Alle ore 10 di questa mattina, sul Sagrato della Basilica Vaticana, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la Celebrazione Eucaristica in occasione dell’apertura dell’Anno della fede. Concelebrano con il Santo Padre i Cardinali, i Patriarchi e gli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali Cattoliche, i Vescovi Padri Sinodali, i Presidenti delle Conferenze Episcopali di tutto il mondo e alcuni Vescovi che parteciparono in qualità di Padri ai lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II, che si aprirono esattamente 50 anni fa, l’11 ottobre 1962.
Alla Celebrazione Eucaristica sono presenti il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I e l’Arcivescovo di Canterbury e Primate della Comunione Anglicana, Sua Grazia Rowan Williams.
Al termine della Santa Messa il Santo Padre consegna ad alcuni fedeli i messaggi del Concilio Ecumenico Vaticano II all’umanità e il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo e il testo del saluto che il Patriarca Ecumenico S.S. Bartolomeo I rivolge al termine della Santa Messa:
● OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
OMELIA DEL SANTO PADRE
TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE
TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA
TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA
TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE
TRADUZIONE IN LINGUA POLACCA
OMELIA DEL SANTO PADRE
Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!
Con grande gioia oggi, a 50 anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, diamo inizio all’Anno della fede. Sono lieto di rivolgere il mio saluto a tutti voi, in particolare a Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca di Costantinopoli, e a Sua Grazia Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury. Un pensiero speciale ai Patriarchi e agli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali Cattoliche, e ai Presidenti delle Conferenze Episcopali. Per fare memoria del Concilio, che alcuni di noi qui presenti – che saluto con particolare affetto - hanno avuto la grazia di vivere in prima persona, questa celebrazione è stata arricchita di alcuni segni specifici: la processione iniziale, che ha voluto richiamare quella memorabile dei Padri conciliari quando entrarono solennemente in questa Basilica; l’intronizzazione dell’Evangeliario, copia di quello utilizzato durante il Concilio; la consegna dei sette Messaggi finali del Concilio e quella del Catechismo della Chiesa Cattolica, che farò al termine, prima della Benedizione. Questi segni non ci fanno solo ricordare, ma ci offrono anche la prospettiva per andare oltre la commemorazione. Ci invitano ad entrare più profondamente nel movimento spirituale che ha caratterizzato il Vaticano II, per farlo nostro e portarlo avanti nel suo vero senso. E questo senso è stato ed è tuttora la fede in Cristo, la fede apostolica, animata dalla spinta interiore a comunicare Cristo ad ogni uomo e a tutti gli uomini nel pellegrinare della Chiesa sulle vie della storia.
L’Anno della fede che oggi inauguriamo è legato coerentemente a tutto il cammino della Chiesa negli ultimi 50 anni: dal Concilio, attraverso il Magistero del Servo di Dio Paolo VI, il quale indisse un «Anno della fede» nel 1967, fino al Grande Giubileo del 2000, con il quale il Beato Giovanni Paolo II ha riproposto all’intera umanità Gesù Cristo quale unico Salvatore, ieri, oggi e sempre. Tra questi due Pontefici, Paolo VI e Giovanni Paolo II, c’è stata una profonda e piena convergenza proprio su Cristo quale centro del cosmo e della storia, e sull’ansia apostolica di annunciarlo al mondo. Gesù è il centro della fede cristiana. Il cristiano crede in Dio mediante Gesù Cristo, che ne ha rivelato il volto. Egli è il compimento delle Scritture e il loro interprete definitivo. Gesù Cristo non è soltanto oggetto della fede, ma, come dice la Lettera agli Ebrei, è «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (12,2).
Il Vangelo di oggi ci dice che Gesù Cristo, consacrato dal Padre nello Spirito Santo, è il vero e perenne soggetto dell’evangelizzazione. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Questa missione di Cristo, questo suo movimento continua nello spazio e nel tempo, attraversa i secoli e i continenti. E’ un movimento che parte dal Padre e, con la forza dello Spirito, va a portare il lieto annuncio ai poveri di ogni tempo – poveri in senso materiale e spirituale. La Chiesa è lo strumento primo e necessario di questa opera di Cristo, perché è a Lui unita come il corpo al capo. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Così disse il Risorto ai discepoli, e soffiando su di loro aggiunse: «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22). E’ Dio il principale soggetto dell’evangelizzazione del mondo, mediante Gesù Cristo; ma Cristo stesso ha voluto trasmettere alla Chiesa la propria missione, e lo ha fatto e continua a farlo sino alla fine dei tempi infondendo lo Spirito Santo nei discepoli, quello stesso Spirito che si posò su di Lui e rimase in Lui per tutta la vita terrena, dandogli la forza di «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», di «rimettere in libertà gli oppressi» e di «proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Il Concilio Vaticano II non ha voluto mettere a tema la fede in un documento specifico. E tuttavia, esso è stato interamente animato dalla consapevolezza e dal desiderio di doversi, per così dire, immergere nuovamente nel mistero cristiano, per poterlo riproporre efficacemente all’uomo contemporaneo. Al riguardo, così si esprimeva il Servo di Dio Paolo VI due anni dopo la conclusione dell’Assise conciliare: «Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine. Basterebbe ricordare [alcune] affermazioni conciliari (…) per rendersi conto dell’essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa» (Catechesi nell’Udienza generale dell’8 marzo 1967). Così Paolo VI nel '67.
Ma dobbiamo ora risalire a colui che convocò il Concilio Vaticano II e che lo inaugurò: il Beato Giovanni XXIII. Nel Discorso di apertura, egli presentò il fine principale del Concilio in questi termini: «Questo massimamente riguarda il Concilio Ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito ed insegnato in forma più efficace. (…) Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (AAS 54 [1962], 790.791-792). Così Papa Giovanni nell'inaugurazione del Concilio.
Alla luce di queste parole, si comprende quello che io stesso allora ho avuto modo di sperimentare: durante il Concilio vi era una tensione commovente nei confronti del comune compito di far risplendere la verità e la bellezza della fede nell’oggi del nostro tempo, senza sacrificarla alle esigenze del presente né tenerla legata al passato: nella fede risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi. Perciò ritengo che la cosa più importante, specialmente in una ricorrenza significativa come l’attuale, sia ravvivare in tutta la Chiesa quella positiva tensione, quell’anelito a riannunciare Cristo all’uomo contemporaneo. Ma affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi ad una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla «lettera» del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento.
Se ci poniamo in sintonia con l’impostazione autentica, che il Beato Giovanni XXIII volle dare al Vaticano II, noi potremo attualizzarla lungo questo Anno della fede, all’interno dell’unico cammino della Chiesa che continuamente vuole approfondire il bagaglio della fede che Cristo le ha affidato. I Padri conciliari volevano ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano. Invece, negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei, che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità.
Se oggi la Chiesa propone un nuovo Anno della fede e la nuova evangelizzazione, non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n’è bisogno, ancor più che 50 anni fa! E la risposta da dare a questo bisogno è la stessa voluta dai Papi e dai Padri del Concilio e contenuta nei suoi documenti. Anche l’iniziativa di creare un Pontificio Consiglio destinato alla promozione della nuova evangelizzazione, che ringrazio dello speciale impegno per l’Anno della fede, rientra in questa prospettiva. In questi decenni è avanzata una «desertificazione» spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. E’ il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza. La fede vissuta apre il cuore alla Grazia di Dio che libera dal pessimismo. Oggi più che mai evangelizzare vuol dire testimoniare una vita nuova, trasformata da Dio, e così indicare la strada. La prima Lettura ci ha parlato della sapienza del viaggiatore (cfr Sir 34,9-13): il viaggio è metafora della vita, e il sapiente viaggiatore è colui che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni. Come mai tante persone oggi sentono il bisogno di fare questi cammini? Non è forse perché qui trovano, o almeno intuiscono il senso del nostro essere al mondo? Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (cfr Lc 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sono luminosa espressione, come pure lo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato 20 anni or sono.
Venerati e cari Fratelli, l’11 ottobre 1962 si celebrava la festa di Maria Santissima Madre di Dio. A Lei affidiamo l’Anno della fede, come ho fatto una settimana fa recandomi pellegrino a Loreto. La Vergine Maria brilli sempre come stella sul cammino della nuova evangelizzazione. Ci aiuti a mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo Paolo: «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda… E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di Lui a Dio Padre» (Col 3,16-17). Amen.
[01316-01.02] [Testo originale: Italiano]
TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE
Vénérés frères
Chers frères et sœurs,
À 50 ans de l’ouverture du Concile Œcuménique Vatican II, c’est avec une joie profonde que nous inaugurons aujourd’hui l’Année de la foi. Je suis heureux de saluer toutes les personnes présentes, en particulier Sa Sainteté Bartholomée I, Patriarche de Constantinople, ainsi que Sa Grâce Rowan Williams, Archevêque de Canterbury. J’ai une pensée spéciale pour les Patriarches et les Archevêques majeurs des Églises orientales catholiques et pour les Présidents des Conférences épiscopales. Pour faire mémoire du Concile, que certains d’entre nous ici présents – et que je salue affectueusement – ont eu la grâce de vivre personnellement, cette célébration est encore enrichie par quelques signes spécifiques : la procession initiale qui rappelle la procession inoubliable des Pères conciliaires lorsqu’ils firent leur entrée solennelle dans cette Basilique ; l’intronisation de l’Evangéliaire, copie de celui-là même qui a été utilisé durant le Concile ; les sept Messages finaux du Concile ainsi que le Catéchisme de l’Église catholique que je remettrai à la fin de la Messe, avant la Bénédiction. Non seulement ces signes nous rappellent le devoir de commémoration qui est le nôtre, mais ils nous offrent aussi l’opportunité de dépasser cette perspective pour aller au-delà. Ils nous invitent à entrer plus avant dans le mouvement spirituel qui a caractérisé Vatican II, pour se l’approprier et lui donner tout son sens. Ce sens fut et demeure la foi en Christ, la foi apostolique, animée par l’élan intérieur qui pousse à annoncer le Christ à chaque homme et à tous les hommes pendant le pèlerinage de l’Église sur les chemins de l’histoire.
La cohérence entre l’Année de la foi que nous ouvrons aujourd’hui et le chemin que l’Église a parcouru depuis les 50 dernières années est évidente : à commencer par le Concile, puis à travers le Magistère du Serviteur de Dieu Paul VI qui, déjà en 1967, avait proclamé une « Année de la foi », jusqu’au Grand Jubilée de l’an 2000 par lequel le Bienheureux Jean-Paul II a proposé à nouveau à toute l’humanité Jésus-Christ comme unique Sauveur, hier, aujourd’hui et pour toujours. Entre ces deux pontifes, Paul VI et Jean-Paul II, existe une convergence totale et profonde précisément au sujet du Christ, centre du cosmos et de l’histoire, ainsi qu’au regard du zèle apostolique qui les a portés à l’annoncer au monde. Jésus est le centre de la foi chrétienne. Le chrétien croit en Dieu par Jésus qui nous en a révélé le visage. Il est l’accomplissement des Écritures et leur interprète définitif. Jésus-Christ n’est pas seulement objet de la foi mais, comme le dit la Lettre aux Hébreux, il est « celui qui donne origine à la foi et la porte à sa plénitude » (He 12,2).
