Alle ore 17.30 di oggi, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Chiesa dei Santi Andrea e Gregorio al monte Celio in Roma, la celebrazione dei primi Vespri della III domenica di Quaresima, con la partecipazione di Sua Grazia il Dr. Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury e Primate della Comunione Anglicana.
Occasione della celebrazione, con la visita dell’Arcivescovo di Canterbury, il Millenario della fondazione della Casa Madre dei Camaldolesi e la memoria del Transito di San Gregorio Magno, il Papa che proprio da questo monastero inviò Agostino e i suoi quaranta monaci ad evangelizzare gli Angli.
Pubblichiamo di seguito i testi delle omelie che il Santo Padre Benedetto XVI e S.G. il Dr. Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury e Primate della Comunione Anglicana, pronunciano nel corso dei Vespri:
● OMELIA DEL SANTO PADRE
Testo in lingua italiana
Traduzione non ufficiale in lingua inglese
Testo in lingua italiana
Vostra Grazia,
Venerati Fratelli,
cari Monaci e Monache Camaldolesi,
cari fratelli e sorelle!
È per me motivo di grande gioia essere qui oggi in questa Basilica di San Gregorio al Celio per la solenne celebrazione vespertina nella memoria del Transito di San Gregorio Magno. Con voi, cari Fratelli e Sorelle della Famiglia camaldolese, rendo grazie a Dio per i mille anni dalla fondazione del Sacro Eremo di Camaldoli da parte di san Romualdo. Mi rallegro vivamente della presenza, in questa particolare circostanza, di Sua Grazia il Dottor Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury. A Lei, caro Fratello in Cristo, a ciascuno di voi, cari Monaci e Monache, e a tutti i presenti rivolgo il mio cordiale saluto.
Abbiamo ascoltato due brani di san Paolo. Il primo, tratto dalla Seconda Lettera ai Corinzi, è particolarmente in sintonia con il tempo liturgico che stiamo vivendo: la Quaresima. Esso, infatti, contiene l’esortazione dell’Apostolo ad approfittare del momento favorevole per accogliere la grazia di Dio. Il momento favorevole è naturalmente quello in cui Gesù Cristo è venuto a rivelarci e donarci l’amore di Dio per noi, con la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione. Il "giorno della salvezza" è quella realtà che san Paolo chiama in un altro luogo la "pienezza dei tempi", il momento in cui Dio incarnandosi entra in modo del tutto singolare nel tempo e lo riempie con la sua grazia. A noi spetta dunque accogliere questo dono, che è Gesù stesso: la sua Persona, la sua Parola, il suo Santo Spirito. Inoltre, sempre nella prima Lettura che abbiamo ascoltato, san Paolo ci parla anche di se stesso e del suo apostolato: di come egli si sforzi di essere fedele a Dio nel suo ministero, perché esso sia veramente efficace e non risulti invece di ostacolo per la fede. Queste parole ci fanno pensare a san Gregorio Magno, alla testimonianza luminosa che diede al popolo di Roma e alla Chiesa intera con un servizio irreprensibile e pieno di zelo per il Vangelo. Veramente si può applicare anche a Gregorio ciò che Paolo scrisse di sé: la grazia di Dio in lui non è stata vana (cfr 1 Cor 15,10). E’ questo, in realtà, il segreto per la vita di ciascuno di noi: accogliere la grazia di Dio e acconsentire con tutto il cuore e con tutte le forze alla sua azione. E’ questo il segreto anche della vera gioia, e della pace profonda.
La seconda Lettura era tratta invece dalla Lettera ai Colossesi. Sono le parole – sempre così toccanti per il loro afflato spirituale e pastorale – che l’Apostolo rivolge ai membri di quella comunità per formarli secondo il Vangelo, perché qualunque cosa facciano, "in parole e opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù" (Col 3, 17). "Siate perfetti" aveva detto il Maestro ai suoi discepoli; e ora l’Apostolo esorta a vivere secondo questa misura alta della vita cristiana che è la santità. Può farlo perché i fratelli a cui si rivolge sono "scelti da Dio, santi e amati". Anche qui alla base di tutto c’è la grazia di Dio, c’è il dono della chiamata, il mistero dell’incontro con Gesù vivo. Ma questa grazia domanda la risposta dei battezzati: richiede l’impegno di rivestirsi dei sentimenti di Cristo: tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, perdono reciproco, e sopra tutto, come sintesi e coronamento, l’agape, l’amore che Dio ci ha donato mediante Gesù e che lo Spirito Santo ha effuso nei nostri cuori. E per rivestirsi di Cristo è necessario che la sua Parola abiti tra noi e in noi con tutta la sua ricchezza, e in abbondanza. In un clima di costante rendimento di grazie, la comunità cristiana si nutre della Parola e fa risalire verso Dio, come canto di lode, la Parola che Lui stesso ci ha donato. Ed ogni azione, ogni gesto, ogni servizio, viene compiuto all’interno di questa relazione profonda con Dio, nel movimento interiore dell’amore trinitario che scende verso di noi e risale verso Dio, movimento che nella celebrazione del Sacrificio eucaristico trova la sua forma più alta.
