Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


SANTA MESSA CON I NUOVI CARDINALI NELLA SOLENNITÀ DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO, 25.11.2012


Alle ore 9.30 di oggi, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Basilica Vaticana la concelebrazione eucaristica con i 6 nuovi Cardinali creati nel Concistoro di ieri.
All’inizio della Santa Messa l’Em.mo Card. James Michael Harvey, Arciprete della Basilica Papale di San Paolo fuori le mura, primo tra i nuovi Cardinali, rivolge al Papa un indirizzo di saluto e gratitudine, a nome di tutti i Porporati.
Riportiamo di seguito il testo dell’omelia che il Santo Padre tiene dopo la proclamazione del Santo Vangelo, e l’indirizzo di omaggio del Card. Harvey:

OMELIA DEL SANTO PADRE

 TESTO IN LINGUA ITALIANA

 TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

 TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

 TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

 TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

 TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

 TRADUZIONE IN LINGUA POLACCA

 TESTO IN LINGUA ITALIANA

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

La solennità odierna di Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico, si arricchisce dell’accoglienza nel Collegio Cardinalizio di sei nuovi Membri che, secondo la tradizione, ho invitato questa mattina a concelebrare con me l’Eucaristia. A ciascuno di essi rivolgo il mio più cordiale saluto, ringraziando il Cardinale James Michael Harvey per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti. Saluto gli altri Porporati e tutti i Presuli presenti, come pure le distinte Autorità, i Signori Ambasciatori, i sacerdoti, i religiosi e tutti i fedeli, specialmente quelli provenienti dalle Diocesi affidate alla guida pastorale dei nuovi Cardinali.

In quest’ultima domenica dell’anno liturgico la Chiesa ci invita a celebrare il Signore Gesù quale Re dell’universo. Ci chiama a rivolgere lo sguardo al futuro, o meglio in profondità, verso la meta ultima della storia, che sarà il regno definitivo ed eterno di Cristo. Egli era all’inizio con il Padre quando è stato creato il mondo, e manifesterà pienamente la sua signoria alla fine dei tempi, quando giudicherà tutti gli uomini. Le tre Letture di oggi ci parlano di questo regno. Nel brano evangelico che abbiamo ascoltato, tratto dal Vangelo di San Giovanni, Gesù si trova in una situazione umiliante - quella di accusato -, davanti al potere romano. E’ stato arrestato, insultato, schernito, e ora i suoi nemici sperano di ottenerne la condanna al supplizio della croce. L’hanno presentato a Pilato come uno che aspira al potere politico, come il sedicente re dei Giudei. Il procuratore romano compie la sua indagine e interroga Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33). Rispondendo a questa domanda, Gesù chiarisce la natura del suo regno e della sua stessa messianicità, che non è potere mondano, ma amore che serve; Egli afferma che il suo regno non va assolutamente confuso con un qualsiasi regno politico: «Il mio regno non è di questo mondo … non è di quaggiù» (v. 36).

E’ chiaro che Gesù non ha nessuna ambizione politica. Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente, entusiasmata dal miracolo, lo voleva prendere per farlo re, per rovesciare il potere romano e stabilire così un nuovo regno politico, che sarebbe stato considerato come il regno di Dio tanto atteso. Ma Gesù sa che il regno di Dio è di tutt’altro genere, non si basa sulle armi e sulla violenza. Ed è proprio la moltiplicazione dei pani che diventa, da un lato, segno della sua messianicità, ma, dall’altro, uno spartiacque nella sua attività: da quel momento il cammino verso la Croce si fa sempre più chiaro; lì, nel supremo atto di amore, risplenderà il regno promesso, il regno di Dio. Ma la folla non comprende, è delusa, e Gesù si ritira sul monte da solo a pregare, a parlare con il Padre (cfr Gv 6,1-15). Nel racconto della Passione vediamo come anche i discepoli, pur avendo condiviso la vita con Gesù e ascoltato le sue parole, pensavano ad un regno politico, instaurato anche con l’aiuto della forza. Nel Getsemani, Pietro aveva sfoderato la sua spada e iniziato a combattere, ma Gesù lo aveva fermato (cfr Gv 18,10-11). Egli non vuole essere difeso con le armi, ma vuole compiere la volontà del Padre fino in fondo e stabilire il suo regno non con le armi e la violenza, ma con l’apparente debolezza dell’amore che dona la vita. Il regno di Dio è un regno completamente diverso da quelli terreni.

Ed è per questo che davanti ad un uomo indifeso, fragile, umiliato, come è Gesù, un uomo di potere come Pilato rimane sorpreso; sorpreso perché sente parlare di un regno, di servitori. E pone una domanda che gli sarà sembrata paradossale: «Dunque tu sei re?». Che tipo di re può essere un uomo in quelle condizioni? Ma Gesù risponde in modo affermativo: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (18,37). Gesù parla di re, di regno, ma il riferimento non è al dominio, bensì alla verità. Pilato non comprende: ci può essere un potere che non si ottiene con mezzi umani? Un potere che non risponda alla logica del dominio e della forza? Gesù è venuto per rivelare e portare una nuova regalità, quella di Dio; è venuto per rendere testimonianza alla verità di un Dio che è amore (cfr 1 Gv 4,8.16) e che vuole stabilire un regno di giustizia, di amore e di pace (cfr Prefazio). Chi è aperto all’amore, ascolta questa testimonianza e l’accoglie con fede, per entrare nel regno di Dio.

Questa prospettiva la ritroviamo nella prima Lettura che abbiamo ascoltato. Il profeta Daniele predice il potere di un misterioso personaggio collocato tra cielo e terra: «Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (7,13-14). Sono parole che prospettano un re che domina da mare a mare fino ai confini della terra, con un potere assoluto che non sarà mai distrutto. Questa visione del Profeta, una visione messianica, viene illuminata e trova la sua realizzazione in Cristo: il potere del vero Messia, potere che non tramonta mai e che non sarà mai distrutto, non è quello dei regni della terra che sorgono e cadono, ma è quello della verità e dell’amore. Con ciò comprendiamo come la regalità annunciata da Gesù nelle parabole e rivelata in modo aperto ed esplicito davanti al Procuratore romano, è la regalità della verità, l’unica che dà a tutte le cose la loro luce e la loro grandezza.

Nella seconda Lettura l’autore dell’Apocalisse afferma che anche noi partecipiamo alla regalità di Cristo. Nell’acclamazione rivolta a «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» dichiara che Cristo «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (1,5-6). Anche qui è chiaro che si tratta di un regno fondato sulla relazione con Dio, con la verità, e non di un regno politico. Con il suo sacrificio, Gesù ci ha aperto la strada per un rapporto profondo con Dio: in Lui siamo diventati veri figli adottivi, siamo resi così partecipi della sua regalità sul mondo. Essere discepoli di Gesù significa, allora, non lasciarsi affascinare dalla logica mondana del potere, ma portare nel mondo la luce della verità e dell’amore di Dio. L’autore dell’Apocalisse allarga poi lo sguardo alla seconda venuta di Gesù per giudicare gli uomini e stabilire per sempre il regno divino, e ci ricorda che la conversione, come risposta alla grazia divina, è la condizione per l’instaurazione di questo regno (cfr 1,7). E’ un forte invito rivolto a tutti e a ciascuno: convertirsi sempre di nuovo al regno di Dio, alla signoria di Dio, della Verità, nella nostra vita. Lo invochiamo quotidianamente nella preghiera del "Padre nostro" con le parole "Venga il tuo regno", che è dire a Gesù: Signore facci essere tuoi, vivi in noi, raccogli l’umanità dispersa e sofferente, perché in Te tutto sia sottomesso al Padre della misericordia e dell’amore.

