Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana
Omelia del Santo Padre
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.
La Messa del Crisma è stata concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi ed i Presbiteri (diocesani e religiosi) presenti a Roma.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi sono stati benedetti l’olio degli infermi, l’olio dei catecumeni e il crisma.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
Omelia del Santo Padre
Unti con l’olio della gioia
Cari fratelli nel sacerdozio!
Nell’Oggi del Giovedì Santo, in cui Cristo ci amò fino all’estremo (cfr Gv 13,1), facciamo memoria del giorno felice dell’Istituzione del sacerdozio e di quello della nostra Ordinazione sacerdotale. Il Signore ci ha unto in Cristo con olio di gioia e questa unzione ci invita a ricevere e a farci carico di questo grande dono: la gioia, la letizia sacerdotale. La gioia del sacerdote è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il popolo fedele di Dio: quel popolo fedele in mezzo al quale è chiamato il sacerdote per essere unto e al quale è inviato per ungere.
Unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia. La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre, e il Signore desidera che la gioia di questo Amore «sia in noi» e «sia piena» (Gv 15,11). A me piace pensare la gioia contemplando la Madonna: Maria, la «madre del Vangelo vivente, è sorgente di gioia per i piccoli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 288), e credo che non esageriamo se diciamo che il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Maligno è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza (cfr Lc 1,48). E a partire da tale piccolezza accogliamo la nostra gioia. Gioia nella nostra piccolezza!
Trovo tre caratteristiche significative nella nostra gioia sacerdotale: è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani.
Una gioia che ci unge. Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente. I segni della liturgia dell’ordinazione ci parlano del desiderio materno che ha la Chiesa di trasmettere e comunicare tutto ciò che il Signore ci ha dato: l’imposizione delle mani, l’unzione con il santo Crisma, il rivestire con i paramenti sacri, la partecipazione immediata alla prima Consacrazione… La grazia ci colma e si effonde integra, abbondante e piena in ciascun sacerdote. Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione.
Una gioia incorruttibile. L’integrità del Dono, alla quale nessuno può togliere né aggiungere nulla, è fonte incessante di gioia: una gioia incorruttibile, che il Signore ha promesso che nessuno potrà togliercela (cfr Gv 16,22). Può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata. La raccomandazione di Paolo a Timoteo rimane sempre attuale: Ti ricordo di ravvivare il fuoco del dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani (cfr 2 Tm 1,6).
Una gioia missionaria. Questa terza caratteristica la voglio condividere e sottolineare in modo speciale: la gioia del sacerdote è posta in intima relazione con il santo popolo fedele di Dio perché si tratta di una gioia eminentemente missionaria. L’unzione è in ordine a ungere il santo popolo fedele di Dio: per battezzare e confermare, per curare e consacrare, per benedire, per consolare ed evangelizzare.
E poiché è una gioia che fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge (anche nel silenzio della preghiera, il pastore che adora il Padre è in mezzo alle sue pecorelle) e per questo è una "gioia custodita" da questo stesso gregge. Anche nei momenti di tristezza, in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce, quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale (e attraverso i quali anch’io sono passato), persino in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata.
"Gioia custodita" dal gregge e custodita anche da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza.
La gioia del sacerdote è una gioia che ha come sorella la povertà. Il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé. Sappiamo che il nostro popolo è generosissimo nel ringraziare i sacerdoti per i minimi gesti di benedizione e in modo speciale per i Sacramenti. Molti, parlando della crisi di identità sacerdotale, non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza. Non c’è identità – e pertanto gioia di vivere – senza appartenenza attiva e impegnata al popolo fedele di Dio (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 268). Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono "uscita": esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi. Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda. Uscire da sé stessi richiede spogliarsi di sé, comporta povertà.
La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella la fedeltà. Non tanto nel senso che saremmo tutti "immacolati" (magari con la grazia di Dio lo fossimo!) perché siamo peccatori, ma piuttosto nel senso di una sempre nuova fedeltà all’unica Sposa, la Chiesa. Qui è la chiave della fecondità. I figli spirituali che il Signore dà ad ogni sacerdote, quelli che ha battezzato, le famiglie che ha benedetto e aiutato a camminare, i malati che sostiene, i giovani con cui condivide la catechesi e la formazione, i poveri che soccorre… sono questa "Sposa" che egli è felice di trattare come prediletta e unica amata e di esserle sempre nuovamente fedele. E’ la Chiesa viva, con nome e cognome, di cui il sacerdote si prende cura nella sua parrocchia o nella missione affidatagli, è essa che gli dà gioia quando le è fedele, quando fa tutto ciò che deve fare e lascia tutto ciò che deve lasciare pur di rimanere in mezzo alle pecore che il Signore gli ha affidato: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,16.17).
La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella l’obbedienza. Obbedienza alla Chiesa nella Gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare… bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità. Ma anche l’obbedienza alla Chiesa nel servizio: disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore, a immagine di "Nostra Signora della prontezza" (cfr Lc 1,39: meta spoudes), che accorre a servire sua cugina e sta attenta alla cucina di Cana, dove manca il vino. La disponibilità del sacerdote fa della Chiesa la Casa dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della prima Comunione… Dove il popolo di Dio ha un desiderio o una necessità, là c’è il sacerdote che sa ascoltare (ob-audire) e sente un mandato amoroso di Cristo che lo manda a soccorrere con misericordia quella necessità o a sostenere quei buoni desideri con carità creativa.
Colui che è chiamato sappia che esiste in questo mondo una gioia genuina e piena: quella di essere preso dal popolo che uno ama per essere inviato ad esso come dispensatore dei doni e delle consolazioni di Gesù, l’unico Buon Pastore che, pieno di profonda compassione per tutti i piccoli e gli esclusi di questa terra, affaticati e oppressi come pecore senza pastore, ha voluto associare molti al suo ministero per rimanere e operare Lui stesso, nella persona dei suoi sacerdoti, per il bene del suo popolo.
In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che faccia scoprire a molti giovani quell’ardore del cuore che fa ardere la gioia appena uno ha la felice audacia di rispondere con prontezza alla sua chiamata.
In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per "mangiarsi" il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio, che gioiscono preparando la prima omelia, la prima Messa, il primo Battesimo, la prima Confessione… E’ la gioia di poter condividere – meravigliati – per la prima volta come unti, il tesoro del Vangelo e sentire che il popolo fedele ti torna ad ungere in un’altra maniera: con le loro richieste, porgendoti il capo perché tu li benedica, stringendoti le mani, avvicinandoti ai loro figli, chiedendo per i loro malati… Conserva Signore nei tuoi giovani sacerdoti la gioia della partenza, di fare ogni cosa come nuova, la gioia di consumare la vita per te.
In questo Giovedì sacerdotale chiedo al Signore Gesù di confermare la gioia sacerdotale di quelli che hanno parecchi anni di ministero. Quella gioia che, senza scomparire dagli occhi, si posa sulle spalle di quanti sopportano il peso del ministero, quei preti che già hanno tastato il polso al lavoro, raccolgono le loro forze e si riarmano: "cambiano aria", come dicono gli sportivi. Conserva Signore la profondità e la saggia maturità della gioia dei preti adulti. Sappiano pregare come Neemia: la gioia del Signore è la mia forza (cfr Ne 8,10).
Infine, in questo Giovedì sacerdotale, chiedo al Signore Gesù che risplenda la gioia dei sacerdoti anziani, sani o malati. E’ la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta che si va disfacendo. Sappiano stare bene in qualunque posto, sentendo nella fugacità del tempo il gusto dell’eterno (Guardini). Sentano, Signore, la gioia di passare la fiaccola, la gioia di veder crescere i figli dei figli e di salutare, sorridendo e con mitezza, le promesse, in quella speranza che non delude.
[00621-01.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Oints avec l’huile de joie
Chers frères dans le sacerdoce !
