycznymi lub pokrętnymi kompromisami, żeby skorygować pewne traktaty, ale odważnie położyć nowe, mocno zakorzenione fundamenty. Jak twierdził Alcide De Gasperi, „wszyscy jednakowo ożywieni troską o wspólne dobro naszych europejskich ojczyzn, naszej Ojczyzny Europy”, rozpoczynając bez obawy „konstruktywną pracę, która wymaga wszystkich naszych wysiłków cierpliwej i długiej współpracy”5.
Ta transfuzja pamięci pozwala nam zainspirować się przeszłością, aby odważnie stawić czoło złożonemu wielobiegunowemu obrazowi naszych czasów, z determinacją akceptując wyzwanie „aktualizacji” idei Europy. Europy zdolnej do zrodzenia nowego humanizmu opartego na trzech umiejętnościach: zdolności do integracji, zdolności do dialogu i zdolności do rodzenia.
Zdolność integracji
Erich Przywara, w swojej wspaniałej pracy Idea Europy, wzywa nas do myślenia o mieście jako miejscu współistnienia różnych organów i poziomów. Znał on ową tendencję redukcjonistyczną, zawartą w każdej próbie myślenia i marzenia o tkance społecznej. Piękno zakorzenione w wielu naszych miastach zawdzięczamy temu, że udało się im zachować specyficzne różnice epok, narodów, stylów, wizji. Wystarczy spojrzeć na bezcenne dziedzictwo kulturowe Rzymu, aby potwierdzić raz jeszcze, że bogactwo i wartość narodu jest zakorzeniona właśnie w umiejętności wyrażenia wszystkich tych poziomów w zdrowej koegzystencji. Redukcjonizmy i wszystkie zamiary uniformizacji, nie rodząc wcale wartości, skazują nasze narody na okrutne ubóstwo: ubóstwo wykluczenia. Nie wnosi ono wcale wielkości, bogactwa i piękna, powodując nikczemność, ciasnotę i brutalność. Zamiast nadawać duchowi szlachetność, narzuca mu miernotę.
Korzenie naszych narodów, korzenie Europy zostały skonsolidowane w trakcie jej historii, ucząc się włączania w nieustannie nowych syntezach najróżniejszych kultur, nie mających między sobą wyraźnego powiązania. Tożsamość europejska jest i zawsze była tożsamością dynamiczną i wielokulturową.
Działalność polityczna wie, że ma w ręku tę fundamentalną pracę, której nie da się odroczyć. Wiemy, że „całość jest czymś więcej niż część i czymś więcej niż ich prosta suma”, i dlatego trzeba nieustannie pracować, aby „poszerzać spojrzenie, by rozpoznać większe dobro, przynoszące korzyści wszystkim” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 235). Jesteśmy zachęceni do promowania takiej integracji, która znajduje w solidarności sposób, w jaki należy czynić rzeczy, sposób budowania historii. Solidarności, której nigdy nie wolno mylić z jałmużną, ale pojmowanej jako rodzenie szans, aby wszyscy mieszkańcy naszych miast – a także wielu innych miast – mogli rozwijać swoje życie z godnością. Czas uczy nas, że nie wystarczy tylko integracja geograficzna ludzi, ale wyzwaniem jest silna integracja kulturowa.
W ten sposób wspólnota narodów europejskich będzie mogła przezwyciężyć pokusę oparcia się na paradygmatach jednostronnych, wystawiając się na zagrożenie „kolonizacji ideologicznych”. Odkryje raczej szerokość duszy europejskiej, zrodzonej ze spotkania cywilizacji i narodów, obszerniejszej od dotychczasowych granic Unii i wezwanej, by stać się wzorcem nowej syntezy i dialogu. Oblicze Europy nie wyróżnia się w istocie poprzez przeciwstawienie się innym, ale przez niesienie wypisanych w sobie cech różnych kultur i piękna przezwyciężenia zamknięć. Bez tej zdolności do integracji, słowa wypowiedziane w przeszłości przez Konrada Adenauera rozbrzmiewają dziś jako proroctwo przyszłości: „przyszłość Zachodu jest nie tyle zagrożona przez napięcia polityczne, ile przez zagrożenie umasowienia, jednolitości myśli i uczuć; krótko mówiąc, całego systemu życia, ucieczki od odpowiedzialności, troszcząc się jedynie o samego siebie”6.
