Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


INCONTRO CON I PARROCI E I SACERDOTI DELLA DIOCESI DI ROMA, 23.02.2012


INCONTRO CON I PARROCI E I SACERDOTI DELLA DIOCESI DI ROMA

Alle ore 11 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato il Clero della diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.
Dopo il saluto del Cardinale Vicario Agostino Vallini, il Santo Padre ha proposto una Lectio divina incentrata su un passo della Lettera agli Efesini (4, 1-16).
Pubblichiamo di seguito la trascrizione delle parole del Papa al clero della Sua diocesi:

LECTIO DIVINA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli,

è per me una grande gioia vedere ogni anno, all’inizio della Quaresima, il mio clero, il clero di Roma, ed è bello per me vedere oggi come siamo numerosi. Io pensavo che in questa grande aula saremmo stati un gruppo quasi perso, ma vedo che siamo un forte esercito di Dio e possiamo con forza entrare in questo nostro tempo, nelle battaglie necessarie per promuovere, per far andare avanti il Regno di Dio. Siamo entrati ieri per la porta della Quaresima, rinnovamento annuale del nostro Battesimo; ripetiamo quasi il nostro catecumenato, andando di nuovo nella profondità del nostro essere battezzati, riprendendo, ritornando al nostro essere battezzati e così incorporati in Cristo. In questo modo, possiamo anche cercare di guidare le nostre comunità nuovamente in questa comunione intima con la morte e risurrezione di Cristo, divenire sempre più conformi a Cristo, divenire sempre più realmente cristiani.

Il brano della Lettera di san Paolo agli Efesini che abbiamo ascoltato (4,1-16) è uno dei grandi testi ecclesiali del Nuovo Testamento. Comincia con l’autopresentazione dell’autore: «Io Paolo, prigioniero a motivo del Signore» (v. 1). La parola greca desmios dice «incatenato»: Paolo, come un criminale, è in catene, incatenato per Cristo e così inizia nella comunione con la passione di Cristo. Questo è il primo elemento dell’autopresentazione: egli parla incatenato, parla nella comunione della passione di Cristo e così sta in comunione anche con la risurrezione di Cristo, con la sua nuova vita. Sempre noi, quando parliamo, dobbiamo parlare in comunione con la sua passione e anche accettare le nostre passioni, le nostre sofferenze e prove, in questo senso: sono proprio prove della presenza di Cristo, che Lui è con noi e che andiamo, in comunione alla sua passione, verso la novità della vita, verso la risurrezione. «Incatenato», quindi, è prima una parola della teologia della croce, della comunione necessaria di ogni evangelizzatore, di ogni Pastore con il Pastore supremo, che ci ha redenti «dandosi», soffrendo per noi. L’amore è sofferenza, è un darsi, è un perdersi, e proprio in questo modo è fecondo. Ma così, nell’elemento esteriore delle catene, della libertà non più presente, appare e traspare anche un altro aspetto: la vera catena che lega Paolo a Cristo è la catena dell’amore. «Incatenato per amore»: un amore che dà libertà, un amore che lo fa capace di rendere presente il Messaggio di Cristo e Cristo stesso. E questo dovrebbe essere, anche per noi tutti, l’ultima catena che ci libera, collegati con la catena dell’amore a Cristo. Così troviamo la libertà e la vera strada della vita, e possiamo, con l’amore di Cristo, guidare a questo amore, che è la gioia, la libertà, anche gli uomini affidatici.

E poi dice «Esorto» (Ef 4,1): è il suo compito quello di esortare, ma non è un ammonimento moralistico. Esorto dalla comunione con Cristo; è Cristo stesso, ultimamente, che esorta, che invita con l’amore di un padre e di una madre. «Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto» (v. 1); cioè, primo elemento: abbiamo ricevuto una chiamata. Io non sono anonimo o senza senso nel mondo: c’è una chiamata, c’è una voce che mi ha chiamato, una voce che seguo. E la mia vita dovrebbe essere un entrare sempre più profondamente nel cammino della chiamata, seguire questa voce e così trovare la vera strada e guidare gli altri su questa strada.

