Omelia del Santo Padre
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Alle ore 10.30 di oggi, XXIX domenica del Tempo Ordinario, in Piazza San Pietro, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa in occasione della chiusura della III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione con il rito della Beatificazione del Servo di Dio Papa Paolo VI (1897-1978).
Hanno concelebrato con il Santo Padre i Cardinali, i Patriarchi, gli Arcivescovi, i Vescovi e i Presbiteri membri del Sinodo, come pure il Papa emerito Benedetto XVI.
Dopo il rito della Beatificazione e la proclamazione del Vangelo, il Papa ha tenuto l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
Abbiamo appena ascoltato una delle frasi più celebri di tutto il Vangelo: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).
Alla provocazione dei farisei che, per così dire, volevano fargli l’esame di religione e condurlo in errore, Gesù risponde con questa frase ironica e geniale. È una risposta ad effetto che il Signore consegna a tutti coloro che si pongono problemi di coscienza, soprattutto quando entrano in gioco le loro convenienze, le loro ricchezze, il loro prestigio, il loro potere e la loro fama. E questo succede in ogni tempo, da sempre.
L’accento di Gesù ricade certamente sulla seconda parte della frase: «E (rendete) a Dio quello che è di Dio». Questo significa riconoscere e professare - di fronte a qualunque tipo di potere - che Dio solo è il Signore dell'uomo, e non c’è alcun altro. Questa è la novità perenne da riscoprire ogni giorno, vincendo il timore che spesso proviamo di fronte alle sorprese di Dio.
Lui non ha paura delle novità! Per questo, continuamente ci sorprende, aprendoci e conducendoci a vie impensate. Lui ci rinnova, cioè ci fa "nuovi" continuamente. Un cristiano che vive il Vangelo è "la novità di Dio" nella Chiesa e nel Mondo. E Dio ama tanto questa "novità"! «Dare a Dio quello che è di Dio», significa aprirsi alla Sua volontà e dedicare a Lui la nostra vita e cooperare al suo Regno di misericordia, di amore e di pace.
Qui sta la nostra vera forza, il fermento che la fa lievitare e il sale che dà sapore ad ogni sforzo umano contro il pessimismo prevalente che ci propone il mondo. Qui sta la nostra speranza perché la speranza in Dio non è quindi una fuga dalla realtà, non è un alibi: è restituire operosamente a Dio quello che Gli appartiene. È per questo che il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere pienamente la vita - con i piedi ben piantati sulla terra - e rispondere, con coraggio, alle innumerevoli sfide nuove.
Lo abbiamo visto in questi giorni durante il Sinodo straordinario dei Vescovi – "Sinodo" significa «camminare insieme». E infatti, pastori e laici di ogni parte del mondo hanno portato qui a Roma la voce delle loro Chiese particolari per aiutare le famiglie di oggi a camminare sulla via del Vangelo, con lo sguardo fisso su Gesù. È stata una grande esperienza nella quale abbiamo vissuto la sinodalità e la collegialità, e abbiamo sentito la forza dello Spirito Santo che guida e rinnova sempre la Chiesa chiamata, senza indugio, a prendersi cura delle ferite che sanguinano e a riaccendere la speranza per tanta gente senza speranza.
Per il dono di questo Sinodo e per lo spirito costruttivo offerto da tutti, con l’Apostolo Paolo: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere» (1Ts 1,2). E lo Spirito Santo che in questi giorni operosi ci ha donato di lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività, accompagni ancora il cammino che, nelle Chiese di tutta la terra, ci prepara al Sinodo Ordinario dei Vescovi del prossimo ottobre 2015. Abbiamo seminato e continueremo a seminare con pazienza e perseveranza, nella certezza che è il Signore a far crescere quanto abbiamo seminato (cfr 1Cor 3,6).
In questo giorno della beatificazione di Papa Paolo VI mi ritornano alla mente le sue parole, con le quali istituiva il Sinodo dei Vescovi: «scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi ... alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società» (Lett. ap. Motu proprio Apostolica sollicitudo).
Nei confronti di questo grande Papa, di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio oggi non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie! Grazie nostro caro e amato Papa Paolo VI! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa!
Nelle sue annotazioni personali, il grande timoniere del Concilio, all’indomani della chiusura dell’Assise conciliare, scrisse: «Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, pp. 120-121). In questa umiltà risplende la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante - e talvolta in solitudine - il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore.
Paolo VI ha saputo davvero dare a Dio quello che è di Dio dedicando tutta la propria vita all’«impegno sacro, solenne e gravissimo: quello di continuare nel tempo e di dilatare sulla terra la missione di Cristo» (Omelia nel Rito di Incoronazione: Insegnamenti I, 1963, p. 26), amando la Chiesa e guidando la Chiesa perché fosse «nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza» (Lett. enc. Ecclesiam Suam, Prologo).
