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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA QUARESIMA 2012, 07.02.2012


Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2012 sul tema: "Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone" (Eb 10,24):

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

«Prestiamo attenzione gli uni agli altri,
per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone
»

(Eb 10,24)

Fratelli e sorelle,

 la Quaresima ci offre ancora una volta l'opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l'aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E' un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.

Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l'accesso a Dio. Il frutto dell'accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza» (v. 23) nell'attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l'attenzione all'altro, la reciprocità e la santità personale.

 1. "Prestiamo attenzione": la responsabilità verso il fratello.
Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein, che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità. La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui. L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l'esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all'empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L'incontro con l'altro e l'aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recrimina-zione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

 2. "Gli uni agli altri": il dono della reciprocità.
Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l'utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.

I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l'altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione: la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre» (1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo. La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l'elemosina - tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno - si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all'unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli. Quando un cristiano scorge nell'altro l'azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).

 3. "Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone": camminare insieme nella santità.
Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L'attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell'amore e delle buone opere.

Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l'invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).

Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

 Dal Vaticano, 3 novembre 2011

 BENEDICTUS PP XVI

[00174-01.01] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

"Let us be concerned for each other, to stir a response in love and good works"

(Heb 10:24)

Dear Brothers and Sisters,

The Lenten season offers us once again an opportunity to reflect upon the very heart of Christian life: charity. This is a favourable time to renew our journey of faith, both as individuals and as a community, with the help of the word of God and the sacraments. This journey is one marked by prayer and sharing, silence and fasting, in anticipation of the joy of Easter.

This year I would like to propose a few thoughts in the light of a brief biblical passage drawn from the Letter to the Hebrews: "Let us be concerned for each other, to stir a response in love and good works". These words are part of a passage in which the sacred author exhorts us to trust in Jesus Christ as the High Priest who has won us forgiveness and opened up a pathway to God. Embracing Christ bears fruit in a life structured by the three theological virtues: it means approaching the Lord "sincere in heart and filled with faith" (v. 22), keeping firm "in the hope we profess" (v. 23) and ever mindful of living a life of "love and good works" (v. 24) together with our brothers and sisters. The author states that to sustain this life shaped by the Gospel it is important to participate in the liturgy and community prayer, mindful of the eschatological goal of full communion in God (v. 25). Here I would like to reflect on verse 24, which offers a succinct, valuable and ever timely teaching on the three aspects of Christian life: concern for others, reciprocity and personal holiness.

1. "Let us be concerned for each other": responsibility towards our brothers and sisters.

This first aspect is an invitation to be "concerned": the Greek verb used here is katanoein, which means to scrutinize, to be attentive, to observe carefully and take stock of something. We come across this word in the Gospel when Jesus invites the disciples to "think of" the ravens that, without striving, are at the centre of the solicitous and caring Divine Providence (cf. Lk 12:24), and to "observe" the plank in our own eye before looking at the splinter in that of our brother (cf. Lk 6:41). In another verse of the Letter to the Hebrews, we find the encouragement to "turn your minds to Jesus" (3:1), the Apostle and High Priest of our faith. So the verb which introduces our exhortation tells us to look at others, first of all at Jesus, to be concerned for one another, and not to remain isolated and indifferent to the fate of our brothers and sisters. All too often, however, our attitude is just the opposite: an indifference and disinterest born of selfishness and masked as a respect for "privacy". Today too, the Lord’s voice summons all of us to be concerned for one another. Even today God asks us to be "guardians" of our brothers and sisters (Gen 4:9), to establish relationships based on mutual consideration and attentiveness to the well-being, the integral well-being of others. The great commandment of love for one another demands that we acknowledge our responsibility towards those who, like ourselves, are creatures and children of God. Being brothers and sisters in humanity and, in many cases, also in the faith, should help us to recognize in others a true alter ego, infinitely loved by the Lord. If we cultivate this way of seeing others as our brothers and sisters, solidarity, justice, mercy and compassion will naturally well up in our hearts. The Servant of God Pope Paul VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: "Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations" (Populorum Progressio, 66).

Concern for others entails desiring what is good for them from every point of view: physical, moral and spiritual. Contemporary culture seems to have lost the sense of good and evil, yet there is a real need to reaffirm that good does exist and will prevail, because God is "generous and acts generously" (Ps 119:68). The good is whatever gives, protects and promotes life, brotherhood and communion. Responsibility towards others thus means desiring and working for the good of others, in the hope that they too will become receptive to goodness and its demands. Concern for others means being aware of their needs. Sacred Scripture warns us of the danger that our hearts can become hardened by a sort of "spiritual anesthesia" which numbs us to the suffering of others. The Evangelist Luke relates two of Jesus’ parables by way of example. In the parable of the Good Samaritan, the priest and the Levite "pass by", indifferent to the presence of the man stripped and beaten by the robbers (cf. Lk 10:30-32). In that of Dives and Lazarus, the rich man is heedless of the poverty of Lazarus, who is starving to death at his very door (cf. Lk 16:19). Both parables show examples of the opposite of "being concerned", of looking upon others with love and compassion. What hinders this humane and loving gaze towards our brothers and sisters? Often it is the possession of material riches and a sense of sufficiency, but it can also be the tendency to put our own interests and problems above all else. We should never be incapable of "showing mercy" towards those who suffer. Our hearts should never be so wrapped up in our affairs and problems that they fail to hear the cry of the poor. Humbleness of heart and the personal experience of suffering can awaken within us a sense of compassion and empathy. "The upright understands the cause of the weak, the wicked has not the wit to understand it" (Prov 29:7). We can then understand the beatitude of "those who mourn" (Mt 5:5), those who in effect are capable of looking beyond themselves and feeling compassion for the suffering of others. Reaching out to others and opening our hearts to their needs can become an opportunity for salvation and blessedness.

"Being concerned for each other" also entails being concerned for their spiritual well-being. Here I would like to mention an aspect of the Christian life, which I believe has been quite forgotten: fraternal correction in view of eternal salvation. Today, in general, we are very sensitive to the idea of charity and caring about the physical and material well-being of others, but almost completely silent about our spiritual responsibility towards our brothers and sisters. This was not the case in the early Church or in those communities that are truly mature in faith, those which are concerned not only for the physical health of their brothers and sisters, but also for their spiritual health and ultimate destiny. The Scriptures tell us: "Rebuke the wise and he will love you for it. Be open with the wise, he grows wiser still, teach the upright, he will gain yet more" (Prov 9:8ff). Christ himself commands us to admonish a brother who is committing a sin (cf. Mt 18:15). The verb used to express fraternal correction - elenchein – is the same used to indicate the prophetic mission of Christians to speak out against a generation indulging in evil (cf. Eph 5:11). The Church’s tradition has included "admonishing sinners" among the spiritual works of mercy. It is important to recover this dimension of Christian charity. We must not remain silent before evil. I am thinking of all those Christians who, out of human regard or purely personal convenience, adapt to the prevailing mentality, rather than warning their brothers and sisters against ways of thinking and acting that are contrary to the truth and that do not follow the path of goodness. Christian admonishment, for its part, is never motivated by a spirit of accusation or recrimination. It is always moved by love and mercy, and springs from genuine concern for the good of the other. As the Apostle Paul says: "If one of you is caught doing something wrong, those of you who are spiritual should set that person right in a spirit of gentleness; and watch yourselves that you are not put to the test in the same way" (Gal 6:1). In a world pervaded by individualism, it is essential to rediscover the importance of fraternal correction, so that together we may journey towards holiness. Scripture tells us that even "the upright falls seven times" (Prov 24:16); all of us are weak and imperfect (cf. 1 Jn 1:8). It is a great service, then, to help others and allow them to help us, so that we can be open to the whole truth about ourselves, improve our lives and walk more uprightly in the Lord’s ways. There will always be a need for a gaze which loves and admonishes, which knows and understands, which discerns and forgives (cf. Lk 22:61), as God has done and continues to do with each of us.

2. "Being concerned for each other": the gift of reciprocity.

This "custody" of others is in contrast to a mentality that, by reducing life exclusively to its earthly dimension, fails to see it in an eschatological perspective and accepts any moral choice in the name of personal freedom. A society like ours can become blind to physical sufferings and to the spiritual and moral demands of life. This must not be the case in the Christian community! The Apostle Paul encourages us to seek "the ways which lead to peace and the ways in which we can support one another" (Rom 14:19) for our neighbour’s good, "so that we support one another" (15:2), seeking not personal gain but rather "the advantage of everybody else, so that they may be saved" (1 Cor 10:33). This mutual correction and encouragement in a spirit of humility and charity must be part of the life of the Christian community.

The Lord’s disciples, united with him through the Eucharist, live in a fellowship that binds them one to another as members of a single body. This means that the other is part of me, and that his or her life, his or her salvation, concern my own life and salvation. Here we touch upon a profound aspect of communion: our existence is related to that of others, for better or for worse. Both our sins and our acts of love have a social dimension. This reciprocity is seen in the Church, the mystical body of Christ: the community constantly does penance and asks for the forgiveness of the sins of its members, but also unfailingly rejoices in the examples of virtue and charity present in her midst. As Saint Paul says: "Each part should be equally concerned for all the others" (1 Cor 12:25), for we all form one body. Acts of charity towards our brothers and sisters – as expressed by almsgiving, a practice which, together with prayer and fasting, is typical of Lent – is rooted in this common belonging. Christians can also express their membership in the one body which is the Church through concrete concern for the poorest of the poor. Concern for one another likewise means acknowledging the good that the Lord is doing in others and giving thanks for the wonders of grace that Almighty God in his goodness continuously accomplishes in his children. When Christians perceive the Holy Spirit at work in others, they cannot but rejoice and give glory to the heavenly Father (cf. Mt 5:16).

3. "To stir a response in love and good works": walking together in holiness.

These words of the Letter to the Hebrews (10:24) urge us to reflect on the universal call to holiness, the continuing journey of the spiritual life as we aspire to the greater spiritual gifts and to an ever more sublime and fruitful charity (cf. 1 Cor 12:31-13:13). Being concerned for one another should spur us to an increasingly effective love which, "like the light of dawn, its brightness growing to the fullness of day" (Prov 4:18), makes us live each day as an anticipation of the eternal day awaiting us in God. The time granted us in this life is precious for discerning and performing good works in the love of God. In this way the Church herself continuously grows towards the full maturity of Christ (cf. Eph 4:13). Our exhortation to encourage one another to attain the fullness of love and good works is situated in this dynamic prospect of growth.

Sadly, there is always the temptation to become lukewarm, to quench the Spirit, to refuse to invest the talents we have received, for our own good and for the good of others (cf. Mt 25:25ff.). All of us have received spiritual or material riches meant to be used for the fulfilment of God’s plan, for the good of the Church and for our personal salvation (cf. Lk 12:21b; 1 Tim 6:18). The spiritual masters remind us that in the life of faith those who do not advance inevitably regress. Dear brothers and sisters, let us accept the invitation, today as timely as ever, to aim for the "high standard of ordinary Christian living" (Novo Millennio Ineunte, 31). The wisdom of the Church in recognizing and proclaiming certain outstanding Christians as Blessed and as Saints is also meant to inspire others to imitate their virtues. Saint Paul exhorts us to "anticipate one another in showing honour" (Rom 12:10).