Questa Parola illumina anche le liete circostanze che ci vedono riuniti oggi, nel nome di San Gregorio Magno. Grazie alla fedeltà e alla benevolenza del Signore, la Congregazione dei Monaci Camaldolesi dell’Ordine di San Benedetto ha potuto percorrere mille anni di storia, nutrendosi quotidianamente della Parola di Dio e dell’Eucaristia, così come aveva insegnato loro il fondatore san Romualdo, secondo il "triplex bonum" della solitudine, della vita in comune e dell’evangelizzazione. Figure esemplari di uomini e donne di Dio, come san Pier Damiani, Graziano – l’autore del Decretum – san Bruno di Querfurt e i Cinque Fratelli martiri, Rodolfo I e II, la Beata Gherardesca, la Beata Giovanna da Bagno e il Beato Paolo Giustiniani; uomini di scienza e di arte come Fra Mauro il Cosmografo, Lorenzo Monaco, Ambrogio Traversari, Pietro Delfino e Guido Grandi; storici illustri come gli Annalisti Camaldolesi Giovanni Benedetto Mittarelli e Anselmo Costadoni; zelanti Pastori della Chiesa, fra i quali spicca il Papa Gregorio XVI, hanno mostrato gli orizzonti e la grande fecondità della tradizione camaldolese.
Ogni fase della lunga storia dei Camaldolesi ha conosciuto testimoni fedeli del Vangelo, non soltanto nel silenzio del nascondimento e della solitudine e nella vita comune condivisa con i fratelli, ma anche nel servizio umile e generoso verso tutti. Particolarmente feconda è stata l’accoglienza offerta dalle foresterie camaldolesi. Ai tempi dell’umanesimo fiorentino le mura di Camaldoli hanno accolto le famose disputationes, alle quali partecipavano grandi umanisti quali Marsilio Ficino e Cristoforo Landino; negli anni drammatici della seconda guerra mondiale, gli stessi chiostri hanno propiziato la nascita del famoso "Codice di Camaldoli", una delle fonti più significative della Costituzione della Repubblica Italiana. Non furono meno fecondi gli anni del Concilio Vaticano II, durante i quali sono maturate tra i Camaldolesi personalità di grande valore, che hanno arricchito la Congregazione e la Chiesa e hanno promosso nuovi slanci e insediamenti negli Stati Uniti d’America, in Tanzania, in India e in Brasile. In tutto questo, era garanzia di fecondità il sostegno di monaci e monache che accompagnavano le nuove fondazioni con la preghiera costante, vissuta nel profondo della loro "reclusione", qualche volta fino all’eroismo.
Il 17 settembre 1993, il Beato Papa Giovanni Paolo II, incontrando i monaci nel Sacro Eremo di Camaldoli, commentava il tema del loro imminente Capitolo Generale, "Scegliere la speranza, scegliere il futuro", con queste parole: "Scegliere la speranza e il futuro significa, in ultima analisi, scegliere Dio … Significa scegliere Cristo, speranza di ogni uomo". E aggiungeva: "Ciò avviene, in particolare, in quella forma di vita che Dio stesso ha suscitato nella Chiesa ispirando San Romualdo a fondare la Famiglia benedettina di Camaldoli, con la caratteristica complementarità di Eremo e Monastero, vita solitaria e vita cenobitica tra loro coordinate". Il mio Beato Predecessore sottolineò inoltre che "scegliere Dio vuol dire anche coltivare umilmente e pazientemente – accettando, appunto, i tempi di Dio – il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso", sempre a partire dalla fedeltà al carisma originario ricevuto da san Romualdo e trasmesso attraverso una millenaria e pluriforme tradizione.