[01634-01.01 [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Nous venons d’entendre une des phrases les plus célèbres de tout l’Évangile : « Rendez donc à César ce qui est à César, et à Dieu ce qui est à Dieu » (Mt22, 21).
À la provocation des pharisiens qui, pour ainsi dire, voulaient lui faire passer l’examen de religion et le prendre en défaut, Jésus répond avec cette phrase ironique et géniale. C’est une réponse à effet que le Seigneur livre à tous ceux qui se posent des problèmes de conscience, surtout quand entrent en jeu leurs intérêts, leurs richesses, leur prestige, leur pouvoir et leur réputation. Et cela arrive de tout temps, depuis toujours.
L’accent de Jésus retombe sûrement sur la seconde partie de la phrase : "Et (rendez) à Dieu ce qui est à Dieu". Cela signifie reconnaître et professer – face à n’importe quel type de pouvoir – que seul Dieu est le Seigneur de l’homme, et qu’il n’y en a pas d’autre. C’est la nouveauté éternelle à découvrir chaque jour, en vainquant la peur que nous éprouvons souvent devant les surprises de Dieu.
Lui n’a pas peur de la nouveauté ! C’est pourquoi, il nous surprend continuellement, nous ouvrant et nous conduisant par des chemins imprévus. Il nous renouvelle, c’est-à-dire qu’il nous fait "nouveaux", continuellement. Un chrétien qui vit l’Évangile est "la nouveauté de Dieu" dans l’Église et dans le monde. Et Dieu aime beaucoup cette "nouveauté" !
« Rendre à Dieu ce qui est à Dieu », signifie s’ouvrir à sa volonté, lui consacrer notre vie et coopérer à son Royaume de miséricorde, d’amour et de paix.
Là se trouve notre force véritable, le ferment qui la fait lever et le sel qui donne saveur à chaque effort humain contre le pessimisme dominant que nous propose le monde. Là se trouve notre espérance parce que l’espérance en Dieu n’est donc pas une fuite de la réalité, elle n’est pas un alibi : c’est rendre à Dieu d’une manière active ce qui lui appartient. C’est pour cela que le chrétien regarde la réalité future, celle de Dieu, pour vivre pleinement la vie – les pieds bien plantés sur la terre – et répondre, avec courage, aux innombrables nouveaux défis.
Nous l’avons vu ces jours-ci durant le Synode extraordinaire des Évêques – "Synode" signifie « marcher ensemble ». Et en effet, pasteurs et laïcs de chaque partie du monde ont apporté ici à Rome la voix de leurs Églises particulières pour aider les familles d’aujourd’hui à marcher sur la route de l’Évangile, le regard fixé sur Jésus. Ce fut une grande expérience dans laquelle nous avons vécu la synodalité et la collégialité, et nous avons senti la force de l’Esprit Saint qui guide et renouvelle toujours l’Église appelée, sans délai, à prendre soin des blessures qui saignent et à rallumer l’espérance pour beaucoup de gens sans espérance.
Pour le don de ce Synode et pour l’esprit constructif offert par tous, avec l’apôtre Paul : « À tout moment, nous rendons grâce à Dieu au sujet de vous tous, en faisant mémoire de vous dans nos prières » (1 Th 1, 2). Et que l’Esprit Saint qui, en ces jours laborieux nous a donné de travailler généreusement avec vraie liberté et humble créativité, accompagne encore la marche qui, dans les Églises de toute la terre, nous prépare au prochain Synode Ordinaire des Évêques d’octobre 2015. Nous avons semé et nous continuerons à semer avec patience et persévérance, dans la certitude que c’est le Seigneur qui fait croître tout ce que nous avons semé (cf. 1 Co 3, 6).
En ce jour de la béatification du Pape Paul VI, me reviennent à l’esprit ses paroles, par lesquelles il a institué le Synode des Évêques : « En observant attentivement les signes des temps, nous nous efforçons d’adapter les orientations et les méthodes … aux besoins croissants de notre époque et à l’évolution de la société » (Lett. ap. Motu proprio Apostolica sollicitudo).
À l’égard de ce grand Pape, de ce courageux chrétien, de cet apôtre infatigable, nous ne pouvons dire aujourd’hui devant Dieu qu’une parole aussi simple que sincère et importante : merci ! Merci à notre cher et bien-aimé Pape Paul VI ! Merci pour ton témoignage humble et prophétique d’amour du Christ et de son Église !