Sono «chiamato con una chiamata». Direi che abbiamo la grande prima chiamata del Battesimo, di essere con Cristo; la seconda grande chiamata di essere Pastori al suo servizio, e dobbiamo essere sempre più in ascolto di questa chiamata, in modo da poter chiamare o meglio aiutare anche altri affinché sentano la voce del Signore che chiama. La grande sofferenza della Chiesa di oggi nell’Europa e nell’Occidente è la mancanza di vocazioni sacerdotali, ma il Signore chiama sempre, manca l’ascolto. Noi abbiamo ascoltato la sua voce e dobbiamo essere attenti alla voce del Signore anche per altri, aiutare perché ci sia ascolto, e così sia accettata la chiamata, si apra una strada della vocazione ad essere Pastori con Cristo. San Paolo ritorna su questa parola «chiamata» alla fine di questo primo capoverso, e parla di una vocazione, di una chiamata che è alla speranza - la chiamata stessa è una speranza – e così dimostra le dimensioni della chiamata: non è solo individuale, la chiamata è già un fenomeno dialogico, un fenomeno nel «noi»; nell’«io e tu» e nel «noi». «Chiamata alla speranza». Vediamo così le dimensioni della chiamata; esse sono tre. Chiamata, ultimamente, secondo questo testo, verso Dio. Dio è la fine; alla fine arriviamo semplicemente in Dio e tutto il cammino è un cammino verso Dio. Ma questo cammino verso Dio non è mai isolato, un cammino solo nell’«io», è un cammino verso il futuro, verso il rinnovamento del mondo, e un cammino nel «noi» dei chiamati che chiama altri, fa ascoltare loro questa chiamata. Perciò la chiamata è sempre anche una vocazione ecclesiale. Essere fedeli alla chiamata del Signore implica scoprire questo «noi» nel quale e per il quale siamo chiamati, come pure andare insieme e realizzare le virtù necessarie. La «chiamata» implica l’ecclesialità, implica quindi la dimensione verticale e orizzontale, che vanno inscindibilmente insieme, implica ecclesialità nel senso di lasciarci aiutare per il «noi» e di costruire questo «noi» della Chiesa. In tale senso, san Paolo illustra la chiamata con questa finalità: un Dio unico, solo, ma con questa direzione verso il futuro; la speranza è nel «noi» di quelli che hanno la speranza, che amano all’interno della speranza, con alcune virtù che sono proprio gli elementi dell’andare insieme.

La prima è: «con ogni umiltà» (Ef 4,2). Vorrei soffermarmi un po’ di più su questa perché è una virtù che nel catalogo delle virtù precristiane non appare; è una virtù nuova, la virtù della sequela di Cristo. Pensiamo alla Lettera ai Filippesi, al capitolo due: Cristo, essendo uguale a Dio, si è umiliato, accettando forma di servo e obbedendo fino alla croce (cfr Fil 2,6-8). Questo è il cammino dell’umiltà del Figlio che noi dobbiamo imitare. Seguire Cristo vuol dire entrare in questo cammino dell’umiltà. Il testo greco dice tapeinophrosyne (cfr Ef 4,2): non pensare in grande di se stessi, avere la misura giusta. Umiltà. Il contrario dell’umiltà è la superbia, come la radice di tutti i peccati. La superbia che è arroganza, che vuole soprattutto potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto. Essere cristiano vuol dire superare questa tentazione originaria, che è anche il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma senza Dio; essere cristiano è essere vero, sincero, realista. L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così sono importante per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità. Proprio riconoscendo che io sono un pensiero di Dio, della costruzione del suo mondo, e sono insostituibile, proprio così, nella mia piccolezza, e solo in questo modo, sono grande. Questo è l’inizio dell’essere cristiano: è vivere la verità. E solo vivendo la verità, il realismo della mia vocazione per gli altri, con gli altri, nel corpo di Cristo, vivo bene. Vivere contro la verità è sempre vivere male. Viviamo la verità! Impariamo questo realismo: non voler apparire, ma voler piacere a Dio e fare quanto Dio ha pensato di me e per me, e così accettare anche l’altro. L’accettare l’altro, che forse è più grande di me, suppone proprio questo realismo e l’amore della verità; suppone accettare me stesso come «pensiero di Dio», così come sono, nei miei limiti e, in questo modo, nella mia grandezza. Accettare me stesso e accettare l’altro vanno insieme: solo accettando me stesso nel grande tessuto divino posso accettare anche gli altri, che formano con me la grande sinfonia della Chiesa e della creazione. Io penso che le piccole umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere, sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la propria verità ed essere così liberi da questa vanagloria che è contro la verità e non mi può rendere felice e buono. Accettare e imparare questo, e così imparare ad accettare la mia posizione nella Chiesa, il mio piccolo servizio come grande agli occhi di Dio. E proprio questa umiltà, questo realismo, rende liberi. Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere. Quando invece sono umile ho la libertà anche di essere in contrasto con un’opinione prevalente, con pensieri di altri, perché l’umiltà mi dà la capacità, la libertà della verità. E così, direi, preghiamo il Signore perché ci aiuti, ci aiuti ad essere realmente costruttori della comunità della Chiesa; che cresca, che noi stessi cresciamo nella grande visione di Dio, del «noi», e siamo membra del Corpo di Cristo, appartenente così, in unità, al Figlio di Dio.