Incoraggiati dalla visita e dalle parole del Successore di Pietro, voi monaci e monache camaldolesi avete proseguito il vostro cammino ricercando sempre di nuovo il giusto equilibrio tra lo spirito eremitico e quello cenobitico, tra l’esigenza di dedicarvi interamente a Dio nella solitudine e quella sostenervi nella preghiera comune e quella di accogliere i fratelli perché possano attingere alle sorgenti della vita spirituale e giudicare le vicende del mondo con coscienza veramente evangelica. Così voi cercate di conseguire quella perfecta caritas che san Gregorio Magno considerava punto di arrivo di ogni manifestazione della fede, impegno che trova conferma nel motto del vostro stemma: "Ego Vobis, Vos Mihi", sintesi della formula di alleanza tra Dio e il suo popolo, e fonte della perenne vitalità del vostro carisma.
Il Monastero di San Gregorio al Celio è il contesto romano in cui celebriamo il millennio di Camaldoli insieme con Sua Grazia l’Arcivescovo di Canterbury che, insieme con noi, riconosce questo Monastero come luogo nativo del legame tra il Cristianesimo nelle Terre britanniche e la Chiesa di Roma. L’odierna celebrazione è dunque connotata da un profondo carattere ecumenico che, come sappiamo, fa parte ormai dello spirito camaldolese contemporaneo. Questo Monastero camaldolese romano ha sviluppato con Canterbury e la Comunione Anglicana, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, legami ormai tradizionali. Per la terza volta oggi il Vescovo di Roma incontra l’Arcivescovo di Canterbury nella casa di san Gregorio Magno. Ed è giusto che sia così, perché precisamente da questo Monastero il Papa Gregorio scelse Agostino e i suoi quaranta monaci per inviarli a portare il Vangelo fra gli Angli, poco più di mille e quattrocento anni fa. La presenza costante di monaci in questo luogo, e per un tempo così lungo, è già in se stessa testimonianza della fedeltà di Dio alla sua Chiesa, che siamo felici di poter proclamare al mondo intero. Il segno che insieme porremo davanti al santo altare dove Gregorio stesso celebrava il Sacrificio eucaristico, ci auguriamo che resti non soltanto come ricordo del nostro incontro fraterno, ma anche come stimolo per tutti i fedeli, Cattolici ed Anglicani, affinché, visitando a Roma i sepolcri gloriosi dei santi Apostoli e Martiri, rinnovino anche l’impegno di pregare costantemente e di operare per l’unità, per vivere pienamente secondo quell’"ut unum sint" che Gesù ha rivolto al Padre.
Questo desiderio profondo, che abbiamo la gioia di condividere, lo affidiamo alla celeste intercessione di San Gregorio Magno e di San Romualdo. Amen.
[00337-01.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione non ufficiale in lingua inglese
Your Grace,
Dear Brother Bishops and Priests,
Dear Monks and Nuns of Camaldoli,
Dear Brothers and Sisters,
It gives me great joy to be here today in this Basilica of San Gregorio al Celio for Solemn Vespers on the liturgical commemoration of the death of Saint Gregory the Great. With you, dear Brothers and Sisters of the Camaldolese family, I thank God for the thousand years that have passed since the foundation of the Sacred Hermitage of Camaldoli by Saint Romuald. I am delighted to be joined on this occasion by His Grace Dr Rowan Williams, Archbishop of Canterbury. To you, my dear Brother in Christ, and to each one of you, dear monks and nuns, and to everyone present, I extend cordial greetings.
We have listened to two passages from Saint Paul. The first, taken from the Second Letter to the Corinthians, is particularly appropriate for the current liturgical season of Lent. It contains the Apostle’s exhortation to seize the favourable moment for receiving God’s grace. The favourable moment is naturally when Jesus Christ came to reveal and to bestow upon us the love that God has for us, through his incarnation, passion, death and resurrection. The "day of salvation" is the same reality that Saint Paul in another place describes as the "fullness of time", the moment when God took flesh and entered time in a completely unique way, filling it with his grace. It is for us, then, to accept this gift, which is Jesus himself: his person, his word, his Holy Spirit. Moreover, in the first reading, Saint Paul tells us about himself and his apostolate – how he strives to remain faithful to God in his ministry, so that it may be truly efficacious and may not prove instead a barrier to faith. These words make us think of Saint Gregory the Great, of the radiant witness that he offered the people of Rome and the whole Church by a blameless ministry full of zeal for the Gospel. Truly, what Saint Paul wrote of himself applies equally to Gregory: the grace of God in him has not been fruitless (cf. 1 Cor 15:10). This, indeed, is the secret for the lives of every one of us: to welcome God’s grace and to consent with all our heart and all our strength to its action. This is also the secret of true joy and profound peace.