Dans son journal personnel, le grand timonier du Concile, au lendemain de la clôture des Assises conciliaires, a noté : « Peut-être n’est-ce pas tant en raison d’une aptitude quelconque ou afin que je gouverne et que je sauve l’Église de ses difficultés actuelles, que le Seigneur m’a appelé et me garde à ce service, mais pour que je souffre pour l’Église, et qu’il soit clair que c’est Lui, et non un autre, qui la guide et qui la sauve » (P. Macchi, Paul VI à travers son enseignement, de Guibert 2005, p. 105). Dans cette humilité resplendit la grandeur du Bienheureux Paul VI qui, alors que se profilait une société sécularisée et hostile, a su conduire avec une sagesse clairvoyante – et parfois dans la solitude – le gouvernail de la barque de Pierre sans jamais perdre la joie ni la confiance dans le Seigneur.
Paul VI a vraiment su "rendre à Dieu ce qui est à Dieu" en consacrant sa vie tout entière à « l’engagement sacré, solennel et très grave : celui de continuer dans le temps et d’étendre sur la terre la mission du Christ » (Homélie pour le rite du couronnement, Documentation catholique n. 1404 [1963], col. 932), en aimant l’Église et en la guidant pour qu’elle soit « en même temps mère aimante de tous les hommes et dispensatrice du salut » (Lett. ap. Ecclesiam Suam, Prologue).
[01634-03.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
We have just heard one of the most famous phrases in the entire Gospel: "Render to Caesar the things that are Caesar’s, and to God the things that are God’s" (Mt22:21).
Goaded by the Pharisees who wanted, as it were, to give him an exam in religion and catch him in error, Jesus gives this ironic and brilliant reply. It is a striking phrase which the Lord has bequeathed to all those who experience qualms of conscience, particularly when their comfort, their wealth, their prestige, their power and their reputation are in question. This happens all the time; it always has.
Certainly Jesus puts the stress on the second part of the phrase: "and [render] to God the things that are God’s". This calls for acknowledging and professing – in the face of any sort of power – that God alone is the Lord of mankind, that there is no other. This is the perennial newness to be discovered each day, and it requires mastering the fear which we often feel at God’s surprises.
God is not afraid of new things! That is why he is continually surprising us, opening our hearts and guiding us in unexpected ways. He renews us: he constantly makes us "new". A Christian who lives the Gospel is "God’s newness" in the Church and in the world. How much God loves this "newness"!
"Rendering to God the things that are God’s" means being docile to his will, devoting our lives to him and working for his kingdom of mercy, love and peace.
Here is where our true strength is found; here is the leaven which makes it grow and the salt which gives flavour to all our efforts to combat the prevalent pessimism which the world proposes to us. Here too is where our hope is found, for when we put our hope in God we are neither fleeing from reality nor seeking an alibi: instead, we are striving to render to God what is God’s. That is why we Christians look to the future, God’s future. It is so that we can live this life to the fullest – with our feet firmly planted on the ground – and respond courageously to whatever new challenges come our way.
In these days, during the extraordinary Synod of Bishops, we have seen how true this is. "Synod" means "journeying together". And indeed pastors and lay people from every part of the world have come to Rome, bringing the voice of their particular Churches in order to help today’s families walk the path the Gospel with their gaze fixed on Jesus. It has been a great experience, in which we have lived synodality and collegiality, and felt the power of the Holy Spirit who constantly guides and renews the Church. For the Church is called to waste no time in seeking to bind up open wounds and to rekindle hope in so many people who have lost hope.
For the gift of this Synod and for the constructive spirit which everyone has shown, in union with the Apostle Paul "we give thanks to God always for you all, constantly mentioning you in our prayers" (1 Th 1:2). May the Holy Spirit, who during these busy days has enabled us to work generously, in true freedom and humble creativity, continue to guide the journey which, in the Churches throughout the world, is bringing us to the Ordinary Synod of Bishops in October 2015. We have sown and we continued to sow, patiently and perseveringly, in the certainty that it is the Lord who gives growth to what we have sown (cf. 1 Cor 3:6).
On this day of the Beatification of Pope Paul VI, I think of the words with which he established the Synod of Bishops: "by carefully surveying the signs of the times, we are making every effort to adapt ways and methods… to the growing needs of our time and the changing conditions of society" (Apostolic Letter Motu Proprio Apostolica Sollicitudo).
When we look to this great Pope, this courageous Christian, this tireless apostle, we cannot but say in the sight of God a word as simple as it is heartfelt and important: thanks! Thank you, our dear and beloved Pope Paul VI! Thank you for your humble and prophetic witness of love for Christ and his Church!
In his personal journal, the great helmsman of the Council wrote, at the conclusion of its final session: "Perhaps the Lord has called me and preserved me for this service not because I am particularly fit for it, or so that I can govern and rescue the Church from her present difficulties, but so that I can suffer something for the Church, and in that way it will be clear that he, and no other, is her guide and saviour" (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia, 2001, pp. 120-121). In this humility the grandeur of Blessed Paul VI shines forth: before the advent of a secularized and hostile society, he could hold fast, with farsightedness and wisdom – and at times alone – to the helm of the barque of Peter, while never losing his joy and his trust in the Lord.
