In occasione della 36.ma edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, che si apre domani a Rimini sul tema «Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?» (ispirato a un verso del poeta Mario Luzi), il Santo Padre Francesco ha inviato al Vescovo Mons. Lambiasi, tramite il Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, il Messaggio che riportiamo di seguito:
Messaggio del Cardinale Segretario di Stato
Dal Vaticano, 17 agosto 2015
A Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. FRANCESCO LAMBIASI
Vescovo di Rimini
Eccellenza Reverendissima,
a nome del Santo Padre Francesco e mio personale, rivolgo un cordiale saluto a Lei, agli organizzatori e ai partecipanti al XXXVI Meeting per l’amicizia fra i popoli.
La suggestiva e poetica espressione scelta come tema di quest’anno – “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?” (Mario Luzi) − pone l’accento sul “cuore” che è in ciascuno di noi, e che sant’Agostino ha descritto come “cuore inquieto”, che mai si accontenta e ricerca qualcosa all’altezza della sua attesa. È una ricerca che si esprime in domande sul significato della vita e della morte, sull’amore, sul lavoro, sulla giustizia e sulla felicità.
Ma per essere degni di trovare una risposta occorre considerare in modo serio la propria umanità, coltivando sempre questa sana inquietudine. In tale impegno – ci dice Papa Francesco – «è possibile ricorrere semplicemente a qualche esperienza umana frequente, come la gioia di un nuovo incontro, le delusioni, la paura della solitudine, la compassione per il dolore altrui, l’insicurezza davanti al futuro, la preoccupazione per una persona cara» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 155).
Qui vediamo emergere una delle grandi questioni del mondo di oggi: davanti a tante risposte parziali, che offrono solo dei «falsi infiniti» (Benedetto XVI) e che producono una strana anestesia, come dare voce agli interrogativi che tutti si portano dentro? Di fronte al torpore della vita, come risvegliare la coscienza? Per la Chiesa si apre una strada affascinante, come fu all’inizio del cristianesimo, quando gli uomini si affannavano nella vita senza il coraggio, la forza o la serietà di esprimere le domande decisive. E, come accadde a san Paolo all’Areopago, parlare di Dio a chi ha ridotto, censurato o dimenticato i suoi “perché?”, risulta una stranezza che sembra lontana dalla vita reale con i suoi drammi e le sue prove.
Perciò nessuno di noi può iniziare un dialogo su Dio, se non riusciamo ad alimentare il lumino fumigante che arde nel cuore, senza accusare nessuno per i suoi limiti – che sono anche i nostri – e senza pretendere, ma accogliendo e ascoltando chiunque. Il compito dei cristiani – come ama ripetere Papa Francesco – è iniziare processi più che occupare spazi (cfr ibid., 222). E il primo passo è proprio ridestare il senso di quella mancanza di cui il cuore è pieno e che così frequentemente giace sotto il peso di fatiche e speranze deluse. Ma “il cuore” c’è, ed è sempre in ricerca.
Il dramma di oggi consiste nel pericolo incombente della negazione dell’identità e della dignità della persona umana. Una preoccupante colonizzazione ideologica riduce la percezione dei bisogni autentici del cuore per offrire risposte limitate che non considerano l’ampiezza della ricerca di amore, verità, bellezza, giustizia che è in ciascuno. Tutti siamo figli di questo tempo e subiamo l’influsso di una mentalità che offre nuovi valori e opportunità, ma può anche condizionare, limitare e guastare il cuore con proposte alienanti che spengono la sete di Dio.
Ma il cuore non si accontenta, perché, come disse Papa Benedetto XVI parlando ai giovani a San Marino, «è una finestra aperta sull’infinito» (19 giugno 2011). Perché dobbiamo soffrire e alla fine morire? Perché c’è il male e la contraddizione? Vale la pena vivere? Si può sperare ancora davanti a una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” e con tanti fratelli perseguitati e uccisi a motivo della loro fede? Ha ancora senso amare, lavorare, fare sacrifici e impegnarsi? Dove va a finire la mia vita e quella delle persone che non vorremmo perdere mai? Che cosa stiamo a fare nel mondo?... Sono domande che si pongono tutti, giovani e adulti, credenti e non credenti. Prima o poi, almeno una volta nella vita, a causa di una prova o di un evento gioioso, riflettendo sul futuro dei propri figli o sull’utilità del proprio lavoro, ciascuno si trova a fare i conti con uno o più di questi interrogativi. Anche il negatore più incallito non riesce a estirparli del tutto dalla propria esistenza.
La vita non è un desiderio assurdo, la mancanza non è il segno che siamo nati “sbagliati”, ma al contrario è il campanello che ci avverte che la nostra natura è fatta per cose grandi. Come ha scritto il servo di Dio monsignor Giussani, «le esigenze umane costituiscono riferimento, affermazione implicita di una risposta ultima che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili. Se venisse eliminata l’ipotesi di un “oltre”, quelle esigenze sarebbero innaturalmente soffocate» (Il senso religioso, Milano 1997, 157). Il mito di Ulisse ci parla del nostos algos, la nostalgia che può trovare soddisfazione solo in una realtà infinita.
Per questo Dio, il Mistero infinito, si è curvato sul nostro niente assetato di Lui e ha offerto la risposta che tutti attendono anche senza rendersene conto, mentre la cercano nel successo, nel denaro, nel potere, nelle droghe di qualunque tipo, nell’affermazione dei propri desideri momentanei. Solo l’iniziativa di Dio creatore poteva colmare la misura del cuore; ed Egli ci è venuto incontro per lasciarsi trovare da noi come si trova un amico. E così noi possiamo riposare anche in un mare in tempesta, perché certi della sua presenza. Ha detto Papa Francesco: «Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. […] Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio» (La Civiltà Cattolica, 19 settembre 2013, 470).
Con il tema di quest’anno, il Meeting può cooperare a un compito essenziale della Chiesa, cioè «non consentire che qualcuno si accontenti di poco, ma che possa dire pienamente: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 160), perché quello di Gesù «è l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano» (ibid., 165). Gesù «è venuto a mostrarci, a rendere visibile l’amore che Dio ha per noi. […] Un amore attivo, reale. […] Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura. Un amore che si avvicina e restituisce dignità. Una dignità che possiamo perdere in molti modi e forme. Ma Gesù è ostinato in questo: ha dato la vita per questo, per restituirci l’identità perduta» (Papa Francesco, Discorso nel Centro di rieducazione a Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, 10 luglio 2015). Qui sta il contributo che la fede cristiana offre a tutti e che il Meeting può testimoniare innanzitutto con la vita delle persone che lo realizzano.
Per questo il Santo Padre augura agli organizzatori e ai volontari del Meeting di andare incontro a tutti sostenuti dal desiderio di proporre con forza, bellezza e semplicità la buona notizia dell’amore di Dio, che anche oggi si china sulla nostra mancanza per riempirla dell’acqua di vita che scaturisce da Gesù risorto. Egli chiede di pregare per il Suo ministero e invia di cuore a Lei, Eccellenza, e a tutti i partecipanti al Meeting la Benedizione Apostolica.
Nell’unire anche i miei migliori auspici, profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio.
Pietro Card. Parolin
Segretario di Stato
[01349-IT.01] [Testo originale: Italiano]
[B0619-XX.01]