The second reading was taken from the Letter to the Colossians. We heard those words – always so moving for their spiritual and pastoral inspiration – that the Apostle addressed to the members of that community in order to form them according to the Gospel, saying to them: "whatever you do, in word or deed, do everything in the name of the Lord Jesus" (Col 3:17). "Be perfect", the Master said to his disciples; and now the Apostle exhorts his listeners to live according to the high measure of Christian life that is holiness. He can do this because the brothers he is addressing are "chosen by God, holy and beloved". Here too, at the root of everything, is the grace of God, the gift of the call, the mystery of the encounter with the living Jesus. But this grace demands a response from those who have been baptized: it requires the commitment to be reclothed in Christ’s sentiments: tenderness, goodness, humility, meekness, magnanimity, mutual forgiveness, and above all, as a synthesis and a crown, agape, the love that God has given us through Jesus, the love that the Holy Spirit has poured into our hearts. And if we are to be reclothed in Christ, his word must dwell among us and in us, with all its richness and in abundance. In an atmosphere of constant thanksgiving, the Christian community feeds on the word and causes to rise towards God, as a song of praise, the word that he himself has given us. And every action, every gesture, every service, is accomplished within this profound relationship with God, in the interior movement of Trinitarian love that descends towards us and rises back towards God, a movement that finds its highest expression in the eucharistic sacrifice.
This word also sheds light upon the happy circumstances that bring us together today, in the name of Saint Gregory the Great. Through the faithfulness and benevolence of the Lord, the Congregation of Camaldolese monks of the Order of Saint Benedict has completed a thousand years of history, feeding daily on the word of God and the Eucharist, as their founder Saint Romuald taught them, according to the triplex bonum of solitude, community life and evangelization. Exemplary men and women of God, such as Saint Peter Damian, Gratian – author of the Decretum – Saint Bruno of Querfurt and the five brother martyrs, Rudolph I and II, Blessed Gherardesca, Blessed Giovanna da Bagno and Blessed Paolo Giustiniani; men of art and science like Brother Maurus the Cosmographer, Lorenzo Monaco, Ambrogio Traversari, Pietro Delfino and Guido Grandi; illustrious historians like the Camaldolese Annalists Giovanni Benedetto Mittarelli and Anselmo Costadoni; zealous pastors of the Church, among whom Pope Gregory XVI stands out, have revealed the horizons and the great fruitfulness of the Camaldolese tradition.
Every phase of the long history of the Camaldolese has produced faithful witnesses of the Gospel, not only in the hidden life of silence and solitude and in the common life shared with the brethren, but also in humble and generous service towards others. Particularly fruitful was the hospitality offered by Camaldolese guest-houses. In the days of Florentine humanism, the walls of Camaldoli witnessed the famous disputationes, in which great humanists such as Marsilio Ficino and Cristoforo Landino took part. In the turbulent years of the Second World War, those same cloisters were the setting for the birth of the famous Codex of Camaldoli, one of the most significant sources of the Constitution of the Italian Republic. Nor were the years of the Second Vatican Council any less productive, for at that time individuals of high calibre emerged among the Camaldolese, enriching the Congregation and the Church and promoting new initiatives and new houses in the United States of America, Tanzania, India and Brazil. In all this activity, a guarantee of fruitfulness was the support of monks and nuns praying constantly for the new foundations from the depths of their "withdrawal from the world", lived at times to a heroic degree.
On 17 September 1993, during his meeting with the monks of the Sacred Hermitage of Camaldoli, Blessed John Paul II commented on the theme of their imminent General Chapter, "Choosing hope, choosing the future", with these words: "Choosing hope and the future in the last analysis implies choosing God ... It means choosing Christ, the hope of every human being." And he continued, "This particularly occurs in that form of life which God himself brought about in the Church, inspiring Saint Romuald to found the Benedictine family of Camaldoli, with its characteristic complementarity of hermitage and monastery, solitary life and cenobitic life in harmony with each other." Moreover, my blessed Predecessor emphasized that "choosing God also means humbly and patiently cultivating, according to God’s design, ecumenical and interreligious dialogue", always on the basis of fidelity to the original charism received from Saint Romuald and transmitted through a thousand years of varied tradition.
