Alle ore 9.30 di oggi, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e nella ricorrenza del 60° anniversario della Sua Ordinazione presbiterale, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Basilica Vaticana la Concelebrazione Eucaristica con 41 Arcivescovi Metropoliti ai quali, nel corso del Sacro Rito, impone i Palli presi dalla Confessione di San Pietro.
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli composta da: Sua Eminenza Emmanuel (Adamakis), Metropolita di Francia; S.E. Athenagoras (Yves Peckstadt), Vescovo di Sinope, Ausiliare del Metropolita del Belgio; Rev.do Archimandrita Maxime Pothos, Vicario Generale della Metropolia della Svizzera.
Dopo la lettura del Vangelo e prima del Rito di benedizione e imposizione dei Palli agli Arcivescovi Metropoliti, il Papa tiene l’omelia.
Ne riportiamo di seguito il testo:
● OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle,
"Non iam dicam servos, sed amicos" – "Non vi chiamo più servi ma amici" (cfr Gv 15,15).
A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati. "Non più servi ma amici": io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola "cerimoniale", ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo "Io" una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: "Non più servi ma amici". Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. "Non siete più servi ma amici": questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà.
"Non più servi ma amici": in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: "Conosco i miei e i miei conoscono me" (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui? L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso. L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il "sì" dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15). Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!
La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: "Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli, agli amici, è quello di mettersi in cammino - costituiti perché andiate -, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: "Andate ed insegnate a tutti i popoli…" (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo.
Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta.
Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno.
Cari amici, forse mi sono trattenuto troppo a lungo con la memoria interiore sui sessant’anni del mio ministero sacerdotale. Adesso è tempo di pensare a ciò che è proprio di questo momento.
Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rivolgo anzitutto il mio più cordiale saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e alla Delegazione che ha inviato, e che ringrazio vivamente per la gradita visita nella lieta circostanza dei Santi Apostoli Patroni di Roma. Saluto anche i Signori Cardinali, i Fratelli nell’Episcopato, i Signori Ambasciatori e le Autorità civili, come pure i sacerdoti, i compagni della mia prima Messa, i religiosi e i fedeli laici. Tutti ringrazio per la presenza e per la preghiera.
Agli Arcivescovi Metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli viene ora imposto il pallio. Che cosa significa? Questo può ricordarci innanzitutto il giogo dolce di Cristo che ci viene posto sulle spalle (cfr Mt 11,29s). Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò un "giogo dolce", ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell’amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Con ciò siamo giunti ad un ulteriore significato del pallio: esso viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di sant’Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l’umanità, si era smarrito. Ci ricorda Lui, che ha preso l’agnello, l’umanità – me – sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro. Infine, il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori – significa che noi dobbiamo essere Pastori per l’unità e nell’unità e che solo nell’unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo.
Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato. E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen.
[01026-01.01] [Testo originale: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE
Chers frères et sœurs,
Non iam dicam servos, sed amicos» - « Je ne vous appelle plus serviteurs mais amis ! »(cf. Jn 15, 15). À soixante années du jour de mon Ordination sacerdotale, j’entends encore résonner en moi ces paroles de Jésus, que notre grand Archevêque, le Cardinal Faulhaber, avec une voix désormais un peu faible et cependant ferme, nous adressa à nous les nouveaux prêtres à la fin de la cérémonie d’Ordination. Selon le déroulement liturgique de l’époque, cette acclamation signifiait alors aux nouveaux prêtres l’attribution explicite du mandat pour remettre les péchés. « Non plus serviteurs, mais amis » : je savais et j’avais conscience qu’à ce moment précis, ce n’était pas seulement une parole rituelle, ni une simple citation de la Sainte Écriture. J’avais conscience qu’en ce moment-là, le Seigneur Lui-même me l’adressait de façon toute personnelle. Dans le Baptême et dans la Confirmation, Il nous avait déjà attirés vers Lui, Il nous avait déjà accueillis dans la famille de Dieu. Cependant, ce qui arrivait à ce moment-là était quelque chose de plus encore. Il m’appelle ami. Il m’accueille dans le cercle de ceux auxquels il s’était adressé au Cénacle. Dans le cercle de ceux que Lui connaît d’une façon toute particulière et qui ainsi sont amenés à Le connaître de façon particulière. Il me donne la faculté, qui fait presque peur, de faire ce que Lui seul, le Fils de Dieu, peut dire et faire légitimement : Moi, je te pardonne tes péchés. Il veut que moi – par son mandat – je puisse prononcer avec son « Je » une parole qui n’est pas seulement une parole mais plus encore une action qui produit un changement au plus profond de l’être. Je sais que derrière cette parole, il y a sa Passion à cause de nous et pour nous. Je sais que le pardon a son prix : dans sa Passion, Lui-même est descendu dans la profondeur obscure et sale de notre péché. Il est descendu dans la nuit de notre faute, et c’est seulement ainsi qu’elle peut être transformée. Et par le mandat de pardonner, Il me permet de jeter un regard sur l’abîme de l’homme et sur la grandeur de sa souffrance pour nous les hommes, qui me laisse deviner la grandeur de son amour. Il me dit : « Non plus serviteurs, mais amis ». Il me confie les paroles de la Consécration eucharistique. Il m’estime capable d’annoncer sa Parole, de l’expliquer de façon juste et de la porter aux hommes d’aujourd’hui. Il s’en remet à moi. « Vous n’êtes plus serviteurs mais amis » : c’est une affirmation qui procure une grande joie intérieure et qui, en même temps, dans sa grandeur, peut faire frémir au long des décennies, avec toutes les expériences de notre faiblesse et de son inépuisable bonté.