L’Évangile de ce jour nous dit que Jésus, consacré par le Père dans l’Esprit-Saint, est le sujet véritable et pérenne de l’évangélisation. « L’Esprit du Seigneur est sur moi pour cela il m’a consacré par l’onction et m’a envoyé annoncer aux pauvres une bonne nouvelle » (Lc 4,18). Cette mission du Christ, ce mouvement, se poursuit dans l’espace et dans le temps, il traverse les siècles et les continents. C’est un mouvement qui part du Père et, avec la force de l’Esprit, porte la bonne nouvelle aux pauvres de tous les temps, au sens matériel et spirituel. L’Église est l’instrument premier et nécessaire de cette œuvre du Christ parce qu’elle est unie à Lui comme le corps l’est à la tête. « Comme le Père m’a envoyé, moi-aussi je vous envoie » (Jn 20, 21). C’est ce qu’a dit le Ressuscité aux disciples et, soufflant sur eux, il ajouta : « Recevez l’Esprit Saint » (v. 22). C’est Dieu le sujet principal de l’évangélisation du monde, à travers Jésus-Christ ; mais le Christ lui-même a voulu transmettre à l’Église sa propre mission, il l’a fait et continue de le faire jusqu’à la fin des temps en répandant l’Esprit-Saint sur les disciples, ce même Esprit qui se posa sur Lui et demeura en Lui durant toute sa vie terrestre, Lui donnant la force de « proclamer aux prisonniers la libération et aux aveugles la vue », de « remettre en liberté les opprimés » et de « proclamer une année de grâce du Seigneur » (Lc 4, 18-19).
Le Concile Vatican II n’a pas voulu consacrer un document spécifique au thème de la foi. Pourtant, il a été entièrement animé par la conscience et le désir de devoir, pour ainsi dire, s’immerger à nouveau dans le mystère chrétien, afin d’être en mesure de le proposer à nouveau efficacement à l’homme contemporain. A cet égard, le Serviteur de Dieu Paul VI déclarait deux ans après la clôture de l’Assise conciliaire : « Si le Concile ne traite pas expressément de la foi, il en parle à chaque page, il en reconnait le caractère vital et surnaturel, il la répute entière et forte et établit sur elle toutes ses affirmations doctrinales. Il suffirait de rappeler quelques affirmations conciliaires […] pour se rendre compte de l’importance essentielle que le Concile, en cohérence avec la tradition doctrinale de l’Église, attribue à la foi, à la vraie foi, celle qui a pour source le Christ et pour canal le magistère de l’Eglise (Catéchèse de l’Audience générale du 8 mars 1967). Ainsi s’exprimait Paul VI en 1967.
Mais nous devons maintenant remonter à celui qui a convoqué le Concile Vatican II et qui l’ouvrit : le Bienheureux Jean XXIII. Dans son discours inaugural, celui-ci présenta le but principal du Concile en ces termes : « Voici ce qui intéresse le Concile Œcuménique : que le dépôt sacré de la doctrine chrétienne soit défendu et enseigné de façon plus efficace. (…) Le but principal de ce Concile n’est donc pas la discussion de tel ou tel thème de doctrine … pour cela il n’est pas besoin d’un Concile … Il est nécessaire que cette doctrine certaine et immuable, qui doit être fidèlement respectée, soit approfondie et présentée de façon à répondre aux exigences de notre temps » (AAS 54 [1962], 790.791-792) Ainsi l’a dit le Pape Jean à l’inauguration du Concile.
À la lumière de ces paroles, on comprend ce que j’ai moi-même eu l’occasion d’expérimenter : durant le Concile il y avait une tension émouvante face au devoir commun de faire resplendir la vérité et la beauté de la foi dans l’aujourd’hui de notre temps, sans pour autant sacrifier aux exigences du moment présent ni la confiner au passé : dans la foi résonne l’éternel présent de Dieu, qui transcende le temps et qui pourtant ne peut être accueillie par nous que dans notre aujourd’hui qui est unique. C’est pourquoi je considère que la chose la plus importante, surtout pour un anniversaire aussi significatif que celui-ci, est de raviver dans toute l’Église cette tension positive, ce désir d’annoncer à nouveau le Christ à l’homme contemporain. Mais afin que cet élan intérieur pour la nouvelle évangélisation ne reste pas seulement virtuel ou ne soit entaché de confusion, il faut qu’il s’appuie sur un fondement concret et précis, et ce fondement est constitué par les documents du Concile Vatican II dans lesquels il a trouvé son expression. Pour cette raison, j’ai insisté à plusieurs reprises sur la nécessité de revenir, pour ainsi dire, à la " lettre " du Concile – c’est-à-dire à ses textes – pour en découvrir l’esprit authentique, et j’ai répété que le véritable héritage du Concile réside en eux. La référence aux documents protège des excès ou d’une nostalgie anachronique et ou de courses en avant et permets d’en saisir la nouveauté dans la continuité. Le Concile n’a rien produit de nouveau en matière de foi et n’a pas voulu en ôter ce qui est antique. Il s’est plutôt préoccupé de faire en sorte que la même foi continue à être vécue dans l’aujourd’hui, continue à être une foi vivante dans un monde en mutation.
Si nous acceptons la direction authentique que le Bienheureux Jean XXIII a voulu imprimer à Vatican II, nous pourrons la rendre actuelle durant toute cette Année de la foi, dans l’unique voie de l’Église qui veut continuellement approfondir le dépôt de la foi que le Christ lui a confié. Les Pères conciliaires entendaient présenter la foi de façon efficace. Et s’ils se sont ouverts dans la confiance au dialogue avec le monde moderne c’est justement parce qu’ils étaient sûrs de leur foi, de la solidité du roc sur lequel ils s’appuyaient. En revanche, dans les années qui ont suivi, beaucoup ont accueilli sans discernement la mentalité dominante, mettant en discussion les fondements même du depositum fidei qu’ils ne ressentaient malheureusement plus comme leurs dans toute leur vérité.
Si aujourd’hui l’Église propose une nouvelle Année de la foi ainsi que la nouvelle évangélisation, ce n’est pas pour célébrer un anniversaire, mais parce que c’est une nécessité, plus encore qu’il y a 50 ans ! Et la réponse à donner à cette nécessité est celle voulue par les Papes et par les Pères du Concile, contenue dans ses documents. L’initiative même de créer un Conseil Pontifical destiné à promouvoir la nouvelle évangélisation, que je remercie pour les efforts déployés pour l’Année de la foi, entre dans cette perspective. Les dernières décennies ont connu une « désertification » spirituelle. Ce que pouvait signifier une vie, un monde sans Dieu, au temps du Concile, on pouvait déjà le percevoir à travers certaines pages tragiques de l’histoire, mais aujourd’hui nous le voyons malheureusement tous les jours autour de nous. C’est le vide qui s’est propagé. Mais c’est justement à partir de l’expérience de ce désert, de ce vide, que nous pouvons découvrir de nouveau la joie de croire, son importance vitale pour nous, les hommes et les femmes. Dans le désert on redécouvre la valeur de ce qui est essentiel pour vivre ; ainsi dans le monde contemporain les signes de la soif de Dieu, du sens ultime de la vie, sont innombrables bien que souvent exprimés de façon implicite ou négative. Et dans le désert il faut surtout des personnes de foi qui, par l’exemple de leur vie, montrent le chemin vers la Terre promise et ainsi tiennent en éveil l’espérance. La foi vécue ouvre le cœur à la Grâce de Dieu qui libère du pessimisme. Aujourd’hui plus que jamais évangéliser signifie rendre témoignage d’une vie nouvelle, transformée par Dieu, et ainsi indiquer le chemin. La première Lecture nous a parlé de la Sagesse du voyageur (cf. Sir 34,9-13) : le voyage est une métaphore de la vie et le voyageur sage est celui qui a appris l’art de vivre et est capable de le partager avec ses frères – comme c’est le cas pour les pèlerins sur le Chemin de Saint-Jacques ou sur les autres voies qui ont connu récemment, non par hasard, un regain de fréquentation. Comment se fait-il que tant de personnes ressentent le besoin de parcourir ces chemins ? Ne serait-ce pas parce qu’il trouvent là, ou au moins y perçoivent quelque chose du sens de notre être au monde ? Voici alors la façon dont nous pouvons penser cette Année de la foi : un pèlerinage dans les déserts du monde contemporain, au cours duquel il nous faut emporter seulement ce qui est essentiel : ni bâton, ni sac, ni pain, ni argent et n’ayez pas deux tuniques – comme dit le Seigneur à ses Apôtres en les envoyant en mission (cf. Lc 9,3) – mais l’Évangile et la foi de l’Église dont les documents du Concile Œcuménique Vatican II sont l’expression lumineuse, comme l’est également le Catéchisme de l’Église catholique, publié il y a 20 ans maintenant.
Vénérés et chers Frères, le 11 octobre 1962 on célébrait la fête de la Vierge Marie, Mère de Dieu. C’est à elle que nous confions l’Année de la foi, comme je l’ai fait il y a une semaine lorsque je suis allé en pèlerinage à Lorette. Que la Vierge Marie brille toujours comme l’étoile sur le chemin de la nouvelle évangélisation. Qu’elle nous aide à mettre en pratique l’exhortation de l’Apôtre Paul : « Que la Parole du Christ habite en vous dans toute sa richesse ; instruisez-vous et reprenez-vous les uns les autres avec une vraie sagesse… Et tout ce que vous dites, tout ce que vous faites, que ce soit toujours au nom du Seigneur Jésus Christ, en offrant par lui votre action de grâce à Dieu le Père » (Col 3,16-17). Amen.
[01316-03.02] [Texte original: Italien]
TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
Dear Brother Bishops,
Dear brothers and sisters!
Today, fifty years from the opening of the Second Vatican Ecumenical Council, we begin with great joy the Year of Faith. I am delighted to greet all of you, particularly His Holiness Bartholomaois I, Patriarch of Constantinople, and His Grace Rowan Williams, Archbishop of Canterbury. A special greeting goes to the Patriarchs and Major Archbishops of the Eastern Catholic Churches, and to the Presidents of the Bishops’ Conferences. In order to evoke the Council, which some present had the grace to experience for themselves - and I greet them with particular affection - this celebration has been enriched by several special signs: the opening procession, intended to recall the memorable one of the Council Fathers when they entered this Basilica; the enthronement of the Book of the Gospels with the same book that was used at the Council; the consignment of the seven final Messages of the Council, and of the Catechism of the Catholic Church, which I will do before the final blessing. These signs help us not only to remember, they also offer us the possibility of going beyond commemorating. They invite us to enter more deeply into the spiritual movement which characterized Vatican II, to make it ours and to develop it according to its true meaning. And its true meaning was and remains faith in Christ, the apostolic faith, animated by the inner desire to communicate Christ to individuals and all people, in the Church’s pilgrimage along the pathways of history.
The Year of Faith which we launch today is linked harmoniously with the Church’s whole path over the last fifty years: from the Council, through the Magisterium of the Servant of God Paul VI, who proclaimed a Year of Faith in 1967, up to the Great Jubilee of the year 2000, with which Blessed John Paul II re-proposed to all humanity Jesus Christ as the one Saviour, yesterday, today and forever. Between these two Popes, Paul VI and John Paul II, there was a deep and complete convergence, precisely upon Christ as the centre of the cosmos and of history, and upon the apostolic eagerness to announce him to the world. Jesus is the centre of the Christian faith. The Christian believes in God whose face was revealed by Jesus Christ. He is the fulfilment of the Scriptures and their definitive interpreter. Jesus Christ is not only the object of the faith but, as it says in the Letter to the Hebrews, he is "the pioneer and the perfecter of our faith" (12:2).