Encouraged by the visit from the Successor of Peter, and by his words, all of you Camaldolese monks and nuns have pursued your path, constantly seeking the right balance between the eremitical and the cenobitic spirit, between the need to dedicate yourselves totally to God in solitude, the need to support one another in communal prayer, and the need to welcome others so that they can draw upon the wellsprings of spiritual life and evaluate the events of the world with a truly Gospel-formed conscience. In this way you seek to attain that perfecta caritas that Saint Gregory the Great considered the point of arrival of every manifestation of faith, a commitment that finds confirmation in the motto of your coat of arms: "Ego Vobis, vos mihi", a synthesis of the covenant formula between God and his people, and a source of the perennial vitality of your charism.
The Monastery of San Gregorio al Celio is the Roman setting for our celebration of the millennium of Camaldoli in company with His Grace the Archbishop of Canterbury who, together with us, recognizes this Monastery as the birthplace of the link between Christianity in Britain and the Church of Rome. Today’s celebration is therefore marked by a profoundly ecumenical character which, as we know, is part and parcel of the modern Camaldolese spirit. This Roman Camaldolese Monastery has developed with Canterbury and the Anglican Communion, especially since the Second Vatican Council, links that now qualify as traditional. Today, for the third time, the Bishop of Rome is meeting the Archbishop of Canterbury in the home of Saint Gregory the Great. And it is right that it should be so, because it was from this Monastery that Pope Gregory chose Augustine and his forty monks and sent them to bring the Gospel to the Angles, a little over 1,400 years ago. The constant presence of monks in this place, over such a long period, is already in itself a testimony of God’s faithfulness to his Church, which we are happy to be able to proclaim to the whole world. We hope that the sign of our presence here together in front of the holy altar, where Gregory himself celebrated the eucharistic sacrifice, will remain not only as a reminder of our fraternal encounter, but also as a stimulus for all the faithful – both Catholic and Anglican – encouraging them, as they visit the glorious tombs of the holy Apostles and Martyrs in Rome, to renew their commitment to pray constantly and to work for unity, and to live fully in accordance with the "ut unum sint" that Jesus addressed to the Father.
This profound desire, that we have the joy of sharing, we entrust to the heavenly intercession of Saint Gregory the Great and Saint Romuald.
[00337-02.01] [Original text: Italian]
● OMELIA DELL’ARCIVESCOVO DI CANTERBURY
Testo in lingua inglese
Traduzione non ufficiale in lingua italiana
Testo in lingua inglese
Your Holiness, Dear brothers and sisters in Christ:
It is a privilege to stand here, where my predecessors stood in 1989 and 1996, and to offer once again, as we did most recently in Westminster [and Assisi], the sacrifice of praise that we owe to the One Lord in whose name we are baptized; the One Lord who by his Spirit, brings to recognisability in each member of his sacramental Body, the image and abundant life of Christ his Son, through the temptations and struggles of our baptismal calling.
St Gregory the Great had much to say about the peculiar temptations and struggles of those called to office in the Church of God. To be called to this service is to be called to several different kinds of suffering – the torment of compassion, as he puts it (Moralia 30.25.74), the daily awareness of urgent human needs, bodily and spiritual, and the torment of praise, flattery and status (ib. 26.34.62). This latter is a torment because those called to this ministry know so clearly their own inner weakness and instability. But that knowledge is a saving knowledge, which among other things helps us minister effectively to others in trouble; and it reminds us that we find stability, soliditas, only in the life of the Body of Christ, not in our own achievement (Homilies on Ezekiel 2.5.22).
These are insights deeply rooted in St Gregory’s formation as a monk. Humility is the key to all faithful ministry, a humility that constantly seeks to be immersed, involved, in the life of Christ’s Body, not looking for an individual heroism or holiness. And it is this humility which the writer of the first life of St Gregory, written in England in the early eighth century, places at the head of the list of his saintly virtues, associating it with the ‘prophetic’ gift which allowed him to see what the English people needed and to respond by sending the mission of St Augustine from this place. That association of humility and prophecy is indeed one that St Gregory himself makes in the Dialogues. The true pastor and leader in the Church is one who, because he is caught up in the eternal self-offering of Jesus Christ through the sacramental mysteries of the Church, is free to see the needs of others as they really are. This may be ‘tormenting’, because those needs can be so profound and tragic; but it also stirs us to action to address such needs in the name and the strength of Christ.