In a world which demands of Christians a renewed witness of love and fidelity to the Lord, may all of us feel the urgent need to anticipate one another in charity, service and good works (cf. Heb 6:10). This appeal is particularly pressing in this holy season of preparation for Easter. As I offer my prayerful good wishes for a blessed and fruitful Lenten period, I entrust all of you to the intercession of Mary Ever Virgin and cordially impart my Apostolic Blessing.

From the Vatican, 3 November 2011

BENEDICTUS PP. XVI

[00174-02.02] [Original text: Italian]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

« Faisons attention les uns aux autres

pour nous stimuler dans la charité et les œuvres bonnes »

(He 10, 24)

Frères et sœurs,

Le Carême nous offre encore une fois l’opportunité de réfléchir sur ce qui est au cœur de la vie chrétienne : la charité. En effet, c’est un temps favorable pour renouveler, à l’aide de la Parole de Dieu et des Sacrements, notre itinéraire de foi, aussi bien personnel que communautaire. C’est un cheminement marqué par la prière et le partage, par le silence et le jeûne, dans l’attente de vivre la joie pascale.

Cette année, je désire proposer quelques réflexions à la lumière d’un bref texte biblique tiré de la Lettre aux Hébreux : « Faisons attention les uns aux autres pour nous stimuler dans la charité et les œuvres bonnes » (10, 24). Cette phrase fait partie d’une péricope dans laquelle l’écrivain sacré exhorte à faire confiance à Jésus Christ comme Grand prêtre qui nous a obtenu le pardon et l’accès à Dieu. Le fruit de notre accueil du Christ est une vie selon les trois vertus théologales : il s’agit de nous approcher du Seigneur « avec un cœur sincère et dans la plénitude de la foi » (v. 22), de garder indéfectible « la confession de l’espérance » (v. 23) en faisant constamment attention à exercer avec nos frères « la charité et les œuvres bonnes » (v. 24). Pour étayer cette conduite évangélique – est-il également affirmé -, il est important de participer aux rencontres liturgiques et de prière de la communauté, en tenant compte du but eschatologique : la pleine communion en Dieu (v. 25). Je m’arrête sur le verset 24 qui, en quelques mots, offre un enseignement précieux et toujours actuel sur trois aspects de la vie chrétienne : l’attention à l’autre, la réciprocité et la sainteté personnelle.

1. « Faisons attention » : la responsabilité envers le frère.

Le premier élément est l’invitation à « faire attention » : le verbe grec utilisé est katanoein, qui signifie bien observer, être attentifs, regarder en étant conscient, se rendre compte d’une réalité. Nous le trouvons dans l’Évangile, lorsque Jésus invite les disciples à « observer » les oiseaux du ciel qui, bien qu’ils ne s’inquiètent pas, sont l’objet de l’empressement et de l’attention de la Providence divine (cf. Lc 12, 24), et à « se rendre compte » de la poutre qui se trouve dans leur œil avant de regarder la paille dans l’œil de leur frère (cf. Lc 6, 41). Nous trouvons aussi cet élément dans un autre passage de la même Lettre aux Hébreux, comme invitation à « prêter attention à Jésus » (3, 1), l’apôtre et le grand prêtre de notre foi. Ensuite, le verbe qui ouvre notre exhortation invite à fixer le regard sur l’autre, tout d’abord sur Jésus, et à être attentifs les uns envers les autres, à ne pas se montrer étrangers, indifférents au destin des frères. Souvent, au contraire, l’attitude inverse prédomine : l’indifférence, le désintérêt qui naissent de l’égoïsme dissimulé derrière une apparence de respect pour la « sphère privée ». Aujourd’hui aussi, la voix du Seigneur résonne avec force, appelant chacun de nous à prendre soin de l’autre. Aujourd’hui aussi, Dieu nous demande d’être les « gardiens » de nos frères (cf. Gn 4, 9), d’instaurer des relations caractérisées par un empressement réciproque, par une attention au bien de l’autre et à tout son bien. Le grand commandement de l’amour du prochain exige et sollicite d’être conscients d’avoir une responsabilité envers celui qui, comme moi, est une créature et un enfant de Dieu : le fait d’être frères en humanité et, dans bien des cas, aussi dans la foi, doit nous amener à voir dans l’autre un véritable alter ego, aimé infiniment par le Seigneur. Si nous cultivons ce regard de fraternité, la solidarité, la justice ainsi que la miséricorde et la compassion jailliront naturellement de notre cœur. Le Serviteur de Dieu Paul VI affirmait qu’aujourd’hui le monde souffre surtout d’un manque de fraternité : « Le monde est malade. Son mal réside moins dans la stérilisation des ressources ou dans leur accaparement par quelques-uns, que dans le manque de fraternité entre les hommes et entre les peuples » (Lett. enc. Populorum progressio [26 mars 1967], n. 66).

L’attention à l’autre comporte que l’on désire pour lui ou pour elle le bien, sous tous ses aspects : physique, moral et spirituel. La culture contemporaine semble avoir perdu le sens du bien et du mal, tandis qu’il est nécessaire de répéter avec force que le bien existe et triomphe, parce que Dieu est « le bon, le bienfaisant » (Ps 119, 68). Le bien est ce qui suscite, protège et promeut la vie, la fraternité et la communion. La responsabilité envers le prochain signifie alors vouloir et faire le bien de l’autre, désirant qu’il s’ouvre lui aussi à la logique du bien ; s’intéresser au frère veut dire ouvrir les yeux sur ses nécessités. L’Écriture Sainte met en garde contre le danger d’avoir le cœur endurci par une sorte d’« anesthésie spirituelle » qui rend aveugles aux souffrances des autres. L’évangéliste Luc rapporte deux paraboles de Jésus dans lesquelles sont indiqués deux exemples de cette situation qui peut se créer dans le cœur de l’homme. Dans celle du bon Samaritain, le prêtre et le lévite « passent outre », avec indifférence, devant l’homme dépouillé et roué de coups par les brigands (cf. Lc 10, 30-32), et dans la parabole du mauvais riche, cet homme repu de biens ne s’aperçoit pas de la condition du pauvre Lazare qui meurt de faim devant sa porte (cf. Lc 16, 19). Dans les deux cas, nous avons à faire au contraire du « prêter attention », du regarder avec amour et compassion. Qu’est-ce qui empêche ce regard humain et affectueux envers le frère ? Ce sont souvent la richesse matérielle et la satiété, mais c’est aussi le fait de faire passer avant tout nos intérêts et nos préoccupations personnels. Jamais, nous ne devons nous montrer incapables de « faire preuve de miséricorde » à l’égard de celui qui souffre ; jamais notre cœur ne doit être pris par nos propres intérêts et par nos problèmes au point d’être sourds au cri du pauvre. À l’inverse, c’est l’humilité de cœur et l’expérience personnelle de la souffrance qui peuvent se révéler source d’un éveil intérieur à la compassion et à l’empathie : « Le juste connaît la cause des faibles, le méchant n’a pas l’intelligence de la connaître » (Pr 29, 7). Nous comprenons ainsi la béatitude de « ceux qui sont affligés » (Mt 5, 4), c’est-à-dire de ceux qui sont en mesure de sortir d’eux-mêmes pour se laisser apitoyer par la souffrance des autres. Rencontrer l’autre et ouvrir son cœur à ce dont il a besoin sont une occasion de salut et de béatitude.

« Prêter attention » au frère comporte aussi la sollicitude pour son bien spirituel. Je désire rappeler ici un aspect de la vie chrétienne qui me semble être tombé en désuétude : la correction fraternelle en vue du salut éternel. En général, aujourd’hui, on est très sensible au thème des soins et de la charité à prodiguer pour le bien physique et matériel des autres, mais on ne parle pour ainsi dire pas de notre responsabilité spirituelle envers les frères. Il n’en est pas ainsi dans l’Église des premiers temps, ni dans les communautés vraiment mûres dans leur foi, où on se soucie non seulement de la santé corporelle du frère, mais aussi de celle de son âme en vue de son destin ultime. Dans l’Écriture Sainte, nous lisons : « Reprends le sage, il t'aimera. Donne au sage : il deviendra plus sage encore ; instruis le juste, il accroîtra son acquis » (Pr 9, 8s). Le Christ lui-même nous commande de reprendre le frère qui commet un péché (cf. Mt 18, 15). Le verbe utilisé pour définir la correction fraternelle – elenchein – est le même que celui qui indique la mission prophétique de la dénonciation propre aux chrétiens envers une génération qui s’adonne au mal (cf. Ep 5, 11). La tradition de l’Église a compté parmi les œuvres de miséricorde spirituelle celle d’« admonester les pécheurs ». Il est important de récupérer cette dimension de la charité chrétienne. Il ne faut pas se taire face au mal. Je pense ici à l’attitude de ces chrétiens qui, par respect humain ou par simple commodité, s’adaptent à la mentalité commune au lieu de mettre en garde leurs frères contre des manières de penser et d’agir qui sont contraires à la vérité, et ne suivent pas le chemin du bien. Toutefois le reproche chrétien n’est jamais fait dans un esprit de condamnation ou de récrimination. Il est toujours animée par l’amour et par la miséricorde et il naît de la véritable sollicitude pour le bien du frère. L’apôtre Paul affirme : « Dans le cas où quelqu’un serait pris en faute, vous les spirituels, rétablissez-le en esprit de douceur, te surveillant toi-même, car tu pourrais bien, toi aussi être tenté » (Ga 6, 1). Dans notre monde imprégné d’individualisme, il est nécessaire de redécouvrir l’importance de la correction fraternelle, pour marcher ensemble vers la sainteté. Même « le juste tombe sept fois » (Pr 24, 16) dit l’Écriture, et nous sommes tous faibles et imparfaits (cf. 1 Jn 1, 8). Il est donc très utile d’aider et de se laisser aider à jeter un regard vrai sur soi-même pour améliorer sa propre vie et marcher avec plus de rectitude sur la voie du Seigneur. Nous avons toujours besoin d’un regard qui aime et corrige, qui connaît et reconnaît, qui discerne et pardonne (cf. Lc 22, 61), comme Dieu l’a fait et le fait avec chacun de nous.

2. « Les uns aux autres » : le don de la réciprocité.

Cette « garde » des autres contraste avec une mentalité qui, réduisant la vie à sa seule dimension terrestre, ne la considère pas dans une perspective eschatologique et accepte n’importe quel choix moral au nom de la liberté individuelle. Une société comme la société actuelle peut devenir sourde aux souffrances physiques comme aux exigences spirituelles et morales de la vie. Il ne doit pas en être ainsi dans la communauté chrétienne ! L’apôtre Paul invite à chercher ce qui « favorise la paix et l'édification mutuelle » (Rm 14, 19), en plaisant « à son prochain pour le bien, en vue d'édifier » (Ibid. 15, 2), ne recherchant pas son propre intérêt, « mais celui du plus grand nombre, afin qu'ils soient sauvés » (1 Co 10, 33). Cette correction réciproque et cette exhortation, dans un esprit d’humilité et de charité, doivent faire partie de la vie de la communauté chrétienne.