Today’s Gospel tells us that Jesus Christ, consecrated by the Father in the Holy Spirit, is the true and perennial subject of evangelization. "The Spirit of the Lord is upon me, because he has anointed me to preach the good news to the poor" (Lk 4:18). This mission of Christ, this movement of his continues in space and time, over centuries and continents. It is a movement which starts with the Father and, in the power of the Spirit, goes forth to bring the good news to the poor, in both a material and a spiritual sense. The Church is the first and necessary instrument of this work of Christ because it is united to him as a body to its head. "As the Father has sent me, even so I send you" (Jn 20:21), says the Risen One to his disciples, and breathing upon them, adds, "Receive the Holy Spirit" (v.22). Through Christ, God is the principal subject of evangelization in the world; but Christ himself wished to pass on his own mission to the Church; he did so, and continues to do so, until the end of time pouring out his Spirit upon the disciples, the same Spirit who came upon him and remained in him during all his earthly life, giving him the strength "to proclaim release to the captives and recovering of sight to the blind, to set at liberty those who are oppressed" and "to proclaim the acceptable year of the Lord" (Lk 4:18-19).
The Second Vatican Council did not wish to deal with the theme of faith in one specific document. It was, however, animated by a desire, as it were, to immerse itself anew in the Christian mystery so as to re-propose it fruitfully to contemporary man. The Servant of God Paul VI, two years after the end of the Council session, expressed it in this way: "Even if the Council does not deal expressly with the faith, it talks about it on every page, it recognizes its vital and supernatural character, it assumes it to be whole and strong, and it builds upon its teachings. We need only recall some of the Council’s statements in order to realize the essential importance that the Council, consistent with the doctrinal tradition of the Church, attributes to the faith, the true faith, which has Christ for its source and the Church’s Magisterium for its channel" (General Audience, 8 March 1967). Thus said Paul VI in 1967.
We now turn to the one who convoked the Second Vatican Council and inaugurated it: Blessed John XXIII. In his opening speech, he presented the principal purpose of the Council in this way: "What above all concerns the Ecumenical Council is this: that the sacred deposit of Christian doctrine be safeguarded and taught more effectively […] Therefore, the principal purpose of this Council is not the discussion of this or that doctrinal theme… a Council is not required for that… [but] this certain and immutable doctrine, which is to be faithfully respected, needs to be explored and presented in a way which responds to the needs of our time" (AAS 54 [1962], 790,791-792). So said Pope John at the inauguration of the Council.
In the light of these words, we can understand what I myself felt at the time: during the Council there was an emotional tension as we faced the common task of making the truth and beauty of the faith shine out in our time, without sacrificing it to the demands of the present or leaving it tied to the past: the eternal presence of God resounds in the faith, transcending time, yet it can only be welcomed by us in our own unrepeatable today. Therefore I believe that the most important thing, especially on such a significant occasion as this, is to revive in the whole Church that positive tension, that yearning to announce Christ again to contemporary man. But, so that this interior thrust towards the new evangelization neither remain just an idea nor be lost in confusion, it needs to be built on a concrete and precise basis, and this basis is the documents of the Second Vatican Council, the place where it found expression. This is why I have often insisted on the need to return, as it were, to the "letter" of the Council – that is to its texts – also to draw from them its authentic spirit, and why I have repeated that the true legacy of Vatican II is to be found in them. Reference to the documents saves us from extremes of anachronistic nostalgia and running too far ahead, and allows what is new to be welcomed in a context of continuity. The Council did not formulate anything new in matters of faith, nor did it wish to replace what was ancient. Rather, it concerned itself with seeing that the same faith might continue to be lived in the present day, that it might remain a living faith in a world of change. If we place ourselves in harmony with the authentic approach which Blessed John XXIII wished to give to Vatican II, we will be able to realize it during this Year of Faith, following the same path of the Church as she continuously endeavours to deepen the deposit of faith entrusted to her by Christ. The Council Fathers wished to present the faith in a meaningful way; and if they opened themselves trustingly to dialogue with the modern world it is because they were certain of their faith, of the solid rock on which they stood. In the years following, however, many embraced uncritically the dominant mentality, placing in doubt the very foundations of the deposit of faith, which they sadly no longer felt able to accept as truths.
If today the Church proposes a new Year of Faith and a new evangelization, it is not to honour an anniversary, but because there is more need of it, even more than there was fifty years ago! And the reply to be given to this need is the one desired by the Popes, by the Council Fathers and contained in its documents. Even the initiative to create a Pontifical Council for the promotion of the new evangelization, which I thank for its special effort for the Year of Faith, is to be understood in this context. Recent decades have seen the advance of a spiritual "desertification". In the Council’s time it was already possible from a few tragic pages of history to know what a life or a world without God looked like, but now we see it every day around us. This void has spread. But it is in starting from the experience of this desert, from this void, that we can again discover the joy of believing, its vital importance for us, men and women. In the desert we rediscover the value of what is essential for living; thus in today’s world there are innumerable signs, often expressed implicitly or negatively, of the thirst for God, for the ultimate meaning of life. And in the desert people of faith are needed who, with their own lives, point out the way to the Promised Land and keep hope alive. Living faith opens the heart to the grace of God which frees us from pessimism. Today, more than ever, evangelizing means witnessing to the new life, transformed by God, and thus showing the path. The first reading spoke to us of the wisdom of the wayfarer (cf. Sir 34:9-13): the journey is a metaphor for life, and the wise wayfarer is one who has learned the art of living, and can share it with his brethren – as happens to pilgrims along the Way of Saint James or similar routes which, not by chance, have again become popular in recent years. How come so many people today feel the need to make these journeys? Is it not because they find there, or at least intuit, the meaning of our existence in the world? This, then, is how we can picture the Year of Faith: a pilgrimage in the deserts of today’s world, taking with us only what is necessary: neither staff, nor bag, nor bread, nor money, nor two tunics – as the Lord said to those he was sending out on mission (cf. Lk 9:3), but the Gospel and the faith of the Church, of which the Council documents are a luminous expression, as is the Catechism of the Catholic Church, published twenty years ago.
Venerable and dear Brothers, 11 October 1962 was the Feast of Mary Most Holy, Mother of God. Let us entrust to her the Year of Faith, as I did last week when I went on pilgrimage to Loreto. May the Virgin Mary always shine out as a star along the way of the new evangelization. May she help us to put into practice the Apostle Paul’s exhortation, "Let the word of Christ dwell in you richly, teach and admonish one another in all wisdom […] And whatever you do, in word or deed, do everything in the name of the Lord Jesus, giving thanks to God the Father through him" (Col 3:16-17). Amen.
[01316-02.02] [Original text: Italian]
TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA
Verehrte Mitbrüüder,
liebe Brüüder und Schwestern!
Mit großßer Freude beginnen wir heute, füünfzig Jahre nach der Erööffnung des Zweiten Vatikanischen Konzils, das Jahr des Glaubens. Gerne richte ich meinen Grußß an Sie alle, speziell an den Patriarchen von Konstantinopel, Seine Heiligkeit Bartholomääus I., und an den Erzbischof von Canterbury, Seine Gnaden Rowan Williams. In besonderer Weise verbinde ich mich auch mit den Patriarchen und den Großßerzbischööfen der katholischen Ostkirchen sowie mit den Vorsitzenden der Bischofskonferenzen. Um des Konzils zu gedenken, das einige der unter uns Anwesenden persöönlich erleben durften –– sie begrüüßße ich besonders herzlich ––, ist diese Feier durch einige spezielle Zeichen bereichert worden: die Eingangsprozession, die an die denkwüürdige Prozession der Konzilsvääter erinnern wollte, als sie feierlich in diese Basilika einzogen; die Inthronisation des Evangeliars –– einer Kopie dessen, das wäährend des Konzils benutzt wurde; die ÜÜbergabe der sieben Schlußßbotschaften des Konzils sowie des Katechismus der Katholischen Kirche, die ich am Ende, vor dem Segen, vornehmen werde. Diese Zeichen rufen nicht nur unsere Erinnerung wach, sondern sie bieten uns auch die Perspektive, um üüber das Gedenken hinauszugehen. Sie laden uns ein, tiefer in die geistige Bewegung einzudringen, die das Zweite Vatikanum gepräägt hat, um sie uns zu eigen zu machen und sie in ihrem wahren Sinn weiterzufüühren. Und dieser Sinn war und ist der Glaube an Christus, der apostolische Glaube, beseelt von dem inneren Impuls, Christus jedem und allen Menschen mitzuteilen, im Wandern der Kirche auf den Wegen der Geschichte.
Das Jahr des Glaubens, das wir heute erööffnen, ist konsequent mit dem ganzen Weg der Kirche in den letzten füünfzig Jahren verbunden: vom Konzil, üüber die Lehre des Dieners Gottes Pauls VI., der 1967 ein „„Jahr des Glaubens"" ausrief, bis zu dem Großßen Jubilääum des Jahres 2000, mit dem der selige Johannes Paul II. der gesamten Menschheit erneut Jesus Christus als den einzigen Retter –– gestern, heute und allezeit –– vor Augen gestellt hat. Zwischen diesen beiden Pääpsten, Paul VI. und Johannes Paul II., bestand ein tiefe und volle ÜÜbereinstimmung gerade in bezug auf Christus als Mittelpunkt des Kosmos und der Geschichte und auf die apostolische Sorge, ihn der Welt zu verküündigen. Jesus ist das Zentrum des christlichen Glaubens. Der Christ glaubt an Gott durch Jesus Christus, der Gottes Angesicht offenbart hat. Jesus Christus ist die Erfüüllung der Schrift und ihr endgüültiger Interpret. Er ist nicht nur Objekt des Glaubens, sondern –– wie der Hebrääerbrief sagt –– „„Urheber und Vollender des Glaubens"" (12,2).
Das Evangelium von heute sagt uns, daßß Jesus Christus, der vom Vater im Heiligen Geist „„gesalbt"" wurde, der wahre und ewige Trääger der Evangelisierung ist. „„Der Geist des Herrn ruht auf mir; denn der Herr hat mich gesalbt. Er hat mich gesandt, damit ich den Armen eine gute Nachricht bringe"" (Lk 4,18). Diese Sendung Christi, diese seine Bewegung setzt sich in Raum und Zeit üüber die Jahrhunderte und die Kontinente hin fort. Es ist eine Bewegung, die vom Vater ausgeht und mit der Kraft des Geistes den Armen die gute Nachricht bringt, in materiellem wie in spirituellem Sinn. Die Kirche ist das erste und notwendige Mittel dieses Werkes Christi, denn sie ist mit ihm vereint wie der Leib mit dem Haupt. „„Wie mich der Vater gesandt hat, so sende ich euch"" (Joh 20,21). Das sagte der Auferstandene zu seinen Jüüngern, und indem er sie anhauchte, füügte er hinzu: „„Empfangt den Heiligen Geist!"" (v. 22). Gott ist der Hauptträäger der Evangelisierung der Welt, und zwar durch Jesus Christus. Christus selbst aber wollte seine Sendung der Kirche üübertragen, und er tat dies und tut es weiterhin bis zum Ende der Zeiten, indem er seinen Jüüngern den Heiligen Geist einflöößßt –– denselben Geist, der auf ihn herabkam und sein ganzes Erdenleben hindurch in ihm blieb und ihm Kraft gab, damit er „„den Gefangenen die Entlassung verküünde und den Blinden das Augenlicht""; damit er „„die Zerschlagenen in Freiheit setze und ein Gnadenjahr des Herrn ausrufe"" (Lk 4,18-19).
Das Zweite Vatikanische Konzil hat den Glauben nicht zum Thema eines spezifischen Dokuments machen wollen. Und doch war es ganz und gar durchdrungen von dem Bewußßtsein und dem Wunsch, sich sozusagen neu in das christliche Mysterium zu vertiefen, um es dem Menschen von heute wieder wirksam vortragen zu köönnen. Diesbezüüglich sagte der Diener Gottes Paul VI. zwei Jahre nach dem Ende der Konzilsversammlung: „„Wenn das Konzil den Glauben nicht ausdrüücklich behandelt, so spricht es doch auf jeder Seite von ihm, erkennt seinen lebenswichtigen und üübernatüürlichen Charakter an, geht davon aus, daßß er unverküürzt und stark ist, und baut auf ihn seine Lehren auf. Es wüürde genüügen, an [einige] Konzilsaussagen zu erinnern [……] um zu entdecken, welch wesentliche Bedeutung das Konzil in ÜÜbereinstimmung mit der Lehrüüberlieferung der Kirche dem Glauben beimißßt, dem wahren Glauben, dessen Quelle Christus und dessen Kanal das Lehramt der Kirche ist"" (Katechese in der Generalaudienz vom 8. Määrz 1967). So weit Paul VI. 1967.