En ce jour du Jeudi saint, où le Christ nous a aimés jusqu’au bout (cf. Jn 13, 1), nous faisons mémoire de l’heureux jour de l’Institution du sacerdoce et de celui de notre Ordination sacerdotale. Le Seigneur nous a oints dans le Christ avec l’huile de joie et cette onction nous invite à recevoir ce grand don et à nous en faire porteurs : la joie, l’allégresse sacerdotale. La joie du prêtre est un bien précieux non seulement pour lui mais aussi pour tout le peuple fidèle de Dieu : ce peuple fidèle au milieu duquel le prêtre est appelé pour être oint et auquel il est envoyé pour oindre.
Oints avec l’huile de joie pour oindre avec l’huile de joie. La joie sacerdotale a sa source dans l’Amour du Père, et le Seigneur désire que la joie de cet Amour « soit en nous », et soit « pleine » (Jn 15, 11). J’aime penser à la joie en contemplant la Vierge : Marie, la « Mère de l’Évangile vivant est source de joie pour les petits » (Exhort. Ap. Evangelii gaudium, n. 288), et je crois que nous n’exagérons pas si nous disons que le prêtre est une personne très petite : l’incommensurable grandeur du don qui nous est fait par le ministère nous relègue parmi les plus petits des hommes. Le prêtre est le plus pauvre des hommes si Jésus ne l’enrichit pas de sa pauvreté, il est le serviteur le plus inutile si Jésus ne l’appelle pas ami, le plus insensé des hommes si Jésus ne l’instruit pas patiemment comme Pierre, le plus sans défense des chrétiens si le Bon Pasteur ne le fortifie pas au milieu de son troupeau. Personne n’est plus petit qu’un prêtre laissé à ses seules forces ; donc notre prière de protection contre tout piège du Malin est la prière de notre Mère : je suis prêtre parce qu’il a regardé avec bonté ma petitesse (cf. Lc 1, 48). Et à partir de cette petitesse, nous accueillons notre joie. Joie de notre petitesse !
Je trouve trois caractéristiques significatives dans notre joie sacerdotale : c’est une joie qui nous oints (non pas qui nous rend onctueux, imposants, et présomptueux), c’est une joie incorruptible et c’est une joie missionnaire qui rayonne sur tous et qui attire tous, en commençant à l’envers : par ceux qui sont le plus loin.
Une joie qui nous oint. Cela veut dire : elle a pénétré à l’intime de notre cœur, l’a configuré et fortifié sacramentellement. Les rites de la liturgie de l’ordination nous parlent du désir maternel qu’a l’Église de transmettre et de communiquer tout ce que le Seigneur nous a donné : l’imposition des mains, l’onction avec le saint Chrême, la vêture avec les ornements sacrés, la participation immédiate à la première Consécration… La grâce nous comble et se répand intègre, abondante et pleine en chaque prêtre. Oints jusqu’aux os… et notre joie, qui jaillit de l’intérieur, est l’écho de cette onction.
Une joie incorruptible. L’intégrité du Don, auquel personne ne peut rien enlever ni ajouter, est source incessante de joie : une joie incorruptible, que le Seigneur a promis que personne ne pourra nous ôter (cf. Jn 16, 22). Elle peut être endormie ou étouffée par le péché ou par les préoccupations de la vie mais, au fond, elle reste intacte comme la braise d’un cep brûlé sous les cendres, et peut toujours être réveillée. La recommandation de Paul à Timothée reste toujours actuelle : je t’invite à raviver le feu du don du Dieu qui est déposé en toi par l’imposition de mes mains (cf. 2 Tm 1, 6).
Une joie missionnaire. Cette troisième caractéristique, je veux la partager et la souligner d’une façon particulière : la joie du prêtre est située en relation intime avec le saint peuple fidèle de Dieu parce qu’il s’agit d’une joie éminemment missionnaire. L’onction est en vue d’oindre le saint peuple fidèle de Dieu : pour baptiser et confirmer, pour prendre soin et consacrer, pour bénir, pour consoler et évangéliser.
Et puisque c’est une joie qui coule seulement quand le pasteur se tient au milieu de son troupeau (même dans le silence de la prière, le pasteur qui adore le Père est au milieu de ses brebis) et pour cela, c’est une "joie gardée" par ce même troupeau. Même dans des moments de tristesse, où tout semble s’obscurcir et où le vertige de l’isolement nous séduit, ces moments d’apathie et d’ennui que parfois nous connaissons dans la vie sacerdotale (et à travers lesquels moi aussi je suis passé), même en ces moments le peuple de Dieu est capable de garder la joie, il est capable de te protéger, de t’embrasser, de t’aider à ouvrir ton cœur et à retrouver une joie renouvelée.
"Joie gardée" par le troupeau et gardée aussi par trois sœurs qui l’entourent, la protègent, la défendent : sœur pauvreté, sœur fidélité et sœur obéissance.
La joie du prêtre est une joie qui a pour sœur la pauvreté. Le prêtre est pauvre de joie simplement humaine : il a renoncé à beaucoup ! Et parce qu’il est pauvre, lui, qui donne tant de choses aux autres, sa joie il doit la demander au Seigneur et au peuple fidèle de Dieu. Il ne doit pas se la procurer par lui-même. Nous savons que notre peuple est très généreux pour remercier les prêtres pour les plus petits gestes de bénédiction et, de façon spéciale, pour les Sacrements. Beaucoup, en parlant de la crise de l’identité sacerdotale, ne tiennent pas compte que l’identité suppose l’appartenance. Il n’y a pas d’identité – et donc de joie de vivre – sans appartenance active et engagée envers le peuple fidèle de Dieu (cf. Exhort. Ap. Evangelii gaudium, n. 268). Le prêtre qui prétend trouver l’identité sacerdotale en la recherchant introspectivement dans sa propre intériorité ne trouve peut-être rien d’autre que des panneaux qui disent "sortie" : sors de toi-même, sors à la recherche de Dieu dans l’adoration, sors et donne à ton peuple ce qui t’a été confié, et ton peuple aura soin de te faire sentir et goûter qui tu es, comment tu t’appelles, quelle est ton identité et il te fera te réjouir avec le cent pour un que le Seigneur a promis à ses serviteurs. Si tu ne sors pas de toi-même, l’huile devient rance, et l’onction ne peut être féconde. Sortir de soi-même demande de se dépouiller de soi, comporte pauvreté.
La joie sacerdotale est une joie qui a pour sœur la fidélité. Pas tant dans le sens que nous serions tous "immaculés" (puissions-nous l’être avec la grâce de Dieu !), parce que nous sommes pécheurs, mais plutôt dans le sens d’une fidélité toujours renouvelée à l’unique Épouse, l’Église. Là est la clef de la fécondité. Les enfants spirituels que le Seigneur donne à chaque prêtre, ceux qu’il a baptisés, les familles qu’il a bénies et aidées à cheminer, les malades qu’il soutient, les jeunes avec qui il partage la catéchèse et la formation, les pauvres qu’il secourt… sont cette "Épouse" qu’il est heureux de traiter comme préférée et unique aimée, et de lui être toujours fidèle de façon nouvelle. C’est l’Église vivante, avec prénom et nom, dont le prêtre prend soin dans sa paroisse ou dans la mission qui lui a été confiée, c’est elle qui lui donne de la joie quand il lui est fidèle, quand il fait tout ce qu’il doit faire et laisse tout ce qu’il doit laisser pour rester au milieu des brebis que le Seigneur lui a confiées : « Pais mes brebis » (Jn 21, 16.17).
La joie sacerdotale est une joie qui a pour sœur l’obéissance. Obéissance à l’Église dans la hiérarchie qui nous donne, pour ainsi dire, non seulement le milieu plus extérieur de l’obéissance : la paroisse à laquelle je suis envoyé, les facultés du ministère, cette charge particulière... mais aussi l’union avec Dieu le Père, de qui vient toute paternité. Mais aussi l’obéissance à l’Église dans le service : disponibilité et promptitude pour servir tous, toujours et de la meilleure façon, à l’image de "Notre Dame de la promptitude " (cf. Lc 1, 39 : meta spoudes), qui accourt pour servir sa cousine et est attentive à la cuisine de Cana où il manque le vin. La disponibilité du prêtre fait de l’Église la Maison aux portes ouvertes, refuge pour les pécheurs, foyer pour ceux qui vivent dans la rue, maison de soin pour les malades, camping pour les jeunes, salle de catéchèse pour les enfants de la première Communion… Là où le peuple de Dieu a un désir ou une nécessité, se trouve le prêtre qui sait écouter (ob-audire) et entend un mandat amoureux du Christ qui l’envoie secourir avec miséricorde ce besoin ou soutenir ces bons désirs avec une charité créative.