Les disciples du Seigneur, unis au Christ par l’Eucharistie, vivent dans une communion qui les lie les uns aux autres comme membres d’un seul corps. Cela veut dire que l’autre m’est uni de manière particulière, sa vie, son salut, concernent ma vie et mon salut. Nous abordons ici un élément très profond de la communion : notre existence est liée à celle des autres, dans le bien comme dans le mal ; le péché comme les œuvres d’amour ont aussi une dimension sociale. Dans l’Église, corps mystique du Christ, cette réciprocité se vérifie : la communauté ne cesse de faire pénitence et d’invoquer le pardon des péchés de ses enfants, mais elle se réjouit aussi constamment et exulte pour les témoignages de vertu et de charité qui adviennent en son sein. « Que les membres se témoignent une mutuelle sollicitude » (cf. 1 Co 12, 25), affirme Saint Paul, afin qu’ils soient un même corps. La charité envers les frères, dont l’aumône – une pratique caractéristique du carême avec la prière et le jeûne – est une expression, s’enracine dans cette appartenance commune. En se souciant concrètement des plus pauvres, le chrétien peut exprimer sa participation à l’unique corps qu’est l’Église. Faire attention aux autres dans la réciprocité c’est aussi reconnaître le bien que le Seigneur accomplit en eux et le remercier avec eux des prodiges de grâce que le Dieu bon et tout-puissant continue de réaliser dans ses enfants. Quand un chrétien perçoit dans l’autre l’action du Saint Esprit, il ne peut que s’en réjouir et rendre gloire au Père céleste (cf. Mt 5, 16).

3. « pour nous stimuler dans la charité et les œuvres bonnes » : marcher ensemble dans la sainteté.

Cette expression de la Lettre aux Hébreux (10, 24), nous pousse à considérer l’appel universel à la sainteté, le cheminement constant dans la vie spirituelle à aspirer aux charismes les plus grands et à une charité toujours plus élevée et plus féconde (cf. 1 Co 12, 31-13, 13). L’attention réciproque a pour but de nous encourager mutuellement à un amour effectif toujours plus grand, « comme la lumière de l'aube, dont l'éclat grandit jusqu'au plein jour » (Pr 4, 18), dans l’attente de vivre le jour sans fin en Dieu. Le temps qui nous est accordé durant notre vie est précieux pour découvrir et accomplir les œuvres de bien, dans l’amour de Dieu. De cette manière, l’Église elle-même grandit et se développe pour parvenir à la pleine maturité du Christ (cf. Ep 4, 13). C’est dans cette perspective dynamique de croissance que se situe notre exhortation à nous stimuler réciproquement pour parvenir à la plénitude de l’amour et des œuvres bonnes.

Malheureusement, la tentation de la tiédeur, de l’asphyxie de l’Esprit, du refus d’« exploiter les talents » qui nous sont donnés pour notre bien et celui des autres (cf. Mt 25, 25s) demeure. Nous avons tous reçu des richesses spirituelles ou matérielles utiles à l’accomplissement du plan divin, pour le bien de l’Église et pour notre salut personnel (cf. Lc 12, 21b ; 1 Tm 6, 18). Les maîtres spirituels rappellent que dans la vie de la foi celui qui n’avance pas recule. Chers frères et sœurs, accueillons l’invitation toujours actuelle à tendre au « haut degré de la vie chrétienne » (Jean-Paul II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 janvier 2001], n. 31). En reconnaissant et en proclamant la béatitude et la sainteté de quelques chrétiens exemplaires, la sagesse de l’Église a aussi pour but de susciter le désir d’en imiter les vertus. Saint Paul exhorte : « rivalisez d’estime réciproque » (Rm 12, 10).

Face à un monde qui exige des chrétiens un témoignage renouvelé d’amour et de fidélité au Seigneur, tous sentent l’urgence de tout faire pour rivaliser dans la charité, dans le service et dans les œuvres bonnes (cf. He 6, 10). Ce rappel est particulièrement fort durant le saint temps de préparation à Pâques. Vous souhaitant un saint et fécond Carême, je vous confie à l’intercession de la Bienheureuse Vierge Marie et, de grand cœur, j’accorde à tous la Bénédiction apostolique.

Du Vatican, le 3 novembre 2011.

BENEDICTUS PP XVI

[00174-03.01] [Texte original: Italien]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

„Laßt uns aufeinander achten und uns zur Liebe und zu guten Taten anspornen."

(Hebr 10,24)

Liebe Brüder und Schwestern!

Die Fastenzeit gibt uns wieder einmal die Gelegenheit, über das Herz des christlichen Lebens nachzudenken: die Nächstenliebe. In der Tat ist dies eine günstige Zeit, um mit Hilfe von Gottes Wort und den Sakramenten unseren persönlichen wie gemeinschaftlichen Glaubensweg zu erneuern. Es ist ein Weg, der vom Gebet und vom miteinander Teilen geprägt ist, von Stille und Fasten, in der Erwartung, die österliche Freude zu erleben.

In diesem Jahr möchte ich einige Überlegungen zu bedenken geben, die ihren Ausgang von einem kurzen Bibelwort aus dem Brief an die Hebräer nehmen: „Laßt uns aufeinander achten und uns zur Liebe und zu guten Taten anspornen" (10,24). Das ist ein Satz aus einem Abschnitt, in dem der Verfasser dazu auffordert, auf Jesus Christus als den Hohenpriester zu vertrauen, der für uns die Vergebung und den Zugang zu Gott erwirkt hat. Die Frucht der Aufnahme Christi ist ein Leben, das sich in Entsprechung zu den drei göttlichen Tugenden entfaltet: Es geht darum, daß wir „mit aufrichtigem Herzen und in voller Gewißheit des Glaubens" zum Herrn hintreten (V. 22), daß wir „an dem unwandelbaren Bekenntnis der Hoffnung festhalten" (V. 23), in dem ständigen Bemühen, gemeinsam mit unseren Brüdern und Schwestern „die Liebe und gute Taten" zu wirken (V. 24). Auch wird darauf hingewiesen, daß es für die Unterstützung dieses Lebens nach dem Evangelium wichtig ist, an den liturgischen Versammlungen und den Gebetstreffen der Gemeinde teilzunehmen, den Blick auf das eschatologische Ziel gerichtet: die volle Gemeinschaft in Gott (V. 25). Ich möchte auf Vers 24 näher eingehen; er vermittelt uns in wenigen Worten eine wertvolle und stets aktuelle Lehre in Hinblick auf drei Aspekte des christlichen Lebens: die Aufmerksamkeit gegenüber dem anderen, die Gegenseitigkeit und die persönliche Heiligkeit.

1. „Laßt uns aufeinander achten": die Verantwortung gegenüber den Brüdern und Schwestern

Das erste Element ist die Aufforderung „achtzugeben". Das an dieser Stelle verwendete griechische Zeitwort ist katanoein, was soviel bedeutet wie gut beobachten, aufmerksam sein, bewußt hinsehen, eines Umstandes gewahr werden. Wir begegnen ihm im Evangelium da, wo Jesus die Jünger dazu auffordert, auf die Vögel des Himmels zu „sehen", die sich nicht abmühen und doch Gegenstand der fürsorglichen und zuvorkommenden göttlichen Vorsehung sind (vgl. Lk 12,24), und wo er dazu ermahnt, den Balken im eigenen Auge zu „bemerken", ehe man auf den Splitter im Auge des Bruders sieht (vgl. Lk 6,41). Wir finden dieses Wort auch an einer anderen Stelle des Briefes an die Hebräer, als Aufforderung, auf Jesus zu „schauen" (3,1), den Apostel und Hohenpriester, dem unser Bekenntnis gilt. Das Zeitwort, das unseren Aufruf einleitet, fordert also dazu auf, den Blick auf den anderen zu richten, in erster Linie auf Jesus, und aufeinander zu achten, sich nicht unbeteiligt, gleichgültig gegenüber dem Schicksal unserer Brüder und Schwestern zu zeigen. Statt dessen überwiegt häufig die entgegengesetzte Haltung: Gleichgültigkeit und Interesselosigkeit, die ihren Ursprung im Egoismus haben, der sich den Anschein der Achtung der „Privatsphäre" gibt. Auch heute ertönt nachdrücklich die Stimme des Herrn, der jeden von uns dazu aufruft, sich seines Nächsten anzunehmen. Auch heute fordert Gott von uns, „Hüter" unserer Brüder und Schwestern zu sein (vgl. Gen 4,9), Beziehungen zu schaffen, die von gegenseitiger Fürsorge geprägt sind, von der Aufmerksamkeit für das Wohl des anderen und für dessen gesamtes Wohl. Das große Gebot der Nächstenliebe verlangt und drängt dazu, sich der eigenen Verantwortung gegenüber dem bewußt zu sein, der wie ich Geschöpf und Kind Gottes ist: Die Tatsache, daß wir als Menschen und vielfach auch im Glauben Brüder und Schwestern sind, muß dazu führen, daß wir im Mitmenschen ein wahres Alter Ego erkennen, das vom Herrn unendlich geliebt wird. Pflegen wir diesen brüderlichen Blick, so werden Solidarität und Gerechtigkeit wie auch Barmherzigkeit und Mitgefühl ganz natürlich aus unserem Herzen hervorströmen. Der Diener Gottes Papst Paul VI. sagte, die Welt leide heute vor allem an einem Mangel an Brüderlichkeit: „Die Welt ist krank. Das Übel liegt jedoch weniger darin, daß die Hilfsquellen versiegt sind oder daß einige wenige alles abschöpfen. Es liegt im Fehlen der brüderlichen Bande unter den Menschen und unter den Völkern" (Enzyklika Populorum Progressio [26. März 1967], Nr. 66).

Das Achtgeben auf den anderen bedeutet, für ihn oder sie in jeder Hinsicht das Gute zu wünschen: leiblich, moralisch und geistlich. Der zeitgenössischen Kultur scheint der Sinn für Gut und Böse abhanden gekommen zu sein. Dabei muß mit Nachdruck daran erinnert werden, daß das Gute existiert und obsiegt, da Gott „gut ist und Gutes wirkt" (vgl. Ps 119,68). Das Gute ist das, was das Leben, die Brüderlichkeit und die Gemeinschaft erweckt, schützt und fördert. Verantwortung gegenüber dem anderen bedeutet also, dessen Wohl anzustreben und dafür zu wirken, in dem Wunsch, daß auch er sich der Logik des Guten öffnen möge; sich um seine Brüder und Schwestern zu kümmern bedeutet, die Augen für ihre Bedürfnisse zu öffnen. Die Heilige Schrift warnt vor der Gefahr der Verhärtung des Herzens durch eine Art „geistliche Betäubung", die blind macht für die Leiden anderer. Der Evangelist Lukas führt zwei Gleichnisse Jesu an, in denen zwei Beispiele für diese Situation gegeben werden, die im Herzen des Menschen entstehen kann. Im Gleichnis vom barmherzigen Samariter gehen der Priester und der Levit gleichgültig weiter, vorbei an dem von Räubern ausgeplünderten und geschlagenen Mann (vgl. Lk 10,30-32), und in dem vom reichen Prasser bemerkt dieser an Besitz übersättigte Mann nicht die Lage des armen Lazarus, der vor seiner Tür den Hungertod stirbt (vgl. Lk 16,19ff). In beiden Fällen haben wir es mit dem Gegenteil des „Achtgebens", des liebevollen, mitfühlenden Blickes zu tun. Was aber verhindert diesen menschlichen und liebenden Blick auf die Brüder und Schwestern? Häufig sind es materieller Reichtum und Übersättigung, aber auch der Vorrang, der persönlichen Interessen und Sorgen gegenüber allem anderen gegeben wird. Niemals dürfen wir unfähig sein, „Mitleid zu empfinden" mit den Leidenden; niemals darf unser Herz von unseren Angelegenheiten und Problemen so in Anspruch genommen sein, daß es taub wird für den Schrei des Armen. Statt dessen können gerade die Demut des Herzens und die persönliche Erfahrung des Leids ein inneres Erwachen für Mitgefühl und Einfühlungsvermögen auslösen: „Der Gerechte hat Verständnis für den Rechtsstreit der Armen, der Frevler aber kennt kein Verständnis" (Spr 29,7). So wird die Seligkeit der „Trauernden" (Mt 5,4) verständlich, also jener, die es vermögen, aus sich selbst herauszugehen, um den Schmerz eines anderen mitzuempfinden. Die Begegnung mit dem anderen und das Öffnen des Herzens für seine Bedürfnisse können heilbringend und seligmachend sein.