And here lies the heart of Gregory’s monastic vision, the vision which the brothers and sisters of Camaldoli—whose millennium we celebrate with sincere joy here today—still seek to live out. To be immersed in the sacramental life of Christ’s Body requires the daily immersion of contemplation; without this, we cannot see one another clearly; without it we shall not truly recognize and love one another, and grow together in his one holy catholic and apostolic Body. The balance in the monastic life of solitude and common work and worship, a balance particularly carefully worked out in the life of Camaldoli, is something that seeks to enable a clear, even ‘prophetic’ vision of the other – seeing them, as the Eastern Christian tradition represented by Evagrius suggests, in the light of their authentic spiritual essence, not as they relate to our passions or preferences. The inseparable labour of action and contemplation, of solitude and community, is to do with the constant purification of our awareness of each other in the light of the God whom we encounter in silence and self-forgetting.
Your Holiness, dear brothers and sisters, it would be wrong to suggest that we enter into contemplation in order to see one anther more clearly; but if anyone were to say that contemplation is a luxury in the Church, something immaterial for the health of the Body, we should have to say that without it we should be constantly dealing with shadows and fictions, not with the reality of the world we live in. The Church is called upon to show that same prophetic spirit which is ascribed to St Gregory, the capacity to see where true need is and to answer God’s call in the person of the needy. To do this, it requires a habit of discernment, penetration beyond the prejudices and clichés which affect even believers in a culture that is so hasty and superficial in so many of its judgements; and with the habit of discernment belongs a habit of recognizing one another as agents of Christ’s grace and compassion and redemption.
And such a habit will develop only if we are daily learning the discipline of silence and patience, waiting for the truth to declare itself to us as we slowly set aside the distortions in our vision that are caused by selfishness and greed. In recent years, we have seen developing a vastly sophisticated system of unreality, created and sustained by acquisitiveness, a set of economic habits in which the needs of actual human beings seem to be almost entirely obscured. We are familiar with a feverish advertising culture in which we are persuaded to develop unreal and disproportionate desires. We are all – Christians and their pastors included – in need of the discipline that purges our vision and restores to us some sense of the truth of our world, even if that can produce the ‘torment’ of knowing more clearly how much people suffer and how little we can do for them by our unaided labours.
Your Holiness, ‘Certain yet imperfect’ was how our predecessors of blessed memory, Pope John Paul II and Archbishop Robert, here in Rome in 1989, characterised the communion that our two churches share. ‘Certain’ because of the shared ecclesial vision to which both our communions are committed as being the character of the Church both one and particular – a vision of the restoration of full sacramental communion, of a eucharistic life that is fully visible, and thus a witness that is fully credible, so that a confused and tormented world may enter into the welcome and transforming light of Christ. And ‘yet imperfect’ because of the limit of our vision, a deficit in the depth of our hope and patience. Our recognition of the one Body in each other’s corporate life is unstable and incomplete; yet without such ultimate recognition we are not yet fully free to share the transforming power of the Gospel in Church and world.
‘The truth will set you free’, says Our Lord. In the disciplines of contemplation and stillness, we are brought closer to the truth, and so also closer to the cross of the Lord. We learn our weakness and we learn something of the mystery of how God deals with our weakness – not by ignoring or rejecting it but by embracing its consequences in the incarnation and the passion of Christ. His self-emptying calls out our own self-denial – an appropriate theme for this Lenten season. We learn how to set on one side our busy and self-serving agendas and allow the self-giving Christ to live in us, to open our eyes and to empower us for service. Today, as we give thanks for a millennium of monastic witness, we celebrate the gifts of true and clear vision that have been made possible through this witness. And we pray for all who are called to public service in Christ’s Church that they may be given the grace of contemplative discipline and prophetic clarity in their own witness, so that the glory of Christ’s cross will shine forth in our world even in the midst of our own weaknesses and failures.