Doch nun müüssen wir auf den zurüückgehen, der das Zweite Vatikanische Konzil einberief und es erööffnete: auf den seligen Johannes XXIII. In seiner Erööffnungsansprache stellte er das Hauptziel des Konzils mit folgenden Worten vor: „„Dies betrifft in hööchstem Grade das ÖÖkumenische Konzil: daßß das heilige Gut der christlichen Lehre bewahrt und in wirksamerer Form weitergegeben wird [……] Das Hauptanliegen dieses Konzils ist also nicht die Diskussion üüber das eine oder andere Thema der Lehre …… Dafüür bedurfte es nicht eines Konzils …… Es ist nöötig, daßß diese sichere und unveräänderliche Lehre, an der in Treue festgehalten werden mußß, vertieft und in einer Weise vorgetragen wird, die den Erfordernissen unserer Zeit entspricht"" (AAS54 [1962], 790.791-792). So Papst Johannes XXIII. bei der Erööffnung des Konzils.
Im Licht dieser Worte versteht man, was ich selbst damals erleben konnte: Wäährend des Konzils herrschte eine bewegende innere Spannung angesichts der gemeinsamen Aufgabe, die Wahrheit und die Schöönheit des Glaubens im Heute unserer Zeit erstrahlen zu lassen, ohne sie den Ansprüüchen der Gegenwart zu opfern, noch sie an die Vergangenheit gefesselt zu halten: Im Glauben schwingt die ewige Gegenwart Gottes mit, die üüber die Zeit hinausreicht und dennoch von uns nur in unserem unwiederholbaren Heute aufgenommen werden kann. Darum halte ich es –– besonders an einem so bedeutsamen Jahrestag wie diesem –– füür das Wichtigste, in der ganzen Kirche jene positive Spannung, jenes tiefe Verlangen, Christus dem Menschen unserer Zeit erneut zu verküünden, wieder zu beleben. Damit aber dieser innere Antrieb zur neuen Evangelisierung nicht auf der Ebene der Vorstellungen stehenbleibt und nicht zu Verwirrung füührt, mußß er sich auf ein konkretes und prääzises Fundament stüützen, und dieses Fundament sind die Dokumente des Zweiten Vatikanischen Konzils, in denen er zum Ausdruck gekommen ist. Darum habe ich mehrmals auf der Notwendigkeit bestanden, sozusagen zum „„Buchstaben"" des Konzils zurüückzukehren –– d. h. zu seinen Texten ––, um seinen authentischen Geist zu entdecken, und habe wiederholt, daßß in ihnen das wahre Erbe des Zweiten Vatikanums liegt. Die Bezugnahme auf die Dokumente schüützt vor den Extremen anachronistischer Nostalgien einerseits und eines Vorauseilens andererseits und erlaubt, die Neuheit in der Kontinuitäät zu erfassen. Was den Gegenstand des Glaubens betrifft, hat sich das Konzil nichts Neues ausgedacht, noch hat es Altes ersetzen wollen. Es hat sich vielmehr darum bemüüht dafüür zu sorgen, daßß derselbe Glaube im Heute weiter gelebt werde, daßß er in einer sich veräändernden Welt weiterhin ein gelebter Glaube sei. Wir müüssen in der Tat dem Heute der Kirche treu sein, nicht dem Gestern oder dem Morgen. Und dieses Heute finden wir gerade in den Konzilsdokumenten, weil sie immer so aktuell sind, wie der Diener Gottes Paul VI. und die Konzilsvääter sie verküündet haben, in ihrer Vollstäändigkeit und in ihrem Zusammenhang, ohne Abstriche und ohne Hinzufüügungen.
Wenn wir uns in Einklang mit der authentischen Grundausrichtung begeben, die der selige Johannes XXIII. dem Zweiten Vatikanischen Konzil geben wollte, köönnen wir sie im Laufe dieses Jahres des Glaubens aktualisieren, innerhalb des einen Weges der Kirche, die das uns von Christus anvertraute Glaubensgut fortwäährend vertiefen mööchte. Die Konzilsvääter wollten den Glauben wieder wirkungsvoll prääsentieren; und wenn sie sich zuversichtlich dem Dialog mit der modernen Welt ööffneten, so geschah dies, weil sie sich ihres Glaubens, des sicheren Felsens, auf dem sie standen, sicher waren. In den darauffolgenden Jahren haben hingegen viele die herrschende Mentalitäät ohne Unterscheidungsvermöögen angenommen und die Fundamente des depositum fidei selbst in Frage gestellt, die sie leider in ihrer Wahrheit nicht mehr als geeignet empfanden.
Wenn die Kirche heute ein neues Jahr des Glaubens und die neue Evangelisierung vorschläägt, dann nicht, um ein Jubilääum zu ehren, sondern weil es notwendig ist, mehr noch als vor füünfzig Jahren! Und die Antwort auf diese Notwendigkeit ist dieselbe, die von den Pääpsten und Väätern des Konzils beabsichtigt war und die in den Dokumenten enthalten ist. Auch die Initiative, einen Pääpstlichen Rat zu schaffen, der der Föörderung der neuen Evangelisierung gewidmet ist und dem ich füür seinen besonderen Einsatz füür das Jahr des Glaubens danke, gehöört in diese Perspektive. In diesen Jahrzehnten ist eine geistliche „„Verwüüstung"" vorangeschritten. Was ein Leben, eine Welt ohne Gott bedeutet, konnte man zur Zeit des Konzils bereits aus einigen tragischen Vorfäällen der Geschichte entnehmen, heute aber sehen wir es leider tagtääglich in unserer Umgebung. Es ist die Leere, die sich ausgebreitet hat. Doch gerade von der Erfahrung der Wüüste her, von dieser Leere her köönnen wir erneut die Freude entdecken, die im Glauben liegt, seine lebensnotwendige Bedeutung füür uns Menschen. In der Wüüste entdeckt man wieder den Wert dessen, was zum Leben wesentlich ist; so gibt es in der heutigen Welt unzäählige, oft implizit oder negativ ausgedrüückte Zeichen des Durstes nach Gott, nach dem letzten Sinn des Lebens. Und in der Wüüste braucht man vor allem glaubende Menschen, die mit ihrem eigenen Leben den Weg zum Land der Verheißßung weisen und so die Hoffnung wach halten. Der gelebte Glaube ööffnet das Herz füür die Gnade Gottes, die vom Pessimismus befreit. Evangelisieren bedeutet heute mehr denn je, ein neues, von Gott verwandeltes Leben zu bezeugen und so den Weg zu weisen. Die erste Lesung hat uns von der Weisheit des Reisenden gesprochen (vgl. Sir 34,9-13): Die Reise ist ein Bild füür das Leben, und der weise Reisende ist derjenige, der die Kunst des Lebens gelernt hat und sie mit den anderen teilen kann –– wie es den Pilgern auf dem Weg nach Santiago oder auf den anderen Pilgerwegen geht, die nicht zufäällig in diesen Jahren wieder in Mode gekommen sind. Wie kommt es, daßß heute so viele Menschen das Bedüürfnis haben, diese Wege zu gehen? Ist es vielleicht, weil sie dort den Sinn unseres Erdendaseins finden oder zumindest erahnen? Da sehen wir also, wie wir dieses Jahr des Glaubens bildlich darstellen köönnen: als eine Pilgerreise durch die Wüüsten der heutigen Welt, bei der man nur das Wesentliche mitnimmt: keinen Wanderstab und keine Vorratstasche, kein Brot, kein Geld und kein zweites Hemd –– wie der Herr den Aposteln aufträägt, als er sie aussendet (Lk 9,3), sondern das Evangelium und den Glauben der Kirche, dessen leuchtender Ausdruck die Dokumente des Zweiten Vatikanischen Konzils sind, ebenso wie der Katechismus der Katholischen Kirche, der vor nunmehr 20 Jahren verööffentlicht wurde.
Verehrte, liebe Mitbrüüder, am 11. Oktober 1962 wurde das Fest der heiligen Gottesmutter Maria gefeiert. Ihr vertrauen wir das Jahr des Glaubens an, wie ich es vor einer Woche getan habe, als ich mich als Pilger nach Loreto begab. Mööge die Jungfrau Maria immer als Stern üüber dem Weg der neuen Evangelisierung leuchten. Sie helfe uns, die Aufforderung des Apostels Paulus zu befolgen: „„Das Wort Christi wohne mit seinem ganzen Reichtum bei euch. Belehrt und ermahnt einander in aller Weisheit! …… Alles, was ihr in Worten und Werken tut, geschehe im Namen Jesu, des Herrn. Durch ihn dankt Gott, dem Vater!"" (Kol 3,16-17). Amen.
[01316-05.02] [Originalsprache: Italienisch]
TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA
Venerables hermanos,
queridos hermanos y hermanas
Hoy, con gran alegría, a los 50 años de la apertura del Concilio Ecuménico Vaticano II, damos inicio al Año de la fe. Me complace saludar a todos, en particular a Su Santidad Bartolomé I, Patriarca de Constantinopla, y a Su Gracia Rowan Williams, Arzobispo de Canterbury. Un saludo especial a los Patriarcas y a los Arzobispos Mayores de las Iglesias Católicas Orientales, y a los Presidentes de las Conferencias Episcopales. Para rememorar el Concilio, en el que algunos de los aquí presentes – a los que saludo con particular afecto – hemos tenido la gracia de vivir en primera persona, esta celebración se ha enriquecido con algunos signos específicos: la procesión de entrada, que ha querido recordar la que de modo memorable hicieron los Padres conciliares cuando ingresaron solemnemente en esta Basílica; la entronización del Evangeliario, copia del que se utilizó durante el Concilio; y la entrega de los siete mensajes finales del Concilio y del Catecismo de la Iglesia Católica, que haré al final, antes de la bendición. Estos signos no son meros recordatorios, sino que nos ofrecen también la perspectiva para ir más allá de la conmemoración. Nos invitan a entrar más profundamente en el movimiento espiritual que ha caracterizado el Vaticano II, para hacerlo nuestro y realizarlo en su verdadero sentido. Y este sentido ha sido y sigue siendo la fe en Cristo, la fe apostólica, animada por el impulso interior de comunicar a Cristo a todos y a cada uno de los hombres durante la peregrinación de la Iglesia por los caminos de la historia.
El Año de la fe que hoy inauguramos está vinculado coherentemente con todo el camino de la Iglesia en los últimos 50 años: desde el Concilio, mediante el magisterio del siervo de Dios Pablo VI, que convocó un «Año de la fe» en 1967, hasta el Gran Jubileo del 2000, con el que el beato Juan Pablo II propuso de nuevo a toda la humanidad a Jesucristo como único Salvador, ayer, hoy y siempre. Estos dos Pontífices, Pablo VI y Juan Pablo II, convergieron profunda y plenamente en poner a Cristo como centro del cosmos y de la historia, y en el anhelo apostólico de anunciarlo al mundo. Jesús es el centro de la fe cristiana. El cristiano cree en Dios por medio de Jesucristo, que ha revelado su rostro. Él es el cumplimiento de las Escrituras y su intérprete definitivo. Jesucristo no es solamente el objeto de la fe, sino, como dice la carta a los Hebreos, «el que inició y completa nuestra fe» (12,2).