Auf die Brüder und Schwestern zu „achten" beinhaltet auch die Sorge um ihr geistliches Wohl. Und hier möchte ich an einen Aspekt des christlichen Lebens erinnern, von dem ich meine, daß er in Vergessenheit geraten ist: die brüderliche Zurechtweisung im Hinblick auf das ewige Heil. Heutzutage ist man generell sehr empfänglich für das Thema der Fürsorge und der Wohltätigkeit zugunsten des leiblichen und materiellen Wohls der Mitmenschen, die geistliche Verantwortung gegenüber den Brüdern und Schwestern findet hingegen kaum Erwähnung. Anders war dies in der frühen Kirche und ist es in den wirklich im Glauben gereiften Gemeinden, wo man sich nicht nur der leiblichen Gesundheit der Brüder und Schwestern annimmt, sondern mit Blick auf ihre letzte Bestimmung auch des Wohls ihrer Seele. In der Heiligen Schrift lesen wir: „Rüge den Weisen, dann liebt er dich. Unterrichte den Weisen, damit er noch weiser wird; belehre den Gerechten, damit er dazulernt" (Spr 9,8f). Christus selbst befiehlt, einen Bruder, der sündigt, zurechtzuweisen (vgl. Mt 18,15). Das Zeitwort elenchein, das hier für die brüderliche Zurechtweisung verwendet wird, ist dasselbe, das die prophetische Sendung der öffentlichen Anklage bezeichnet, die Christen gegenüber einer dem Bösen verfallenen Generation erfüllen (vgl. Eph 5,11). In der kirchlichen Tradition zählt „die Sünder zurechtweisen" zu den geistlichen Werken der Barmherzigkeit. Es ist wichtig, sich wieder auf diese Dimension der christlichen Nächstenliebe zu besinnen. Vor dem Bösen darf man nicht schweigen. Ich denke hier an die Haltung jener Christen, die sich aus menschlichem Respekt oder einfach aus Bequemlichkeit lieber der vorherrschenden Mentalität anpassen, als ihre Brüder und Schwestern vor jenen Denk- und Handlungsweisen zu warnen, die der Wahrheit widersprechen und nicht dem Weg des Guten folgen. Die christliche Zurechtweisung hat ihren Beweggrund jedoch niemals in einem Geist der Verurteilung oder der gegenseitigen Beschuldigung; sie geschieht stets aus Liebe und Barmherzigkeit und entspringt einer aufrichtigen Sorge um das Wohl der Brüder und Schwestern. Der Apostel Paulus sagt: „Wenn einer sich zu einer Verfehlung hinreißen läßt, meine Brüder, so sollt ihr, die ihr vom Geist erfüllt seid, ihn im Geist der Sanftmut wieder auf den rechten Weg bringen. Doch gib acht, daß du nicht selbst in Versuchung gerätst" (Gal 6,1). In unserer vom Individualismus durchdrungenen Welt ist es notwendig, die Bedeutung der brüderlichen Zurechtweisung wiederzuentdecken, um gemeinsam den Weg zur Heiligkeit zu beschreiten. Selbst „der Gerechte fällt siebenmal" (Spr 24,16), heißt es in der Heiligen Schrift, und wir alle sind schwach und unvollkommen (vgl. 1 Joh 1,8). Es ist also ein großer Dienst, anderen zu helfen und sich helfen zu lassen, zu aufrichtiger Selbsterkenntnis zu gelangen, um das eigene Leben zu bessern und rechtschaffener den Weg des Herrn zu verfolgen. Es bedarf immer eines liebenden und berichtigenden Blickes, der erkennt und anerkennt, der unterscheidet und vergibt (vgl. Lk 22,61), wie es Gott mit jedem von uns getan hat und tut.

2. „Einander": das Geschenk der Gegenseitigkeit

Dieses „Behüten" der anderen steht im Gegensatz zu einer Geisteshaltung, die, weil sie das Leben auf die rein weltliche Dimension beschränkt, dieses nicht unter einem eschatologischen Gesichtspunkt betrachtet und im Namen der individuellen Freiheit jede beliebige moralische Entscheidung akzeptiert. Eine Gesellschaft wie die gegenwärtige kann taub werden, sowohl für das körperliche Leid als auch für die geistlichen und moralischen Bedürfnisse des Lebens. Das darf unter Christen nicht geschehen! Der Apostel Paulus fordert dazu auf, nach dem zu streben, was „zum Frieden und zur gegenseitigen Erbauung beiträgt" (vgl. Röm 14,19), um dem Nächsten Gutes zu tun und ihn aufzubauen (vgl. Röm 15,2), ohne den persönlichen Nutzen zu suchen, sondern „den Nutzen aller, damit sie gerettet werden" (1 Kor 10,33). Dieses gegenseitige Zurechtweisen und Ermahnen, von Demut und Nächstenliebe getragen, darf im Leben der christlichen Gemeinde nicht fehlen.

Die mit Christus durch die Eucharistie vereinten Jünger des Herrn leben in einer Gemeinschaft, die sie als Glieder eines einzigen Leibes aneinander bindet. Dies bedeutet, daß der andere zu mir gehört; sein Leben, sein Heil betreffen mein Leben und mein Heil. Hier berühren wir einen besonders tiefgreifenden Aspekt der Gemeinschaft: Unser Leben steht in einer wechselseitigen Beziehung zu dem der anderen, im Guten wie im Bösen; sowohl die Sünde als auch die Liebeswerke haben auch eine gesellschaftliche Dimension. In der Kirche, dem mystischen Leib Christi, nimmt diese Wechselseitigkeit Gestalt an: Die Gemeinde tut unaufhörlich Buße und bittet für die Sünden ihrer Mitglieder um Vergebung; doch sie freut sich auch immer von neuem und jubelt über die Zeugnisse der Tugend und der Liebe, die sich in ihr entfalten. Mögen „alle Glieder einträchtig füreinander sorgen" (1 Kor 12,25), ermahnt der heilige Paulus, da wir ein einziger Leib sind. Die Liebe zu unseren Brüdern und Schwestern, die auch im Almosengeben – eine neben dem Gebet und dem Fasten charakteristische Übung der Fastenzeit – ihren Ausdruck findet, gründet in dieser gemeinsamen Zugehörigkeit. Auch in der konkreten Sorge für die Ärmsten kann jeder Christ seine Teilhabe an dem einen Leib, der Kirche, ausdrücken. Aufeinander achten bedeutet auch, das Gute zu erkennen, das der Herr in den anderen wirkt, und gemeinsam mit ihnen für die Wunder der Gnade zu danken, die Gott in seiner Güte und Allmacht unentwegt an seinen Kindern vollbringt. Erkennt ein Christ das Wirken des Heiligen Geistes im Mitmenschen, so kann er nicht umhin, Freude darüber zu empfinden und den himmlischen Vater dafür zu preisen (vgl. Mt 5,16).

3. „Uns gegenseitig zur Liebe und zu guten Taten anspornen": gemeinsam den Weg der Heiligkeit beschreiten

Dieser Satz aus dem Brief an die Hebräer (10,24) drängt uns dazu, uns Gedanken über den universalen Ruf zur Heiligkeit zu machen, über ein beständiges Voranschreiten im geistlichen Leben; er ermahnt uns, nach den höheren Gnadengaben zu streben und nach einer immer größeren und fruchtbareren Liebe (vgl. 1 Kor 12,31-13,13). Das aufeinander Achten soll auch bewirken, daß wir uns gegenseitig zu immer größerer wirklicher Liebe anspornen – „wie das Licht am Morgen; es wird immer heller bis zum vollen Tag" (Spr 4,18) –, in der Erwartung, jenen Tag, an dem die Sonne nicht untergehen wird, in Gott zu leben. Die uns geschenkte Lebenszeit gibt uns die kostbare Gelegenheit, die guten Werke zu entdecken und zu vollbringen, beseelt von der Liebe zu Gott. So wächst und entfaltet sich die Kirche selbst, um zur vollendeten Gestalt Christi zu gelangen (vgl. Eph 4,13). Auf der Linie dieser dynamischen Perspektive eines Wachstums liegt auch unsere Aufforderung, uns gegenseitig anzuspornen, um zur Fülle der Liebe und der guten Taten zu gelangen.

Leider ist da stets die Versuchung der Lauheit, die Versuchung, den Geist zu ersticken und sich zu weigern, „mit den Talenten zu wirtschaften", die uns zu unserem Wohl und dem der anderen geschenkt sind (vgl. Mt 25,25ff). Wir alle wurden mit reichen geistigen oder materiellen Gaben ausgestattet, die für die Erfüllung des göttlichen Plans, für das Wohl der Kirche und für das persönliche Heil nützlich sind (vgl. Lk 12,21b; 1 Tim 6,18). Die geistlichen Lehrer erinnern daran, daß zurückfällt, wer im Glaubensleben keine Fortschritte macht. Liebe Brüder und Schwestern, laßt uns der immer aktuellen Aufforderung nachkommen, nach dem „hohen Maßstab des christlichen Lebens" zu streben (Johannes Paul II., Apostolisches Schreiben Novo millennio ineunte [6. Januar 2001], Nr. 31). Wenn die Kirche in ihrer Weisheit die Seligkeit und die Heiligkeit einiger vorbildlicher Christen anerkennt und verkündet, möchte sie dadurch auch den Wunsch wecken, deren Tugenden nachzuahmen. Der heilige Paulus ermahnt uns: „Übertrefft euch in gegenseitiger Achtung!" (Röm 12,10).