Paul VI truly "rendered to God what is God’s" by devoting his whole life to the "sacred, solemn and grave task of continuing in history and extending on earth the mission of Christ" (Homily for the Rite of Coronation: Insegnamenti I, 1963, p. 26), loving the Church and leading her so that she might be "a loving mother of the whole human family and at the same time the minister of its salvation" (Encyclical Letter Ecclesiam Suam, Prologue).
[01634-02.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Wir haben eben einen der berühmtesten Sätze des ganzen Evangeliums gehört: »Gebt dem Kaiser, was dem Kaiser gehört, und Gott, was Gott gehört!« (Mt 22,21).
Auf die Provokation der Pharisäer, die Jesus sozusagen einer Prüfung in Religion unterziehen und ihn zu einem Fehler verleiten wollten, antwortet er mit diesem ironischen und genialen Satz. Es ist eine einprägsame Antwort, die der Herr allen gibt, die Gewissensprobleme haben, vor allem wenn ihre Vorteile, ihr Reichtum, ihr Ansehen, ihre Macht und ihr Ruf auf dem Spiel stehen.
Die Betonung liegt bei Jesus sicher auf dem zweiten Teil des Satzes: »Und [gebt] Gott, was Gott gehört!« Das bedeutet, gegenüber jeder Art von Macht zu erkennen und zu bekennen, dass Gott allein der Herr des Menschen ist und es keinen anderen gibt. Das ist das ewig Neue, das man täglich wiederentdecken muss, indem man die Furcht überwindet, die uns oft angesichts der Überraschungen Gottes überkommt.
Er hat keine Angst vor dem Neuen! Darum überrascht er uns ständig, indem er ungeahnte Wege vor uns auftut und uns zu ihnen hinführt. Er erneuert uns, das heißt er lässt uns ständig „neu" werden. Ein Christ, der das Evangelium lebt, ist „die Neuheit Gottes" in der Kirche und in der Welt. Und Gott liebt diese „Neuheit" sehr!
„Gott geben, was Gott gehört", bedeutet, sich seinem Willen zu öffnen, ihm unser Leben zu widmen und an seinem Reich der Barmherzigkeit, der Liebe und des Friedens mitzuarbeiten.
Darin liegt unsere wahre Kraft, das Ferment, das sie treibt, und das Salz, das jedem menschlichen Bemühen gegen den vorherrschenden Pessimismus, den die Welt uns vorlegt, Geschmack verleiht. Darin liegt unsere Hoffnung, denn die Hoffnung auf Gott ist keine Realitätsflucht, sie ist kein Alibi: Sie bedeutet, Gott tatkräftig das zurückzugeben, was ihm gehört. Das ist der Grund, warum der Christ auf die zukünftige Wirklichkeit, auf die Wirklichkeit Gottes schaut, um das Leben in Fülle zu leben – mit beiden Beinen auf der Erde – und mutig den unzähligen neuen Herausforderungen zu begegnen.
Das haben wir in diesen Tagen während der außerordentlichen Bischofssynode gesehen – „Synode" bedeutet „gemeinsam unterwegs sein". Und so haben Hirten und Laien aus aller Welt die Stimme ihrer Teilkirchen hier nach Rom gebracht, um den Familien von heute zu helfen, den Weg des Evangeliums zu gehen und dabei auf Jesus zu blicken. Es war eine bedeutende Erfahrung, in der wir die Synodalität und die Kollegialität gelebt und die Kraft des Heiligen Geistes gespürt haben, der die Kirche immer leitet und erneuert – diese Kirche, die berufen ist, sich ohne Zögern der blutenden Wunden anzunehmen und in vielen Menschen ohne Hoffnung die Hoffnung neu zu entfachen.
Angesichts des Geschenkes dieser Synode und des konstruktiven Geistes, den alle beigetragen haben, sage ich mit dem Apostel Paulus: »Wir danken Gott für euch alle, sooft wir in unseren Gebeten an euch denken« (1 Thess 1,2). Und der Heilige Geist, der uns in diesen arbeitsreichen Tagen die Gabe verliehen hat, großherzig in wahrer Freiheit und demütiger Kreativität tätig zu sein, begleite weiterhin den Weg, der uns in den Kirchen der ganzen Erde auf die Ordentliche Bischofssynode im kommenden Oktober 2015 vorbereitet. Wir haben gesät und werden mit Geduld und Ausdauer weiter säen, in der Gewissheit, dass es der Herr ist, der wachsen lässt, was wir gesät haben (vgl. 1 Kor 3,6).