Zdolność do dialogu
Jeśli jest jakieś słowo, które powinniśmy niestrudzenie powtarzać to jest to dialog. Jesteśmy zaproszeni do krzewienia kultury dialogu, starając się za pomocą wszelkich środków otworzyć procesy, by stało się to możliwe i pozwalało nam na odbudowę tkanki społecznej. Kultura dialogu zakłada autentyczne uczenie się, ascezę, pomagającą nam rozpoznać drugą osobą jako ważnego interlokutora; która pozwala nam spojrzeć na przybysza, migranta, osobę przynależącą do innej kultury jako podmiot, który trzeba wysłuchać, uznać i docenić. Pilnym zadaniem jest dla nas dzisiaj zaangażowanie wszystkich podmiotów społecznych w promowaniu „kultury, która daje pierwszeństwo dialogowi jako formie spotkania”, prowadząc „poszukiwanie zgody i wspólnych ustaleń, jednak nie w oderwaniu od troski o społeczeństwo sprawiedliwe, zdolne do pamięci i nikogo nie wykluczające” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 239). Pokój będzie trwały o tyle, o ile uzbroimy nasze dzieci bronią dialogu, nauczymy je dobrej walki spotkania i negocjacji. W ten sposób będziemy mogli pozostawić im w spadku taką kulturę, która będzie umiała nakreślić nie strategie śmierci, lecz życia, nie wyłączenia, lecz integracji.
Ta kultura dialogu, która powinna być włączona we wszystkie programy szkolne jako oś przenikająca poszczególne dyscypliny, pomoże zaszczepić w młodym pokoleniu taki sposób rozwiązywania konfliktów, który jest różny od tego, do jakiego jesteśmy przyzwyczajeni. Obecnie istnieje pilna potrzeba tworzenia „koalicji” nie tylko wojskowych i gospodarczych, ale także kulturalnych, edukacyjnych, filozoficznych, religijnych. Koalicji, które podkreślają, że za wieloma konfliktami, często chodzi o władzę grup ekonomicznych. Koalicji zdolnych do obrony narodu wykorzystywania go do niewłaściwych celów. Uzbrójmy naszych ludzi w kulturę dialogu i spotkania.
Zdolność generowania
Dialog i to wszystko, co on za sobą pociąga, przypomina nam, że nikt nie może ograniczać się do bycia widzem czy tylko obserwatorem. Wszyscy, od najmniejszych do największych, mają aktywny udział w budowie społeczeństwa zintegrowanego i pojednanego. Ta kultura jest możliwa, jeśli wszyscy będziemy uczestniczyli w jej wypracowywaniu i budowie. Obecna sytuacja nie pozwala na to, by być zwykłymi obserwatorami cudzych zmagań. Wręcz przeciwnie, jest ona mocnym wezwaniem do odpowiedzialności osobistej i społecznej.
W tym sensie, nasi młodzi mają dominującą rolę. Nie są oni przyszłością naszych narodów, ale jej chwilą obecną. Już swoimi marzeniami i życiem kształtują europejskiego ducha. Nie możemy myśleć o jutrze, nie oferując im prawdziwego udziału jako sprawców zmian i przekształceń. Nie możemy wyobrazić sobie Europy nie czyniąc ich uczestnikami i protagonistami tego marzenia.
Ostatnio myślałem o tym aspekcie i zadałem sobie pytanie: w jaki sposób możemy uczynić naszą młodzież uczestnikami tej budowy, kiedy pozbawiamy ich pracy; godnej pracy pozwalającej im rozwijać się własnymi rękoma, swoją inteligencją i energią? Jak chcemy uznać ich wartość jako protagonistów, gdy wzrastają wskaźniki bezrobocia oraz bezrobocia utajnionego milionów młodych Europejczyków? Jak zapobiec utracie naszych młodych, którzy w końcu wyjeżdżają gdzie indziej w poszukiwaniu ideałów i poczucia przynależności, bo tutaj, na ich ziemi, nie potrafimy zaoferować im szans i wartości?
Sprawiedliwy podział owoców ziemi i ludzkiej pracy nie jest zwykłą filantropią. Jest obowiązkiem moralnym7. Jeśli chcemy myśleć o naszym społeczeństwie w inny sposób, to musimy stworzyć miejsca godnej i dobrze wynagradzanej pracy, szczególnie dla naszej młodzieży.
Wymaga to poszukiwania nowych modeli ekonomicznych, bardziej włączających i sprawiedliwych, nie nastawionych na służenie nielicznym, ale z korzyścią dla ludzi i społeczeństwa. A to wymaga od nas przejścia od gospodarki pieniężnej do ekonomii społecznej. Myślę na przykład o społecznej gospodarce rynkowej, do której zachęcali także moi poprzednicy (por. Jan Paweł II, Przemówienie do ambasadora Republiki Federalnej Niemiec, 8 listopada 1990 r.). Przejścia od gospodarki, która dąży do dochodu i zysku na podstawie spekulacji i pożyczek na procent, do gospodarki społecznej, która inwestuje w ludzi, tworząc miejsca pracy i kwalifikacji.
Musimy przejść od gospodarki pieniężnej, która sprzyja korupcji jako środkowi osiągnięcia korzyści, do ekonomii społecznej, która zapewnia dostęp do ziemi, do dachu za pomocą pracy jako dziedziny, w której osoby i wspólnoty mogą wprowadzić do gry „wiele wymiarów życia: kreatywność, prognozowanie przyszłości, rozwój umiejętności, realizacja wartości, komunikacja z innymi, postawa uwielbienia Boga. Z tego względu globalne realia społeczne współczesnego świata, poza wąskimi interesami biznesu i wątpliwą racjonalnością ekonomiczną, wymagają, aby «dążono do osiągnięcia – uznanego za priorytetowy – celu, jakim jest dostęp wszystkich do pracy»8” (Enc. Laudato si’,127).