Angesichts einer Welt, die von den Christen ein erneuertes Zeugnis der Liebe und der Treue zum Herrn fordert, mögen alle spüren, daß sie sich dringend bemühen müssen, einander in der Liebe, im Dienst und in den guten Werken zu übertreffen (vgl. Hebr 6,10). Besonderen Nachdruck erhält dieser Aufruf in der heiligen Zeit der Vorbereitung auf das Osterfest. Mit den besten Wünschen für eine heilige und fruchtbringende Fastenzeit vertraue ich euch der Fürbitte der seligen Jungfrau Maria an und erteile allen den Apostolischen Segen.

Aus dem Vatikan, am 3. November 2011

BENEDICTUS PP XVI

[00174-05.01] [Originalsprache: Italienisch]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

«Fijémonos los unos en los otros para estímulo de la caridad y las buenas obras»

(Hb 10, 24)

Queridos hermanos y hermanas

La Cuaresma nos ofrece una vez más la oportunidad de reflexionar sobre el corazón de la vida cristiana: la caridad. En efecto, este es un tiempo propicio para que, con la ayuda de la Palabra de Dios y de los Sacramentos, renovemos nuestro camino de fe, tanto personal como comunitario. Se trata de un itinerario marcado por la oración y el compartir, por el silencio y el ayuno, en espera de vivir la alegría pascual.

Este año deseo proponer algunas reflexiones a la luz de un breve texto bíblico tomado de la Carta a los Hebreos: «Fijémonos los unos en los otros para estímulo de la caridad y las buenas obras» (10,24). Esta frase forma parte de una perícopa en la que el escritor sagrado exhorta a confiar en Jesucristo como sumo sacerdote, que nos obtuvo el perdón y el acceso a Dios. El fruto de acoger a Cristo es una vida que se despliega según las tres virtudes teologales: se trata de acercarse al Señor «con corazón sincero y llenos de fe» (v. 22), de mantenernos firmes «en la esperanza que profesamos» (v. 23), con una atención constante para realizar junto con los hermanos «la caridad y las buenas obras» (v. 24). Asimismo, se afirma que para sostener esta conducta evangélica es importante participar en los encuentros litúrgicos y de oración de la comunidad, mirando a la meta escatológica: la comunión plena en Dios (v. 25). Me detengo en el versículo 24, que, en pocas palabras, ofrece una enseñanza preciosa y siempre actual sobre tres aspectos de la vida cristiana: la atención al otro, la reciprocidad y la santidad personal.

1. "Fijémonos": la responsabilidad para con el hermano.

El primer elemento es la invitación a «fijarse»: el verbo griego usado es katanoein, que significa observar bien, estar atentos, mirar conscientemente, darse cuenta de una realidad. Lo encontramos en el Evangelio, cuando Jesús invita a los discípulos a «fijarse» en los pájaros del cielo, que no se afanan y son objeto de la solícita y atenta providencia divina (cf. Lc 12,24), y a «reparar» en la viga que hay en nuestro propio ojo antes de mirar la brizna en el ojo del hermano (cf. Lc 6,41). Lo encontramos también en otro pasaje de la misma Carta a los Hebreos, como invitación a «fijarse en Jesús» (cf. 3,1), el Apóstol y Sumo Sacerdote de nuestra fe. Por tanto, el verbo que abre nuestra exhortación invita a fijar la mirada en el otro, ante todo en Jesús, y a estar atentos los unos a los otros, a no mostrarse extraños, indiferentes a la suerte de los hermanos. Sin embargo, con frecuencia prevalece la actitud contraria: la indiferencia o el desinterés, que nacen del egoísmo, encubierto bajo la apariencia del respeto por la «esfera privada». También hoy resuena con fuerza la voz del Señor que nos llama a cada uno de nosotros a hacernos cargo del otro. Hoy Dios nos sigue pidiendo que seamos «guardianes» de nuestros hermanos (cf. Gn 4,9), que entablemos relaciones caracterizadas por el cuidado reciproco, por la atención al bien del otro y a todo su bien. El gran mandamiento del amor al prójimo exige y urge a tomar conciencia de que tenemos una responsabilidad respecto a quien, como yo, es criatura e hijo de Dios: el hecho de ser hermanos en humanidad y, en muchos casos, también en la fe, debe llevarnos a ver en el otro a un verdadero alter ego, a quien el Señor ama infinitamente. Si cultivamos esta mirada de fraternidad, la solidaridad, la justicia, así como la misericordia y la compasión, brotarán naturalmente de nuestro corazón. El Siervo de Dios Pablo VI afirmaba que el mundo actual sufre especialmente de una falta de fraternidad: «El mundo está enfermo. Su mal está menos en la dilapidación de los recursos y en el acaparamiento por parte de algunos que en la falta de fraternidad entre los hombres y entre los pueblos» (Carta. enc. Populorum progressio [26 de marzo de 1967], n. 66).

La atención al otro conlleva desear el bien para él o para ella en todos los aspectos: físico, moral y espiritual. La cultura contemporánea parece haber perdido el sentido del bien y del mal, por lo que es necesario reafirmar con fuerza que el bien existe y vence, porque Dios es «bueno y hace el bien» (Sal 119,68). El bien es lo que suscita, protege y promueve la vida, la fraternidad y la comunión. La responsabilidad para con el prójimo significa, por tanto, querer y hacer el bien del otro, deseando que también él se abra a la lógica del bien; interesarse por el hermano significa abrir los ojos a sus necesidades. La Sagrada Escritura nos pone en guardia ante el peligro de tener el corazón endurecido por una especie de «anestesia espiritual» que nos deja ciegos ante los sufrimientos de los demás. El evangelista Lucas refiere dos parábolas de Jesús, en las cuales se indican dos ejemplos de esta situación que puede crearse en el corazón del hombre. En la parábola del buen Samaritano, el sacerdote y el levita «dieron un rodeo», con indiferencia, delante del hombre al cual los salteadores habían despojado y dado una paliza (cf. Lc 10,30-32), y en la del rico epulón, ese hombre saturado de bienes no se percata de la condición del pobre Lázaro, que muere de hambre delante de su puerta (cf. Lc 16,19). En ambos casos se trata de lo contrario de «fijarse», de mirar con amor y compasión. ¿Qué es lo que impide esta mirada humana y amorosa hacia el hermano? Con frecuencia son la riqueza material y la saciedad, pero también el anteponer los propios intereses y las propias preocupaciones a todo lo demás. Nunca debemos ser incapaces de «tener misericordia» para con quien sufre; nuestras cosas y nuestros problemas nunca deben absorber nuestro corazón hasta el punto de hacernos sordos al grito del pobre. En cambio, precisamente la humildad de corazón y la experiencia personal del sufrimiento pueden ser la fuente de un despertar interior a la compasión y a la empatía: «El justo reconoce los derechos del pobre, el malvado es incapaz de conocerlos» (Pr 29,7). Se comprende así la bienaventuranza de «los que lloran» (Mt 5,4), es decir, de quienes son capaces de salir de sí mismos para conmoverse por el dolor de los demás. El encuentro con el otro y el hecho de abrir el corazón a su necesidad son ocasión de salvación y de bienaventuranza.

El «fijarse» en el hermano comprende además la solicitud por su bien espiritual. Y aquí deseo recordar un aspecto de la vida cristiana que a mi parecer ha caído en el olvido: la corrección fraterna con vistas a la salvación eterna. Hoy somos generalmente muy sensibles al aspecto del cuidado y la caridad en relación al bien físico y material de los demás, pero callamos casi por completo respecto a la responsabilidad espiritual para con los hermanos. No era así en la Iglesia de los primeros tiempos y en las comunidades verdaderamente maduras en la fe, en las que las personas no sólo se interesaban por la salud corporal del hermano, sino también por la de su alma, por su destino último. En la Sagrada Escritura leemos: «Reprende al sabio y te amará. Da consejos al sabio y se hará más sabio todavía; enseña al justo y crecerá su doctrina» (Pr 9,8ss). Cristo mismo nos manda reprender al hermano que está cometiendo un pecado (cf. Mt 18,15). El verbo usado para definir la corrección fraterna —elenchein— es el mismo que indica la misión profética, propia de los cristianos, que denuncian una generación que se entrega al mal (cf. Ef 5,11). La tradición de la Iglesia enumera entre las obras de misericordia espiritual la de «corregir al que se equivoca». Es importante recuperar esta dimensión de la caridad cristiana. Frente al mal no hay que callar. Pienso aquí en la actitud de aquellos cristianos que, por respeto humano o por simple comodidad, se adecúan a la mentalidad común, en lugar de poner en guardia a sus hermanos acerca de los modos de pensar y de actuar que contradicen la verdad y no siguen el camino del bien. Sin embargo, lo que anima la reprensión cristiana nunca es un espíritu de condena o recriminación; lo que la mueve es siempre el amor y la misericordia, y brota de la verdadera solicitud por el bien del hermano. El apóstol Pablo afirma: «Si alguno es sorprendido en alguna falta, vosotros, los espirituales, corregidle con espíritu de mansedumbre, y cuídate de ti mismo, pues también tú puedes ser tentado» (Ga 6,1). En nuestro mundo impregnado de individualismo, es necesario que se redescubra la importancia de la corrección fraterna, para caminar juntos hacia la santidad. Incluso «el justo cae siete veces» (Pr 24,16), dice la Escritura, y todos somos débiles y caemos (cf. 1 Jn 1,8). Por lo tanto, es un gran servicio ayudar y dejarse ayudar a leer con verdad dentro de uno mismo, para mejorar nuestra vida y caminar cada vez más rectamente por los caminos del Señor. Siempre es necesaria una mirada que ame y corrija, que conozca y reconozca, que discierna y perdone (cf. Lc 22,61), como ha hecho y hace Dios con cada uno de nosotros.

2. "Los unos en los otros": el don de la reciprocidad.

Este ser «guardianes» de los demás contrasta con una mentalidad que, al reducir la vida sólo a la dimensión terrena, no la considera en perspectiva escatológica y acepta cualquier decisión moral en nombre de la libertad individual. Una sociedad como la actual puede llegar a ser sorda, tanto ante los sufrimientos físicos, como ante las exigencias espirituales y morales de la vida. En la comunidad cristiana no debe ser así. El apóstol Pablo invita a buscar lo que «fomente la paz y la mutua edificación» (Rm 14,19), tratando de «agradar a su prójimo para el bien, buscando su edificación» (ib. 15,2), sin buscar el propio beneficio «sino el de la mayoría, para que se salven» (1 Co 10,33). Esta corrección y exhortación mutua, con espíritu de humildad y de caridad, debe formar parte de la vida de la comunidad cristiana.

Los discípulos del Señor, unidos a Cristo mediante la Eucaristía, viven en una comunión que los vincula los unos a los otros como miembros de un solo cuerpo. Esto significa que el otro me pertenece, su vida, su salvación, tienen que ver con mi vida y mi salvación. Aquí tocamos un elemento muy profundo de la comunión: nuestra existencia está relacionada con la de los demás, tanto en el bien como en el mal; tanto el pecado como las obras de caridad tienen también una dimensión social. En la Iglesia, cuerpo místico de Cristo, se verifica esta reciprocidad: la comunidad no cesa de hacer penitencia y de invocar perdón por los pecados de sus hijos, pero al mismo tiempo se alegra, y continuamente se llena de júbilo por los testimonios de virtud y de caridad, que se multiplican. «Que todos los miembros se preocupen los unos de los otros» (1 Co 12,25), afirma san Pablo, porque formamos un solo cuerpo. La caridad para con los hermanos, una de cuyas expresiones es la limosna —una típica práctica cuaresmal junto con la oración y el ayuno—, radica en esta pertenencia común. Todo cristiano puede expresar en la preocupación concreta por los más pobres su participación del único cuerpo que es la Iglesia. La atención a los demás en la reciprocidad es también reconocer el bien que el Señor realiza en ellos y agradecer con ellos los prodigios de gracia que el Dios bueno y todopoderoso sigue realizando en sus hijos. Cuando un cristiano se percata de la acción del Espíritu Santo en el otro, no puede por menos que alegrarse y glorificar al Padre que está en los cielos (cf. Mt 5,16).