El evangelio de hoy nos dice que Jesucristo, consagrado por el Padre en el Espíritu Santo, es el verdadero y perenne protagonista de la evangelización: «El Espíritu del Señor está sobre mí, porque él me ha ungido. Me ha enviado a evangelizar a los pobres» (Lc 4,18). Esta misión de Cristo, este dinamismo suyo continúa en el espacio y en el tiempo, atraviesa los siglos y los continentes. Es un movimiento que parte del Padre y, con la fuerza del Espíritu, lleva la buena noticia a los pobres en sentido material y espiritual. La Iglesia es el instrumento principal y necesario de esta obra de Cristo, porque está unida a Él como el cuerpo a la cabeza. «Como el Padre me ha enviado, así también os envío yo» (Jn 20,21). Así dice el Resucitado a los discípulos, y soplando sobre ellos, añade: «Recibid el Espíritu Santo» (v. 22). Dios por medio de Jesucristo es el principal artífice de la evangelización del mundo; pero Cristo mismo ha querido transmitir a la Iglesia su misión, y lo ha hecho y lo sigue haciendo hasta el final de los tiempos infundiendo el Espíritu Santo en los discípulos, aquel mismo Espíritu que se posó sobre él y permaneció en él durante toda su vida terrena, dándole la fuerza de «proclamar a los cautivos la libertad, y a los ciegos la vista»; de «poner en libertad a los oprimidos» y de «proclamar el año de gracia del Señor» (Lc 4,18-19).
El Concilio Vaticano II no ha querido incluir el tema de la fe en un documento específico. Y, sin embargo, estuvo completamente animado por la conciencia y el deseo, por así decir, de adentrase nuevamente en el misterio cristiano, para proponerlo de nuevo eficazmente al hombre contemporáneo. A este respecto se expresaba así, dos años después de la conclusión de la asamblea conciliar, el siervo de Dios Pablo VI: «Queremos hacer notar que, si el Concilio no habla expresamente de la fe, habla de ella en cada página, al reconocer su carácter vital y sobrenatural, la supone íntegra y con fuerza, y construye sobre ella sus enseñanzas. Bastaría recordar [algunas] afirmaciones conciliares… para darse cuenta de la importancia esencial que el Concilio, en sintonía con la tradición doctrinal de la Iglesia, atribuye a la fe, a la verdadera fe, a aquella que tiene como fuente a Cristo y por canal el magisterio de la Iglesia» (Audiencia general, 8 marzo 1967). Así decía Pablo VI, en 1967.
Pero debemos ahora remontarnos a aquel que convocó el Concilio Vaticano II y lo inauguró: el beato Juan XXIII. En el discurso de apertura, presentó el fin principal del Concilio en estos términos: «El supremo interés del Concilio Ecuménico es que el sagrado depósito de la doctrina cristiana sea custodiado y enseñado de forma cada vez más eficaz… La tarea principal de este Concilio no es, por lo tanto, la discusión de este o aquel tema de la doctrina… Para eso no era necesario un Concilio... Es preciso que esta doctrina verdadera e inmutable, que ha de ser fielmente respetada, se profundice y presente según las exigencias de nuestro tiempo» (AAS 54 [1962], 790. 791-792). Así decía el Papa Juan en la inauguración del Concilio.
A la luz de estas palabras, se comprende lo que yo mismo tuve entonces ocasión de experimentar: durante el Concilio había una emocionante tensión con relación a la tarea común de hacer resplandecer la verdad y la belleza de la fe en nuestro tiempo, sin sacrificarla a las exigencias del presente ni encadenarla al pasado: en la fe resuena el presente eterno de Dios que trasciende el tiempo y que, sin embargo, solamente puede ser acogido por nosotros en el hoy irrepetible. Por esto mismo considero que lo más importante, especialmente en una efeméride tan significativa como la actual, es que se reavive en toda la Iglesia aquella tensión positiva, aquel anhelo de volver a anunciar a Cristo al hombre contemporáneo. Pero, con el fin de que este impulso interior a la nueva evangelización no se quede solamente en un ideal, ni caiga en la confusión, es necesario que ella se apoye en una base concreta y precisa, que son los documentos del Concilio Vaticano II, en los cuales ha encontrado su expresión. Por esto, he insistido repetidamente en la necesidad de regresar, por así decirlo, a la «letra» del Concilio, es decir a sus textos, para encontrar en ellos su auténtico espíritu, y he repetido que la verdadera herencia del Vaticano II se encuentra en ellos. La referencia a los documentos evita caer en los extremos de nostalgias anacrónicas o de huidas hacia adelante, y permite acoger la novedad en la continuidad. El Concilio no ha propuesto nada nuevo en materia de fe, ni ha querido sustituir lo que era antiguo. Más bien, se ha preocupado para que dicha fe siga viviéndose hoy, para que continúe siendo una fe viva en un mundo en transformación.
Si sintonizamos con el planteamiento auténtico que el beato Juan XXIII quiso dar al Vaticano II, podremos actualizarlo durante este Año de la fe, dentro del único camino de la Iglesia que desea continuamente profundizar en el depisito de la fe que Cristo le ha confiado. Los Padres conciliares querían volver a presentar la fe de modo eficaz; y sí se abrieron con confianza al diálogo con el mundo moderno era porque estaban seguros de su fe, de la roca firme sobre la que se apoyaban. En cambio, en los años sucesivos, muchos aceptaron sin discernimiento la mentalidad dominante, poniendo en discusión las bases mismas del depositum fidei, que desgraciadamente ya no sentían como propias en su verdad.
Si hoy la Iglesia propone un nuevo Año de la fe y la nueva evangelización, no es para conmemorar una efeméride, sino porque hay necesidad, todavía más que hace 50 años. Y la respuesta que hay que dar a esta necesidad es la misma que quisieron dar los Papas y los Padres del Concilio, y que está contenida en sus documentos. También la iniciativa de crear un Consejo Pontificio destinado a la promoción de la nueva evangelización, al que agradezco su especial dedicación con vistas al Año de la fe, se inserta en esta perspectiva. En estos decenios ha aumentado la «desertificación» espiritual. Si ya en tiempos del Concilio se podía saber, por algunas trágicas páginas de la historia, lo que podía significar una vida, un mundo sin Dios, ahora lamentablemente lo vemos cada día a nuestro alrededor. Se ha difundido el vacío. Pero precisamente a partir de la experiencia de este desierto, de este vacío, es como podemos descubrir nuevamente la alegría de creer, su importancia vital para nosotros, hombres y mujeres. En el desierto se vuelve a descubrir el valor de lo que es esencial para vivir; así, en el mundo contemporáneo, son muchos los signos de la sed de Dios, del sentido último de la vida, a menudo manifestados de forma implícita o negativa. Y en el desierto se necesitan sobre todo personas de fe que, con su propia vida, indiquen el camino hacia la Tierra prometida y de esta forma mantengan viva la esperanza. La fe vivida abre el corazón a la Gracia de Dios que libera del pesimismo. Hoy más que nunca evangelizar quiere decir dar testimonio de una vida nueva, trasformada por Dios, y así indicar el camino. La primera lectura nos ha hablado de la sabiduría del viajero (cf. Sir 34,9-13): el viaje es metáfora de la vida, y el viajero sabio es aquel que ha aprendido el arte de vivir y lo comparte con los hermanos, como sucede con los peregrinos a lo largo del Camino de Santiago, o en otros caminos, que no por casualidad se han multiplicado en estos años. ¿Por qué tantas personas sienten hoy la necesidad de hacer estos caminos? ¿No es quizás porque en ellos encuentran, o al menos intuyen, el sentido de nuestro estar en el mundo? Así podemos representar este Año de la fe: como una peregrinación en los desiertos del mundo contemporáneo, llevando consigo solamente lo que es esencial: ni bastón, ni alforja, ni pan, ni dinero, ni dos túnicas, como dice el Señor a los apóstoles al enviarlos a la misión (cf. Lc 9,3), sino el evangelio y la fe de la Iglesia, de los que el Concilio Ecuménico Vaticano II son una luminosa expresión, como lo es también el Catecismo de la Iglesia Católica, publicado hace 20 años.
Venerados y queridos hermanos, el 11 de octubre de 1962 se celebraba la fiesta de María Santísima, Madre de Dios. Le confiamos a ella el Año de la fe, como lo hice hace una semana, peregrinando a Loreto. La Virgen María brille siempre como estrella en el camino de la nueva evangelización. Que ella nos ayude a poner en práctica la exhortación del apóstol Pablo: «La palabra de Cristo habite entre vosotros en toda su riqueza; enseñaos unos a otros con toda sabiduría; corregíos mutuamente… Todo lo que de palabra o de obra realicéis, sea todo en nombre del Señor Jesús, dando gracias a Dios Padre por medio de él» (Col 3,16-17). Amén.
[01316-04.02] [Texto original: Italiano]
TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE
Venerados Irmãos,
Queridos irmãos e irmãs!
Hoje, com grande alegria, 50 anos depois da abertura do Concílio Vaticano II, damos início ao Ano da fé. Tenho o prazer de saudar a todos vós, especialmente Sua Santidade Bartolomeu I, Patriarca de Constantinopla, e Sua Graça Rowan Williams, Arcebispo de Cantuária. Saúdo também, de modo especial, os Patriarcas e Arcebispos Maiores das Igrejas Orientais católicas, e os Presidentes das Conferências Episcopais. Para fazer memória do Concílio, que alguns dos aqui presentes – a quem saúdo com afeto especial - tivemos a graça de viver em primeira pessoa, esta celebração foi enriquecida com alguns sinais específicos: a procissão inicial, que quis recordar a memorável procissão dos Padres conciliares, quando entraram solenemente nesta Basílica; a entronização do Evangeliário, cópia daquele que foi utilizado durante o Concílio; e a entrega das sete mensagens finais do Concílio e do Catecismo da Igreja Católica, que realizarei no termo desta celebração, antes da Bênção Final. Estes sinais, não nos fazem apenas recordar, mas também nos oferecem a possibilidade de ir além da comemoração. Eles nos convidam a entrar mais profundamente no movimento espiritual que caracterizou o Vaticano II, para que se possa assumi-lo e levá-lo adiante no seu verdadeiro sentido. E este sentido foi e ainda é a fé em Cristo, a fé apostólica, animada pelo impulso interior que leva a comunicar Cristo a cada homem e a todos os homens, no peregrinar da Igreja nos caminhos da história.
O Ano da fé que estamos inaugurando hoje está ligado coerentemente com todo o caminho da Igreja ao longo dos últimos 50 anos: desde o Concílio, passando pelo Magistério do Servo de Deus Paulo VI, que proclamou um "Ano da Fé", em 1967, até chegar ao o Grande Jubileu do ano 2000, com o qual o Bem-Aventurado João Paulo II propôs novamente a toda a humanidade Jesus Cristo como único Salvador, ontem, hoje e sempre. Entre estes dois Pontífices, Paulo VI e João Paulo II, houve uma profunda e total convergência na visão de Cristo como o centro do cosmos e da história, e no ardente desejo apostólico de anunciá-lo ao mundo. Jesus é o centro da fé cristã. O cristão crê em Deus através de Jesus Cristo, que nos revelou a face de Deus. Ele é o cumprimento das Escrituras e seu intérprete definitivo. Jesus Cristo não é apenas o objeto de fé, mas, como diz a Carta aos Hebreus, é aquele «que em nós começa e completa a obra da fé» (Hb 12,2).