[00336-02.01] [Original text: English]
Traduzione non ufficiale in lingua italiana
Santità, Fratelli e sorelle in Cristo,
è per me un grande onore trovarmi qui, nel luogo in cui i miei predecessori stettero nel 1989 e 1996, e offrire ancora una volta, come abbiamo fatto più recentemente in Westminster [e Assisi], il sacrificio della lode, che dobbiamo al Signore nel cui nome siamo battezzati: l’unico Signore che per mezzo del suo Spirito rende riconoscibile in ogni membro del suo Corpo sacramentale l’immagine e la vita abbondante del Cristo suo Figlio, attraverso le tentazioni e le lotte della nostra vocazione battesimale.
San Gregorio Magno ha parlato molto delle lotte e delle tentazioni proprie di coloro che sono chiamati a rivestire un ministero nella Chiesa di Dio. Essere chiamati a questo servizio significa essere chiamati a diversi tipi di sofferenze – il tormento della compassione, come egli lo chiama (Moralia 30.25.74), la consapevolezza quotidiana delle urgenti necessità, corporali e spirituali, dell’umanità, e il tormento delle lodi ricevute, dell’adulazione, della posizione che si occupa (ib. 26.34.62). Quest’ultima è un tormento poiché quanti sono chiamati a questo ministero sono ben consapevoli della loro propria debolezza ed instabilità interiore. Ma questa consapevolezza è una consapevolezza salutare, che, fra le altre cose, ci aiuta a servire effettivamente quanti sono in difficoltà, e ci ricorda che noi possiamo trovare stabilità, soliditas, solo nella vita del Corpo di Cristo, non nel nostro risultato (Homilies on Ezekiel).
Sono, queste, intuizioni profondamente radicati nella formazione monastica di San Gregorio. L’umiltà è la chiave di ogni ministero fedele, un’umiltà che cerca costantemente di essere immersa, introdotta nella vita del Corpo di Cristo, senza mirare ad un eroismo o ad una santità individuali. Ed è questa umiltà che l’autore della prima vita di San Gregorio, scritta in Inghilterra all’inizio dell’ottavo secolo, pone in testa alla lista delle sue virtù di santo, associandola con il dono della profezia, che gli permetteva di vedere ciò di cui il popolo inglese aveva bisogno e di rispondervi con l’invio, da questo luogo, della missione di Sant’Agostino. Lo stesso San Gregorio, in verità, opera quest’associazione tra umiltà e profezia nei Dialoghi. Il vero pastore e guida nella Chiesa è colui che, essendo rapito nell’eterno atto di auto-offerta di Gesù Cristo attraverso i misteri sacramentali della Chiesa, è libero per poter vedere le necessità degli altri come veramente sono. Ciò può causare tormento, poiché questi bisogni possono essere tanto profondi e tragici; ma ciò ci spinge anche all’azione, per rispondere a questi bisogni nel nome e con la forza di Cristo.
E qui si trova il cuore della visione monastica di Gregorio, quella visione che sino ai nostri giorni cercano di vivere i fratelli e le sorelle di Camaldoli, il cui millennio celebriamo qui oggi con profonda gioia. Essere immersi nella vita sacramentale del Corpo di Cristo richiede l’immersione quotidiana della contemplazione: senza di essa, non possiamo vederci gli uni gli altri con chiarezza; senza di essa non riusciremo a riconoscerci veramente e ad amarci veramente gli uni gli altri, e a crescere insieme nel suo Corpo uno, santo, cattolico e apostolico. Nella vita monastica, l’equilibrio tra solitudine da una parte, e lavoro e preghiera in comune dall’altra – un equilibrio particolarmente sviluppato nella vita di Camaldoli – è qualcosa che cerca di rendere possibile una chiara, direi addirittura profetica visione degli altri. Vederli, come suggerisce la tradizione cristiana orientale rappresentata da Evagrio, nella luce della loro autentica essenza spirituale, non in quanto relazionati alle nostre passioni o alle nostre preferenze. L’impresa inseparabile di azione e contemplazione, solitudine e comunità, ha a che fare con la costante purificazione della consapevolezza che abbiamo gli uni degli altri nella luce di Dio, che incontriamo nel silenzio e nella dimenticanza di noi stessi.