La seconda virtù - ma siamo più brevi – è la «dolcezza», dice la traduzione italiana (Ef 4,2), in greco è praus, cioè «mite, mansueto»; e anche questa è una virtù cristologica come l’umiltà, che è seguire Cristo su questa strada della umiltà. Così anche praus, essere mite, essere mansueto, è sequela di Cristo che dice: Venite da me, io sono mite di cuore (cfr Mt 11,29). Questo non vuol dire debolezza. Cristo può essere anche duro, se necessario, ma sempre con un cuore buono, rimane sempre visibile la bontà, la mansuetudine. Nella Sacra Scrittura, qualche volta, «i mansueti» è semplicemente il nome dei credenti, del piccolo gregge dei poveri che, in tutte le prove, rimangono umili e fermi nella comunione del Signore: cercare questa mitezza, che è il contrario della violenza. La terza beatitudine. Il Vangelo di san Matteo dice: felici i mansueti, perché possederanno la terra (cfr Mt 5,5). Non i violenti possiedono la terra, alla fine rimangono i mansueti: essi hanno la grande promessa, e così noi dobbiamo essere proprio sicuri della promessa di Dio, della mitezza che è più forte della violenza. In questa parola della mansuetudine si nasconde il contrasto con la violenza: i cristiani sono i non violenti, sono gli oppositori della violenza.

E san Paolo prosegue: «con magnanimità» (Ef 4,2): Dio è magnanimo. Nonostante le nostre debolezze e i nostri peccati, sempre di nuovo comincia con noi. Mi perdona, anche se sa che domani cadrò di nuovo nel peccato; distribuisce i suoi doni, anche se sa che siamo spesso amministratori insufficienti. Dio è magnanimo, di grande cuore, ci affida la sua bontà. E questa magnanimità, questa generosità fa parte proprio della sequela di Cristo, di nuovo.

Infine, «sopportandovi a vicenda nell’amore» (Ef 4,2); mi sembra che proprio dall’umiltà segua questa capacità di accettare l’altro. L’alterità dell’altro è sempre un peso. Perché l’altro è diverso? Ma proprio questa diversità, questa alterità è necessaria per la bellezza della sinfonia di Dio. E dobbiamo, proprio con l’umiltà nella quale riconosco i miei limiti, la mia alterità nel confronto con l’altro, il peso che io sono per l’altro, divenire capaci non solo di sopportare l’altro, ma, con amore, trovare proprio nell’alterità anche la ricchezza del suo essere e delle idee e della fantasia di Dio.

Tutto questo, quindi, serve come virtù ecclesiale alla costruzione del Corpo di Cristo, che è lo Spirito di Cristo, perché divenga di nuovo esempio, di nuovo corpo, e cresca. Paolo lo dice poi in concreto, affermando che tutta questa varietà dei doni, dei temperamenti, dell’essere uomo, serve per l’unità (cfr Ef 4,11-13). Tutte queste virtù sono anche virtù dell’unità. Per esempio, per me è molto significativo che la prima Lettera dopo il Nuovo Testamento, la Prima Lettera di Clemente, sia indirizzata ad una comunità, quella dei Corinzi, divisa e sofferente per la divisione (cfr PG 1, 201-328). In questa Lettera, proprio la parola «umiltà» è una parola chiave: sono divisi perché manca l’umiltà, l’assenza dell’umiltà distrugge l’unità. L’umiltà è una fondamentale virtù dell’unità e solo così cresce l’unità del Corpo di Cristo, diventiamo realmente uniti e riceviamo la ricchezza e la bellezza dell’unità. Perciò è logico che l’elenco di queste virtù, che sono virtù ecclesiali, cristologiche, virtù dell’unità, vada verso l’unità esplicita: «un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti» (Ef 4,5). Una sola fede e un solo Battesimo, come realtà concreta della Chiesa che sta sotto l’unico Signore.