A voi, cari e venerati Fratelli Cardinali – penso in particolare a quelli creati ieri – viene affidata questa impegnativa responsabilità: dare testimonianza al regno di Dio, alla verità. Ciò significa far emergere sempre la priorità di Dio e della sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Fatevi imitatori di Gesù, il quale, davanti a Pilato, nella situazione umiliante descritta dal Vangelo, ha manifestato la sua gloria: quella di amare sino all’estremo, donando la propria vita per le persone amate. Questa è la rivelazione del regno di Gesù. E per questo, con un cuore solo ed un’anima sola, preghiamo: «Adveniat regnum tuum». Amen.

[01571-01.02] [Testo originale: Italiano]

 TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Your Eminences,
Dear Brother Bishops and Priests,
Dear Brothers and Sisters,

Today’s Solemnity of Christ, King of the Universe, the crowning of the liturgical year, is enriched by our reception into the College of Cardinals of six new members whom, following tradition, I have invited to celebrate the Eucharist with me this morning. I greet each of them most cordially and I thank Cardinal James Michael Harvey for the gracious words which he addressed to me in the name of all. I greet the other Cardinals and Bishops present, as well as the distinguished civil Authorities, Ambassadors, priests, religious and all the faithful, especially those coming from the Dioceses entrusted to the pastoral care of the new Cardinals.

In this final Sunday of the liturgical year, the Church invites us to celebrate the Lord Jesus as King of the Universe. She calls us to look to the future, or more properly into the depths, to the ultimate goal of history, which will be the definitive and eternal kingdom of Christ. He was with the Father in the beginning, when the world was created, and he will fully manifest his lordship at the end of time, when he will judge all mankind. Today’s three readings speak to us of this kingdom. In the Gospel passage which we have just heard, drawn from the Gospel of Saint John, Jesus appears in humiliating circumstances – he stands accused – before the might of Rome. He had been arrested, insulted, mocked, and now his enemies hope to obtain his condemnation to death by crucifixion. They had presented him to Pilate as one who sought political power, as the self-proclaimed King of the Jews. The Roman procurator conducts his enquiry and asks Jesus: "Are you the King of the Jews?" (Jn 18:33). In reply to this question, Jesus clarifies the nature of his kingship and his messiahship itself, which is no worldly power but a love which serves. He states that his kingdom is in no way to be confused with a political reign: "My kingship is not of this world … is not from the world" (v. 36).

Jesus clearly had no political ambitions. After the multiplication of the loaves, the people, enthralled by the miracle, wanted to take him away and make him their king, in order to overthrow the power of Rome and thus establish a new political kingdom which would be considered the long-awaited kingdom of God. But Jesus knows that God’s kingdom is of a completely different kind; it is not built on arms and violence. The multiplication of the loaves itself becomes both the sign that he is the Messiah and a watershed in his activity: henceforth the path to the Cross becomes ever clearer; there, in the supreme act of love, the promised kingdom, the kingdom of God, will shine forth. But the crowd does not understand this; they are disappointed and Jesus retires to the mountain to pray in solitude, to pray with the Father (cf. Jn 6:1-15). In the Passion narrative we see how even the disciples, though they had shared Jesus’ life and listened to his words, were still thinking of a political kingdom, brought about also by force. In Gethsemane, Peter had unsheathed his sword and began to fight, but Jesus stopped him (cf. Jn 18:10-11). He does not wish to be defended by arms, but to accomplish the Father’s will to the end, and to establish his kingdom not by armed conflict, but by the apparent weakness of life-giving love. The kingdom of God is a kingdom utterly different from earthly kingdoms.

That is why, faced with a defenceless, weak and humiliated man, as Jesus was, a man of power like Pilate is taken aback; taken aback because he hears of a kingdom and servants. So he asks an apparently odd question: "So you are a king?" What sort of king can such a man as this be? But Jesus answers in the affirmative: "You say that I am a king. For this I was born, and for this I have come into the world, to bear witness to the truth. Every one who is of the truth hears my voice" (18:37). Jesus speaks of kings and kingship, yet he is not referring to power but to truth. Pilate fails to understand: can there be a power not obtained by human means? A power which does not respond to the logic of domination and force? Jesus came to reveal and bring a new kingship, that of God; he came to bear witness to the truth of a God who is love (cf. 1 Jn 4:8,16), who wants to establish a kingdom of justice, love and peace (cf. Preface). Whoever is open to love hears this testimony and accepts it with faith, to enter the kingdom of God.

We find this same perspective in the first reading we heard. The prophet Daniel foretells the power of a mysterious personage set between heaven and earth: "Behold, with the clouds of heaven there came one like a son of man, and he came to the Ancient of Days and was presented before him. To him was given dominion and glory and kingdom, that all peoples, nations and languages should serve him; his dominion is an everlasting dominion, which shall not pass away, and his kingdom one that shall not be destroyed" (7:13-14). These words present a king who reigns from sea to sea, to the very ends of the earth, possessed of an absolute power which will never be destroyed. This vision of the prophet, a messianic vision, is made clear and brought to fulfilment in Christ: the power of the true Messiah, the power which will never pass away or be destroyed, is not the power of the kingdoms of the earth which rise and fall, but the power of truth and love. In this way we understand how the kingship proclaimed by Jesus in the parables and openly and explicitly revealed before the Roman procurator, is the kingship of truth, the one which gives all things their light and grandeur.

In the second reading, the author of the Book of Revelation states that we too share in Christ’s kingship. In the acclamation addressed "to him who loves us and has freed us from our sins by his blood", he declares that Christ "has made us a kingdom, priests to his God and Father" (1:5-6). Here too it is clear that we are speaking of a kingdom based on a relationship with God, with truth, and not a political kingdom. By his sacrifice, Jesus has opened for us the path to a profound relationship with God: in him we have become true adopted children and thus sharers in his kingship over the world. To be disciples of Jesus, then, means not letting ourselves be allured by the worldly logic of power, but bringing into the world the light of truth and God’s love. The author of the Book of Revelation broadens his gaze to include Jesus’ second coming to judge mankind and to establish forever his divine kingdom, and he reminds us that conversion, as a response to God’s grace, is the condition for the establishment of this kingdom (cf. 1:7). It is a pressing invitation addressed to each and all: to be converted ever anew to the kingdom of God, to the lordship of God, of Truth, in our lives. We invoke the kingdom daily in the prayer of the "Our Father" with the words "Thy kingdom come"; in effect we say to Jesus: Lord, make us yours, live in us, gather together a scattered and suffering humanity, so that in you all may be subjected to the Father of mercy and love.

To you, dear and venerable Brother Cardinals – I think in particular of those created yesterday – is is entrusted this demanding responsibility: to bear witness to the kingdom of God, to the truth. This means working to bring out ever more clearly the priority of God and his will over the interests of the world and its powers. Become imitators of Jesus, who, before Pilate, in the humiliating scene described by the Gospel, manifested his glory: that of loving to the utmost, giving his own life for those whom he loves. This is the revelation of the kingdom of Jesus. And for this reason, with one heart and one soul, let us pray: Adveniat regnum tuum – Thy kingdom come. Amen.

[01571-02.02] [Original text: Italian]

 TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Messieurs les Cardinaux,
Vénérés frères dans l’épiscopat et dans le sacerdoce,
Chers frères et sœurs,

La solennité du Christ-Roi de l’univers – couronnement de l’année liturgique – s’enrichit aujourd’hui de l’accueil dans le Collège cardinalice de six nouveaux Membres que, selon la tradition, j’ai invités à concélébrer avec moi l’Eucharistie, ce matin. À chacun d’eux, j’adresse mes plus cordiales salutations, en remerciant le Cardinal James Michael Harvey pour les paroles courtoises qu’il m’a adressées au nom de tous. Je salue les autres Cardinaux et tous les Prélats présents, ainsi que les illustres autorités, Mesdames et Messieurs les Ambassadeurs, les prêtres, les religieux et tous les fidèles, particulièrement ceux venus des diocèses confiés à la charge pastorale des nouveaux Cardinaux.