3. "Para estímulo de la caridad y las buenas obras": caminar juntos en la santidad.

Esta expresión de la Carta a los Hebreos (10, 24) nos lleva a considerar la llamada universal a la santidad, el camino constante en la vida espiritual, a aspirar a los carismas superiores y a una caridad cada vez más alta y fecunda (cf. 1 Co 12,31-13,13). La atención recíproca tiene como finalidad animarse mutuamente a un amor efectivo cada vez mayor, «como la luz del alba, que va en aumento hasta llegar a pleno día» (Pr 4,18), en espera de vivir el día sin ocaso en Dios. El tiempo que se nos ha dado en nuestra vida es precioso para descubrir y realizar buenas obras en el amor de Dios. Así la Iglesia misma crece y se desarrolla para llegar a la madurez de la plenitud de Cristo (cf. Ef 4,13). En esta perspectiva dinámica de crecimiento se sitúa nuestra exhortación a animarnos recíprocamente para alcanzar la plenitud del amor y de las buenas obras.

Lamentablemente, siempre está presente la tentación de la tibieza, de sofocar el Espíritu, de negarse a «comerciar con los talentos» que se nos ha dado para nuestro bien y el de los demás (cf. Mt 25,25ss). Todos hemos recibido riquezas espirituales o materiales útiles para el cumplimiento del plan divino, para el bien de la Iglesia y la salvación personal (cf. Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). Los maestros de espiritualidad recuerdan que, en la vida de fe, quien no avanza, retrocede. Queridos hermanos y hermanas, aceptemos la invitación, siempre actual, de aspirar a un «alto grado de la vida cristiana» (Juan Pablo II, Carta ap. Novo millennio ineunte [6 de enero de 2001], n. 31). Al reconocer y proclamar beatos y santos a algunos cristianos ejemplares, la sabiduría de la Iglesia tiene también por objeto suscitar el deseo de imitar sus virtudes. San Pablo exhorta: «Que cada cual estime a los otros más que a sí mismo» (Rm 12,10).

Ante un mundo que exige de los cristianos un testimonio renovado de amor y fidelidad al Señor, todos han de sentir la urgencia de ponerse a competir en la caridad, en el servicio y en las buenas obras (cf. Hb 6,10). Esta llamada es especialmente intensa en el tiempo santo de preparación a la Pascua. Con mis mejores deseos de una santa y fecunda Cuaresma, os encomiendo a la intercesión de la Santísima Virgen María y de corazón imparto a todos la Bendición Apostólica.

Vaticano, 3 de noviembre de 2011

BENEDICTUS PP XVI

[00174-04.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

«Prestemos atenção uns aos outros, para nos estimularmos ao amor e às boas obras»

(Heb 10, 24)

Irmãos e irmãs!

A Quaresma oferece-nos a oportunidade de reflectir mais uma vez sobre o cerne da vida cristã: o amor. Com efeito este é um tempo propício para renovarmos, com a ajuda da Palavra de Deus e dos Sacramentos, o nosso caminho pessoal e comunitário de fé. Trata-se de um percurso marcado pela oração e a partilha, pelo silêncio e o jejum, com a esperança de viver a alegria pascal.

Desejo, este ano, propor alguns pensamentos inspirados num breve texto bíblico tirado da Carta aos Hebreus: «Prestemos atenção uns aos outros, para nos estimularmos ao amor e às boas obras» (10, 24). Esta frase aparece inserida numa passagem onde o escritor sagrado exorta a ter confiança em Jesus Cristo como Sumo Sacerdote, que nos obteve o perdão e o acesso a Deus. O fruto do acolhimento de Cristo é uma vida edificada segundo as três virtudes teologais: trata-se de nos aproximarmos do Senhor «com um coração sincero, com a plena segurança da » (v. 22), de conservarmos firmemente «a profissão da nossa esperança» (v. 23), numa solicitude constante por praticar, juntamente com os irmãos, «o amor e as boas obras» (v. 24). Na passagem em questão afirma-se também que é importante, para apoiar esta conduta evangélica, participar nos encontros litúrgicos e na oração da comunidade, com os olhos fixos na meta escatológica: a plena comunhão em Deus (v. 25). Detenho-me no versículo 24, que, em poucas palavras, oferece um ensinamento precioso e sempre actual sobre três aspectos da vida cristã: prestar atenção ao outro, a reciprocidade e a santidade pessoal.

1. «Prestemos atenção»: a responsabilidade pelo irmão.

O primeiro elemento é o convite a «prestar atenção»: o verbo grego usado é katanoein, que significa observar bem, estar atento, olhar conscienciosamente, dar-se conta de uma realidade. Encontramo-lo no Evangelho, quando Jesus convida os discípulos a «observar» as aves do céu, que não se preocupam com o alimento e todavia são objecto de solícita e cuidadosa Providência divina (cf. Lc 12, 24), e a «dar-se conta» da trave que têm na própria vista antes de reparar no argueiro que está na vista do irmão (cf. Lc 6, 41). Encontramos o referido verbo também noutro trecho da mesma Carta aos Hebreus, quando convida a «considerar Jesus» (3, 1) como o Apóstolo e o Sumo Sacerdote da nossa fé. Por conseguinte o verbo, que aparece na abertura da nossa exortação, convida a fixar o olhar no outro, a começar por Jesus, e a estar atentos uns aos outros, a não se mostrar alheio e indiferente ao destino dos irmãos. Mas, com frequência, prevalece a atitude contrária: a indiferença, o desinteresse, que nascem do egoísmo, mascarado por uma aparência de respeito pela «esfera privada». Também hoje ressoa, com vigor, a voz do Senhor que chama cada um de nós a cuidar do outro. Também hoje Deus nos pede para sermos o «guarda» dos nossos irmãos (cf. Gn 4, 9), para estabelecermos relações caracterizadas por recíproca solicitude, pela atenção ao bem do outro e a todo o seu bem. O grande mandamento do amor ao próximo exige e incita a consciência a sentir-se responsável por quem, como eu, é criatura e filho de Deus: o facto de sermos irmãos em humanidade e, em muitos casos, também na fé deve levar-nos a ver no outro um verdadeiro alter ego, infinitamente amado pelo Senhor. Se cultivarmos este olhar de fraternidade, brotarão naturalmente do nosso coração a solidariedade, a justiça, bem como a misericórdia e a compaixão. O Servo de Deus Paulo VI afirmava que o mundo actual sofre sobretudo de falta de fraternidade: «O mundo está doente. O seu mal reside mais na crise de fraternidade entre os homens e entre os povos, do que na esterilização ou no monopólio, que alguns fazem, dos recursos do universo» (Carta enc. Populorum progressio, 66).

A atenção ao outro inclui que se deseje, para ele ou para ela, o bem sob todos os seus aspectos: físico, moral e espiritual. Parece que a cultura contemporânea perdeu o sentido do bem e do mal, sendo necessário reafirmar com vigor que o bem existe e vence, porque Deus é «bom e faz o bem» (Sal 119/118, 68). O bem é aquilo que suscita, protege e promove a vida, a fraternidade e a comunhão. Assim a responsabilidade pelo próximo significa querer e favorecer o bem do outro, desejando que também ele se abra à lógica do bem; interessar-se pelo irmão quer dizer abrir os olhos às suas necessidades. A Sagrada Escritura adverte contra o perigo de ter o coração endurecido por uma espécie de «anestesia espiritual», que nos torna cegos aos sofrimentos alheios. O evangelista Lucas narra duas parábolas de Jesus, nas quais são indicados dois exemplos desta situação que se pode criar no coração do homem. Na parábola do bom Samaritano, o sacerdote e o levita, com indiferença, «passam ao largo» do homem assaltado e espancado pelos salteadores (cf. Lc 10, 30-32), e, na do rico avarento, um homem saciado de bens não se dá conta da condição do pobre Lázaro que morre de fome à sua porta (cf. Lc 16, 19). Em ambos os casos, deparamo-nos com o contrário de «prestar atenção», de olhar com amor e compaixão. O que é que impede este olhar feito de humanidade e de carinho pelo irmão? Com frequência, é a riqueza material e a saciedade, mas pode ser também o antepor a tudo os nossos interesses e preocupações próprias. Sempre devemos ser capazes de «ter misericórdia» por quem sofre; o nosso coração nunca deve estar tão absorvido pelas nossas coisas e problemas que fique surdo ao brado do pobre. Diversamente, a humildade de coração e a experiência pessoal do sofrimento podem, precisamente, revelar-se fonte de um despertar interior para a compaixão e a empatia: «O justo conhece a causa dos pobres, porém o ímpio não o compreende» (Prov 29, 7). Deste modo entende-se a bem-aventurança «dos que choram» (Mt 5, 4), isto é, de quantos são capazes de sair de si mesmos porque se comoveram com o sofrimento alheio. O encontro com o outro e a abertura do coração às suas necessidades são ocasião de salvação e de bem-aventurança.

O facto de «prestar atenção» ao irmão inclui, igualmente, a solicitude pelo seu bem espiritual. E aqui desejo recordar um aspecto da vida cristã que me parece esquecido: a correcção fraterna, tendo em vista a salvação eterna. De forma geral, hoje é-se muito sensível ao tema do cuidado e do amor que visa o bem físico e material dos outros, mas quase não se fala da responsabilidade espiritual pelos irmãos. Na Igreja dos primeiros tempos não era assim, como não o é nas comunidades verdadeiramente maduras na fé, nas quais se tem a peito não só a saúde corporal do irmão, mas também a da sua alma tendo em vista o seu destino derradeiro. Lemos na Sagrada Escritura: «Repreende o sábio e ele te amará. Dá conselhos ao sábio e ele tornar-se-á ainda mais sábio, ensina o justo e ele aumentará o seu saber» (Prov 9, 8-9). O próprio Cristo manda repreender o irmão que cometeu um pecado (cf. Mt 18, 15). O verbo usado para exprimir a correcção fraterna – elenchein – é o mesmo que indica a missão profética, própria dos cristãos, de denunciar uma geração que se faz condescendente com o mal (cf. Ef 5, 11). A tradição da Igreja enumera entre as obras espirituais de misericórdia a de «corrigir os que erram». É importante recuperar esta dimensão do amor cristão. Não devemos ficar calados diante do mal. Penso aqui na atitude daqueles cristãos que preferem, por respeito humano ou mera comodidade, adequar-se à mentalidade comum em vez de alertar os próprios irmãos contra modos de pensar e agir que contradizem a verdade e não seguem o caminho do bem. Entretanto a advertência cristã nunca há-de ser animada por espírito de condenação ou censura; é sempre movida pelo amor e a misericórdia e brota duma verdadeira solicitude pelo bem do irmão. Diz o apóstolo Paulo: «Se porventura um homem for surpreendido nalguma falta, vós, que sois espirituais, corrigi essa pessoa com espírito de mansidão, e tu olha para ti próprio, não estejas também tu a ser tentado» (Gl 6, 1). Neste nosso mundo impregnado de individualismo, é necessário redescobrir a importância da correcção fraterna, para caminharmos juntos para a santidade. É que «sete vezes cai o justo» (Prov 24, 16) – diz a Escritura –, e todos nós somos frágeis e imperfeitos (cf. 1 Jo 1, 8). Por isso, é um grande serviço ajudar, e deixar-se ajudar, a ler com verdade dentro de si mesmo, para melhorar a própria vida e seguir mais rectamente o caminho do Senhor. Há sempre necessidade de um olhar que ama e corrige, que conhece e reconhece, que discerne e perdoa (cf. Lc 22, 61), como fez, e faz, Deus com cada um de nós.