Battesimo e fede sono inseparabili. Il Battesimo è il Sacramento della fede e la fede ha un duplice aspetto. E’ un atto profondamente personale: io conosco Cristo, mi incontro con Cristo e do fiducia a Lui. Pensiamo alla donna che tocca il suo vestito nella speranza di essere salvata (cfr Mt 9, 20-21); si affida a Lui totalmente e il Signore dice: Sei salva, perché hai creduto (cfr Mt 9, 22). Anche ai lebbrosi, all’unico che ritorna, dice: La tua fede ti ha salvato (cfr Lc 17, 19). Quindi la fede inizialmente è soprattutto un incontro personale, un toccare il vestito di Cristo, un essere toccato da Cristo, essere in contatto con Cristo, affidarsi al Signore, avere e trovare l’amore di Cristo e, nell’amore di Cristo, la chiave anche della verità, dell’universalità. Ma proprio per questo, perché chiave dell’universalità dell’unico Signore, tale fede non è solo un atto personale di fiducia, ma un atto che ha un contenuto. La fides qua esige la fides quae, il contenuto della fede, e il Battesimo esprime questo contenuto: la formula trinitaria è l’elemento sostanziale del credo dei cristiani. Esso, di per sé, è un «sì» a Cristo, e così al Dio Trinitario, con questa realtà, con questo contenuto che mi unisce a questo Signore, a questo Dio, che ha questo Volto: vive come Figlio del Padre nell’unità dello Spirito Santo e nella comunione del Corpo di Cristo. Quindi, questo mi sembra molto importante: la fede ha un contenuto e non è sufficiente, non è un elemento di unificazione se non c’è e non viene vissuto e confessato questo contenuto della unica fede.

Perciò, «Anno della Fede», Anno del Catechismo - per essere molto pratico - sono collegati imprescindibilmente. Rinnoveremo il Concilio solo rinnovando il contenuto - condensato poi di nuovo - del Catechismo della Chiesa Cattolica. E un grande problema della Chiesa attuale è la mancanza di conoscenza della fede, è l’«analfabetismo religioso», come hanno detto i Cardinali venerdì scorso circa questa realtà. «Analfabetismo religioso»; e con questo analfabetismo non possiamo crescere, non può crescere l’unità. Perciò dobbiamo noi stessi appropriarci di nuovo di questo contenuto, come ricchezza dell’unità e non come un pacchetto di dogmi e di comandamenti, ma come una realtà unica che si rivela nella sua profondità e bellezza. Dobbiamo fare il possibile per un rinnovamento catechistico, perché la fede sia conosciuta e così Dio sia conosciuto, Cristo sia conosciuto, la verità sia conosciuta e cresca l’unità nella verità.

Poi tutte queste unità finiscono nel: «un solo Dio e Padre di tutti». Tutto quanto non è umiltà, tutto quanto non è fede comune, distrugge l’unità, distrugge la speranza e rende invisibile il Volto di Dio. Dio è Uno e Unico. Il monoteismo era il grande privilegio di Israele, che ha conosciuto l’unico Dio, e rimane elemento costitutivo della fede cristiana. Il Dio Trinitario - lo sappiamo - non sono tre divinità, ma è un unico Dio; e vediamo meglio che cosa voglia dire unità: unità è unità dell’amore. E’ così: proprio perché è il circolo di amore, Dio è Uno e Unico.