An diesem Tag der Seligsprechung von Papst Paul VI. kommen mir seine Worte in den Sinn, mit denen er die Bischofssynode errichtete: »Die Zeichen der Zeit aufmerksam durchforschend, [suchen wir,] die Wege und Methoden […] den wachsenden Notwendigkeiten unserer Tage sowie den veränderten Verhältnissen der Gesellschaft anzupassen« (Apost. Schreiben Motu proprio Apostolica sollicitudo).
Angesichts dieses großen Papstes, dieses mutigen Christen, dieses unermüdlichen Apostels können wir vor Gott heute nur ein ebenso einfaches wie ehrliches und bedeutungsvolles Wort sagen: Danke! Danke, unser lieber und geliebter Papst Paul VI.! Danke für dein demütiges und prophetisches Zeugnis der Liebe zu Christus und seiner Kirche!
In seinem persönlichen Tagebuch schrieb der große Steuermann des Konzils am Tag nach der Schließung der Konzilsversammlung: »Vielleicht hat der Herr mich in diesen Dienst gerufen und hält mich darin, nicht etwa weil ich eine Begabung dafür hätte oder damit ich die Kirche regiere und vor ihren gegenwärtigen Schwierigkeiten rette, sondern damit ich etwas für die Kirche leide und es deutlich wird, dass Er und kein anderer sie leitet und sie rettet« (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, S. 120-121) In dieser Demut erstrahlt die Größe des seligen Pauls VI. Während sich eine säkularisierte und feindliche Gesellschaft abzeichnete, hat er es verstanden, weitblickend und weise – und manchmal einsam – das Schiff Petri zu steuern, ohne jemals die Freude am Herrn und das Vertrauen auf ihn zu verlieren.
Paul VI. hat es wirklich verstanden, Gott zu geben, was Gott gehört, indem er sein ganzes Leben der »heiligen, gewaltigen und äußerst gewichtigen Aufgabe« widmete, »die Sendung Christi in der Zeit fortzuführen und über die Erde auszudehnen« (Homilie zum Ritus der Papstkrönung: Insegnamenti I, (1963), 26). Er hat die Kirche geliebt und hat sie geleitet, damit sie »zugleich liebevolle Mutter und Ausspenderin des Heils für alle Menschen sei« (Enzyklika Ecclesiam Suam, Prolog).
[01634-05.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Acabamos de escuchar una de las frases más famosas de todo el Evangelio: «Dar al César lo que es del César y a Dios lo que es de Dios» (Mt 22,21).
Jesús responde con esta frase irónica y genial a la provocación de los fariseos que, por decirlo de alguna manera, querían hacerle el examen de religión y ponerlo a prueba. Es una respuesta inmediata que el Señor da a todos aquellos que tienen problemas de conciencia, sobre todo cuando están en juego su conveniencia, sus riquezas, su prestigio, su poder y su fama. Y esto ha sucedido siempre.
Evidentemente, Jesús pone el acento en la segunda parte de la frase: «Y [dar] a Dios lo que es de Dios». Lo cual quiere decir reconocer y creer firmemente –frente a cualquier tipo de poder– que sólo Dios es el Señor del hombre, y no hay ningún otro. Ésta es la novedad perenne que hemos de redescubrir cada día, superando el temor que a menudo nos atenaza ante las sorpresas de Dios.
¡Él no tiene miedo de las novedades! Por eso, continuamente nos sorprende, mostrándonos y llevándonos por caminos imprevistos. Nos renueva, es decir, nos hace siempre "nuevos". Un cristiano que vive el Evangelio es "la novedad de Dios" en la Iglesia y en el mundo. Y a Dios le gusta mucho esta "novedad".
«Dar a Dios lo que es de Dios» significa estar dispuesto a hacer su voluntad y dedicarle nuestra vida y colaborar con su Reino de misericordia, de amor y de paz.
En eso reside nuestra verdadera fuerza, la levadura que fermenta y la sal que da sabor a todo esfuerzo humano contra el pesimismo generalizado que nos ofrece el mundo. En eso reside nuestra esperanza, porque la esperanza en Dios no es una huida de la realidad, no es un alibi: es ponerse manos a la obra para devolver a Dios lo que le pertenece. Por eso, el cristiano mira a la realidad futura, a la realidad de Dios, para vivir plenamente la vida –con los pies bien puestos en la tierra– y responder, con valentía, a los incesantes retos nuevos.
Lo hemos visto en estos días durante el Sínodo extraordinario de los Obispos –"sínodo" quiere decir "caminar juntos"–. Y, de hecho, pastores y laicos de todas las partes del mundo han traído aquí a Roma la voz de sus Iglesias particulares para ayudar a las familias de hoy a seguir el camino del Evangelio, con la mirada fija en Jesús. Ha sido una gran experiencia, en la que hemos vivido la sinodalidad y la colegialidad, y hemos sentido la fuerza del Espíritu Santo que guía y renueva sin cesar a la Iglesia, llamada, con premura, a hacerse cargo de las heridas abiertas y a devolver la esperanza a tantas personas que la han perdido.