2. «Uns aos outros»: o dom da reciprocidade.

O facto de sermos o «guarda» dos outros contrasta com uma mentalidade que, reduzindo a vida unicamente à dimensão terrena, deixa de a considerar na sua perspectiva escatológica e aceita qualquer opção moral em nome da liberdade individual. Uma sociedade como a actual pode tornar-se surda quer aos sofrimentos físicos, quer às exigências espirituais e morais da vida. Não deve ser assim na comunidade cristã! O apóstolo Paulo convida a procurar o que «leva à paz e à edificação mútua» (Rm 14, 19), favorecendo o «próximo no bem, em ordem à construção da comunidade» (Rm 15, 2), sem buscar «o próprio interesse, mas o do maior número, a fim de que eles sejam salvos» (1 Cor 10, 33). Esta recíproca correcção e exortação, em espírito de humildade e de amor, deve fazer parte da vida da comunidade cristã.

Os discípulos do Senhor, unidos a Cristo através da Eucaristia, vivem numa comunhão que os liga uns aos outros como membros de um só corpo. Isto significa que o outro me pertence: a sua vida, a sua salvação têm a ver com a minha vida e a minha salvação. Tocamos aqui um elemento muito profundo da comunhão: a nossa existência está ligada com a dos outros, quer no bem quer no mal; tanto o pecado como as obras de amor possuem também uma dimensão social. Na Igreja, corpo místico de Cristo, verifica-se esta reciprocidade: a comunidade não cessa de fazer penitência e implorar perdão para os pecados dos seus filhos, mas alegra-se contínua e jubilosamente também com os testemunhos de virtude e de amor que nela se manifestam. Que «os membros tenham a mesma solicitude uns para com os outros» (1 Cor 12, 25) – afirma São Paulo –, porque somos um e o mesmo corpo. O amor pelos irmãos, do qual é expressão a esmola – típica prática quaresmal, juntamente com a oração e o jejum – radica-se nesta pertença comum. Também com a preocupação concreta pelos mais pobres, pode cada cristão expressar a sua participação no único corpo que é a Igreja. E é também atenção aos outros na reciprocidade saber reconhecer o bem que o Senhor faz neles e agradecer com eles pelos prodígios da graça que Deus, bom e omnipotente, continua a realizar nos seus filhos. Quando um cristão vislumbra no outro a acção do Espírito Santo, não pode deixar de se alegrar e dar glória ao Pai celeste (cf. Mt 5, 16).

3. «Para nos estimularmos ao amor e às boas obras»: caminhar juntos na santidade.

Esta afirmação da Carta aos Hebreus (10, 24) impele-nos a considerar a vocação universal à santidade como o caminho constante na vida espiritual, a aspirar aos carismas mais elevados e a um amor cada vez mais alto e fecundo (cf. 1 Cor 12, 31 – 13, 13). A atenção recíproca tem como finalidade estimular-se, mutuamente, a um amor efectivo sempre maior, «como a luz da aurora, que cresce até ao romper do dia» (Prov 4, 18), à espera de viver o dia sem ocaso em Deus. O tempo, que nos é concedido na nossa vida, é precioso para descobrir e realizar as boas obras, no amor de Deus. Assim a própria Igreja cresce e se desenvolve para chegar à plena maturidade de Cristo (cf. Ef 4, 13). É nesta perspectiva dinâmica de crescimento que se situa a nossa exortação a estimular-nos reciprocamente para chegar à plenitude do amor e das boas obras.

Infelizmente, está sempre presente a tentação da tibieza, de sufocar o Espírito, da recusa de «pôr a render os talentos» que nos foram dados para bem nosso e dos outros (cf. Mt 25, 24-28). Todos recebemos riquezas espirituais ou materiais úteis para a realização do plano divino, para o bem da Igreja e para a nossa salvação pessoal (cf. Lc 12, 21; 1 Tm 6, 18). Os mestres espirituais lembram que, na vida de fé, quem não avança, recua. Queridos irmãos e irmãs, acolhamos o convite, sempre actual, para tendermos à «medida alta da vida cristã» (João Paulo II, Carta ap. Novo millennio ineunte, 31). A Igreja, na sua sabedoria, ao reconhecer e proclamar a bem-aventurança e a santidade de alguns cristãos exemplares, tem como finalidade também suscitar o desejo de imitar as suas virtudes. São Paulo exorta: «Adiantai-vos uns aos outros na mútua estima» (Rm 12, 10).

Que todos, à vista de um mundo que exige dos cristãos um renovado testemunho de amor e fidelidade ao Senhor, sintam a urgência de esforçar-se por adiantar no amor, no serviço e nas obras boas (cf. Heb 6, 10). Este apelo ressoa particularmente forte neste tempo santo de preparação para a Páscoa. Com votos de uma Quaresma santa e fecunda, confio-vos à intercessão da Bem-aventurada Virgem Maria e, de coração, concedo a todos a Bênção Apostólica.

Vaticano, 3 de Novembro de 2011

BENEDICTUS PP XVI

[00174-06.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA POLACCA

«Troszczmy się o siebie wzajemnie, by się zachęcać do miłości i do dobrych uczynków»

(Hbr 10, 24)

Bracia i siostry!

Wielki Post ponownie daje nam sposobność do refleksji nad tym, co stanowi centrum życia chrześcijańskiego – miłością. Jest to bowiem odpowiedni czas, abyśmy z pomocą Słowa Bożego i sakramentów odnowili naszą drogę wiary, zarówno osobistą, jak i wspólnotową. Jest to droga pod znakiem modlitwy i dzielenia się, milczenia i postu, w oczekiwaniu na radość paschalną.

W tym roku chciałbym przedstawić parę myśli w świetle krótkiego tekstu biblijnego, zaczerpniętego z Listu do Hebrajczyków: «Troszczmy się o siebie wzajemnie, by się zachęcać do miłości i do dobrych uczynków» (10, 24). To zdanie występuje w perykopie, w której natchniony pisarz zachęca do pokładania ufności w Jezusie Chrystusie jako Najwyższym Kapłanie, który wyjednał nam przebaczenie i dostęp do Boga. Owocem przyjęcia Chrystusa jest życie według trzech cnót teologalnych: należy przystępować do Pana «z sercem prawym, z wiarą pełną» (w. 22), by trwać niewzruszenie w nadziei, którą wyznajemy (por. 23), troszcząc się nieustannie wraz z braćmi o «miłość i dobre uczynki» (por. 24). Mówi się też, że dla umocnienia tej ewangelicznej postawy ważne jest, by uczestniczyć w spotkaniach liturgicznych i modlitewnych wspólnoty, mając na względzie cel eschatologiczny: pełną jedność w Bogu (por. w. 25). Skupię się na wersecie 24, który w paru słowach przekazuje cenną i zawsze aktualną naukę na temat trzech aspektów życia chrześcijańskiego; są nimi troska o bliźniego, wzajemność i osobista świętość.

1. «Troszczmy się» – odpowiedzialność za brata

Pierwszym elementem jest wezwanie do tego, by «się troszczyć» – występuje tu grecki czasownik katanoein, który oznacza: uważnie obserwować, być uważnym, przyglądać się w sposób świadomy, dostrzegać pewną rzeczywistość. Spotykamy go w Ewangelii, kiedy Jezus mówi uczniom, by «przypatrzyli się» ptakom na niebie, które Boża Opatrzność otacza gorliwą troską, choć się nie trudzą (por. Łk 12, 24), i zachęca, by «dostrzec», że mamy belkę we własnym oku, zanim zobaczymy drzazgę w oku brata (por. Łk 6, 41). Znajdujemy go również w innym fragmencie Listu do Hebrajczyków, jako zachętę, by «zwrócić uwagę na Jezusa» (por. 3, 1), Apostoła i Arcykapłana naszego wyznania. A zatem czasownik rozpoczynający wezwanie, o którym mówimy, zachęca, by patrzeć na drugiego człowieka, przede wszystkim na Jezusa, i by troszczyć się o siebie nawzajem, by nie okazywać dystansu, obojętności wobec losu braci. Tymczasem często dominuje postawa przeciwna: obojętność, brak zainteresowania, które rodzą się z egoizmu, maskowanego przez pozorne poszanowanie «sfery prywatnej». Także dzisiaj z mocą rozbrzmiewa głos Pana, który wzywa każdego z nas do troszczenia się o bliźniego. Także dzisiaj Bóg nas prosi, abyśmy byli «stróżami» naszych braci (por. Rdz 4, 9), abyśmy tworzyli relacje nacechowane wzajemną troskliwością, zabieganiem o dobro drugiego i o jego pełne dobro. Wielkie przykazanie miłości bliźniego nakazuje i apeluje, by mieć świadomość, że jest się odpowiedzialnym za tego, kto tak jak ja jest stworzeniem i dzieckiem Bożym: fakt, że jesteśmy braćmi w człowieczeństwie, a często także w wierze, winien nas skłaniać do dostrzegania w bliźnim prawdziwego alter ego, nieskończenie umiłowanego przez Pana. Jeżeli zaprawiamy się w tym braterskim patrzeniu, wówczas solidarność, sprawiedliwość, a także miłosierdzie i współczucie w naturalny sposób rodzą się w naszym sercu. Sługa Boży Paweł VI twierdził, że współczesny świat cierpi przede wszystkim z powodu braku braterstwa: «Ludzkość jest ciężko chora. Przyczyną tej choroby jest nie tylko zmniejszenie się zasobów naturalnych i ich chciwe zgromadzenie przez niewielu, ile raczej rozkład braterskiej więzi zarówno między ludźmi, jak i między narodami» (enc. Populorum progressio [26 marca 1967], n. 66).