O Evangelho de hoje nos fala que Jesus Cristo, consagrado pelo Pai no Espírito Santo, é o verdadeiro e perene sujeito da evangelização. «O Espírito do Senhor está sobre mim, / porque ele me consagrou com a unção / para anunciar a Boa-Nova aos pobres» (Lc 4,18). Esta missão de Cristo, este movimento, continua no espaço e no tempo, ao longo dos séculos e continentes. É um movimento que parte do Pai e, com a força do Espírito, impele a levar a Boa-Nova aos pobres, tanto no sentido material como espiritual. A Igreja é o instrumento primordial e necessário desta obra de Cristo, uma vez que está unida a Ele como o corpo à cabeça. «Como o Pai me enviou, também eu vos envio» (Jo 20,21). Estas foram as palavras do Senhor Ressuscitado aos seus discípulos, que soprando sobre eles disse: «Recebei o Espírito Santo» (v. 22). O sujeito principal da evangelização do mundo é Deus, através de Jesus Cristo; mas o próprio Cristo quis transmitir à Igreja a missão, e o fez e continua a fazê-lo até o fim dos tempos infundindo o Espírito Santo nos discípulos, o mesmo Espírito que repousou sobre Ele, e n’Ele permaneceu durante toda a sua vida terrena, dando-lhe a força de «proclamar a libertação aos cativos / e aos cegos a recuperação da vista; para libertar os oprimidos e para proclamar um ano da graça do Senhor» (Lc 4,18-19).
O Concílio Vaticano II não quis colocar a fé como tema de um documento específico. E, no entanto, o Concílio esteve inteiramente animado pela consciência e pelo desejo de ter que, por assim dizer, imergir mais uma vez no mistério cristão, para poder propô-lo novamente e eficazmente para o homem contemporâneo. Neste sentido, o Servo de Deus Paulo VI, dois anos depois da conclusão do Concílio, se expressava usando estas palavras: «Se o Concílio não trata expressamente da fé, fala da fé a cada página, reconhece o seu caráter vital e sobrenatural, pressupõe-na íntegra e forte, e estrutura as suas doutrinas tendo a fé por alicerce. Bastaria recordar [algumas] afirmações do Concílio (...) para dar-se conta da importância fundamental que o Concílio, em consonância com a tradição doutrinal da Igreja, atribui à fé, a verdadeira fé, que tem a Cristo por fonte e o Magistério da Igreja como canal» (Catequese na Audiência Geral de 8 de março de 1967).Até aqui, a citação de Paulo VI, em 1967.
Agora, porém, temos de voltar para aquele que convocou o Concílio Vaticano II e que o inaugurou: o Bem-Aventurado João XXIII. No Discurso de Abertura, ele apresentou a finalidade principal do Concílio usando estas palavras: «O que mais importa ao Concílio Ecumênico é o seguinte: que o depósito sagrado da doutrina cristã seja guardado e ensinado de forma mais eficaz. (...) Por isso, o objetivo principal deste Concílio não é a discussão sobre este ou aquele tema doutrinal... Para isso, não havia necessidade de um Concílio... É necessário que esta doutrina certa e imutável, que deve ser fielmente respeitada, seja aprofundada e apresentada de forma a responder às exigências do nosso tempo» (AAS 54 [1962], 790791-792). Até aqui, a citação do Papa João XIII, na inauguração do Concílio.
À luz destas palavras, entende-se aquilo que eu mesmo pude então experimentar: durante o Concílio havia uma tensão emocionante, em relação à tarefa comum de fazer resplandecer a verdade e a beleza da fé no hoje do nosso tempo, sem sacrificá-la frente às exigências do presente, nem mantê-la presa ao passado: na fé ecoa o eterno presente de Deus, que transcende o tempo, mas que só pode ser acolhida no nosso hoje, que não torna a repetir-se. Por isso, julgo que a coisa mais importante, especialmente numa ocasião tão significativa como a presente, seja reavivar em toda a Igreja aquela tensão positiva, aquele desejo ardente de anunciar novamente Cristo ao homem contemporâneo. Mas para que este impulso interior à nova evangelização não seja só um ideal e não peque de confusão, é necessário que ele se apóie sobre uma base de concreta e precisa, e esta base são os documentos do Concílio Vaticano II, nos quais este impulso encontrou a sua expressão. É por isso que repetidamente tenho insistido na necessidade de retornar, por assim dizer, à «letra» do Concílio - ou seja, aos seus textos - para encontrar o seu verdadeiro espírito; e tenho repetido que neles se encontra a verdadeira herança do Concílio Vaticano II. A referência aos documentos protege dos extremos tanto de nostalgias anacrônicas como de avanços excessivos, permitindo captar a novidade na continuidade. O Concílio não excogitou nada de novo em matéria de fé, nem quis substituir aquilo que existia antes. Pelo contrário, preocupou-se em fazer com que a mesma fé continue a ser vivida no presente, continue a ser uma fé viva em um mundo em mudança.
Se nos colocarmos em sintonia com a orientação autêntica que o Bem-Aventurado João XXIII queria dar ao Vaticano II, poderemos atualizá-la ao longo deste Ano da Fé, no único caminho da Igreja que quer aprofundar continuamente a «bagagem» da fé que Cristo lhe confiou. Os Padres conciliares queriam voltar a apresentar a fé de uma forma eficaz, e se quiseram abrir-se com confiança ao diálogo com o mundo moderno foi justamente porque eles estavam seguros da sua fé, da rocha firme em que se apoiavam. Contudo, nos anos seguintes, muitos acolheram acriticamente a mentalidade dominante, questionando os próprios fundamentos do depositum fidei a qual infelizmente já não consideravam como própria diante daquilo que tinham por verdade.
Se a Igreja hoje propõe um novo Ano da Fé e a nova evangelização, não é para prestar honras a uma efeméride, mas porque é necessário, ainda mais do que há 50 anos! E a resposta que se deve dar a esta necessidade é a mesma desejada pelos Papas e Padres conciliares e que está contida nos seus documentos. Até mesmo a iniciativa de criar um Concílio Pontifício para a Promoção da Nova Evangelização – ao qual agradeço o empenho especial para o Ano da Fé – enquadra-se nessa perspectiva. Nos últimos decênios tem-se visto o avanço de uma "desertificação" espiritual. Qual fosse o valor de uma vida, de um mundo sem Deus, no tempo do Concílio já se podia perceber a partir de algumas páginas trágicas da história, mas agora, infelizmente, o vemos ao nosso redor todos os dias. É o vazio que se espalhou. No entanto, é precisamente a partir da experiência deste deserto, deste vazio, que podemos redescobrir a alegria de crer, a sua importância vital para nós homens e mulheres. No deserto é possível redescobrir o valor daquilo que é essencial para a vida; assim sendo, no mundo de hoje, há inúmeros sinais da sede de Deus, do sentido último da vida, ainda que muitas vezes expressos implícita ou negativamente. E no deserto existe, sobretudo, necessidade de pessoas de fé que, com suas próprias vidas, indiquem o caminho para a Terra Prometida, mantendo assim viva a esperança. A fé vivida abre o coração à Graça de Deus que liberta do pessimismo. Hoje, mais do que nunca, evangelizar significa testemunhar uma vida nova, transformada por Deus, indicando assim o caminho. A primeira Leitura falava da sabedoria do viajante (cf. Eclo 34,9-13): a viagem é uma metáfora da vida, e o viajante sábio é aquele que aprendeu a arte de viver e pode compartilhá-la com os irmãos - como acontece com os peregrinos no Caminho de Santiago, ou em outros caminhos de peregrinação que, não por acaso, estão novamente em voga nestes últimos anos. Por que tantas pessoas hoje sentem a necessidade de fazer esses caminhos? Não seria porque neles encontraram, ou pelo menos intuíram o significado do nosso estar no mundo? Eis aqui o modo como podemos representar este ano da Fé: uma peregrinação nos desertos do mundo contemporâneo, em que se deve levar apenas o que é essencial: nem cajado, nem sacola, nem pão, nem dinheiro, nem duas túnicas - como o Senhor exorta aos Apóstolos ao enviá-los em missão (cf. Lc 9,3), mas sim o Evangelho e a fé da Igreja, dos quais os documentos do Concílio Vaticano II são uma expressão luminosa, assim como é o Catecismo da Igreja Católica, publicado há 20 anos.
Venerados e queridos irmãos, no dia 11 de outubro de 1962, celebrava-se a festa de Santa Maria, Mãe de Deus. A Ela lhe confiamos o Ano da Fé, tal como fiz há uma semana, quando fui, em peregrinação, a Loreto. Que a Virgem Maria brilhe sempre qual estrela no caminho da nova evangelização. Que Ela nos ajude a pôr em prática a exortação do Apóstolo Paulo: «A palavra de Cristo, em toda a sua riqueza, habite em vós. Ensinai e admoestai-vos uns aos outros, com toda a sabedoria... Tudo o que fizerdes, em palavras ou obras, seja feito em nome do Senhor Jesus. Por meio dele dai graças a Deus Pai» (Col 3,16-17). Amém.
[01316-06.02] [Texto original: Italiano]
TRADUZIONE IN LINGUA POLACCA
Czcigodni Bracia,
Drodzy Bracia i Siostry!
Z wielką radością dziś, 50 lat od rozpoczęcia Powszechnego Soboru Watykańskiego II inaugurujemy Rok wiary. Z radością pozdrawiam was wszystkich, a zwłaszcza Jego Świątobliwość Bartłomieja I, patriarchę Konstantynopola, oraz Jego Eminencję, Rowana Williamsa, arcybiskupa Canterbury. Kieruję szczególną myśl ku patriarchom i arcybiskupom większym Katolickich Kościołów Wschodnich oraz przewodniczących Konferencji Biskupich. Aby upamiętnić Sobór, który niektórzy z nas tutaj obecnych – a których pozdrawiam ze szczególną miłością – mieli łaskę przeżywania osobiście, uroczystość ta została wzbogacona o niektóre szczególne znaki: procesja na wejście, która miała przypomnieć ową pamiętną procesję ojców soborowych, gdy uroczyście wkraczali do tej bazyliki; intronizacja ewangeliarza – tego samego, którego używano podczas Soboru; przekazanie siedmiu orędzi końcowych Soboru i Katechizmu Kościoła Katolickiego, co uczynię na końcu, przed błogosławieństwem. Znaki te, nie tylko skłaniają nas do wspomnień, lecz także przedstawiają nam perspektywę, aby wyjść poza wspomnienie. Zachęcają nas do wejścia głębiej w poruszenie duchowe, które cechowało Vaticanum II, abyśmy je przyjęli za swoje i nieśli je dalej, w jego prawdziwym znaczeniu. A to znaczenie nadawała i nadaje nadal wiara w Chrystusa, wiara apostolska, ożywiana wewnętrznym impulsem, by przekazywać Chrystusa każdemu człowiekowi i wszystkim ludziom w pielgrzymowaniu Kościoła na drogach dziejów.
Rozpoczynający się dziś Rok wiary jest konsekwentnie związany z całą drogą Kościoła w minionych 50 latach: od Soboru, poprzez Magisterium Sługi Bożego Pawła VI, który ogłosił Rok wiary w 1967 roku, aż do Wielkiego Jubileuszu roku 2000, poprzez który błogosławiony Jan Paweł II zaproponował całej ludzkości na nowo Jezusa Chrystusa jako jedynego Zbawiciela, wczoraj, dziś i na wieki. Pomiędzy tymi dwoma pontyfikatami, Pawła VI i Jana Pawła II istnieje głęboka i pełna zbieżność właśnie w Chrystusie jako centrum kosmosu i historii, oraz w apostolskim pragnieniu głoszenia Go światu. Jezus jest centrum wiary chrześcijańskiej. Chrześcijanin wierzy w Boga za pośrednictwem Jezusa Chrystusa, który objawił Jego oblicze. On jest wypełnieniem Pisma Świętego i jego ostatecznym interpretatorem. Jezus Chrystus jest nie tylko przedmiotem wiary, ale, jak mówi List do Hebrajczyków jest tym, „który nam w wierze przewodzi i ją wydoskonala" (Hbr 12,2).