Por el don de este Sínodo y por el espíritu constructivo con que todos han colaborado, con el Apóstol Pablo, «damos gracias a Dios por todos ustedes y los tenemos presentes en nuestras oraciones» (1 Ts 1,2). Y que el Espíritu Santo que, en estos días intensos, nos ha concedido trabajar generosamente con verdadera libertad y humilde creatividad, acompañe ahora, en las Iglesias de toda la tierra, el camino de preparación del Sínodo Ordinario de los Obispos del próximo mes de octubre de 2015. Hemos sembrado y seguiremos sembrando con paciencia y perseverancia, con la certeza de que es el Señor quien da el crecimiento (cf. 1 Co 3,6).
En este día de la beatificación del Papa Pablo VI, me vienen a la mente las palabras con que instituyó el Sínodo de los Obispos: «Después de haber observado atentamente los signos de los tiempos, nos esforzamos por adaptar los métodos de apostolado a las múltiples necesidades de nuestro tiempo y a las nuevas condiciones de la sociedad» (Carta ap. Motu proprio Apostolica sollicitudo).
Contemplando a este gran Papa, a este cristiano comprometido, a este apóstol incansable, ante Dios hoy no podemos más que decir una palabra tan sencilla como sincera e importante: Gracias. Gracias a nuestro querido y amado Papa Pablo VI. Gracias por tu humilde y profético testimonio de amor a Cristo y a su Iglesia.
El que fuera gran timonel del Concilio, al día siguiente de su clausura, anotaba en su diario personal: «Quizás el Señor me ha llamado y me ha puesto en este servicio no tanto porque yo tenga algunas aptitudes, o para que gobierne y salve la Iglesia de sus dificultades actuales, sino para que sufra algo por la Iglesia, y quede claro que Él, y no otros, es quien la guía y la salva» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, 120-121). En esta humildad resplandece la grandeza del Beato Pablo VI que, en el momento en que estaba surgiendo una sociedad secularizada y hostil, supo conducir con sabiduría y con visión de futuro –y quizás en solitario– el timón de la barca de Pedro sin perder nunca la alegría y la fe en el Señor.
Pablo VI supo de verdad dar a Dios lo que es de Dios dedicando toda su vida a la «sagrada, solemne y grave tarea de continuar en el tiempo y extender en la tierra la misión de Cristo» (Homilía en el inicio del ministerio petrino, 30 junio 1963: AAS 55 [1963], 620), amando a la Iglesia y guiando a la Iglesia para que sea «al mismo tiempo madre amorosa de todos los hombres y dispensadora de salvación» (Carta enc. Ecclesiam Suam, Prólogo).
[01634-04.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Acabámos de ouvir uma das frases mais célebres de todo o Evangelho: «Dai, pois, a César o que é de César e a Deus o que é de Deus» (Mt 22, 21).
À provocação dos fariseus, que queriam, por assim dizer, fazer-Lhe o exame de religião e induzi-Lo em erro, Jesus responde com esta frase irónica e genial. É uma resposta útil que o Senhor dá a todos aqueles que sentem problemas de consciência, sobretudo quando estão em jogo as suas conveniências, as suas riquezas, o seu prestígio, o seu poder e a sua fama. E isto acontece em todos os tempos e desde sempre.
A acentuação de Jesus recai certamente sobre a segunda parte da frase: «E [dai] a Deus o que é de Deus». Isto significa reconhecer e professar – diante de qualquer tipo de poder – que só Deus é o Senhor do homem, e não há outro. Esta é a novidade perene que é preciso redescobrir cada dia, vencendo o temor que muitas vezes sentimos perante as surpresas de Deus.
Ele não tem medo das novidades! Por isso nos surpreende continuamente, abrindo-nos e levando-nos para caminhos inesperados. Ele renova-nos, isto é, faz-nos «novos» continuamente. Um cristão que vive o Evangelho é «a novidade de Deus» na Igreja e no mundo. E Deus ama tanto esta «novidade»!
«Dar a Deus o que é de Deus» significa abrir-se à sua vontade e dedicar-Lhe a nossa vida, cooperando para o seu Reino de misericórdia, amor e paz.
Aqui está a nossa verdadeira força, o fermento que faz levedar e o sal que dá sabor a todo o esforço humano contra o pessimismo predominante que o mundo nos propõe. Aqui está a nossa esperança, porque a esperança em Deus não é uma fuga da realidade, não é um álibi: é restituir diligentemente a Deus aquilo que Lhe pertence. É por isso que o cristão fixa o olhar na realidade futura, a realidade de Deus, para viver plenamente a existência – com os pés bem fincados na terra – e responder, com coragem, aos inúmeros desafios novos.