En ce dernier dimanche de l’année liturgique, l’Église nous invite à célébrer le Seigneur Jésus, Roi de l’univers. Elle nous appelle à tourner notre regard vers l’avenir, ou mieux plus profondément, vers la destination finale de l’histoire qui sera le règne définitif et éternel du Christ. Il était au commencement avec le Père, quand le monde a été créé, et il manifestera pleinement sa seigneurie à la fin des temps, quand il jugera tous les hommes. Les trois lectures d’aujourd’hui nous parlent de ce règne. Dans le passage de l’évangile, tiré de l’Évangile de Saint Jean, que nous avons écouté, Jésus se trouve dans une situation humiliante – celle d’accusé – devant le pouvoir romain. Il a été arrêté, insulté, raillé, et ses ennemis espèrent obtenir maintenant sa condamnation au supplice de la croix. Ils l’ont présenté à Pilate comme quelqu’un qui aspire au pouvoir politique, comme le prétendu roi des juifs. Le procureur romain mène son enquête et interroge Jésus : « Es-tu le roi des Juifs ? » (Jn 18, 33). Répondant à cette demande, Jésus précise la nature de son règne et de sa messianité-même, qui n’est pas un pouvoir mondain, mais un amour qui sert ; il affirme que son règne ne doit pas être absolument confondu avec un règne politique quelconque : « Ma royauté ne vient pas de ce monde … Non, ma royauté ne vient pas d’ici » (v. 36).

Il est évident que Jésus n’a aucune ambition politique. Après la multiplication des pains, les gens, enthousiasmés par le miracle, voulaient s’emparer de lui pour le faire roi, afin de renverser le pouvoir romain et établir ainsi un nouveau règne politique, qui aurait été considéré comme le royaume de Dieu tant attendu. Mais Jésus sait que le royaume de Dieu est d’un genre tout autre, il ne se fonde pas sur les armes et sur la violence. C’est la multiplication des pains qui devient alors, d’une part, le signe de sa messianité, mais, d’autre part, un tournant dans son activité : à partir de ce moment, la marche vers la croix se fait plus évidente ; là, par un acte suprême d’amour, resplendira le règne promis, le règne de Dieu. Mais la foule ne comprend pas, elle est déçue et Jésus se retire, tout seul, dans la montagne pour prier, pour parler à son Père (cf. Jn 6, 1-15). Dans le récit de la passion, nous voyons comment les disciples aussi, tout en ayant partagé la vie avec Jésus et écouté ses paroles, pensaient à un royaume politique, instauré même avec l’aide de la force. À Gethsémani, Pierre avait tiré du fourreau son épée et avait commencé à combattre, mais Jésus l’avait empêché (cf. Jn 18, 10-11). Il ne veut pas être défendu par les armes, mais il veut accomplir jusqu’au bout la volonté de son Père et établir son royaume non pas par les armes et la violence, mais par la faiblesse apparente de l’amour qui donne la vie. Le royaume de Dieu est un royaume totalement différent des royaumes terrestres.

Et c’est pour cela que, face à un homme sans défense, fragile, humilié, comme l’est Jésus, un homme de pouvoir comme Pilate reste surpris ; surpris parce qu’il entend parler d’un royaume, de serviteurs. Et il pose une question qui lui semblera paradoxale : « Alors, tu es roi ? ». Quel genre de roi peut être un homme dans ces conditions-là ? Mais Jésus répond par l’affirmative : « C’est toi qui dis que je suis roi. Je suis né, je suis venu dans le monde pour ceci : rendre témoignage à la vérité. Tout homme qui appartient à la vérité, écoute ma voix » (18, 37). Jésus parle de roi, de royaume, cependant, il ne se réfère pas à la domination, mais à la vérité. Pilate ne comprend pas : peut-il exister un pouvoir qui ne s’obtient pas par des moyens humains ? Un pouvoir qui ne réponde pas à la logique de la domination et de la force ? Jésus est venu révéler et apporter une nouvelle royauté, celle de Dieu ; il est venu rendre témoignage à la vérité d’un Dieu qui est amour (cf. 1 Jn 4, 8.16) et qui veut établir un royaume de justice, d’amour et de paix (cf. Préface). Celui qui est ouvert à l’amour, écoute ce témoignage et l’accueille avec foi, pour entrer dans le royaume de Dieu.

Nous retrouvons cette perspective dans la première lecture que nous venons d’écouter. Le prophète Daniel prédit le pouvoir d’un personnage mystérieux placé entre ciel et terre : « Je voyais venir, avec les nuées du ciel, comme un fils d’homme ; il parvint jusqu’au Vieillard, et on le fit avancer devant lui. Et il lui fut donné domination, gloire et royauté ; tous les peuples, toutes les nations et toutes les langues le servirent. Sa domination est une domination éternelle, qui ne passera pas, et sa royauté, une royauté qui ne sera pas détruite » (7, 13-14). Ces paroles annoncent un roi qui domine de la mer à la mer jusqu’aux bouts de la terre, grâce à un pouvoir absolu qui ne sera jamais détruit. Cette vision du prophète – une vision messianique – est éclairée et trouve sa réalisation dans le Christ : le pouvoir du vrai Messie – pouvoir qui ne décline jamais et qui ne sera jamais détruit – n’est pas celui des royaumes de la terre qui s’élèvent et s’écroulent, mais celui de la vérité et de l’amour. Cela nous fait comprendre comment la royauté annoncée par Jésus dans les paraboles et révélée ouvertement et explicitement devant le Procureur romain, est la royauté de la vérité, l’unique qui donne à toute chose sa lumière et sa grandeur.

Dans la deuxième lecture, l’auteur de l’Apocalypse affirme que nous aussi nous participons à la royauté du Christ. Dans l’acclamation adressée à « celui qui nous aime, qui nous a délivrés de nos péchés par son sang », il déclare que celui-ci « a fait de nous le royaume et les prêtres de Dieu son Père » (1, 5-6). Il est clair ici aussi qu’il s’agit d’un royaume fondé sur la relation avec Dieu, avec la vérité, et non pas un royaume politique. Par son sacrifice, Jésus nous a ouvert le chemin pour une relation profonde avec Dieu : en lui, nous sommes devenus de véritables fils adoptifs, nous sommes rendus ainsi participants de sa royauté sur le monde. Être disciples de Jésus signifie donc ne pas se laisser séduire par la logique mondaine du pouvoir, mais apporter au monde la lumière de la vérité et de l’amour de Dieu. L’auteur de l’Apocalypse étend ensuite son regard à la deuxième venue de Jésus pour juger les hommes et établir pour toujours le règne divin, et il nous rappelle que la conversion, comme réponse à la grâce divine, est la condition pour l’instauration de ce royaume (cf. 1, 7). C’est là une invitation pressante adressée à tous et à chacun : nous convertir toujours au règne de Dieu, à la seigneurie de Dieu et de la Vérité, dans notre vie. Chaque jour, nous l’invoquons dans la prière du ‘Notre Père’ avec les paroles : « Que ton règne vienne » ; cela revient à dire à Jésus : Seigneur fais-nous devenir tiens, vis en nous, rassemble l’humanité dispersée et souffrante, pour qu’en toi, tout soit soumis au Père de miséricorde et d’amour.

À vous, chers et vénérés frères Cardinaux – je pense particulièrement à ceux qui ont été créés hier – est confiée cette lourde responsabilité : rendre témoignage au règne de Dieu, à la vérité. Cela signifie faire émerger toujours la priorité de Dieu et de sa volonté face aux intérêts du monde et à ses puissances. Soyez les imitateurs de Jésus, qui, devant Pilate, dans la situation humiliante décrite par l’Évangile, a manifesté sa gloire : celle d’aimer jusqu’au bout, en donnant sa propre vie pour les personnes qu’il aime. C’est la révélation du règne de Jésus. Et c’est pourquoi, d’un seul cœur et d’une seule âme, prions : « Adveniat regnum tuum » (Que ton règne vienne). Amen.