Santità, cari fratelli e sorelle, sarebbe sbagliato suggerire che noi entriamo nella contemplazione al fine di vederci gli uni gli altri più chiaramente; e tuttavia, se qualcuno dovesse dire che la contemplazione nella Chiesa è un qualcosa di superfluo, qualcosa di immateriale per la salute del Corpo, noi dovremmo rispondere che senza di essa ci troveremmo ad avere a che fare costantemente con ombre e finzioni, non con la realtà del mondo nel quale viviamo. La Chiesa è chiamata a mostrare quel medesimo spirito profetico che è riconosciuto a San Gregorio, la capacità di vedere dove si trova il bisogno autentico e di rispondere alla chiamata di Dio che si manifesta nella persona del bisognoso. Per fare ciò, ci è richiesto un habitus di discernimento, la capacità di penetrare al di là dei pregiudizi e degli stereotipi che colpiscono anche i credenti, in una cultura che è così precipitosa e superficiale in tanti dei suoi giudizi. E all’habitus del discernimento appartiene l’habitus di riconoscerci gli uni gli altri come agenti della grazia, della compassione e della redenzione di Cristo.
Un tale habitus si svilupperà unicamente se noi apprenderemo quotidianamente la disciplina del silenzio e della pazienza, aspettando che sia la verità a manifestarsi a noi, mentre noi lentamente lasciamo da parte le storture nella nostra visione, causate dall’egoismo e dalla cupidigia. Negli ultimi anni, abbiamo visto svilupparsi un sistema di irrealtà estremamente sofisticato, creato e sostenuto dall’avidità; un complesso di comportamenti economici nei quali i bisogni degli esseri umani reali sembrano essere quasi interamente oscurati. Siamo divenuti familiari con una cultura febbrile della pubblicità, in cui veniamo indotti a sviluppare desideri irreali e sproporzionati. Noi tutti – cristiani e pastori inclusi – necessitiamo di una disciplina, che purifichi la nostra visione e ci ridoni un qualche senso della verità del nostro mondo, anche se ciò può produrre il "tormento" di sapere più chiaramente quanto la gente soffre e quanto poco possiamo fare per loro a partire dai nostri soli sforzi.
Santità, nel 1989, qui a Roma, i nostri predecessori di venerata memoria, Papa Giovanni Paolo II e l’Arcivescovo Robert Runcie, definirono "certa ma imperfetta" la comunione che le nostre due chiese condividono. "Certa", a motivo della comune visione ecclesiale alla quale entrambe le nostre comunità sono impegnate, condividendo la convinzione che la Chiesa sia per carattere insieme una e particolare: la prospettiva della restaurazione della piena comunione sacramentale, di una vita eucaristica che sia pienamente visibile, e perciò di una testimonianza che sia pienamente credibile, in modo che il mondo confuso e tormentato possa entrare nella luce accogliente e trasfigurante di Cristo. E tuttavia "imperfetta", a motivo del limite della nostra visione, e del deficit nella profondità della nostra speranza e pazienza. Il nostro riconoscere l’unico Corpo nella vita corporativa gli uni degli altri è instabile e incompleto; e senza un tale definitivo riconoscimento noi non siamo ancora pienamente liberi di condividere il potere trasformante del Vangelo nella Chiesa e nel mondo.
"La verità vi farà liberi", dice Nostro Signore. Nella disciplina della contemplazione e della quiete, noi siamo condotti più vicini alla verità, e così anche più vicini alla croce del Signore. Apprendiamo le nostre debolezze e apprendiamo qualcosa del mistero di come Dio si relazioni ad esse – non ignorandole o rigettandole, ma abbracciandone le conseguenze nell’incarnazione e nella passione di Cristo. Il suo auto-svuotamento richiede il nostro rinnegare noi stessi – un tema appropriato per questo tempo di Quaresima. Noi impariamo a mettere da parte le nostre agende piene e auto-referenziali, e a permettere al Cristo che dona se stesso di vivere in noi, di aprire i nostri occhi e di renderci capaci di servire. Oggi, mentre rendiamo grazie per un millennio di testimonianza monastica, celebriamo i doni della vera e chiara visione che sono stati resi possibili da tale testimonianza. E preghiamo per tutti coloro che sono chiamati ad esercitare un ministero pubblico nella Chiesa di Cristo, affinché sia loro concessa la grazia della disciplina contemplativa e della chiarezza profetica nella loro testimonianza, in modo che la gloria della croce di Cristo risplenda nel nostro mondo anche in mezzo alle nostro debolezze ed insuccessi.
[00336-01.01] [Testo originale: Inglese]
[B0147-XX.01]