Celui qui est appelé sait qu’il existe en ce monde une joie simple et pleine : celle d’être pris par le peuple qu’on aime pour être envoyé à lui comme dispensateur des dons et des consolations de Jésus, l’unique Bon Pasteur qui, plein de profonde compassion pour tous les petits et les exclus de cette terre, fatigués et opprimés comme des brebis sans pasteur, a voulu associer beaucoup de personnes à son ministère pour rester et agir Lui-même, dans la personne de ses prêtres, pour le bien de son peuple.
En ce Jeudi Saint, je demande au Seigneur Jésus qu’il fasse découvrir à beaucoup de jeunes cette ardeur du cœur qui fait surgir la joie dès qu’on a l’heureuse audace de répondre avec promptitude à son appel.
En ce Jeudi Saint, je demande au Seigneur Jésus qu’il conserve l’éclat joyeux dans les yeux des nouveaux ordonnés, qui partent pour "se manger" le monde, pour se consumer au milieu du peuple fidèle de Dieu, qu’ils se réjouissent en préparant la première homélie, la première Messe, le premier Baptême, la première Confession… c’est la joie de pouvoir partager – émerveillés – pour la première fois comme oints, le trésor de l’Évangile et de sentir que le peuple fidèle te revient pour oindre d’une autre manière : avec leurs demandes, inclinant la tête pour que tu les bénisses, te serrant les mains, t’amenant leurs enfants, demandant pour leurs malades… Seigneur, conserve dans tes jeunes prêtres la joie du départ, la joie de faire toute chose comme nouvelle, la joie de consumer leur vie pour toi.
En ce Jeudi sacerdotal, je demande au Seigneur Jésus de confirmer la joie sacerdotale de ceux qui ont de nombreuses années de ministère. Cette joie qui, sans disparaître de leurs yeux, repose sur les épaules de tous ceux qui supportent le poids du ministère, ces prêtres qui ont déjà pris le pouls du travail, qui rassemblent leurs forces et se rechargent : "ils changent d’air", comme disent les sportifs. Conserve Seigneur la profondeur et la sage maturité de la joie des prêtres adultes. Qu’ils sachent prier comme Néhémie : la joie du Seigneur est notre rempart (cf. Ne 8, 10).
Enfin, en ce Jeudi sacerdotal, je demande au Seigneur Jésus que resplendisse la joie des prêtres âgés, bien portants ou malades. C’est la joie de la Croix, qui provient de la conscience d’avoir un trésor incorruptible dans un vase d’argile qui va en se défaisant. Qu’ils sachent être bien quel que soit l’endroit où ils sont, discernant dans la fugacité du temps le goût de l’éternel (Guardini). Qu’ils ressentent, Seigneur, la joie de passer le flambeau, la joie de voir grandir les enfants des enfants et de saluer, dans un sourire et avec douceur, les promesses, dans cette espérance qui ne déçoit pas.
[00621-03.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Anointed with the oil of gladness
Dear Brother Priests,
In the eternal "today" of Holy Thursday, when Christ showed his love for us to the end (cf. Jn 13:1), we recall the happy day of the institution of the priesthood, as well as the day of our own priestly ordination. The Lord anointed us in Christ with the oil of gladness, and this anointing invites us to accept and appreciate this great gift: the gladness, the joy of being a priest. Priestly joy is a priceless treasure, not only for the priest himself but for the entire faithful people of God: that faithful people from which he is called to be anointed and which he, in turn, is sent to anoint.
Anointed with the oil of gladness so as to anoint others with the oil of gladness. Priestly joy has its source in the Father’s love, and the Lord wishes the joy of this Love to be "ours" and to be "complete" (Jn 15:11). I like to reflect on joy by contemplating Our Lady, for Mary, the "Mother of the living Gospel, is a wellspring of joy for God’s little ones" (Evangelii Gaudium, 288). I do not think it is an exaggeration to say that priest is very little indeed: the incomparable grandeur of the gift granted us for the ministry sets us among the least of men. The priest is the poorest of men unless Jesus enriches him by his poverty, the most useless of servants unless Jesus calls him his friend, the most ignorant of men unless Jesus patiently teaches him as he did Peter, the frailest of Christians unless the Good Shepherd strengthens him in the midst of the flock. No one is more "little" than a priest left to his own devices; and so our prayer of protection against every snare of the Evil One is the prayer of our Mother: I am a priest because he has regarded my littleness (cf. Lk 1:48). And in that littleness we find our joy. Joy in our littleness!
For me, there are three significant features of our priestly joy. It is a joy which anoints us (not one which "greases" us, making us unctuous, sumptuous and presumptuous), it is a joy which is imperishable and it is a missionary joy which spreads and attracts, starting backwards – with those farthest away from us.
A joy which anoints us. In a word: it has penetrated deep within our hearts, it has shaped them and strengthened them sacramentally. The signs of the ordination liturgy speak to us of the Church’s maternal desire to pass on and share with others all that the Lord has given us: the laying on of hands, the anointing with sacred chrism, the clothing with sacred vestments, the first consecration which immediately follows… Grace fills us to the brim and overflows, fully, abundantly and entirely in each priest. We are anointed down to our very bones… and our joy, which wells up from deep within, is the echo of this anointing.
An imperishable joy. The fullness of the Gift, which no one can take away or increase, is an unfailing source of joy: an imperishable joy which the Lord has promised no one can take from us (Jn 16:22). It can lie dormant, or be clogged by sin or by life’s troubles, yet deep down it remains intact, like the embers of a burnt log beneath the ashes, and it can always be renewed. Paul’s exhortation to Timothy remains ever timely: I remind you to fan into flame the gift of God that is within you through the laying on of my hands (cf. 2 Tim 1:6).
A missionary joy. I would like especially to share with you and to stress this third feature: priestly joy is deeply bound up with God’s holy and faithful people, for it is an eminently missionary joy. Our anointing is meant for anointing God’s holy and faithful people: for baptizing and confirming them, healing and sanctifying them, blessing, comforting and evangelizing them.
And since this joy is one which only springs up when the shepherd is in the midst of his flock (for even in the silence of his prayer, the shepherd who worships the Father is with his sheep), it is a "guarded joy", watched over by the flock itself. Even in those gloomy moments when everything looks dark and a feeling of isolation takes hold of us, in those moments of listlessness and boredom which at times overcome us in our priestly life (and which I too have experienced), even in those moments God’s people are able to "guard" that joy; they are able to protect you, to embrace you and to help you open your heart to find renewed joy.
A "guarded joy": one guarded by the flock but also guarded by three sisters who surround it, tend it and defend it: sister poverty, sister fidelity and sister obedience.
The joy of priests is a joy which is sister to poverty. The priest is poor in terms of purely human joy. He has given up so much! And because he is poor, he, who gives so much to others, has to seek his joy from the Lord and from God’s faithful people. He doesn’t need to try to create it for himself. We know that our people are very generous in thanking priests for their slightest blessing and especially for the sacraments. Many people, in speaking of the crisis of priestly identity, fail to realize that identity presupposes belonging. There is no identity – and consequently joy of life – without an active and unwavering sense of belonging to God’s faithful people (cf. Evangelii Gaudium, 268). The priest who tries to find his priestly identity by soul-searching and introspection may well encounter nothing more than "exit" signs, signs that say: exit from yourself, exit to seek God in adoration, go out and give your people what was entrusted to you, for your people will make you feel and taste who you are, what your name is, what your identity is, and they will make you rejoice in that hundredfold which the Lord has promised to those who serve him. Unless you "exit" from yourself, the oil grows rancid and the anointing cannot be fruitful. Going out from ourselves presupposes self-denial; it means poverty.