[01571-03.02] [Texte original: Italien]

 TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Meine Herren Kardinäle,
verehrte Mitbrüder im bischöflichen und im priesterlichen Dienst,
liebe Brüder und Schwestern!

Das heutige Hochfest Christkönig, die Krönung des liturgischen Jahres, erfährt eine Bereicherung durch die Aufnahme von sechs neuen Mitgliedern ins Kardinalskollegium, die ich traditionsgemäß eingeladen habe, an diesem Morgen in der Eucharistiefeier mit mir zu konzelebrieren. Jeden von ihnen begrüße ich aufs herzlichste und danke Kardinal James Michael Harvey für die freundlichen Worte, die er im Namen aller an mich gerichtet hat. Ich grüße die übrigen Purpurträger und alle anwesenden Bischöfe wie auch die verehrten Repräsentanten des öffentlichen Lebens, die Priester, die Ordensleute und alle Gläubigen, besonders die aus den Diözesen, welche der pastoralen Leitung der neuen Kardinäle anvertraut sind.

An diesem letzten Sonntag des liturgischen Jahres lädt uns die Kirche ein, Jesus, den Herrn, als König des Universums zu feiern. Sie ruft uns auf, den Blick in die Zukunft zu richten, oder besser: in die Tiefe, auf das letzte Ziel der Geschichte, das endgültige und ewige Reich Christi. Am Anfang, als die Welt erschaffen wurde, war er beim Vater, und er wird seine Herrschaft vollends offenbaren am Ende der Zeiten, wenn er alle Menschen richten wird. Die drei heutigen Lesungen sprechen uns von diesem Reich. In dem Abschnitt aus dem Johannesevangelium, den wir gehört haben, befindet sich Jesus in der entwürdigenden Lage des Angeklagten vor der römischen Macht. Er ist verhaftet, verspottet, verhöhnt worden, und nun hoffen seine Feinde, seine Verurteilung zum Kreuzestod zu erreichen. Sie haben ihn dem Pilatus als einen vorgestellt, der die politische Macht anstrebt, als den angeblichen König der Juden. Der römische Statthalter führt seine Untersuchung durch und fragt Jesus: » Bist du der König der Juden? « (Joh 18,33). In der Antwort auf diese Frage klärt Jesus das Wesen seines Reiches und seiner Messianität, das nicht in weltlicher Macht besteht, sondern dienende Liebe ist. Er betont, daß sein Reich keinesfalls mit irgendeinem politischen Reich verwechselt werden darf: » Mein Königtum ist nicht von dieser Welt … ist nicht von hier « (v. 36).

Es ist klar, daß Jesus keinerlei politische Ambitionen hat. Nach der Brotvermehrung wollten die Menschen ihn in ihrer Begeisterung über das Wunder ergreifen, um ihn zum König zu machen, um die römische Macht umzustürzen und so ein neues politisches Reich zu errichten, das als das sehnlich erwartete Reich Gottes angesehen worden wäre. Doch Jesus weiß, daß das Reich Gottes ganz anderer Art ist, sich nicht auf Waffen und auf Gewalt gründet. Und so ist es gerade die Brotvermehrung, die einerseits zum Zeichen seiner Messianität wird, aber andererseits einen Wendepunkt in seinem Wirken darstellt: Von jenem Moment an wird der Weg zum Kreuz immer deutlicher; dort, in der äußersten Liebestat, wird das verheißene Reich, das Reich Gottes aufleuchten. Doch die Menschenmenge begreift das nicht, sie ist enttäuscht, und Jesus zieht sich allein auf den Berg zurück, um zu beten, um mit dem Vater zu sprechen (vgl. Joh 6,1-15). Im Passionsbericht sehen wir, wie sogar die Jünger, die doch das Leben mit Jesus geteilt und seine Worte gehört hatten, an ein politisches, auch mit Hilfe von Gewalt zu errichtendes Reich dachten. In Getsemani hatte Petrus das Schwert gezogen und zu kämpfen begonnen, aber Jesus hatte ihm Einhalt geboten (vgl. Joh 18,10-11). Er will nicht mit Waffen verteidigt werden, sondern er will den Willen des Vaters bis zum letzten erfüllen und sein Reich nicht mit Waffen und Gewalt errichten, sondern mit der scheinbaren Schwachheit der Liebe, die das Leben hingibt. Das Reich Gottes ist ein völlig anderes Reich als die irdischen.

Und das ist der Grund, warum ein Vertreter der Macht wie Pilatus angesichts eines wehrlosen, gebrechlichen, erniedrigten Menschen wie Jesus verwundert ist – verwundert, weil er von einem Reich, von Dienern reden hört. Und er stellt eine Frage, die ihm wohl paradox erscheint: » Also bist du doch ein König? « Was für eine Art König kann ein Mann in diesem Zustand sein? Doch Jesus bejaht: » Du sagst es, ich bin ein König. Ich bin dazu geboren und dazu in die Welt gekommen, daß ich für die Wahrheit Zeugnis ablege. Jeder, der aus der Wahrheit ist, hört auf meine Stimme « (18,37). Jesus spricht von einem König, von einem Reich, aber er bezieht sich dabei nicht auf die Herrschaft, sondern auf die Wahrheit. Pilatus versteht nicht: Kann es eine Macht geben, die man nicht mit menschlichen Mitteln erreicht? Eine Macht, die nicht der Logik der Herrschaft und der Gewalt entspricht? Jesus ist gekommen, um ein neues Königtum zu offenbaren und zu bringen: das Königtum Gottes; er ist gekommen, um Zeugnis abzulegen für die Wahrheit eines Gottes, der die Liebe ist (vgl. 1 Joh 4,8.16) und der ein Reich der Gerechtigkeit, der Liebe und des Friedens errichten will (vgl. Präfation). Wer für die Liebe offen ist, hört dieses Zeugnis und nimmt es im Glauben an, um in das Reich Gottes einzutreten.

Diese Sicht finden wir in der ersten Lesung wieder, die wir gehört haben. Der Prophet Daniel kündigt die Macht einer geheimnisvollen Gestalt zwischen Himmel und Erde an: » Da kam mit den Wolken des Himmels einer wie ein Menschensohn. Er gelangte bis zu dem Hochbetagten und wurde vor ihn geführt. Ihm wurden Herrschaft, Würde und Königtum gegeben. Alle Völker, Nationen und Sprachen müssen ihm dienen. Seine Herrschaft ist eine ewige, unvergängliche Herrschaft. Sein Reich geht niemals unter « (7,13-14). Es sind Worte, die einen König vor Augen führen, der von Meer zu Meer, bis an die Enden der Erde herrscht, mit einer absoluten Macht, die nie gebrochen werden wird. Diese Vision des Propheten, eine messianische Vision, wird durch Christus erhellt und findet in ihm ihre Verwirklichung: Die Macht des wahren Messias – eine Macht, die niemals untergeht und niemals vernichtet wird – ist nicht die Macht der Reiche der Erde, die entstehen und vergehen, sondern die der Wahrheit und der Liebe. Damit verstehen wir, daß das Königtum, das Jesus in den Gleichnissen angekündigt und vor dem römischen Statthalter unverhüllt und ausdrücklich offenbart hat, das Königtum der Wahrheit ist, das einzige, das allen Dingen ihr Licht und ihre Größe verleiht.