Dzisiejsza Ewangelia mówi nam, że Jezus Chrystus, namaszczony przez Ojca w Duchu Świętym jest prawdziwym i wiecznym podmiotem ewangelizacji. „Duch Pański spoczywa na Mnie, ponieważ Mnie namaścił i posłał Mnie, abym ubogim niósł dobrą nowinę"(Łk 4,18). Ta misja Chrystusa, to Jego poruszenie trwa nadal w przestrzeni i czasie, przemierza wieki i kontynenty. Jest to ruch, który wychodzi od Ojca i mocą Ducha Świętego ma nieść dobrą nowinę ubogim w sensie materialnym i duchowym. Kościół jest pierwszym i niezbędnym narzędziem tego dzieła Chrystusa, ponieważ jest z Nim zjednoczony, jak ciało z głową. „Jak Ojciec Mnie posłał, tak i Ja was posyłam" (J 20,21). Tak powiedział uczniom Zmartwychwstały i tchnąc na nich dodał „Weźmijcie Ducha Świętego!" (w. 22). To Bóg jest głównym podmiotem ewangelizacji świata, przez Jezusa Chrystusa; ale sam Chrystus chciał przekazać Kościołowi swoją misję. Uczynił to i czyni nadal aż do końca czasów, wzbudzając w uczniach Ducha Świętego, tego samego Ducha, który spoczął na Nim i pozostał w Nim podczas całego życia ziemskiego, dając Mu moc by „więźniom głosić wolność, a niewidomym przejrzenie", by „uciśnionych odsyłać wolnymi" i „obwoływać rok łaski od Pana" (Łk 4,18-19).
Sobór Watykański II, nie zamierzał sprecyzować tematu wiary w jakimś specjalnym dokumencie. A mimo to był on w pełni ożywiany świadomością i pragnieniem konieczności, że tak powiem, ponownego zanurzenia się w misterium chrześcijańskim, aby można je było skutecznie na nowo zaproponować współczesnemu człowiekowi. Tak na ten temat mówił Sługa Boży Paweł VI dwa lata po zakończeniu obrad soborowych: „Jeśli Sobór nie mówi wprost o wierze, to mówi o niej na każdej stronie, uznaje jej żywotny i nadprzyrodzony charakter, zakłada, że jest ona integralna i mocna i buduje na niej swoje nauczanie. Wystarczy przypomnieć niektóre stwierdzenia soborowe […], aby zdać sobie sprawę z zasadniczego znaczenia, jakie Sobór, zgodnie z tradycją doktrynalną Kościoła przypisuje wierze, prawdziwej wierze, której źródłem jest Chrystus, a drogą Magisterium Kościoła" (Katecheza podczas audiencji ogólnej, 8 marca 1967 r.). Tak mówił Paweł VI w 1967 roku.
Musimy teraz powrócić do tego, który zwołał Sobór Watykański II i go zainaugurował: bł. Jana XXIII. W przemówieniu na jego otwarcie przedstawił on główny cel Soboru tymi słowami: „Do obowiązku Soboru Powszechnego należy przede wszystkim strzeżenie świętego depozytu nauki chrześcijańskiej i podawanie go w jak najbardziej skutecznej formie [...] Punctum saliens tego soboru nie jest więc dyskusja nad którymś z artykułów podstawowej doktryny Kościoła... Nie dlatego więc Sobór był potrzebny... Trzeba, aby ta nauka pewna i niezmienna, która musi być wiernie przestrzegana, została pogłębiona i przedstawiona w sposób odpowiadający wymogom naszych czasów" (AAS 54 [1962], 790.791-792). Tak mówił papież Jan na rozpoczęcie Soboru.
W świetle tych słów możemy zrozumieć, to czego ja sam mogłem wówczas doświadczyć: podczas Soboru było poruszające dążenie odnośnie do wspólnego zadania, sprawienia żeby zajaśniała prawda i piękno wiary w naszym dniu dzisiejszym, nie podporządkowując jej wymogom chwili obecnej, ani też nie krępując przeszłością: w wierze rozbrzmiewa nieustannie obecna wieczność Boga, który przekracza czas i mimo to może być przez nas przyjęty jedynie w naszym niepowtarzalnym dziś. Dlatego uważam, że rzeczą najważniejszą, szczególnie przy tak znaczącej okazji, jak obecna, byłoby rozniecenie w całym Kościele tego pozytywnego napięcia, tego pragnienia, aby głosić ponownie Chrystusa współczesnemu człowiekowi. Jednak, aby ten wewnętrzny impuls do nowej ewangelizacji nie pozostał jedynie ideałem i nie grzeszył zamętem, trzeba, aby opierał się na konkretnej i precyzyjnej podstawie, a są nią dokumenty Soboru Watykańskiego II, w których znalazł on swój wyraz. Z tego względu wielokrotnie podkreślałem konieczność powrotu, by tak powiedzieć, do „litery" Soboru – to znaczy do jego tekstów – aby w nich znaleźć autentycznego ducha i powtarzałem, że znajduje się w nich prawdziwe dziedzictwo Vaticanum II. Odniesienie się do dokumentów chroni przed skrajnościami anachronicznych nostalgii i gonienia do przodu, i pozwala na uchwycenie nowości w ciągłości. Sobór nie wymyślił nic nowego jako przedmiotu wiary ani też nie chciał zastępować, tego co stare. Raczej troszczył się o to, aby ta sama wiara nadal była przeżywana w dniu dzisiejszym, nadal była wiarą żywą w zmieniającym się świecie.
Jeśli będziemy zgodni z autentycznym usytuowaniem, w jakim bł. Jan XXIII chciał umieścić Vaticanum II, będziemy mogli uobecniać go w ciągu tego Roku wiary, w obrębie jedynej drogi Kościoła, który nieustannie pragnie pogłębiać powierzony mu przez Chrystusa depozyt wiary. Ojcowie soborowi chcieli przedstawić wiarę na nowo w sposób skuteczny; z ufnością otwarli się na dialog ze współczesnym światem, właśnie dlatego, że byli pewni swojej wiary, mocnej skały na której budowali. Natomiast w latach następnych, wielu bez rozeznania przyjęło dominującą mentalność, poddając w wątpliwość same podstawy depositum fidei, których niestety nie odczuwali już w ich prawdzie jako swoje własne.
Jeśli dzisiaj Kościół proponuje nowy Rok wiary i nową ewangelizację, nie robi tego aby uczcić jakąś rocznicę, ale ponieważ jest to konieczne nawet bardziej niż przed 50 laty! A odpowiedź, jaką należy dać na tę potrzebę, jest ta sama, jaką zechcieli dać Papieże i Ojcowie Soboru, a która zawarta jest w jego dokumentach. Także inicjatywa utworzenia Papieskiej Rady, której celem jest krzewienie nowej ewangelizacji, a której dziękuję za szczególne zaangażowanie w Rok wiary, mieści się w tej perspektywie. W minionych dziesięcioleciach rozwinęło się duchowe „pustynnienie". Co mogłoby oznaczać życie, świat bez Boga, w czasie Soboru można było już poznać z pewnych tragicznych kart historii, ale niestety obecnie widzimy to każdego dnia wokół nas. Rozprzestrzeniła się pustka. Ale właśnie wychodząc od doświadczenia tej pustyni, od tej pustki, możemy odkryć na nowo radość wiary, jej życiowe znaczenie dla nas, mężczyzn i kobiet. Na pustyni odkrywa się wartość tego, co jest niezbędne do życia; w ten sposób we współczesnym świecie istnieją niezliczone znaki pragnienia Boga, ostatecznego sensu życia, często wyrażane w formie ukrytej czy negatywnej. Na pustyni trzeba nade wszystko ludzi wiary, którzy swym własnym życiem wskazują drogą ku Ziemi obiecanej i w ten sposób uobecniają nadzieję. Żywa wiara otwiera serce na Łaskę Boga, która uwalnia od pesymizmu. Dziś bardziej niż kiedykolwiek ewangelizowanie oznacza bycie świadkiem nowego życia, przemienionego przez Boga, i w ten sposób wskazywanie drogi. Pierwsze czytanie mówiło nam o mądrości podróżnika (por. Syr 34, 9-13): podróż jest metaforą życia, a mądry podróżnik to ten, który nauczył się sztuki życia i może dzielić się nią z braćmi – jak to się dzieje w przypadku pielgrzymów na szlaku Camino de Santiago, lub na innych trasach, które nieprzypadkowo są znów w tych latach w modzie. Dlaczego tak wielu ludzi czuje dzisiaj potrzebę odbycia tych pielgrzymek? Czyż nie dlatego, że znajdują tam, albo przynajmniej wyczuwają, sens naszego istnienia w świecie? W ten więc sposób możemy przedstawić sobie ten Rok wiary: pielgrzymka na pustyniach współczesnego świata, w której trzeba nieść tylko to, co istotne: ani laski, ani torby podróżnej, ani chleba, ani pieniędzy ani dwóch sukien – jak mówi Pan apostołom posyłając ich na misję (por. Łk 9,3), lecz Ewangelia i wiara Kościoła, której jaśniejącym wyrazem są dokumenty II Powszechnego Soboru Watykańskiego, podobnie jak też nim jest opublikowany przed dwudziestu laty Katechizm Kościoła Katolickiego.
Czcigodni i drodzy bracia, 11 października 1962 r. obchodzono święto Świętej Bożej Rodzicielki Maryi. Jej zawierzamy Rok wiary, tak jak to uczyniłem przed tygodniem udając się jako pielgrzym do Loreto. Panna Maryja niech zawsze świeci jak gwiazda na drodze nowej ewangelizacji. Niech nam pomoże realizować w praktyce zachętę apostoła Pawła: „Słowo Chrystusa niech w was przebywa z [całym swym] bogactwem: z wszelką mądrością nauczajcie i napominajcie samych siebie... I wszystko, cokolwiek działacie słowem lub czynem, wszystko [czyńcie] w imię Pana Jezusa, dziękując Bogu Ojcu przez Niego" (Kol 3,16-17). Amen.
[01316-09.02] [Testo originale: Italiano]
● INDIRIZZO DI SALUTO DEL PATRIARCA ECUMENICO S.S. BARTOLOMEO I
TESTO IN LINGUA ITALIANA
TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
TESTO IN LINGUA ITALIANA
Diletto fratello nel Signore, Vostra Santità Papa Benedetto;
Fratelli e Sorelle;
Quando Cristo si stava preparando all’esperienza del Getsemani, ha pronunciato una preghiera per l’unità riportata nel capitolo17, versetto 11 del Vangelo di San Giovanni: "...custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi".1 Attraverso i secoli siamo veramente stati custoditi con la potenza e l’amore di Cristo, e nel momento adatto della storia lo Spirito Santo è disceso su di noi ed abbiamo iniziato il lungo percorso verso l’unità visibile desiderata da Cristo. Questo è stato confermato dalla Unitatis Redintegratio §1:
Moltissimi uomini in ogni dove sono stati toccati da questa grazia, ed anche tra i nostri fratelli separati è sorto per la grazia dello Spirito Santo un movimento che si allarga di giorno in giorno per il ristabilimento dell'unità tra tutti i cristiani.
In questa piazza, una potente e significativa celebrazione ha manifestato il cuore e la mente della Chiesa Cattolica Romana, conducendola in questi cinquant'anni fino al mondo contemporaneo. L’apertura del Concilio Vaticano II, pietra miliare trasformante, fu ispirata dalla realtà fondamentale che il Figlio e il Logos incarnato di Dio è là "dove sono due o tre riuniti nel suo nome (Mt 18,20) e che lo Spirito che procede dal Padre "ci guiderà a tutta la verità" (Gv 16,13).