Vimo-lo, nestes dias, durante o Sínodo Extraordinário dos Bispos: «sínodo» significa «caminhar juntos». E, na realidade, pastores e leigos de todo o mundo trouxeram aqui a Roma a voz das suas Igrejas particulares para ajudar as famílias de hoje a caminharem pela estrada do Evangelho, com o olhar fixo em Jesus. Foi uma grande experiência, na qual vivemos a sinodalidade e a colegialidade e sentimos a força do Espírito Santo que sempre guia e renova a Igreja, chamada sem demora a cuidar das feridas que sangram e a reacender a esperança para tantas pessoas sem esperança.
Pelo dom deste Sínodo e pelo espírito construtivo concedido a todos, – com o apóstolo Paulo – «damos continuamente graças a Deus por todos vós, recordando-vos sem cessar nas nossas orações» (1 Tes 1, 2). E o Espírito Santo, que nos concedeu, nestes dias laboriosos, trabalhar generosamente com verdadeira liberdade e humilde criatividade, continue a acompanhar o caminho que nos prepara, nas Igrejas de toda a terra, para o Sínodo Ordinário dos Bispos no próximo Outubro de 2015. Semeámos e continuaremos a semear, com paciência e perseverança, na certeza de que é o Senhor que faz crescer tudo o que semeámos (cf. 1 Cor 3, 6).
Neste dia da beatificação do Papa Paulo VI, voltam-me à mente estas palavras com que ele instituiu o Sínodo dos Bispos: «Ao perscrutar atentamente os sinais dos tempos, procuramos adaptar os métodos (...) às múltiplas necessidades dos nossos dias e às novas características da sociedade» (Carta ap. Motu próprio Apostolica sollicitudo).
A respeito deste grande Papa, deste cristão corajoso, deste apóstolo incansável, diante de Deus hoje só podemos dizer uma palavra tão simples como sincera e importante: Obrigado! Obrigado, nosso querido e amado Papa Paulo VI! Obrigado pelo teu humilde e profético testemunho de amor a Cristo e à sua Igreja!
No seu diário pessoal, depois do encerramento da Assembleia Conciliar, o grande timoneiro do Concílio deixou anotado: «Talvez o Senhor me tenha chamado e me mantenha neste serviço não tanto por qualquer aptidão que eu possua ou para que eu governe e salve a Igreja das suas dificuldades actuais, mas para que eu sofra algo pela Igreja e fique claro que Ele, e mais ninguém, a guia e salva» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, pp. 120-121). Nesta humildade, resplandece a grandeza do Beato Paulo VI, que soube, quando se perfilava uma sociedade secularizada e hostil, reger com clarividente sabedoria – e às vezes em solidão – o timão da barca de Pedro, sem nunca perder a alegria e a confiança no Senhor.
Verdadeiramente Paulo VI soube «dar a Deus o que é de Deus», dedicando toda a sua vida a este «dever sacro, solene e gravíssimo: continuar no tempo e dilatar sobre a terra a missão de Cristo» (Homilia no Rito da sua Coroação, Insegnamenti, I, 1963, p. 26), amando a Igreja e guiando-a para ser «ao mesmo tempo mãe amorosa de todos os homens e medianeira de salvação» (Carta enc. Ecclesiam suam, prólogo).
[01634-06.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Przed chwilą usłyszeliśmy jedno z najbardziej znanych zdań całej Ewangelii: „Oddajcie więc cezarowi to, co należy do cezara, a Bogu to, co należy do Boga" (Mt22,21).
Jezus odpowiada tym ironicznym i genialnym zdaniem na prowokację faryzeuszy, którzy, że tak powiem, chcieli Go przeegzaminować z religii i sprowokować do błędu. Jest to w istocie odpowiedź, jaką Pan przekazuje tym wszystkim, którzy stawiają sobie problemy sumienia, zwłaszcza gdy wchodzą w grę ich konwenanse, bogactwo, prestiż, ich władza i dobre imię. Dzieje się tak w każdym czasie, od zawsze.
Jezus kładzie z pewnością nacisk na drugą część zdania: „Oddajcie Bogu to, co należy do Boga". Oznacza to uznanie i wyznawanie - wobec wszelkiego rodzaju władzy - że tylko Bóg jeden jest Panem człowieka i nie ma innego. To jest odwieczną nowością, którą trzeba odkrywać każdego dnia, przezwyciężając lęk, który często doświadczamy w obliczu niespodzianek Boga.
On się nie boi nowości! Z tego powodu, ciągle nas zaskakuje, otwierając nas i prowadząc na drogi, o których nie myśleliśmy. On nas odnawia, to znaczy czyni nas nieustannie „nowymi". Chrześcijanin, który żyje Ewangelią jest „nowością Boga" w Kościele i w świecie. A Bóg bardzo miłuje tę „nowość"!