In der zweiten Lesung sagt der Autor der Geheimen Offenbarung, daß auch wir am Königtum Christi teilhaben. In dem Zuruf an den, » der uns liebt und uns von unseren Sünden erlöst hat durch sein Blut «, erklärt er: » Er hat uns zu einem Reich gemacht und zu Priestern vor Gott, seinem Vater « (vgl. 1,5-6). Auch hier ist deutlich, daß es sich um ein Reich handelt, das auf das Verhältnis zu Gott, zur Wahrheit, gegründet ist, und nicht um ein politisches Reich. Durch sein Opfer hat Jesus uns den Weg zu einer tiefen Beziehung zu Gott eröffnet: In ihm sind wir wirkliche Söhne und Töchter geworden, haben wir somit Anteil erhalten an seinem Königtum über die Welt. Jünger Jesu zu sein bedeutet also, sich nicht von der weltlichen Logik der Macht faszinieren zu lassen, sondern das Licht der Wahrheit und der Liebe Gottes in die Welt zu tragen. Der Autor der Geheimen Offenbarung weitet dann den Blick aus auf die Wiederkunft Jesu, wenn er kommt, um die Menschen zu richten und für immer das göttliche Reich einzusetzen, und er erinnert uns daran, daß die Umkehr als Antwort auf die göttliche Gnade die Bedingung für die Errichtung dieses Reiches ist (vgl. 1,7). Das ist eine eindringliche Aufforderung an alle und an jeden, sich immer neu zum Reich Gottes zu bekehren, dazu, daß Gott – die Wahrheit schlechthin – in unserem Leben herrsche. Darum beten wir täglich im » Vater unser « mit den Worten: » Dein Reich komme «, was soviel bedeutet, wie zu Jesus zu sagen: Herr, gib, daß wir dein sind, lebe in uns, sammle die verstreute und leidende Menschheit, damit in dir alles dem Vater der Barmherzigkeit und der Liebe unterworfen sei.

Euch, liebe, verehrte Mitbrüder im Kardinalskollegium – in besonderer Weise denke ich an die gestern kreierten Kardinäle – wird diese anspruchsvolle Verantwortung aufgetragen: Zeugnis zu geben für das Reich Gottes, für die Wahrheit. Das bedeutet, gegenüber den Interessen der Welt und ihrer Mächte immer den Vorrang Gottes und seines Willens hervortreten zu lassen. Ahmt Jesus nach, der in der vom Evangelium beschriebenen Erniedrigung vor Pilatus seine Herrlichkeit hat aufleuchten lassen: die Herrlichkeit, bis zum äußersten zu lieben und das eigene Leben für die geliebten Menschen hinzugeben. Das ist die Offenbarung der Reiches Jesu. Und darum wollen wir, ein Herz und eine Seele, miteinander beten: » Adveniat regnum tuum «. Amen.

[01571-05.02] [Originalsprache: Italienisch]

 TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

Señores cardenales,
venerados hermanos en el episcopado y el sacerdocio,
queridos hermanos y hermanas

La solemnidad de Cristo Rey del Universo, coronación del año litúrgico, se enriquece con la recepción en el Colegio cardenalicio de seis nuevos miembros que, según la tradición, he invitado esta mañana a concelebrar conmigo la Eucaristía. Dirijo a cada uno de ellos mi más cordial saludo, agradeciendo al Cardenal James Michael Harvey sus amables palabras en nombre de todos. Saludo a los demás purpurados y a todos los obispos presentes, así como a las distintas autoridades, señores embajadores, a los sacerdotes, religiosos y a todos los fieles, especialmente a los que han venido de las diócesis encomendadas al cuidado pastoral de los nuevos cardenales.

En este último domingo del año litúrgico la Iglesia nos invita a celebrar al Señor Jesús como Rey del universo. Nos llama a dirigir la mirada al futuro, o mejor aún en profundidad, hacia la última meta de la historia, que será el reino definitivo y eterno de Cristo. Cuando fue creado el mundo, al comienzo, él estaba con el Padre, y manifestará plenamente su señorío al final de los tiempos, cuando juzgará a todos los hombres. Las tres lecturas de hoy nos hablan de este reino. En el pasaje evangélico que hemos escuchado, sacado del Evangelio de san Juan, Jesús se encuentra en la situación humillante de acusado, frente al poder romano. Ha sido arrestado, insultado, escarnecido, y ahora sus enemigos esperan conseguir que sea condenado al suplicio de la cruz. Lo han presentado ante Pilato como uno que aspira al poder político, como el sedicioso rey de los judíos. El procurador romano indaga y pregunta a Jesús: «¿Eres tú el rey de los judíos?» (Jn 18,33). Jesús, respondiendo a esta pregunta, aclara la naturaleza de su reino y de su mismo mesianismo, que no es poder mundano, sino amor que sirve; afirma que su reino no se ha de confundir en absoluto con ningún reino político: «Mi reino no es de este mundo … no es de aquí» (v. 36).

Está claro que Jesús no tiene ninguna ambición política. Tras la multiplicación de los panes, la gente, entusiasmada por el milagro, quería hacerlo rey, para derrocar el poder romano y establecer así un nuevo reino político, que sería considerado como el reino de Dios tan esperado. Pero Jesús sabe que el reino de Dios es de otro tipo, no se basa en las armas y la violencia. Y es precisamente la multiplicación de los panes la que se convierte, por una parte, en signo de su mesianismo, pero, por otra, en un punto de inflexión de su actividad: desde aquel momento el camino hacia la Cruz se hace cada vez más claro; allí, en el supremo acto de amor, resplandecerá el reino prometido, el reino de Dios. Pero la gente no comprende, están defraudados, y Jesús se retira solo al monte a rezar, a hablar con el Padre (cf. Jn 6,1-15). En la narración de la pasión vemos cómo también los discípulos, a pesar de haber compartido la vida con Jesús y escuchado sus palabras, pensaban en un reino político, instaurado además con la ayuda de la fuerza. En Getsemaní, Pedro había desenvainado su espada y comenzó a luchar, pero Jesús lo detuvo (cf. Jn 18,10-11). No quiere que se le defienda con las armas, sino que quiere cumplir la voluntad del Padre hasta el final y establecer su reino, no con las armas y la violencia, sino con la aparente debilidad del amor que da la vida. El reino de Dios es un reino completamente distinto a los de la tierra.

Y es esta la razón de que un hombre de poder como Pilato se quede sorprendido delante de un hombre indefenso, frágil y humillado, como Jesús; sorprendido porque siente hablar de un reino, de servidores. Y hace una pregunta que le parecería una paradoja: «Entonces, ¿tú eres rey?». ¿Qué clase de rey puede ser un hombre que está en esas condiciones? Pero Jesús responde de manera afirmativa: «Tú lo dices: soy rey. Yo para esto he nacido y para esto he venido al mundo: para dar testimonio de la verdad. Todo el que es de la verdad escucha mi voz» (18,37). Jesús habla de rey, de reino, pero no se refiere al dominio, sino a la verdad. Pilato no comprende: ¿Puede existir un poder que no se obtenga con medios humanos? ¿Un poder que no responda a la lógica del dominio y la fuerza? Jesús ha venido para revelar y traer una nueva realeza, la de Dios; ha venido para dar testimonio de la verdad de un Dios que es amor (cf. 1Jn 4,8-16) y que quiere establecer un reino de justicia, de amor y de paz (cf. Prefacio). Quien está abierto al amor, escucha este testimonio y lo acepta con fe, para entrar en el reino de Dios.

Esta perspectiva la volvemos a encontrar en la primera lectura que hemos escuchado. El profeta Daniel predice el poder de un personaje misterioso que está entre el cielo y la tierra: «Vi venir una especie de hijo de hombre entre las nubes del cielo. Avanzó hacia el anciano y llegó hasta su presencia. A él se le dio poder, honor y reino, y todos los pueblos, naciones y lenguas lo sirvieron. Su poder es un poder eterno, no cesará. Su reino no acabará» (7,13-14). Se trata de palabras que anuncian un rey que domina de mar a mar y hasta los confines de la tierra, con un poder absoluto que nunca será destruido. Esta visión del profeta, una visión mesiánica, se ilumina y realiza en Cristo: el poder del verdadero Mesías, poder que no tiene ocaso y que no será nunca destruido, no es el de los reinos de la tierra que surgen y caen, sino el de la verdad y el amor. Así comprendemos que la realeza anunciada por Jesús de palabra y revelada de modo claro y explícito ante el Procurador romano, es la realeza de la verdad, la única que da a todas las cosas su luz y su grandeza.