Priestly joy is a joy which is sister to fidelity. Not primarily in the sense that we are all "immaculate" (would that by God’s grace we were!), for we are sinners, but in the sense of an ever renewed fidelity to the one Bride, to the Church. Here fruitfulness is key. The spiritual children which the Lord gives each priest, the children he has baptized, the families he has blessed and helped on their way, the sick he has comforted, the young people he catechizes and helps to grow, the poor he assists… all these are the "Bride" whom he rejoices to treat as his supreme and only love and to whom he is constantly faithful. It is the living Church, with a first name and a last name, which the priest shepherds in his parish or in the mission entrusted to him. That mission brings him joy whenever he is faithful to it, whenever he does all that he has to do and lets go of everything that he has to let go of, as long as he stands firm amid the flock which the Lord has entrusted to him: Feed my sheep (cf. Jn 21:16,17).
Priestly joy is a joy which is sister to obedience. An obedience to the Church in the hierarchy which gives us, as it were, not simply the external framework for our obedience: the parish to which I am sent, my ministerial assignments, my particular work … but also union with God the Father, the source of all fatherhood. It is likewise an obedience to the Church in service: in availability and readiness to serve everyone, always and as best I can, following the example of "Our Lady of Promptness" (cf. Lk 1:39, meta spoudes), who hastens to serve Elizabeth her kinswoman and is concerned for the kitchen of Cana when the wine runs out. The availability of her priests makes the Church a house with open doors, a refuge for sinners, a home for people living on the streets, a place of loving care for the sick, a camp for the young, a classroom for catechizing children about to make their First Communion… Wherever God’s people have desires or needs, there is the priest, who knows how to listen (ob-audire) and feels a loving mandate from Christ who sends him to relieve that need with mercy or to encourage those good desires with resourceful charity.
All who are called should know that genuine and complete joy does exist in this world: it is the joy of being taken from the people we love and then being sent back to them as dispensers of the gifts and counsels of Jesus, the one Good Shepherd who, with deep compassion for all the little ones and the outcasts of this earth, wearied and oppressed like sheep without a shepherd, wants to associate many others to his ministry, so as himself to remain with us and to work, in the person of his priests, for the good of his people.
On this Holy Thursday, I ask the Lord Jesus to enable many young people to discover that burning zeal which joy kindles in our hearts as soon as we have the stroke of boldness needed to respond willingly to his call.
On this Holy Thursday, I ask the Lord Jesus to preserve the joy sparkling in the eyes of the recently ordained who go forth to devour the world, to spend themselves fully in the midst of God's faithful people, rejoicing as they prepare their first homily, their first Mass, their first Baptism, their first confession… It is the joy of being able to share with wonder, and for the first time as God’s anointed, the treasure of the Gospel and to feel the faithful people anointing you again and in yet another way: by their requests, by bowing their heads for your blessing, by taking your hands, by bringing you their children, by pleading for their sick… Preserve, Lord, in your young priests the joy of going forth, of doing everything as if for the first time, the joy of spending their lives fully for you.
On this Thursday of the priesthood, I ask the Lord Jesus to confirm the priestly joy of those who have already ministered for some years. The joy which, without leaving their eyes, is also found on the shoulders of those who bear the burden of the ministry, those priests who, having experienced the labours of the apostolate, gather their strength and rearm themselves: "get a second wind", as the athletes say. Lord, preserve the depth, wisdom and maturity of the joy felt by these older priests. May they be able to pray with Nehemiah: "the joy of the Lord is my strength" (cf. Neh 8:10).
Finally, on this Thursday of the priesthood, I ask the Lord Jesus to make better known the joy of elderly priests, whether healthy or infirm. It is the joy of the Cross, which springs from the knowledge that we possess an imperishable treasure in perishable earthen vessels. May these priests find happiness wherever they are; may they experience already, in the passage of the years, a taste of eternity (Guardini). May they know, Lord, the joy of handing on the torch, the joy of seeing new generations of their spiritual children, and of hailing the promises from afar, smiling and at peace, in that hope which does not disappoint.
[00621-02.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Gesalbt mit dem Öl der Freude
Liebe Mitbrüder im priesterlichen Dienst,
im Heute des Gründonnerstags, an dem Christus uns bis zur Vollendung geliebt hat (vgl. Joh 13,1), gedenken wir des frohen Tags der Einsetzung des Priestertums und des Tags unserer Priesterweihe. Der Herr hat uns in Christus mit dem Öl der Freude gesalbt, und diese Salbung lädt uns ein, dieses große Geschenk – den Frohsinn, die priesterliche Freude – zu empfangen und sie uns zu Eigen zu machen. Der Frohsinn des Priesters ist ein kostbares Gut nicht allein für ihn, sondern für das ganze gläubige Volk Gottes: jenes gläubige Volk, aus dessen Mitte der Priester berufen wird, um gesalbt zu werden, und zu dem er gesandt ist, um zu salben.
Gesalbt mit dem Öl der Freude, um mit dem Öl der Freude zu salben. Die Freude des Priesters hat ihre Quelle in der Liebe des Vaters, und der Herr möchte, dass die Freude über diese Liebe »in uns« sei und dass sie »vollkommen« sei (vgl. Joh 15,11). Ich denke gerne an die Freude im Blick auf die Muttergottes: Maria, die »Mutter des lebendigen Evangeliums«, ist eine »Quelle der Freude für die Kleinen« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 288), und ich glaube, dass wir nicht übertreiben, wenn wir sagen, dass der Priester ein ganz kleiner Mensch ist: Die unermessliche Größe der Gabe, die uns für den Dienst geschenkt ist, versetzt uns unter die Kleinsten der Menschen. Der Priester ist der Ärmste der Menschen, wenn Jesus ihn nicht durch seine Armut reich macht; er ist der nutzloseste Knecht, wenn Jesus ihn nicht Freund nennt, der Dümmste der Menschen, wenn Jesus ihn nicht geduldig lehrt wie den Petrus; er ist der Hilfloseste der Christen, wenn der Gute Hirt ihn nicht inmitten der Herde stärkt. Niemand ist kleiner als ein Priester, der nur seinen eigenen Kräften überlassen bleibt. Darum ist unser Gebet zur Verteidigung gegen alle Nachstellungen des Bösen das unserer Mutter: Ich bin Priester, weil Er gütig auf meine Niedrigkeit geschaut hat (vgl. Lk 1,48). Und von dieser Kleinheit aus nehmen wir unsere Freude in uns auf - Freude in unserem Kleinsein!
Ich finde drei bedeutsame Wesensmerkmale in unserer priesterlichen Freude: Es ist eine Freude, die uns salbt (nicht etwa uns „einölt" und uns salbungsvoll-heuchlerisch, glanzliebend oder selbstgefällig-glatt macht), es ist eine unvergängliche Freude, und es ist eine missionarische Freude, die auf alle ausstrahlt und alle anzieht, in umgekehrter Reihenfolge: angefangen bei den Fernsten.
Eine Freude, die uns salbt. Das heißt: Sie ist zuinnerst in unser Herz eingedrungen, hat es geformt und sakramental gestärkt. Die Zeichen der Weiheliturgie sprechen zu uns von dem mütterlichen Wunsch, den die Kirche hat, alles, was der Herr uns gegeben hat, zu übertragen und mitzuteilen: die Handauflegung, die Salbung mit dem heiligen Chrisam, die Bekleidung mit den liturgischen Gewändern, die unmittelbare Beteiligung an der ersten Konsekration… Die Gnade erfüllt uns und breitet sich unvermindert, reichlich und vollständig in jedem Priester aus. Ich würde sagen: gesalbt bis ins Mark… und unsere Freude, die aus dem Innern hervorsprudelt, ist der Widerhall dieser Salbung.