Troska o bliźniego oznacza, że pragniemy jego czy jej dobra pod każdym względem: fizycznym, moralnym i duchowym. Wydaje się, że współczesna kultura przestała rozróżniać dobro i zło, tymczasem trzeba z mocą podkreślać, że dobro istnieje i zwycięża, ponieważ Bóg «jest dobry i czyni dobro» (por. Ps 119 [118], 68). Dobrem jest to, co rodzi, chroni i promuje życie, braterstwo i wspólnotę. Odpowiedzialność za bliźniego oznacza zatem pragnienie i czynienie dobra drugiego człowieka, z nadzieją, że i on otworzy się na logikę dobra; interesować się bratem znaczy otworzyć oczy na jego potrzeby. Pismo Święte ostrzega przed niebezpieczeństwem, jakim jest zatwardziałość serca, wywołana przez swego rodzaju «duchową znieczulicę», która czyni ślepymi na cierpienia drugiego człowieka. Ewangelista Łukasz przytacza dwie przypowieści Jezusa, ukazujące dwa przykłady takiej właśnie sytuacji, która może zapanować w sercu człowieka. W przypowieści o miłosiernym Samarytaninie kapłan i lewita obojętnie «przechodzą obok» człowieka napadniętego i obrabowanego przez zbójców (por. Łk 10, 30-32), natomiast w przypowieści o bogaczu człowiek opływający w dobra nie zwraca uwagi na ubogiego Łazarza, który umiera z głodu pod jego drzwiami (por. Łk 16, 19). W obydwu przypadkach mamy do czynienia z przeciwieństwem «troszczenia się», patrzenia z miłością i współczuciem. Co nie pozwala humanitarnie i z miłością patrzeć na brata? Często bogactwo materialne i dostatek, a także stawianie na pierwszym miejscu własnych interesów i własnych spraw. Nigdy nie powinniśmy być niezdolni do «miłosierdzia» nad cierpiącym człowiekiem; nigdy nie mogą tak bardzo pochłaniać nas nasze sprawy i nasze problemy, że nasze serce stanie się głuche na wołanie ubogiego. Natomiast właśnie pokora serca i własne doświadczenie cierpienia mogą wzbudzić we wnętrzu człowieka współczucie i empatię: «Sprawiedliwy zajmuje się sprawami ubogich, grzesznik nie ma [dla nich] zrozumienia» (Prz 29, 7). Tym samym zrozumiałe staje się błogosławieństwo «tych, którzy się smucą» (Mt 5, 4), to znaczy tych, którzy potrafią zapomnieć o sobie i wzruszyć się cierpieniem drugiego człowieka. Spotkanie z drugim i otwarcie serca na jego potrzeby są sposobnością do zbawienia i szczęśliwości.

«Troszczenie się» o brata oznacza również, że dbamy o jego dobro duchowe. W tym miejscu pragnę zwrócić uwagę na pewien aspekt życia chrześcijańskiego, który jak mi się wydaje, popadł w zapomnienie – upomnienie braterskie z myślą o zbawieniu wiecznym. Dzisiaj na ogół podchodzi się z dużą wrażliwością do kwestii opieki i miłości w kontekście dobra fizycznego i materialnego innych, natomiast niemal całkowicie pomija się milczeniem duchową odpowiedzialność za braci. Inaczej jest w Kościele pierwszych wieków i we wspólnotach cechujących się prawdziwie dojrzałą wiarą, którym na sercu leży nie tylko cielesne zdrowie brata, ale także zdrowie jego duszy, ze względu na jego ostateczne przeznaczenie. W Piśmie Świętym czytamy: «Strofuj mądrego, a będzie cię kochał. Ucz mądrego, a będzie mądrzejszy, oświecaj prawego, a zwiększy swą umiejętność» (Prz 9, 8-9). Sam Chrystus mówi, żeby upominać brata, który grzeszy (por. Mt 18, 15). Czasownik oznaczający upomnienie braterskie – elenchein – to ten sam, który odnosi się do prorockiej misji chrześcijan, jaką jest piętnowanie pokolenia tych, którzy ulegają złu (por. Ef 5, 11). Tradycja Kościoła zaliczyła «upominanie grzeszników» do dzieł miłosierdzia duchowego. Ważną rzeczą jest ocalenie tego aspektu miłości chrześcijańskiej. Nie należy milczeć w obliczu zła. Mam tu na myśli postawę tych chrześcijan, którzy przez szacunek dla człowieka lub po prostu z wygodnictwa dostosowują się do powszechnie panującej mentalności, zamiast przestrzegać swych braci przed tymi sposobami myślenia i postępowania, które są sprzeczne z prawdą i nie prowadzą do dobra. Upomnienie chrześcijańskie nie jest jednak nigdy formułowane w duchu potępienia czy oskarżenia; wypływa zawsze z miłości i miłosierdzia i rodzi się z prawdziwej troski o dobro brata. Apostoł Paweł pisze: «Gdyby komuś przydarzył się jakiś upadek, wy, którzy pozostajecie pod działaniem Ducha, w duchu łagodności sprowadźcie takiego na właściwą drogę. Bacz jednak, abyś i ty nie uległ pokusie» (Ga 6, 1). W naszym świecie, przesyconym indywidualizmem, trzeba odkryć na nowo, jak ważne jest upomnienie braterskie, aby razem podążać do świętości. Nawet «prawy siedmiokroć upadnie» (Prz 24, 16) – mówi Pismo Święte – a wszyscy jesteśmy słabi i niedoskonali (por. 1 J 1, 8). Wielką przysługą jest zatem pomaganie i akceptowanie pomocy w postrzeganiu w prawdzie samych siebie, aby doskonalić własne życie i postępować bardziej prawidłowo drogą Pana. Zawsze potrzebne jest spojrzenie, które miłuje i koryguje, zna i uznaje, rozeznaje i przebacza (por. Łk 22, 61), jak Bóg uczynił i czyni w stosunku do każdego z nas.

2. «O siebie wzajemnie» – dar wzajemności

To «czuwanie» nad innymi jest sprzeczne z mentalnością, w której sprowadza się życie do wymiaru jedynie ziemskiego, nie postrzega go w perspektywie eschatologicznej i akceptuje dowolny wybór moralny w imię wolności jednostki. Społeczeństwo takie jak dzisiaj nasze może stać się obojętne zarówno na cierpienia fizyczne, jak i duchowe i moralne potrzeby życia. Tak nie powinno być we wspólnocie chrześcijańskiej! Apostoł Paweł zachęca, by dążyć do tego, co «służy sprawie pokoju i wzajemnemu zbudowaniu» (Rz 14, 19), starając się o to, «co dla bliźniego dogodne – dla jego dobra, dla zbudowania» (tamże 15, 2), nie szukając własnej korzyści, «lecz dobra wielu, aby byli zbawieni» (1 Kor 10, 33). To wzajemne upominanie i zachęcanie w duchu pokory i miłości winno być częścią życia wspólnoty chrześcijańskiej.

Uczniowie Pana, zjednoczeni z Chrystusem przez Eucharystię, żyją w jedności, która łączy ich niczym członki jednego ciała. To oznacza, że bliźni należy do mnie, jego życie, jego zbawienie wiążą się z moim życiem i moim zbawieniem. Sięgamy tutaj bardzo głębokiego aspektu wspólnoty: nasze życie i życie innych są współzależne, zarówno w dobru, jak i w złu; tak grzech, jak i uczynki miłości mają również wymiar społeczny. W Kościele, mistycznym ciele Chrystusa, występuje ta wzajemność: wspólnota nieustannie pokutuje i błaga o przebaczenie grzechów swoich synów, ale też nieustannie weseli się i cieszy świadectwami cnót i miłości, które w niej się pojawiają. «Żeby poszczególne członki troszczyły się o siebie nawzajem» (1 Kor 12, 25), pisze św. Paweł, ponieważ jesteśmy jednym ciałem. Miłość do braci, której jeden z wyrazów stanowi jałmużna – typowa praktyka wielkopostna, wraz z modlitwą i postem – jest zakorzeniona w tej wspólnej przynależności. Także przez konkretną troskę o najuboższych każdy chrześcijanin może wyrazić swoją przynależność do jednego ciała, którym jest Kościół. Wzajemna troska to także uznanie dobra, które Pan w nich czyni, i dziękowanie razem z nimi za cuda łaski, jakich dobry i wszechmogący Bóg nieustannie dokonuje w swoich synach. Kiedy chrześcijanin dostrzega w bliźnim działanie Ducha Świętego, może się z tego jedynie radować i chwalić za to Ojca niebieskiego (por. Mt 5, 16).

3. «By się zachęcać do miłości i do dobrych uczynków» – wspólna droga do świętości

To wyrażenie z Listu do Hebrajczyków (10, 24) zachęca nas do tego, byśmy mieli na uwadze powszechne powołanie do świętości, nieustanne postępowanie w życiu duchowym, byśmy dążyli do większych charyzmatów oraz coraz wznioślejszej i bardziej owocnej miłości (por. 1 Kor 12, 31-13, 13). Wzajemna troska ma pobudzać do konkretnej, coraz większej miłości, «niczym światło poranne, które wschodzi i wzrasta aż do południa» (por. Prz 4, 18), w oczekiwaniu na dzień, który nie zna zmierzchu w Bogu. Czas, który jest nam dany w życiu, jest cenny, abyśmy odkrywali i spełniali dobre uczynki w miłości Boga. Dzięki temu Kościół rośnie i się rozwija, aby osiągnąć pełną doskonałość Chrystusa (por. Ef 4, 13). W tej dynamicznej perspektywie wzrostu mieści się nasze wezwanie, byśmy się wzajemnie pobudzali do osiągania pełni miłości i dobrych czynów.

Niestety, wciąż istnieje pokusa, by się nie angażować, tłumić Ducha, odmawiać «wykorzystywania talentów», które nam zostały dane dla naszego dobra i dobra bliźniego (por. Mt 25, 25 n.). Wszyscy otrzymaliśmy bogactwa duchowe czy materialne przydatne do tego, by wypełniać Boży plan, dla dobra Kościoła i dla naszego zbawienia (por. Łk 12, 21 b; 1 Tm 6, 18). Mistrzowie duchowości przypominają, że w życiu wiary ten, kto nie czyni postępów, cofa się. Drodzy bracia i siostry, weźmy sobie do serca wciąż aktualne wezwanie, by dążyć do «wysokiej miary życia chrześcijańskiego» (por. Jan Paweł II, list apost. Novo millennio ineunte [6 stycznia 2001], n. 31). Kościół w swej mądrości, uznając i ogłaszając błogosławionymi i świętymi niektórych przykładnych chrześcijan, ma na celu także wzbudzanie pragnienia, by naśladować ich cnoty. Św. Paweł napomina: «w okazywaniu czci jedni drugich wyprzedzajcie» (Rz 12, 10).

W świecie, który wymaga od chrześcijan odnowionego świadectwa miłości Pana i wierności Mu, wszyscy winni czuć potrzebę prześcigania się w miłości, w usługiwaniu i w dobrych uczynkach (por. Hbr 6, 10). To napomnienie ma szczególną moc w okresie przygotowania do świąt wielkanocnych. Życząc świętego i owocnego Wielkiego Postu, zawierzam was wstawiennictwu Najświętszej Maryi Panny i z serca udzielam wszystkim Błogosławieństwa Apostolskiego.

Watykan, 3 listopada 2011 r.

BENEDICTUS PP XVI

[00174-09.01] [Testo originale: Italiano]

[B0077-XX.02]