En la segunda lectura, el autor del Apocalipsis afirma que también nosotros participamos de la realeza de Cristo. En la aclamación dirigida a aquel «que nos ama, y nos ha librado de nuestros pecados con su sangre» declara que él «nos ha hecho reino y sacerdotes para Dios, su Padre» (1,5-6). También aquí aparece claro que no se trata de un reino político sino de uno fundado sobre la relación con Dios, con la verdad. Con su sacrificio, Jesús nos ha abierto el camino para una relación profunda con Dios: en él hemos sido hechos verdaderos hijos adoptivos, hemos sido hechos partícipes de su realeza sobre el mundo. Ser, pues, discípulos de Jesús significa no dejarse cautivar por la lógica mundana del poder, sino llevar al mundo la luz de la verdad y el amor de Dios. El autor del Apocalipsis amplia su mirada hasta la segunda venida de Cristo para juzgar a los hombres y establecer para siempre el reino divino, y nos recuerda que la conversión, como respuesta a la gracia divina, es la condición para la instauración de este reino (cf. 1,7). Se trata de una invitación apremiante que se dirige a todos y cada uno de nosotros: convertirse continuamente en nuestra vida al reino de Dios, al señorío de Dios, de la verdad. Lo invocamos cada día en la oración del «Padre nuestro» con la palabras «Venga a nosotros tu reino», que es como decirle a Jesús: Señor que seamos tuyos, vive en nosotros, reúne a la humanidad dispersa y sufriente, para que en ti todo sea sometido al Padre de la misericordia y el amor.

Queridos y venerados hermanos cardenales, de modo especial pienso en los que fueron creados ayer, a vosotros se os ha confiado esta ardua responsabilidad: dar testimonio del reino de Dios, de la verdad. Esto significa resaltar siempre la prioridad de Dios y su voluntad frente a los intereses del mundo y sus potencias. Sed imitadores de Jesús, el cual, ante Pilato, en la situación humillante descrita en el Evangelio, manifestó su gloria: la de amar hasta el extremo, dando la propia vida por las personas que amaba. Ésta es la revelación del reino de Jesús. Y por esto, con un solo corazón y una misma alma, rezamos: «Adveniat regnum tuum». Amén.

[01571-04.02] [Texto original: Italiano]

 TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

Senhores Cardeais,
Venerados Irmãos no Episcopado e no Sacerdócio,
Amados irmãos e irmãs!

A solenidade de Jesus Cristo Rei do universo, que hoje coroa o Ano Litúrgico, vê-se enriquecida com a recepção no Colégio Cardinalício de seis novos membros, que convidei, como é tradição, para concelebrar comigo a Eucaristia nesta manhã. A cada um deles dirijo a minha saudação mais cordial, agradecendo ao Cardeal James Michael Harvey as amáveis palavras que em nome de todos me dirigiu. Saúdo os outros Purpurados e todos os Prelados presentes, bem como as ilustres Autoridades, os Senhores Embaixadores, os sacerdotes, os religiosos e todos os fiéis, especialmente quantos vieram das dioceses que estão confiadas ao cuidado pastoral dos novos Cardeais.

Neste último domingo do Ano Litúrgico, a Igreja convida-nos a celebrar Jesus Cristo como Rei do universo; chama-nos a dirigir o olhar em direcção ao futuro, ou melhor em profundidade, para a meta última da história, que será o reino definitivo e eterno de Cristo. Estava com o Pai no início, quando o mundo foi criado, e manifestará plenamente o seu domínio no fim dos tempos, quando julgar todos os homens. As três leituras de hoje falam-nos desse reino. No texto evangélico que ouvimos, tirado do Evangelho de São João, Jesus encontra-Se numa situação humilhante – a de acusado – diante do poder romano. Foi preso, insultado, escarnecido, e agora os seus inimigos esperam obter a sua condenação ao suplício da cruz. Apresentaram-No a Pilatos como alguém que aspira ao poder político, como o pretenso rei dos judeus. O procurador romano faz a própria investigação e interroga Jesus: «Tu és rei dos judeus?» (Jo 18, 33). Na resposta a esta pergunta, Jesus esclarece a natureza do seu reino e da própria messianidade, que não é poder terreno, mas amor que serve; afirma que o seu reino de modo algum se confunde com qualquer reino político: «A minha realeza não é deste mundo (...) o meu reino não é de cá» (v. 36).

É claro que Jesus não tem nenhuma ambição política. Depois da multiplicação dos pães, o povo, entusiasmado com o milagre, queria pegar n’Ele e fazê-Lo rei, para derrubar o poder romano e assim estabelecer um novo reino político, que seria considerado como o reino de Deus tão esperado. Mas Jesus sabe que o reino de Deus é de género totalmente diverso; não se baseia sobre as armas e a violência. E é justamente a multiplicação dos pães que se torna, por um lado, sinal da sua messianidade, mas, por outro, assinala uma viragem decisiva na sua actividade: a partir daquele momento aparece cada vez mais claro o caminho para a Cruz; nesta, no supremo acto de amor, resplandecerá o reino prometido, o reino de Deus. Mas a multidão não entende, fica decepcionada, e Jesus retira-Se para o monte sozinho para rezar, para falar com o Pai (cf. Jo 6, 1-15). Na narração da Paixão, vemos como os próprios discípulos, apesar de terem partilhado a vida com Jesus e ouvido as suas palavras, pensavam num reino político, instaurado mesmo com o uso da força. No Getsêmani, Pedro desembainhara a sua espada e começou a combater, mas Jesus deteve-o (cf. Jo 18, 10-11); não quer ser defendido com as armas, mas deseja cumprir a vontade do Pai até ao fim e estabelecer o seu reino, não com as armas e a violência, mas com a aparente fragilidade do amor que dá a vida. O reino de Deus é um reino completamente diferente dos reinos terrenos.

Por isso, diante de um homem indefeso, frágil, humilhado como se apresenta Jesus, um homem de poder como Pilatos fica surpreendido – surpreendido, porque ouve falar de um reino, de servidores – e faz uma pergunta, a seu ver paradoxal: «Logo, Tu és rei!». Que tipo de rei pode ser um homem naquelas condições!? Mas Jesus responde afirmativamente: «É como dizes: Eu sou rei! Para isto nasci, para isto vim ao mundo: para dar testemunho da Verdade. Todo aquele que vive da Verdade escuta a minha voz» (18, 37). Jesus fala de rei, de reino, referindo-Se não ao domínio mas à verdade. Pilatos não entende: poderá haver um poder que não se obtenha com meios humanos? Um poder que não corresponda à lógica do domínio e da força? Jesus veio para revelar e trazer uma nova realeza: a realeza de Deus. Veio para dar testemunho da verdade de um Deus que é amor (cf. 1 Jo 4, 8.16) e que deseja estabelecer um reino de justiça, de amor e de paz (cf. Prefácio). Quem está aberto ao amor, escuta este testemunho e acolhe-o com fé, para entrar no reino de Deus.

Encontramos esta perspectiva na primeira leitura que ouvimos. O profeta Daniel prediz o poder de um personagem misterioso colocado entre o céu e a terra: «Vi aproximar-se, sobre as nuvens do céu, um ser semelhante a um filho de homem. Avançou até ao Ancião, diante do qual o conduziram. Foram-lhe dadas as soberanias, a glória e a realeza. Todos os povos, todas as nações e as gentes de todas as línguas o serviram. O seu império é um império eterno que não passará jamais, e o seu reino nunca será destruído» (7, 13-14). São palavras que prevêem um rei que domina de mar a mar até aos confins da terra, com um poder absoluto, que nunca será destruído. Esta visão do profeta, uma visão messiânica, é esclarecida e realiza-se em Cristo: o poder do verdadeiro Messias – poder que não mais desaparece e nunca será destruído – não é o poder dos reinos da terra que surgem e caem, mas o poder da verdade e do amor. Assim entendemos como a realeza, anunciada por Jesus nas parábolas e revelada aberta e explicitamente diante do Procurador romano, é a realeza da verdade, a única que dá a todas as coisas a sua luz e grandeza.