Jeśli chcemy dążyć do przyszłości, która byłaby godna, jeśli chcemy pokojowej przyszłości dla naszych społeczeństw, możemy to osiągnąć tylko poprzez dążenie do realnej integracji, tej, „która daje pracę godną, wolną, twórczą, partycypacyjną i solidarną”9. To przejście (od gospodarki pieniężnej do ekonomii społecznej) nie tylko da nowe perspektywy i konkretne szanse integracji i włączenia, ale ponownie otworzy nam zdolność marzenia o tym humanizmie, którego Europa jest kolebką i źródłem.
Do odrodzenia Europy zmęczonej, ale wciąż pełnej energii i potencjału, może i musi wnieść swój wkład Kościół. To jego zadanie zbiega się z jego misją: głoszenia Ewangelii, która dziś bardziej niż kiedykolwiek przekłada się przede wszystkim na wychodzenie na spotkanie ran człowieka, niosąc silną i prostą obecność Jezusa, Jego pocieszającego i dodającego otuchy miłosierdzia. Bóg pragnie przebywać między ludźmi, ale może to uczynić jedynie poprzez mężczyzn i kobiety, którzy, podobnie jak wielcy ewangelizatorzy kontynentu, zostali przez Niego dotknięci i żyją Ewangelią, nie szukając niczego innego. Tylko Kościół bogaty w świadków może dać czystą wodę Ewangelii korzeniom Europy. W tej dziedzinie podążanie chrześcijan ku pełnej jedności jest wielkim znakiem czasów, ale także pilną potrzebą, by odpowiedzieć na wezwanie Pana „aby wszyscy stanowili jedno” (J 17, 21).
Sercem i umysłem, z nadzieją i bez niepotrzebnych nostalgii, jako syn, który znajduje w matce Europie swoje korzenie życia i wiary, marzę o nowym humanizmie europejskim, „nieustannym procesie humanizacji”, potrzebującym „pamięci, odwagi, zdrowej i ludzkiej utopii”10 Marzę o Europie młodej, zdolnej by być jeszcze matką: matką, która miałaby życie, ponieważ szanuje życie i daje długie życie. Marzę o Europie, która troszczy się o dziecko, pomaga jak brat ubogiemu i tym, którzy przybywają w poszukiwaniu gościnności, bo nic nie mają i proszą o schronienie. Marzę o Europie, która wysłuchuje i docenia osoby chore i starsze, aby nie sprowadzano ich do bezproduktywnych przedmiotów odrzucenia. Marzą o Europie, gdzie bycie imigrantem nie byłoby przestępstwem, ale zaproszeniem do większego zaangażowania na rzecz godności wszystkich istot ludzkich. Marzę o Europie, gdzie ludzie młodzi oddychaliby czystym powietrzem uczciwości, kochali piękno kultury i prostego życia, nie zanieczyszczonego przez niekończące się potrzeby konsumpcjonizmu; gdzie zawarcie małżeństwa i posiadanie dzieci jest wielką odpowiedzialnością i radością, a nie problemem spowodowanym brakiem dostatecznie stabilnej pracy. Marzę o Europie rodzin, z bardzo skutecznymi politykami, bardziej skoncentrowanymi na twarzach, niż na liczbach, bardziej na narodzinach dzieci niż na narastaniu dóbr. Marzę o Europie, która promuje i chroni prawa wszystkich, nie zapominając o obowiązkach wobec wszystkich. Marzę o Europie, o której nie można powiedzieć, że jej zaangażowanie na rzecz praw człowieka było jej ostatnią utopią. Dziękuję.
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1 Przemówienie w Parlamencie Europejskim, Strasburg, 25 listopada 2014. L’Osservatore Romano, wyd. polskie, 12 (368)/2014, s. 19.
2Tamże
3 Deklaracja Schumana – 9 maja 1950 r.
4 Tamże.
5 Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Paryż, 21 kwietnia 1954.
6 Discorso all'Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 kwietnia 1952.
7 Przemówienie do przedstawicieli ruchów ludowych, Santa Cruz de la Sierra, 9 lipca 2015, L’Osservatore Romano, wyd. polskie, 9 (375)/2015, s. 15.
8 BENEDYKT XVI, Enc. Caritas in veritatae (29 czerwca 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Przemówienie do przedstawicieli ruchów ludowych, Santa Cruz de la Sierra, 9 lipca 2015: L’Osservatore Romano, wyd. polskie, 9 (375)/2015, s. 18.
10 Przemówienie w Radzie Europy, Strasburg, 25 listopada 2014: L’Osservatore Romano, wyd. polskie, 12 (368)/2014, s. 15.
[00735-PL.02] [Testo originale: Italiano]
[B0319-XX.02]