Eine unvergängliche Freude. Die Vollständigkeit der Gabe, der niemand etwas wegnehmen noch hinzufügen kann, ist eine ununterbrochene Quelle der Freude: einer unvergänglichen Freude, von der der Herr versprochen hat, dass niemand sie uns nehmen kann (vgl. Joh 16,22). Sie kann eingeschläfert oder blockiert werden durch die Sünde oder die Sorgen des Lebens, aber in der Tiefe bleibt sie unberührt wie ein glühender Holzscheit unter der Asche und kann immer neu entfacht werden. Die Ermahnung des Apostels Paulus an Timotheus bleibt stets aktuell: Ich rufe dir ins Gedächtnis: Entfache das Feuer der Gabe Gottes wieder, das dir durch die Auflegung meiner Hände zuteil geworden ist. (vgl. 2 Tim 1,6).
Eine missionarische Freude. Dieses dritte Wesensmerkmal möchte ich in besonderer Weise darlegen und unterstreichen: Die Freude des Priesters steht in inniger Beziehung zum heiligen gläubigen Gottesvolk, denn es handelt sich um eine überwiegend missionarische Freude. Die Salbung ist dazu da, das heilige gläubige Gottesvolk zu salben: zu taufen und zu firmen, zu heilen und zu weihen, zu segnen, zu trösten und zu evangelisieren.
Und da es eine Freude ist, die nur fließt, wenn der Hirt inmitten seiner Herde ist (auch in der Stille des Gebetes ist der Hirt, der den himmlischen Vater anbetet, mitten unter seinen Schafen), darum ist es eine von ebendieser Herde „gehütete Freude". Selbst in den Momenten der Traurigkeit, in denen sich alles zu verdunkeln scheint und der Schwindel der Vereinsamung uns verführt – jene Momente der Apathie und der Interesselosigkeit, die manchmal im Priesterleben über uns hereinbrechen (und die auch ich durchgemacht habe) – sogar in diesen Momenten ist das Volk Gottes imstande, die Freude zu hüten, kann es dich schützen, dich umarmen, dir helfen, das Herz zu öffnen und wieder neu Freude zu finden.
„Gehütete Freude" durch die Herde und gehütet auch durch drei Schwestern, die sie umgeben, schützen und verteidigen: Schwester Armut, Schwester Treue und Schwester Folgsamkeit.
Die Freude des Priesters ist eine Freude welche die Armut zur Schwester hat. Der Priester ist arm an rein menschlicher Freude: Er hat auf so vieles verzichtet! Und da er, der den anderen so viel gibt, arm ist, muss er seine Freude vom Herrn und vom gläubigen Gottesvolk erbitten. Er darf sie sich nicht selbst beschaffen. Wir wissen, dass unser Volk äußerst großherzig ist in seinem Dank an die Priester für die kleinsten Gesten des Segens und in besonderer Weise für die Sakramente. Viele berücksichtigen, wenn sie von der Identitätskrise der Priester sprechen, nicht die Tatsache, dass Identität Zugehörigkeit voraussetzt. Es gibt keine Identität – und damit Lebensfreude – ohne aktive und engagierte Zugehörigkeit zum gläubigen Volk Gottes (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 268). Der Priester, der sich einbildet, die priesterliche Identität zu finden, indem er introspektiv in sein Innerstes hinabtaucht, wird dort wohl nichts anderes finden als Zeichen, die auf den „Ausgang" verweisen: Geh aus dir selbst heraus, geh hinaus und suche Gott in der Anbetung, geh hinaus und gib deinem Volk, was dir anvertraut ist, und dein Volk wird dafür sorgen, dass du spürst und erfährst, wer du bist, wie du heißt, was deine Identität ist, und es wird dir hundertfach Freude verschaffen, wie es der Herr seinen Knechten versprochen hat. Wenn du nicht aus dir herausgehst, wird das Öl ranzig und die Salbung kann keine Frucht bringen. Aus sich herauszugehen verlangt, sich selbst zu entäußern, schließt Armut ein.
Die priesterliche Freude ist eine Freude, welche die Treue zur Schwester hat. Nicht so sehr in dem Sinn, dass wir alle „unbefleckt" wären (schön wär’s, wenn wir es mit Gottes Gnade schafften!), denn wir sind Sünder; vielmehr in dem Sinn einer immer neuen Treue gegenüber der einzigen Braut, der Kirche. Darin liegt der Schlüssel zur Fruchtbarkeit. Die geistlichen Söhne und Töchter, die der Herr jedem Priester schenkt, jene, die er getauft hat, die Familien, die er gesegnet und denen er geholfen hat sich auf den Weg zu machen, die Kranken, die er aufrichtet, die Jugendlichen, mit denen er den Weg der Katechese und der Formung geht, die Armen, die er unterstützt… sie sind diese „Braut", und es ist seine Freude, sie als seine auserwählte und einzige Geliebte zu behandeln und ihr immer neu treu zu sein. Die lebendige Kirche ist es, mit Vor- und Zunamen, die der Priester in seiner Pfarrei oder in der ihm übertragenen Aufgabe hütet – sie ist es, die ihm Freude bringt, wenn er ihr treu ist, wenn er alles tut, was er tun muss und alles hinter sich lässt, was er lassen muss, um nur inmitten der Schafe zu bleiben, die der Herr ihm anvertraut hat: »Weide meine Schafe!« (Joh 21,16.17).
Die priesterliche Freude ist eine Freude, welche die Folgsamkeit zur Schwester hat. Folgsamkeit gegenüber der Kirche in der Hierarchie, die uns nicht nur sozusagen den äußeren Rahmen des Gehorsams gibt – die Pfarrei, zu der ich geschickt werde, die priesterlichen Befugnisse, die spezielle Aufgabe –, sondern auch die Verbindung zu Gott, dem Vater, in dem alle Vaterschaft ihren Ursprung hat. Doch auch Folgsamkeit gegenüber der Kirche im Dienst: unverzügliche Bereitschaft, allen immer und bestmöglich zu dienen, nach dem Vorbild „Unserer Lieben Frau von der unverzüglichen Bereitschaft" (vgl. Lk 1,39: meta spoudes), die sich eilends aufmacht, um ihrer Kusine zu dienen, und auf die Küche von Kana achtet, wo der Wein fehlt. Die Bereitschaft des Priesters macht die Kirche zum Haus der offenen Türen, zum Zufluchtsort für die Sünder, zur Heimstätte für die, welche auf der Straße leben, zum Pflegeheim für die Kranken, zum Zeltlager für die Jugendlichen, zum Katecheseraum für die Erstkommunionkinder… Wo das Volk Gottes einen Wunsch oder eine Not hat, da ist der Priester zur Stelle, der zuzuhören (ob-audire) weiß und einen liebevollen Auftrag Christi verspürt, der ihn sendet, um mit Barmherzigkeit in jener Not zu helfen oder jene guten Wünsche mit kreativer Nächstenliebe zu unterstützen.
Wer berufen ist, soll wissen, dass es in dieser Welt eine echte und vollkommene Freude gibt: die Freude, aus dem Volk, das man liebt, herausgenommen zu sein, um zu ihm gesandt zu werden als Spender der Gaben und der Tröstungen Jesu, des einzigen Guten Hirten. Voll herzlichen Mitgefühls für all die Kleinen und die Ausgeschlossenen dieser Erde, die erschöpft und unterdrückt sind wie Schafe ohne Hirten, wollte dieser viele mit seinem Dienst vereinen, um in der Person des Priesters selber für das Wohl seines Volkes da zu sein und zu wirken.
An diesem Gründonnerstag bitte ich Jesus, den Herrn, dass er viele junge Menschen jene Glut des Herzens entdecken lässt, die ein Feuer der Freude entfacht, sobald man den Wagemut aufbringt, unverzüglich auf seinen Ruf zu antworten.