Per Paolo, come abbiamo visto, l’unità di Dio si identifica con la nostra speranza. Perché? In che modo? Perché l’unità di Dio è speranza, perché questa ci garantisce che, alla fine, non ci sono diversi poteri, alla fine non c’è dualismo tra poteri diversi e contrastanti, alla fine non rimane il capo del drago che si potrebbe levare contro Dio, non rimane la sporcizia del male e del peccato. Alla fine rimane solo la luce! Dio è unico ed è l’unico Dio: non c’è altro potere contro di Lui! Sappiamo che oggi, con i mali che viviamo nel mondo sempre più crescenti, molti dubitano dell’Onnipotenza di Dio; anzi diversi teologi – anche buoni – dicono che Dio non sarebbe Onnipotente, perché non sarebbe compatibile con l’onnipotenza quanto vediamo nel mondo; e così essi vogliono creare una nuova apologia, scusare Dio e «discolpare» Dio da questi mali. Ma questo non è il modo giusto, perché se Dio non è Onnipotente, se ci sono e rimangono altri poteri, non è veramente Dio e non è speranza, perché alla fine rimarrebbe il politeismo, alla fine rimarrebbe la lotta, il potere del male. Dio è Onnipotente, l’unico Dio. Certo, nella storia si è dato un limite alla sua onnipotenza, riconoscendo la nostra libertà. Ma alla fine tutto ritorna e non rimane altro potere; questa è la speranza: che la luce vince, l’amore vince! Alla fine non rimane la forza del male, rimane solo Dio! E così siamo nel cammino della speranza, camminando verso l’unità dell’unico Dio, rivelatosi per lo Spirito Santo, nell’Unico Signore, Cristo.

Poi da questa grande visione, san Paolo scende un po’ ai dettagli e dice di Cristo: «Asceso in alto ha portato con sé i prigionieri, ha distribuito doni agli uomini» (Ef 4,8). L’Apostolo cita il Salmo 68, che descrive in modo poetico la salita di Dio con l’Arca dell’Alleanza verso le altezze, verso la cima del Monte Sion, verso il tempio: Dio come vincitore che ha superato gli altri, che sono prigionieri, e, come un vero vincitore, distribuisce doni. Il Giudaismo ha visto in questo piuttosto un’immagine di Mosé, che sale verso il Monte Sinai per ricevere nell’altezza la volontà di Dio, i Comandamenti, non considerati come peso, ma come il dono di conoscere il Volto di Dio, la volontà di Dio. Paolo, alla fine, vede qui un’immagine dell’ascesa di Cristo che sale in alto dopo essere sceso; sale e tira l’umanità verso Dio, fà posto per la carne e il sangue in Dio stesso; ci tira verso l’altezza del suo essere Figlio e ci libera dalla prigionia del peccato, ci rende liberi perché vincitore. Essendo vincitore, Egli distribuisce i doni. E così siamo arrivati dall’ascesa di Cristo alla Chiesa. I doni sono la charis come tale, la grazia: essere nella grazia, nell’amore di Dio. E poi i carismi che concretizzano la charis nelle singole funzioni e missioni: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri per edificare così il Corpo di Cristo (cfr Ef 4,11).

Non vorrei entrare adesso in un’esegesi dettagliata. E’ molto discusso qui che cosa voglia dire apostoli, profeti… In ogni caso, possiamo dire che la Chiesa è costruita sul fondamento della fede apostolica, che rimane sempre presente: gli Apostoli, nella successione apostolica, sono presenti nei Pastori, che siamo noi, per la grazia di Dio e nonostante tutta la nostra povertà. E siamo grati a Dio che ci ha voluto chiamare per stare nella successione apostolica e continuare ad edificare il Corpo di Cristo. Qui appare un elemento che mi sembra importante: i ministeri – i cosiddetti ministeri – sono chiamati «doni di Cristo», sono carismi; cioè, non c’è questa opposizione: da una parte il ministero, come una cosa giuridica, e dall’altra i carismi, come dono profetico, vivace, spirituale, come presenza dello Spirito e la sua novità. No! Proprio i ministeri sono dono del Risorto e sono carismi, sono articolazioni della sua grazia; uno non può essere sacerdote senza essere carismatico. E’ un carisma essere sacerdote. Questo - mi sembra - dobbiamo tenerlo presente: essere chiamato al sacerdozio, essere chiamato con un dono del Signore, con un carisma del Signore. E così, ispirati dal suo Spirito, dobbiamo cercare di vivere questo nostro carisma. Solo in questo modo penso si possa capire che la Chiesa in Occidente ha collegato inscindibilmente sacerdozio e celibato: essere in un’esistenza escatologica verso l’ultima destinazione della nostra speranza, verso Dio. Proprio perché il sacerdozio è un carisma e deve essere anche collegato con un carisma: se non fosse questo e fosse solamente una cosa giuridica, sarebbe assurdo imporre un carisma, che è un vero carisma; ma se il sacerdozio stesso è carisma, è normale che conviva con il carisma, con lo stato carismatico della vita escatologica.