Na segunda leitura, o autor do Apocalipse afirma que também nós participamos na realeza de Cristo. Na aclamação dirigida «Àquele que nos ama e nos purificou dos nossos pecados com o seu sangue», declara que Ele «fez de nós um reino, sacerdotes para Deus e seu Pai» (1, 5-6). Aqui está claro também que se trata de um reino fundado na relação com Deus, com a verdade, e não de um reino político. Com o seu sacrifício, Jesus abriu-nos a estrada para uma relação profunda com Deus: n’Ele tornamo-nos verdadeiros filhos adoptivos, participando assim da sua realeza sobre o mundo. Portanto, ser discípulos de Jesus significa não se deixar fascinar pela lógica mundana do poder, mas levar ao mundo a luz da verdade e do amor de Deus. Depois o autor do Apocalipse estende o olhar até à segunda vinda de Jesus – quando Ele voltar para julgar os homens e estabelecer para sempre o reino divino – e recorda-nos que a conversão, como resposta à graça divina, é a condição para a instauração desse reino (cf. 1, 7). É um vigoroso convite dirigido a todos e cada um: converter-se sem cessar ao reino de Deus, ao domínio de Deus, da Verdade, na nossa vida. Pedimo-lo diariamente na oração do «Pai nosso» com as palavras «Venha a nós o vosso reino», que equivale a dizer a Jesus: Senhor, fazei que sejamos vossos, vivei em nós, reuni a humanidade dispersa e atribulada, para que em Vós tudo se submeta ao Pai da misericórdia e do amor.

A vós, amados e venerados Irmãos Cardeais – penso de modo particular àqueles que foram criados ontem –, se confia esta responsabilidade impelente: dar testemunho do reino de Deus, da verdade. Isso significa fazer sobressair sempre a prioridade de Deus e da sua vontade face aos interesses do mundo e dos seus poderes. Fazei-vos imitadores de Jesus, que diante de Pilatos, na situação humilhante descrita pelo Evangelho, manifestou a sua glória: a glória de amar até ao fim, dando a própria vida pelas pessoas amadas. Esta é a revelação do reino de Jesus. E por isso, com um só coração e uma só alma, rezemos: «Adveniat regnum tuum». Amen.

[01571-06.02] [Texto original: Português]

 TRADUZIONE IN LINGUA POLACCA

Księża Kardynałowie,
czcigodni Bracia w biskupstwie i kapłaństwie,
drodzy Bracia i Siostry!

Dzisiejszą uroczystość Chrystusa Króla Wszechświata, wieńczącą rok liturgiczny, ubogaca przyjęcie do Kolegium Kardynalskiego sześciu nowych członków, których zgodnie z tradycją, zaprosiłem do koncelebrowania dziś rano wraz ze mną Eucharystii. Każdego z nich najserdeczniej witam, i dziękuję kard. Jamesowi Michaelowi Harveyowi za miłe słowa, jakie do mnie skierował w imieniu wszystkich. Witam pozostałych kardynałów i wszystkich obecnych biskupów, a także szanownych przedstawicieli władz, ambasadorów, kapłanów, zakonników i wszystkich wiernych, szczególnie tych, którzy przybyli z diecezji powierzonych duszpasterskiej pieczy nowych kardynałów.

W tę ostatnią niedzielę roku liturgicznego Kościół zachęca nas do oddawania czci Panu Jezusowi jako Królowi Wszechświata. Wzywa, abyśmy skierowali wzrok ku przyszłości, a raczej w głąb, ku ostatecznemu celowi historii, którym będzie definitywne i wieczne panowanie Chrystusa. On był na początku z Ojcem, kiedy świat został stworzony, i ukaże w pełni swoje panowanie na końcu czasów, kiedy będzie sądził wszystkich ludzi. Trzy dzisiejsze czytania mówią nam o tym panowaniu. We fragmencie, którego wysłuchaliśmy, zaczerpniętym z Ewangelii św. Jana, Jezus znajduje się w sytuacji upokarzającej – oskarżonego – przed rzymską władzą. Został aresztowany, znieważony, wyszydzony, a teraz Jego wrogowie mają nadzieję, że uda im się Go skazać na karę krzyża. Przedstawili Go Piłatowi jako kogoś, kto dąży do zdobycia władzy politycznej, jako samozwańczego króla Żydów. Rzymski prokurator prowadzi dochodzenie i pyta Jezusa: „Czy Ty jesteś Królem żydowskim?" (J 18, 33). Odpowiadając na to pytanie, Jezus wyjaśnia charakter swego panowania oraz swojego mesjaństwa. Nie jest to władza doczesna, lecz miłość, która służy. Stwierdza, że Jego królestwa nie można absolutnie mylić z jakimś królestwem politycznym: „Królestwo moje nie jest z tego świata (...) nie jest stąd" (w. 36).

Jest oczywiste, że Jezus nie ma żadnych ambicji politycznych. Po rozmnożeniu chleba rozentuzjazmowani cudem ludzie chcieli Go porwać, aby uczynić królem, aby obalić władzę rzymską i ustanowić w ten sposób nowe królestwo polityczne, które byłoby uważane za tak bardzo oczekiwane królestwo Boże. Ale Jezus wie, że królestwo Boże jest całkiem innego rodzaju, nie opiera się na broni i przemocy. To właśnie rozmnożenie chleba staje się, z jednej strony, znakiem Jego mesjańskości, a z drugiej, przełomem w Jego działalności: od tej chwili coraz wyraźniejsza staje się droga ku krzyżowi. Tam, w najwyższym akcie miłości, zajaśnieje obiecywane królestwo, królestwo Boże. Jednakże tłum tego nie rozumie, jest rozczarowany, a Jezus udaje się samotnie na górę, żeby się modlić, by rozmawiać z Ojcem (por. J 6, 1-15). W opowiadaniu o męce widzimy, że nawet uczniowie, pomimo iż dzielili życie z Jezusem i słuchali Jego słów, myśleli o królestwie politycznym, wprowadzonym nawet przy użyciu siły. W Getsemani Piotr dobył miecza i zaczął walkę, ale Jezus go powstrzymał (por. J 18, 10-11). Nie chce być broniony orężem, ale chce do końca wypełnić wolę Ojca i zaprowadzić swoje królestwo nie za pomocą broni i przemocy, lecz posługując się pozorną słabością miłości, która daje życie. Królestwo Boże jest całkowicie inne od królestw doczesnych.

Dlatego właśnie mając do czynienia z człowiekiem bezbronnym, kruchym, upokorzonym, jakim jest Jezus, człowiek władzy, taki jak Piłat, jest zaskoczony; zdumiony, gdyż słyszy, że mowa jest o królestwie, o sługach. Stawia pytanie, które prawdopodobnie wydawało mu się paradoksalne: „A więc jesteś królem?". Jakim królem może być człowiek w takim stanie? Ale Jezus odpowiada twierdząco: „Tak, jestem królem. Ja się na to narodziłem i na to przyszedłem na świat, aby dać świadectwo prawdzie. Każdy, kto jest z prawdy, słucha mojego głosu" (18, 37). Jezus mówi o królu, o królestwie, ale nie jest to odniesienie do panowania, lecz do prawdy. Piłat nie rozumie: czy może istnieć władza, której nie osiąga się za pomocą ludzkich środków? Władza niezgodna z logiką panowania i siły? Jezus przyszedł, by objawić i zaprowadzić nowe królestwo, królestwo Boże. Przyszedł, aby dać świadectwo prawdzie o Bogu, który jest miłością (por. 1 J 4, 8. 16), i który chce ustanowić królestwo sprawiedliwości, miłości i pokoju (por. Prefacja). Ten, kto jest otwarty na miłość, słucha tego świadectwa i przyjmuje je z wiarą, aby wejść do królestwa Bożego.