An diesem Gründonnerstag bitte ich Jesus, den Herrn, dass er das frohe Leuchten in den Augen der Neugeweihten bewahre, die ausziehen, um die Welt „abzuweiden", um sich inmitten des gläubigen Gottesvolkes aufzureiben; die sich freuen bei der Vorbereitung der ersten Predigt, der ersten Messe, der ersten Taufe, der ersten Beichte… Es ist die Freude, zum ersten Mal als Gesalbte – voller Staunen – den Schatz des Evangeliums austeilen zu können und zu spüren, dass das gläubige Volk wiederum dich salbt, in einer anderen Weise: mit ihren Bitten, wenn sie den Kopf vor dir neigen, damit du sie segnest, wenn sie dir die Hände drücken, wenn sie dir ihre Kinder bringen, wenn sie für ihre Kranken bitten… Bewahre, Herr, in deinen jungen Priestern die Freude des Aufbruchs, alles wie etwas Neues zu tun, die Freude, ihr Leben für dich zu verbrennen.
An diesem Priesterdonnerstag bitte ich Jesus, den Herrn, die priesterliche Freude in denen zu bekräftigen, die schon viele Jahre lang Dienst tun. Jene Freude, die sich, ohne aus den Augen zu verschwinden, auf die Schultern derer legt, die die Last des Dienstes ertragen – Priester, die den „Puls der Arbeit" kennen, ihre Kräfte sammeln und sich erneut wappnen: Sie „atmen tief durch", wie die Sportler sagen. Bewahre, Herr, die Tiefe und die weise Reife der erwachsenen Priester. Mögen sie wie Nehemia zu beten verstehen: Die Freude am Herrn ist meine Stärke (vgl. Neh 8,10).
Schließlich bitte ich an diesem Priesterdonnerstag Jesus, den Herrn, dass die Freude der alten – gesunden oder kranken – Priester erstrahle. Es ist die Freue des Kreuzes, die aus dem Bewusstsein entspringt, einen unvergänglichen Schatz in einem irdenen Gefäß zu tragen, das allmählich zerbricht. Mögen sie es verstehen, an jedwedem Ort zufrieden zu sein, und in der Vergänglichkeit der Zeit den Geschmack des Ewigen kosten. Mögen sie, o Herr, die Freude empfinden, die Fackel weiterzugeben, die Freude, die nachfolgenden Generationen wachsen zu sehen und mit einem stillen Lächeln die Verheißungen zu grüßen – in jener Hoffnung, die nicht zugrunde gehen lässt.
[00621-05.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Ungidos con óleo de alegría
Queridos hermanos en el sacerdocio.
En el Hoy del Jueves Santo, en el que Cristo nos amó hasta el extremo (cf. Jn 13, 1), hacemos memoria del día feliz de la Institución del sacerdocio y del de nuestra propia ordenación sacerdotal. El Señor nos ha ungido en Cristo con óleo de alegría y esta unción nos invita a recibir y hacernos cargo de este gran regalo: la alegría, el gozo sacerdotal. La alegría del sacerdote es un bien precioso no sólo para él sino también para todo el pueblo fiel de Dios: ese pueblo fiel del cual es llamado el sacerdote para ser ungido y al que es enviado para ungir.
Ungidos con óleo de alegría para ungir con óleo de alegría. La alegría sacerdotal tiene su fuente en el Amor del Padre, y el Señor desea que la alegría de este Amor "esté en nosotros" y "sea plena" (Jn 15,11). Me gusta pensar la alegría contemplando a Nuestra Señora: María, la "madre del Evangelio viviente, es manantial de alegría para los pequeños" (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 288), y creo que no exageramos si decimos que el sacerdote es una persona muy pequeña: la inconmensurable grandeza del don que nos es dado para el ministerio nos relega entre los más pequeños de los hombres. El sacerdote es el más pobre de los hombres si Jesús no lo enriquece con su pobreza, el más inútil siervo si Jesús no lo llama amigo, el más necio de los hombres si Jesús no lo instruye pacientemente como a Pedro, el más indefenso de los cristianos si el Buen Pastor no lo fortalece en medio del rebaño. Nadie más pequeño que un sacerdote dejado a sus propias fuerzas; por eso nuestra oración protectora contra toda insidia del Maligno es la oración de nuestra Madre: soy sacerdote porque Él miró con bondad mi pequeñez (cf. Lc 1,48). Y desde esa pequeñez asumimos nuestra alegría. ¡Alegria en nuestra pequeñez!
Encuentro tres rasgos significativos en nuestra alegría sacerdotal: es una alegría que nos unge (no que nos unta y nos vuelve untuosos, suntuosos y presuntuosos), es una alegría incorruptible y es una alegría misionera que irradia y atrae a todos, comenzando al revés: por los más lejanos.
Una alegría que nos unge. Es decir: penetró en lo íntimo de nuestro corazón, lo configuró y lo fortaleció sacramentalmente. Los signos de la liturgia de la ordenación nos hablan del deseo maternal que tiene la Iglesia de transmitir y comunicar todo lo que el Señor nos dio: la imposición de manos, la unción con el santo Crisma, el revestimiento con los ornamentos sagrados, la participación inmediata en la primera Consagración… La gracia nos colma y se derrama íntegra, abundante y plena en cada sacerdote. Ungidos hasta los huesos… y nuestra alegría, que brota desde dentro, es el eco de esa unción.
Una alegría incorruptible. La integridad del Don, a la que nadie puede quitar ni agregar nada, es fuente incesante de alegría: una alegría incorruptible, que el Señor prometió, que nadie nos la podrá quitar (cf. Jn 16,22). Puede estar adormecida o taponada por el pecado o por las preocupaciones de la vida pero, en el fondo, permanece intacta como el rescoldo de un tronco encendido bajo las cenizas, y siempre puede ser renovada. La recomendación de Pablo a Timoteo sigue siendo actual: Te recuerdo que atices el fuego del don de Dios que hay en ti por la imposición de mis manos (cf. 2 Tm 1,6).
Una alegría misionera. Este tercer rasgo lo quiero compartir y recalcar especialmente: la alegría del sacerdote está en íntima relación con el santo pueblo fiel de Dios porque se trata de una alegría eminentemente misionera. La unción es para ungir al santo pueblo fiel de Dios: para bautizar y confirmar, para curar y consagrar, para bendecir, para consolar y evangelizar.
Y como es una alegría que solo fluye cuando el pastor está en medio de su rebaño (también en el silencio de la oración, el pastor que adora al Padre está en medio de sus ovejitas) es una "alegría custodiada" por ese mismo rebaño. Incluso en los momentos de tristeza, en los que todo parece ensombrecerse y el vértigo del aislamiento nos seduce, esos momentos apáticos y aburridos que a veces nos sobrevienen en la vida sacerdotal (y por los que también yo he pasado), aun en esos momentos el pueblo de Dios es capaz de custodiar la alegría, es capaz de protegerte, de abrazarte, de ayudarte a abrir el corazón y reencontrar una renovada alegría.
"Alegría custodiada" por el rebaño y custodiada también por tres hermanas que la rodean, la cuidan, la defienden: la hermana pobreza, la hermana fidelidad y la hermana obediencia.
La alegría sacerdotal es una alegría que se hermana a la pobreza. El sacerdote es pobre en alegría meramente humana ¡ha renunciado a tanto! Y como es pobre, él, que da tantas cosas a los demás, la alegría tiene que pedírsela al Señor y al pueblo fiel de Dios. No se la tiene que procurar a sí mismo. Sabemos que nuestro pueblo es generosísimo en agradecer a los sacerdotes los mínimos gestos de bendición y de manera especial los sacramentos. Muchos, al hablar de crisis de identidad sacerdotal, no caen en la cuenta de que la identidad supone pertenencia. No hay identidad –y por tanto alegría de ser– sin pertenencia activa y comprometida al pueblo fiel de Dios (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 268). El sacerdote que pretende encontrar la identidad sacerdotal buceando introspectivamente en su interior quizá no encuentre otra cosa que señales que dicen "salida": sal de ti mismo, sal en busca de Dios en la adoración, sal y dale a tu pueblo lo que te fue encomendado, que tu pueblo se encargará de hacerte sentir y gustar quién eres, cómo te llamas, cuál es tu identidad y te alegrará con el ciento por uno que el Señor prometió a sus servidores. Si no sales de ti mismo el óleo se vuelve rancio y la unción no puede ser fecunda. Salir de sí mismo supone despojo de sí, entraña pobreza.