Preghiamo il Signore perché ci aiuti a capire sempre di più questo, a vivere sempre più nel carisma dello Spirito Santo e a vivere così anche questo segno escatologico della fedeltà al Signore Unico, che proprio per il nostro tempo è necessario, con la decomposizione del matrimonio e della famiglia, che possono comporsi solo nella luce di questa fedeltà all’unica chiamata del Signore.

Un ultimo punto. San Paolo parla della crescita dell’uomo perfetto, che raggiunge la misura della pienezza di Cristo: non saremo più fanciulli in balia delle onde, trasportati da qualsiasi vento di dottrina (cfr Ef 4,13-14). «Al contrario, agendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa, tendendo a Lui» (Ef 4,15). Non si può vivere in una fanciullezza spirituale, in una fanciullezza di fede: purtroppo, in questo nostro mondo, vediamo questa fanciullezza. Molti, oltre la prima catechesi, non sono più andati avanti; forse è rimasto questo nucleo, forse si è anche distrutto. E del resto, essi sono sulle onde del mondo e nient’altro; non possono, come adulti, con competenza e con convinzione profonda, esporre e rendere presente la filosofia della fede - per così dire - la grande saggezza, la razionalità della fede, che apre gli occhi anche degli altri, che apre gli occhi proprio su quanto è buono e vero nel mondo. Manca questo essere adulti nella fede e rimane la fanciullezza nella fede.

Certo, in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto anche un altro uso della parola «fede adulta». Si parla di «fede adulta», cioè emancipata dal Magistero della Chiesa. Fino a quando sono sotto la madre, sono fanciullo, devo emanciparmi; emancipato dal Magistero, sono finalmente adulto. Ma il risultato non è una fede adulta, il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione, dall’opinione che tutti pensano e vogliono. Non è vera emancipazione, l’emancipazione dalla comunione del Corpo di Cristo! Al contrario, è cadere sotto la dittatura delle onde, del vento del mondo. La vera emancipazione è proprio liberarsi da questa dittatura, nella libertà dei figli di Dio che credono insieme nel Corpo di Cristo, con il Cristo Risorto, e vedono così la realtà, e sono capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo.

Mi sembra che dobbiamo pregare molto il Signore, perché ci aiuti ad essere emancipati in questo senso, liberi in questo senso, con una fede realmente adulta, che vede, fa vedere e può aiutare anche gli altri ad arrivare alla vera perfezione, alla vera età adulta, in comunione con Cristo.

In questo contesto c’è la bella espressione dell’aletheuein en te agape, essere veri nella carità, vivere la verità, essere verità nella carità: i due concetti vanno insieme. Oggi il concetto di verità è un po’ sotto sospetto perché si combina verità con violenza. Purtroppo nella storia ci sono stati anche episodi dove si cercava di difendere la verità con la violenza. Ma le due sono contrarie. La verità non si impone con altri mezzi, se non da se stessa! La verità può arrivare solo tramite se stessa, la propria luce. Ma abbiamo bisogno della verità; senza verità non conosciamo i veri valori e come potremo ordinare il kosmos dei valori? Senza verità siamo ciechi nel mondo, non abbiamo strada. Il grande dono di Cristo è proprio che vediamo il Volto di Dio e, anche se in modo enigmatico, molto insufficiente, conosciamo il fondo, l’essenziale della verità in Cristo, nel suo Corpo. E conoscendo questa verità, cresciamo anche nella carità che è la legittimazione della verità e ci mostra che è verità. Direi proprio che la carità è il frutto della verità - l’albero si conosce dai frutti – e se non c’è carità, anche la verità non è propriamente appropriata, vissuta; e dove è la verità, nasce la carità. Grazie a Dio, lo vediamo in tutti i secoli: nonostante i fatti negativi, il frutto della carità è sempre stato presente nella cristianità e lo è oggi! Lo vediamo nei martiri, lo vediamo in tante suore, frati e sacerdoti che servono umilmente i poveri, i malati, che sono presenza della carità di Cristo. E così sono il grande segno che qui è la verità.

Preghiamo il Signore perché ci aiuti a portare il frutto della carità ed essere così testimoni della sua verità. Grazie.

[00262-01.01] [Testo originale: Italiano]

[B0114-XX.02]