Tę perspektywę znajdujemy w pierwszym czytaniu, którego wysłuchaliśmy. Prorok Daniel zapowiada moc tajemniczej postaci, umieszczonej między niebem a ziemią: „Oto na obłokach nieba przybywa jakby Syn Człowieczy. Podchodzi do Przedwiecznego i wprowadzają Go przed Niego. Powierzono Mu panowanie, chwałę i władzę królewską, a służyły Mu wszystkie narody, ludy i języki. Panowanie Jego jest wiecznym panowaniem, które nie przeminie, a Jego królestwo nie ulegnie zagładzie" (7, 13-14). Są to słowa, przedstawiające króla, który panuje od morza do morza aż po krańce ziemi, o władzy absolutnej, która nigdy nie zostanie zniszczona. Ta wizja Proroka, wizja mesjanistyczna zostaje wyjaśniona i urzeczywistnia się w Chrystusie: władza prawdziwego Mesjasza, władza, która nigdy nie przemija i która nigdy nie zostanie zniszczona. To nie jest władza królestw ziemskich, które powstają i upadają, ale jest to władza prawdy i miłości. W ten sposób rozumiemy, że królowanie zapowiadane przez Jezusa w przypowieściach i ujawnione otwarcie i wyraźnie przed rzymskim prokuratorem, jest królestwem prawdy, jedynym, które nadaje wszystkim rzeczom ich światło i wielkość.

W drugim czytaniu autor Apokalipsy mówi, że także i my uczestniczymy w królowaniu Chrystusa. W aklamacji skierowanej do „Tego, który nas miłuje i który przez swą krew uwolnił nas od naszych grzechów", oświadcza On, że „uczynił nas królestwem – kapłanami dla Boga i Ojca swojego" (1, 5-6). Także tutaj jest jasne, że chodzi o królestwo oparte na relacji z Bogiem, z prawdą, a nie o królestwo polityczne. Przez swoją ofiarę Jezus otworzył nam drogę do głębokiej relacji z Bogiem: w Nim staliśmy się przybranymi dziećmi, a w ten sposób uczestnikami Jego królowania nad światem. Bycie uczniem Jezusa oznacza więc nieuleganie doczesnej logice władzy, a zamiast tego niesienie w świat światła Bożej prawdy i miłości. Autor Apokalipsy obejmuje następnie spojrzeniem drugie przyjście Jezusa, który przybędzie, aby sądzić ludzi i ustanowić na zawsze królestwo Boże, i przypomina nam, że warunkiem ustanowienia tego królestwa jest nawrócenie jako odpowiedź na Bożą łaskę (por. 1, 7). Jest to mocne wezwanie, skierowane do wszystkich i do każdego: by nawracać się nieustannie na nowo na królestwo Boże, na panowanie Boga, Prawdy w naszym życiu. Prosimy o to codziennie w modlitwie Ojcze nasz słowami „Przyjdź królestwo Twoje", co oznacza powiedzenie Jezusowi: Panie, uczyń nas Twymi, żyj w nas, zgromadź rozproszoną i cierpiącą ludzkość, aby w Tobie wszystko zostało poddane Ojcu miłosierdzia i miłości.

Wam, drodzy i czcigodni bracia kardynałowie – myślę zwłaszcza o kardynałach kreowanych wczoraj – powierzona zostaje ta zobowiązująca odpowiedzialność: dawanie świadectwa o królestwie Bożym, o prawdzie. Oznacza to ukazywanie zawsze pierwszeństwa Boga i Jego woli w stosunku do interesów świata i jego potęg. Bądźcie naśladowcami Jezusa, który przed Piłatem, w upokarzającej sytuacji opisanej przez Ewangelię, objawił swoją chwałę: umiłowanie aż do końca, po oddanie swojego życia, za tych, których umiłował. To jest objawienie królestwa Jezusa. Dlatego jednym sercem i jedną duszą modlimy się: „Adveniat regnum tuum". Amen.

[01571-09.02] [Testo originale: Italiano]

INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL CARD. JAMES MICHAEL HARVEY

Beatissimo Padre,

a nome anche dei miei confratelli, nuovi membri del Collegio Cardinalizio, esprimo profonda e sentita gratitudine per l’onore che Vostra Santità ha conferito a ciascuno di noi, confermando la nostra promessa di totale fedeltà al Vangelo e a Lei unitamente al filiale ed incondizionato sostegno, usque ad effusionem sanguinis.

Sono presenti dinanzi a Vostra Santità Pastori di Chiese antiche, testimoni forti e coraggiosi della fede in Cristo Gesù, Nostro Signore; professano inoltre sincera devozione al Successore di Pietro, unitamente alle rigogliose comunità loro affidate, Pastori di Chiese fondate sul sacrificio dei martiri missionari e fecondate dalla loro autentica testimonianza, portata sino ai confini della terra. Da questi confini lontani oggi, Ella benevolmente ci associa al clero di questa Alma Urbe.

Padre Santo, quando accettò l’onere del Ministero Petrino nell’anno 2005, la Chiesa e il mondo La conoscevano come una mente eletta, come uno dei grandi teologi del nostro tempo. Ora, dopo più di sette anni e mezzo, la Chiesa e il mondo hanno potuto conoscerLa meglio; essi hanno compreso che la Sua straordinaria padronanza delle verità della dottrina cristiana e la Sua singolare capacità di rendere vive tali verità attraverso le catechesi e le omelie, affondano le loro radici in una fede profonda: questa Sua fede, ne siamo certi, si è arricchita lungo una vita di studio e di insegnamento, guidata dalla regula fidei e nutrita dalla Liturgia della Chiesa. La Sua vita di studioso – come sacerdote e professore, come vescovo diocesano, come Prefetto nella Curia Romana, e da ultimo come Vescovo di Roma – è stata una lezione vivente attestante che la teologia più profonda non è quella articolata a tavolino, ma quella elaborata stando in ginocchio.

Padre Santo, Lei ci ha fatto maggiormente comprendere che la teologia deve sempre ritornare alla Parola di Dio come suo "fondamento perenne" (Dei Verbum 24). È infatti attraverso il costante riferimento alla Parola che la scienza teologica, come insiste il Concilio Vaticano II, "vigorosamente si consolida e ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo" (Dei Verbum, 24). Proponendo questo insegnamento del Concilio Ecumenico nei Suoi scritti, nella Sua predicazione e nel Suo magistero, Lei permette di percepire la chiamata rivolta a tutti i vescovi, i sacerdoti, i diaconi e i catechisti a "conservare un contatto continuo con le Scritture" (Dei Verbum, 25) per incontrare il Verbo divino che parla a noi attraverso la Parola di Dio, in modo che possiamo offrire ai fratelli l’amicizia con Lui, con il Padre Suo e con lo Spirito Santo.

Tale offerta di amicizia con il Signore Gesù costituisce il cuore della Nuova Evangelizzazione alla quale Lei, come il Suo immediato predecessore, ha richiamato la Chiesa in ogni angolo del mondo. La Chiesa esiste per rispondere alla Grande Missione di predicare il Vangelo ad gentes. In questo provvidenziale Anno della Fede, noi cercheremo con maggiore vigore di mettere a servizio del mondo il dono più bello di cui siamo resi capaci: condividere con tutta l’umanità la Via, la Verità e la Vita, Colui che avvicina dolcemente i fratelli e le sorelle al Trono della Grazia affinché si compia pienamente il loro destino umano.

Nell’accettare dalle Sue mani l’onore del Cardinalato, ci impegniamo con piena volontà, sorretti dalla Grazia divina, ad essere operatori perseveranti e responsabili della Nuova Evangelizzazione, conformando innanzitutto le nostre vite nel modo più aderente al Vangelo, per così offrire al prossimo l’agognata amicizia con il Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo ed unico Salvatore del mondo, Rivelazione suprema della verità su Dio e sull’uomo.

[01574-01.01] [Testo originale: Italiano]

[B0685-XX.02]