La alegría sacerdotal es una alegría que se hermana a la fidelidad. No principalmente en el sentido de que seamos todos "inmaculados" (ojalá con la gracia lo seamos) ya que somos pecadores, pero sí en el sentido de renovada fidelidad a la única Esposa, a la Iglesia. Aquí es clave la fecundidad. Los hijos espirituales que el Señor le da a cada sacerdote, los que bautizó, las familias que bendijo y ayudó a caminar, los enfermos a los que sostiene, los jóvenes con los que comparte la catequesis y la formación, los pobres a los que socorre… son esa "Esposa" a la que le alegra tratar como predilecta y única amada y serle renovadamente fiel. Es la Iglesia viva, con nombre y apellido, que el sacerdote pastorea en su parroquia o en la misión que le fue encomendada, la que lo alegra cuando le es fiel, cuando hace todo lo que tiene que hacer y deja todo lo que tiene que dejar con tal de estar firme en medio de las ovejas que el Señor le encomendó: Apacienta mis ovejas (cf. Jn 21,16.17).
La alegría sacerdotal es una alegría que se hermana a la obediencia. Obediencia a la Iglesia en la Jerarquía que nos da, por decirlo así, no sólo el marco más externo de la obediencia: la parroquia a la que se me envía, las licencias ministeriales, la tarea particular… sino también la unión con Dios Padre, del que desciende toda paternidad. Pero también la obediencia a la Iglesia en el servicio: disponibilidad y prontitud para servir a todos, siempre y de la mejor manera, a imagen de "Nuestra Señora de la prontitud" (cf. Lc 1,39: meta spoudes), que acude a servir a su prima y está atenta a la cocina de Caná, donde falta el vino. La disponibilidad del sacerdote hace de la Iglesia casa de puertas abiertas, refugio de pecadores, hogar para los que viven en la calle, casa de bondad para los enfermos, campamento para los jóvenes, aula para la catequesis de los pequeños de primera comunión…. Donde el pueblo de Dios tiene un deseo o una necesidad, allí está el sacerdote que sabe oír (ob-audire) y siente un mandato amoroso de Cristo que lo envía a socorrer con misericordia esa necesidad o a alentar esos buenos deseos con caridad creativa.
El que es llamado sea consciente de que existe en este mundo una alegría genuina y plena: la de ser sacado del pueblo al que uno ama para ser enviado a él como dispensador de los dones y consuelos de Jesús, el único Buen Pastor que, compadecido entrañablemente de todos los pequeños y excluidos de esta tierra que andan agobiados y oprimidos como ovejas que no tienen pastor, quiso asociar a muchos a su ministerio para estar y obrar Él mismo, en la persona de sus sacerdotes, para bien de su pueblo.
En este Jueves sacerdotal le pido al Señor Jesús que haga descubrir a muchos jóvenes ese ardor del corazón que enciende la alegría apenas uno tiene la audacia feliz de responder con prontitud a su llamado.
En este Jueves sacerdotal le pido al Señor Jesús que cuide el brillo alegre en los ojos de los recién ordenados, que salen a comerse el mundo, a desgastarse en medio del pueblo fiel de Dios, que gozan preparando la primera homilía, la primera misa, el primer bautismo, la primera confesión… Es la alegría de poder compartir –maravillados– por vez primera como ungidos, el tesoro del Evangelio y sentir que el pueblo fiel te vuelve a ungir de otra manera: con sus pedidos, poniéndote la cabeza para que los bendigas, tomándote las manos, acercándote a sus hijos, pidiendo por sus enfermos… Cuida Señor en tus jóvenes sacerdotes la alegría de salir, de hacerlo todo como nuevo, la alegría de quemar la vida por ti.
En este Jueves sacerdotal le pido al Señor Jesús que confirme la alegría sacerdotal de los que ya tienen varios años de ministerio. Esa alegría que, sin abandonar los ojos, se sitúa en las espaldas de los que soportan el peso del ministerio, esos curas que ya le han tomado el pulso al trabajo, reagrupan sus fuerzas y se rearman: "cambian el aire", como dicen los deportistas. Cuida Señor la profundidad y sabia madurez de la alegría de los curas adultos. Que sepan rezar como Nehemías: "la alegría del Señor es mi fortaleza" (cf. Ne 8,10).
Por fin, en este Jueves sacerdotal, pido al Señor Jesús que resplandezca la alegría de los sacerdotes ancianos, sanos o enfermos. Es la alegría de la Cruz, que mana de la conciencia de tener un tesoro incorruptible en una vasija de barro que se va deshaciendo. Que sepan estar bien en cualquier lado, sintiendo en la fugacidad del tiempo el gusto de lo eterno (Guardini). Que sientan, Señor, la alegría de pasar la antorcha, la alegría de ver crecer a los hijos de los hijos y de saludar, sonriendo y mansamente, las promesas, en esa esperanza que no defrauda.
[00621-04.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Ungidos com o óleo da alegria
Amados irmãos no sacerdócio!
No Hoje da Quinta-feira Santa, em que Cristo levou o seu amor por nós até ao extremo (cf. Jo 13, 1), comemoramos o dia feliz da instituição do sacerdócio e o da nossa ordenação sacerdotal. O Senhor ungiu-nos em Cristo com óleo da alegria, e esta unção convida-nos a acolher e cuidar deste grande dom: a alegria, o júbilo sacerdotal. A alegria do sacerdote é um bem precioso tanto para si mesmo como para todo o povo fiel de Deus: do meio deste povo fiel é chamado o sacerdote para ser ungido e ao mesmo povo é enviado para ungir.
Ungidos com óleo de alegria para ungir com óleo de alegria. A alegria sacerdotal tem a sua fonte no Amor do Pai, e o Senhor deseja que a alegria deste amor «esteja em nós» e «seja completa» (Jo 15, 11). Gosto de pensar na alegria contemplando Nossa Senhora: Maria é «Mãe do Evangelho vivente, manancial de alegria para os pequeninos» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 288), e creio não exagerar se dissermos que o sacerdote é uma pessoa muito pequena: a grandeza incomensurável do dom que nos é dado para o ministério relega-nos entre os menores dos homens. O sacerdote é o mais pobre dos homens, se Jesus não o enriquece com a sua pobreza; é o servo mais inútil, se Jesus não o trata como amigo; é o mais louco dos homens, se Jesus não o instrui pacientemente como fez com Pedro; o mais indefeso dos cristãos, se o Bom Pastor não o fortifica no meio do rebanho. Não há ninguém menor que um sacerdote deixado meramente às suas forças; por isso, a nossa oração de defesa contra toda a cilada do Maligno é a oração da nossa Mãe: sou sacerdote, porque Ele olhou com bondade para a minha pequenez (cf. Lc 1, 48). E, a partir desta pequenez, recebemos a nossa alegria. Alegria na nossa pequenez!
Na nossa alegria sacerdotal, encontro três características significativas: uma alegria que nos unge (sem nos tornar untuosos, sumptuosos e presunçosos), uma alegria incorruptível e uma alegria missionária que irradia para todos e todos atrai a começar, inversamente, pelos mais distantes.
Uma alegria que nos unge. Quer dizer: penetrou no íntimo do nosso coração, configurou-o e fortificou-o sacramentalmente. Os sinais da liturgia da ordenação falam-nos do desejo materno que a Igreja tem de transmitir e comunicar tudo aquilo que o Senhor nos deu: a imposição das mãos, a unção com o santo Crisma, o revestir-se com os paramentos sagrados, a participação imediata na primeira Consagração... A graça enche-nos e derrama-se íntegra, abundante e plena em cada sacerdote. Ungidos até aos ossos... e a nossa alegria, que brota de dentro, é o eco desta unção.
Uma alegria incorruptível. A integridade do Dom – ninguém lhe pode tirar nem acrescentar nada – é fonte incessante de alegria: uma alegria incorruptível, a propósito da qual prometeu o Senhor que ninguém no-la poderá tirar (cf. Jo 16, 22). Pode ser adormentada ou sufocada pelo pecado ou pelas preocupações da vida, mas, no fundo, permanece intacta como o tição aceso dum cepo queimado sob as cinzas, e sempre se pode renovar. Permanece sempre actual a recomendação de Paulo a Timóteo: reaviva o fogo do dom de Deus, que está em ti pela imposição das minhas mãos (cf. 2 Tm 1, 6).