„Oddanie Bogu to, co należy do Boga" oznacza otwarcie się na Jego wolę i poświęcenie Jemu naszego życia oraz współpracę w Jego królestwie miłosierdzia, miłości i pokoju.
Na tym polega nasza prawdziwa siła, zaczyn, powodujący wzrost i sól, nadająca smak wszelkiemu ludzkiemu trudowi wymierzonemu w panujący pesymizm, jaki proponuje nam świat. Na tym polega nasza nadzieja, bowiem nadzieja w Bogu nie jest ucieczką od rzeczywistości, nie jest jakimś alibi: jest pracowitym oddaniem Bogu, tego co do Niego należy. To z tego powodu chrześcijanin patrzy w przyszłą rzeczywistość, rzeczywistość Boga, aby żyć pełnią życia – mocno stąpając po ziemi - i mężnie odpowiedzieć na niezliczone nowe wyzwania.
Widzieliśmy to w minionych dniach podczas Nadzwyczajnego Synodu Biskupów - „synod" oznacza „wspólne pielgrzymowanie". Rzeczywiście duszpasterze i świeccy z całego świata przynieśli tu do Rzymu głos swoich Kościołów partykularnych, aby pomóc współczesnym rodzinom w podążaniu drogą Ewangelii, ze wzrokiem utkwionym w Jezusa. Było to wspaniałe doświadczenie, w którym przeżywaliśmy synodalność i kolegialność oraz poczuliśmy moc Ducha Świętego, który prowadzi i nieustannie odnawia Kościół wezwany do niezwłocznego opatrzenia krwawiących ran i rozpalenia nadziei dla wielu ludzi pozbawionych nadziei.
Za dar tego Synodu i za ducha współpracy, który przenikał wszystkich, wraz z apostołem Pawłem: „Zawsze dziękujemy Bogu za was wszystkich, wspominając o was nieustannie w naszych modlitwach" (1 Tes 1,2). Niech Duch Święty, który w tych pracowitych dniach pozwolił nam wielkodusznie współpracować z prawdziwą wolnością i pokorną kreatywnością, nadal towarzyszy drodze, która w Kościołach całej ziemi, przygotowuje nas na Zwyczajny Synod Biskupów w październiku 2015 r. Zasialiśmy i nadal będziemy siać cierpliwie i wytrwale, będąc pewnymi, że Pan da wzrost, temu co zasialiśmy (por. 1 Kor 3,6).
W tym dniu beatyfikacji papieża Pawła VI przychodzą mi na myśl jego słowa, którymi ustanawiał Synod Biskupów, „śledząc uważnie znaki czasów, staramy się dostosować drogi i metody (…) do wzrastających wymagań naszych dni i zmieniających się warunków społecznych" (List. ap. Motu proprio, Apostolica sollicitudo).
W odniesieniu do tego wielkiego Papieża, odważnego chrześcijanina, niestrudzonego apostoła, przed Bogiem możemy dziś tylko wypowiedzieć słowo tak proste, a jednocześnie szczere i ważne: dziękuję! Dziękujemy nasz drogi i umiłowany papieżu Pawle VI! Dziękujemy za Twoje pokorne i prorocze świadectwo miłości do Chrystusa i Jego Kościoła!
W swoim osobistym dzienniku wielki sternik Soboru zapisał: „Może Pan mnie powołał i trzyma mnie na tej posłudze, nie dlatego, abym miał jakieś w tej dziedzinie zdolności, czy też abym rządził i ocalił Kościół od jego obecnych trudności, ale abym nieco dla Kościoła wycierpiał i aby było jasne, że to On, a nie kto inny prowadzi go i ocala" (8 grudnia 1965 r.). W tej pokorze jaśnieje wielkość błogosławionego Pawła VI, który, kiedy zarysowywało się społeczeństwo zlaicyzowane i wrogie, potrafił kierować z dalekowzroczną mądrością - a czasem w samotności - sterem łodzi Piotrowej, nigdy nie tracąc radości i ufności w Panu.
Paweł VI umiał rzeczywiście oddawać Bogu to, co należy do Boga, poświęcając całe swoje życie „zadaniu świętemu, uroczystemu i niezwykle poważnemu: temu, aby kontynuować w czasie i krzewić na ziemi misję Chrystusa" (Homilia, Ryt Koronacji: Insegnamenti I, (1963), 26), miłując Kościół i prowadząc go, aby był równocześnie „oddaną dla całej społeczności ludzkiej matką i rozdawcą zbawienia" (Encyklika Ecclesiam Suam, Wstęp).
[01634-09.01] [Testo originale: Italiano]
[B0772-XX.03]