In questi successivi cinquant'anni, ricordiamo con chiarezza e tenerezza, ma anche con esultanza ed entusiasmo, le nostre personali discussioni con vescovi e con esperti teologi durante la nostra formazione – come giovane studente – all’Istituto Pontificio Orientale, come anche la nostra personale partecipazione a qualche sessione speciale del Concilio. Siamo testimoni oculari di come i vescovi abbiano sperimentato con rinnovata coscienza la validità – ed un rafforzato senso di continuità - della tradizione e della fede "che fu trasmessa ai santi una volta per sempre" (Giuda 1,3). È stato un periodo promettente, ricco di speranza, sia all’interno che all’esterno della vostra Chiesa.
Abbiamo notato che per la Chiesa Ortodossa questo è stato un periodo di scambi e di attese. Per esempio, la convocazione delle prime Conferenze Pan-Ortodosse a Rodi, ha condotto alle Conferenze Pre-Conciliari in preparazione del Grande Concilio delle Chiese Ortodosse. Questi scambi dimostreranno al mondo moderno la grande testimonianza di unità della Chiesa Ortodossa. Inoltre, questo periodo ha coinciso con il "dialogo dell’amore", ed ha annunciato la Commissione Internazionale Congiunta per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, istaurato dai nostri venerabili predecessori Papa Giovanni Paolo II e il Patriarca Ecumenico Dimitrios.
Nel corso degli ultimi cinque decenni, le conquiste raggiunte da questa assemblea sono state varie, come e’ stato dimostrato da una serie d’importanti ed influenti costituzioni, dichiarazioni e decreti. Abbiamo contemplato il rinnovamento dello spirito e "il ritorno alle origini" attraverso lo studio liturgico, la ricerca biblica e la dottrina patristica. Abbiamo apprezzato lo sforzo graduale di liberarsi dalla rigida limitazione accademica all’apertura del dialogo ecumenico, che ha condotto alle reciproche abrogazioni delle scomuniche dell’anno 1054, lo scambio di auguri, la restituzione delle reliquie, l’inizio di dialoghi importanti e le visite reciproche nelle nostre rispettive sedi.
Il nostro cammino non è stato sempre facile o esente da sofferenze e sfide. Sappiamo, infatti "quanto stretta è la porta e angusta la via" (Mt 7,14). La teologia fondamentale e i temi principali del Concilio Vaticano II – il mistero della Chiesa, la sacralità della liturgia e l’autorità del vescovo – sono difficili da applicare con pratica assidua, e si assimilano con sforzi durante tutta la vita e con l’impegno dell’intera chiesa. Quindi la porta dovrebbe rimanere aperta per una più profonda accoglienza, un maggior impegno pastorale ed una interpretazione ecclesiale del Concilio Vaticano II sempre più approfondita.
Proseguendo insieme questo cammino, offriamo grazie e gloria al Dio vivente – Padre, Figlio e Spirito Santo – perché l’assemblea stessa dei vescovi ha riconosciuto l’importanza della riflessione e del dialogo sincero tra le nostre "chiese sorelle". Ci uniamo nella "speranza che venga rimossa la barriera tra la Chiesa d’oriente e la Chiesa d’occidente, e che si abbia finalmente una sola dimora solidamente fondata sulla pietra angolare, Cristo Gesù, il quale di entrambe farà una cosa sola" (Unitatis Redintegratio §18).
Con Cristo nostra pietra angolare e con la tradizione che abbiamo in comune, saremo capaci – o, piuttosto, saremo resi capaci dal dono e dalla grazia di Dio – di raggiungere un apprezzamento migliore ed un’espressione più completa del Corpo di Cristo. Con i nostri sforzi continui conformi allo spirito della tradizione della Chiesa primitiva e alla luce della Chiesa dei Concili del primo millennio, potremmo sperimentare l’unità visibile che si trova solo oltre il nostro tempo d’oggi.
La Chiesa sempre primeggia nella sua peculiare dimensione profetica e pastorale, abbraccia la sua caratteristica mitezza e spiritualità, e serve con umile sensibilità "questi fratelli più piccoli di Cristo" (Mt 25,40).
Diletto fratello, la nostra presenza qui significa e segna il nostro impegno di testimoniare insieme il messaggio di salvezza e guarigione per i nostri fratelli più piccoli: i poveri, gli oppressi, gli emarginati nel mondo creato da Dio. Diamo inizio a preghiere per la pace e la salute dei nostri fratelli e sorelle cristiani che vivono in Medio Oriente. Nell’attuale crogiolo di violenza, separazione e divisione che va intensificandosi tra popoli e nazioni, che l’amore e il desiderio di armonia che dichiariamo qui, e la comprensione che cerchiamo con il dialogo e il reciproco rispetto, sia di modello per il nostro mondo. Che l’umanità possa stendere la mano ‘all’altro’ e che possiamo lavorare insieme per superare il dolore dei popoli dovunque, particolarmente dove si soffre a causa della fame, dei disastri naturali, di malattie e della guerra che, alla fine, colpisce la vita di noi tutti.
Alla luce di tutto quanto la Chiesa nel mondo dovrebbe ancora compiere, e con grande apprezzamento per tutto il progresso che abbiamo condiviso, siamo onorati di essere stati invitati a partecipare – e modestamente chiamati ad offrire la nostra parola – in questa solenne e festosa commemorazione del Concilio Vaticano II. Non è solo coincidenza che questa occasione segni per la vostra Chiesa la solenne inaugurazione dell’"Anno della Fede", dato che è la fede che offre un segno evidente del cammino che insieme abbiamo percorso lungo il sentiero della riconciliazione e dell’unità visibile.
In conclusione, noi sentitamente ci congratuliamo con Lei, Santità, Diletto Fratello – uniti con la benedetta moltitudine dei fedeli qui radunati oggi – e l’abbracciamo fraternamente nella gioiosa occasione di questa celebrazione commemorativa. Che Dio vi benedica tutti.
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1
Tutte le citazioni della Scrittura vengono dalla traduzione italiana della Santa Bibbia, CEI 2008. [01317-01.01] [Testo originale: Italiano]
TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
Beloved brother in the Lord, Your Holiness Pope Benedict;
Brothers and Sisters;
As Christ prepared for His Gethsemane experience, He prayed a prayer for unity which is recorded in the Gospel of Saint John Chapter 17 verse 11: ". . . keep through Your name those whom You have given Me, that they may be one as We are".1 Through the centuries we have, indeed, been kept in the power and love of Christ, and in the proper moment in history the Holy Spirit moved upon us and we began the long journey towards the visible unity that Christ desires. This has been confirmed in Unitatis Redintegratio §1:
Everywhere large numbers have felt the impulse of this grace, and among our separated brethren also there increases from day to day the movement, fostered by the grace of the Holy Spirit, for the restoration of unity among all Christians.
Fifty years ago in this very square, a powerful and pivotal celebration captured the heart and mind of the Roman Catholic Church, transporting it across the centuries into the contemporary world. This transforming milestone, the opening of the Second Vatican Council, was inspired by the fundamental reality that the Son and incarnate Logos of God is "…where two or three are gathered in his name" (Matthew 18.20) and that the Spirit, who proceeds from the Father, "…will guide us into the whole truth." (John 16.13).
In the 50 years that have intervened, we recall with vividness and tenderness, but also with elation and enthusiasm, our personal discussions with episcopal members and theological periti during our formative time – then as a young student – at the Pontifical Oriental Institute, as well as our personal attendance at some special sessions of the Council. We witnessed firsthand how the bishops experienced a renewed awareness of the validity – and a reinforced sense of the continuity – of the tradition and faith "once for all delivered to the saints" (Jude 1.3). It was a period of promise and hope for your Church both internally and externally.
For the Orthodox Church, we have observed a time of exchange and expectation. For example, the convocation of the first Pan-Orthodox Conferences in Rhodes led to the Pre-Conciliar Pan-Orthodox Conferences in preparation for the Great Council of the Orthodox Churches. These exchanges will demonstrate the unified witness of the Orthodox Church in the modern world. Moreover, it coincided with the "dialogue of love" and heralded the Joint International Commission for Theological Dialogue between the Roman Catholic and the Orthodox Church, which was established by our venerable predecessors Pope John Paul II and Ecumenical Patriarch Dimitrios.
Over the last five decades, the achievements of this assembly have been diverse as evidenced through the series of important and influential constitutions, declarations, and decrees. We have contemplated the renewal of the spirit and "return to the sources" through liturgical study, biblical research, and patristic scholarship. We have appreciated the struggle toward gradual liberation from the limitation of rigid scholasticism to the openness of ecumenical encounter, which has led to the mutual rescinding of the excommunications of the year 1054, the exchange of greetings, returning of relics, entering into important dialogues, and visiting each other in our respective Sees.
Our journey has not always been easy or without pain and challenge, for as we know "narrow is the gate and difficult is the way" (Matthew 7.14). The essential theology and principal themes of the Second Vatican Council – the mystery of the Church, the sacredness of the liturgy, and the authority of the bishop – are difficult to apply in earnest practice, and constitute a life-long and church-wide labor to assimilate. The door, then, must remain open for deeper reception, pastoral engagement, and ecclesial interpretation of the Second Vatican Council.
As we move forward together, we offer thanks and glory to the living God – Father, Son and Holy Spirit – that the same assembly of bishops has recognised the importance of reflection and sincere dialogue between our "sister churches". We join in the ". . . hope that the barrier dividing the Eastern Church and the Western Church will be removed, and that – at last – there may be but the one dwelling, firmly established on Christ Jesus, the cornerstone, who will make both one" (Unitatis Redintegratio §18).
With Christ as our cornerstone and the tradition we share, we shall be able – or, rather, we shall be enabled by the gift and grace of God – to reach a better appreciation and fuller expression of the Body of Christ. With our continued efforts in accordance with the spirit of the tradition of the early Church, and in the light of the Church of the Councils of the first millennium, we will experience the visible unity that lies just beyond us today.
The Church always excels in its uniquely prophetic and pastoral dimension, embraces its characteristic meekness and spirituality, and serves with humble sensitivity the "least of these My brethren" (Matthew 25.40).
Beloved brother, our presence here signifies and seals our commitment to witness together to the Gospel message of salvation and healing for the least of our brethren: the poor, the oppressed, the forgotten in God’s world. Let us begin with prayers for peace and healing for our Christian brothers and sisters living in the Middle East. In the current turmoil of violence, separation, and brokenness that is escalating between peoples and nations, may the love and desire for harmony we profess here, and the understanding we seek through dialogue and mutual respect, serve as a model for our world. Indeed, may all humanity reach out to ‘the other’ and work together to overcome the suffering of people everywhere, particularly in the face of famine, natural disasters, disease, and war that ultimately touches all of our lives.
In light of all that has yet to be accomplished by the Church on earth, and with great appreciation for all the progress we have shared, we are, therefore, honored to be invited to attend – and humbled to be called to address – this solemn and festive commemoration of the Second Vatican Council. It is fitting that this occasion also marks for your Church the formal inauguration of the "Year of Faith", as it is faith that provides a visible sign of the journey we have traveled together along the path of reconciliation and visible unity.
In closing, Your Holiness, Beloved Brother, we wholeheartedly congratulate you – together with the blessed multitude assembled here today – and we fraternally embrace you on the joyous occasion of this anniversary celebration. May God bless you all.
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All scripture from English translation of the Holy Bible, New King James Version, Thomas Nelson Publishers, 1982. [01317-02.01] [Original text: Italian]
[B0575-XX.02]