Uma alegria missionária. Sobre esta terceira característica, quero alongar-me mais convosco sublinhando-a de maneira especial: a alegria do sacerdote está intimamente relacionada com o povo fiel e santo de Deus, porque se trata de uma alegria eminentemente missionária. A unção ordena-se para ungir o povo fiel e santo de Deus: para baptizar e confirmar, para curar e consagrar, para abençoar, para consolar e evangelizar.
E, sendo uma alegria que flui apenas quando o pastor está no meio do seu rebanho (mesmo no silêncio da oração, o pastor que adora o Pai está no meio das suas ovelhas), è, por isso, uma «alegria guardada» por este mesmo rebanho. Mesmo nos momentos de tristeza, quando tudo parece entenebrecer-se e nos seduz a vertigem do isolamento, naqueles momentos apáticos e chatos que por vezes nos assaltam na vida sacerdotal (e pelos quais também eu passei), mesmo em tais momentos o povo de Deus é capaz de guardar a alegria, é capaz de proteger-te, abraçar-te, ajudar-te a abrir o coração e reencontrar uma alegria renovada.
«Alegria guardada» pelo rebanho e guardada também por três irmãs que a rodeiam, protegem e defendem: irmã pobreza, irmã fidelidade e irmã obediência.
A alegria do sacerdote é uma alegria que tem como irmã a pobreza. O sacerdote é pobre de alegrias meramente humanas: renunciou a tantas coisas! E, visto que é pobre – ele que tantas coisas dá aos outros –, a sua alegria deve pedi-la ao Senhor e ao povo fiel de Deus. Não deve buscá-la ele mesmo. Sabemos que o nosso povo é generosíssimo a agradecer aos sacerdotes os mínimos gestos de bênção e, de modo especial, os Sacramentos. Muitos, falando da crise de identidade sacerdotal, não têm em conta que a identidade pressupõe pertença. Não há identidade – e, consequentemente, alegria de viver – sem uma activa e empenhada pertença ao povo fiel de Deus (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 268). O sacerdote que pretende encontrar a identidade sacerdotal indagando introspectivamente na própria interioridade, talvez não encontre nada mais senão sinais que dizem «saída»: sai de ti mesmo, sai em busca de Deus na adoração, sai e dá ao teu povo aquilo que te foi confiado, e o teu povo terá o cuidado de fazer-te sentir e experimentar quem és, como te chamas, qual é a tua identidade e fazer-te-á rejubilar com aquele cem por um que o Senhor prometeu aos seus servos. Se não sais de ti mesmo, o óleo torna-se rançoso e a unção não pode ser fecunda. Sair de si mesmo requer despojar-se de si, comporta pobreza.
A alegria sacerdotal é uma alegria que tem como irmã a fidelidade. Não tanto no sentido de que seremos todos «imaculados» (quem dera que o fôssemos, com a graça de Deus!), dado que somos pecadores, como sobretudo no sentido de uma fidelidade sempre nova à única Esposa, a Igreja. Aqui está a chave da fecundidade. Os filhos espirituais que o Senhor dá a cada sacerdote, aqueles que baptizou, as famílias que abençoou e ajudou a caminhar, os doentes que apoia, os jovens com quem partilha a catequese e a formação, os pobres que socorre… todos eles são esta «Esposa» que o sacerdote se sente feliz em tratar como sua predilecta e única amada e ser-lhe fiel sem cessar. É a Igreja viva, com nome e apelido, da qual o sacerdote cuida na sua paróquia ou na missão que lhe foi confiada, é essa que lhe dá alegria quando lhe é fiel, quando faz tudo o que deve fazer e deixa tudo o que deve deixar contanto que permaneça no meio das ovelhas que o Senhor lhe confiou: «Apascenta as minhas ovelhas» (Jo 21, 16.17).
A alegria sacerdotal é uma alegria que tem como irmã a obediência. Obediência à Igreja na Hierarquia que nos dá, por assim dizer, não só o âmbito mais externo da obediência: a paróquia à qual sou enviado, as faculdades do ministério, aquele encargo particular... e ainda a união com Deus Pai, de Quem deriva toda a paternidade. Mas também a obediência à Igreja no serviço: disponibilidade e prontidão para servir a todos, sempre e da melhor maneira, à imagem de «Nossa Senhora da prontidão» (cf. Lc 1, 39: meta spoudes), que acorre a servir sua prima e está atenta à cozinha de Caná, onde falta o vinho. A disponibilidade do sacerdote faz da Igreja a Casa das portas abertas, refúgio para os pecadores, lar para aqueles que vivem na rua, casa de cura para os doentes, acampamento para os jovens, sessão de catequese para as crianças da Primeira Comunhão... Onde o povo de Deus tem um desejo ou uma necessidade, aí está o sacerdote que sabe escutar (ob-audire) e pressente um mandato amoroso de Cristo que o envia a socorrer com misericórdia tal necessidade ou a apoiar aqueles bons desejos com caridade criativa.
Aquele que é chamado saiba que existe neste mundo uma alegria genuína e plena: a de ser tomado pelo povo que uma pessoa alguém ama até ao ponto de ser enviada a ele como dispensadora dos dons e das consolações de Jesus, o único Bom Pastor, que, cheio de profunda compaixão por todos os humildes e os excluídos desta terra, cansados e abatidos como ovelhas sem pastor, quis associar muitos sacerdotes ao seu ministério para, na pessoa deles, permanecer e agir Ele próprio em benefício do seu povo.
Nesta Quinta-feira santa, peço ao Senhor Jesus que faça descobrir a muitos jovens aquele ardor do coração que faz acender a alegria logo que alguém tem a feliz audácia de responder com prontidão à sua chamada.
Nesta Quinta-feira santa, peço ao Senhor Jesus que conserve o brilho jubiloso nos olhos dos recém-ordenados, que partem para «se dar a comer» pelo mundo, para consumar-se no meio do povo fiel de Deus, que exultam preparando a primeira homilia, a primeira Missa, o primeiro Baptismo, a primeira Confissão... É a alegria de poder pela primeira vez, como ungidos, partilhar – maravilhados – o tesouro do Evangelho e sentir que o povo fiel volta a ungir-te de outra maneira: com os seus pedidos, inclinando a cabeça para que tu os abençoes, apertando-te as mãos, apresentando-te aos seus filhos, intercedendo pelos seus doentes... Conserva, Senhor, nos teus sacerdotes jovens, a alegria de começar, de fazer cada coisa como nova, a alegria de consumar a vida por Ti.
Nesta Quinta-feira sacerdotal, peço ao Senhor Jesus que confirme a alegria sacerdotal daqueles que têm muitos anos de ministério. Aquela alegria que, sem desaparecer dos olhos, pousa sobre os ombros de quantos suportam o peso do ministério, aqueles sacerdotes que já tomaram o pulso ao trabalho, reúnem as suas forças e se rearmam: «tomam fôlego», como dizem os desportistas. Conserva, Senhor, a profundidade e a sábia maturidade da alegria dos sacerdotes adultos. Saibam orar como Neemias: a alegria do Senhor é a minha força (cf. Ne 8, 10).
Enfim, nesta Quinta-feira sacerdotal, peço ao Senhor Jesus que brilhe a alegria dos sacerdotes idosos, sãos ou doentes. É a alegria da Cruz, que dimana da certeza de possuir um tesouro incorruptível num vaso de barro que se vai desfazendo. Saibam estar bem em qualquer lugar, sentindo na fugacidade do tempo o sabor do eterno (Guardini). Sintam, Senhor, a alegria de passar a chama, a alegria de ver crescer os filhos dos filhos e de saudar, sorrindo e com mansidão, as promessas, naquela esperança que não desilude.
[00621-06.02] [Texto original: Italiano]
[B0280-XX.03]