« Non plus serviteurs mais amis » : dans cette parole est contenu tout le programme d’une vie sacerdotale. Qu’est-ce que vraiment l’amitié ? Idem velle, idem nolle – vouloir les mêmes choses et ne pas vouloir les mêmes choses, disaient les anciens. L’amitié est une communion de pensée et de vouloir. Le Seigneur nous dit la même chose avec grande insistance : « Je connais les miens et les miens me connaissent » (cf. Jn 10, 14). Le Pasteur appelle les siens par leur nom (cf. Jn 10, 3). Il me connaît par mon nom. Je ne suis pas n’importe quel être anonyme dans l’immensité de l’univers. Il me connaît de façon toute personnelle. Et moi, est-ce que je Le connais Lui ? L’amitié qu’Il me donne peut seulement signifier que moi aussi je cherche à Le connaître toujours mieux ; que moi dans l’Écriture, dans les Sacrements, dans la rencontre de la prière, dans la communion des Saints, dans les personnes qui s’approchent de moi et que Lui m’envoie, je cherche à Le connaître toujours plus. L’amitié n’est pas seulement connaissance, elle est surtout communion du vouloir. Elle signifie que ma volonté grandit vers le « oui » de l’adhésion à la sienne. Sa volonté, en effet, n’est pas pour moi une volonté externe et étrangère, à laquelle je me plie plus ou moins volontiers, ou à laquelle je ne me plie pas. Non, dans l’amitié, ma volonté en grandissant s’unit à la sienne, sa volonté devient la mienne et ainsi, je deviens vraiment moi-même. Outre la communion de pensée et de volonté, le Seigneur mentionne un troisième, un nouvel élément : Il donne sa vie pour nous (cf. Jn 15, 13 ; 10, 15). Seigneur, aide-moi à Te connaître toujours mieux ! Aide-moi à ne faire toujours plus qu’un avec ta volonté ! Aide-moi à vivre ma vie non pour moi-même, mais à la vivre avec Toi pour les autres ! Aide-moi à devenir toujours plus Ton ami !
La Parole de Jésus sur l’amitié se place dans le contexte du discours sur la vigne. Le Seigneur associe l’image de la vigne avec la tâche confiée aux disciples : « Je vous ai institués pour que vous alliez et que vous portiez du fruit et un fruit qui demeure » (Jn 15, 16). La première tâche donnée aux apôtres, aux amis, est de se mettre en route – institués pour que vous alliez -, de sortir de soi-même et d’aller vers les autres. Puissions-nous ici entendre ensemble la parole du Ressuscité adressée aux siens, avec laquelle Saint Matthieu termine son évangile : « Allez et enseignez à tous les peuples… » (cf. Mt 28, 19s). Le Seigneur nous exhorte à dépasser les limites du milieu dans lequel nous vivons, à porter l’Évangile dans le monde des autres, afin qu’il envahisse tout et qu’ainsi le monde s’ouvre au Royaume de Dieu. Cela peut nous rappeler que Dieu-même est sorti de Lui-même, Il a abandonné sa gloire pour nous chercher, pour nous donner sa lumière et son amour. Nous voulons suivre le Dieu qui se met en chemin, surpassant la paresse de rester repliés sur nous-mêmes, afin que Lui-même puisse entrer dans le monde.
Après la parole sur la mise en route, Jésus continue : portez du fruit, un fruit qui demeure ! Quel fruit attend-Il de nous ? Quel est le fruit qui demeure ? Eh bien, le fruit de la vigne est le raisin à partir duquel se prépare par la suite le vin. Arrêtons-nous un instant sur cette image. Pour que le bon raisin puisse mûrir, il faut non seulement du soleil mais encore de la pluie, le jour et la nuit. Pour que parvienne à maturité un vin de qualité, il faut le foulage, le temps nécessaire à la fermentation, le soin attentif qui sert au processus de la maturation. Le vin fin est caractérisé non seulement par sa douceur, mais aussi par la richesse de ses nuances, l’arôme varié qui s’est développé au cours du processus de maturation et de fermentation. N’est-ce pas déjà une image de la vie humaine, et selon un mode spécial, de notre vie de prêtre ? Nous avons besoin du soleil et de la pluie, de la sérénité et de la difficulté, des phases de purification et d’épreuve, comme aussi des temps de cheminement joyeux avec l’Évangile. Jetant un regard en arrière nous pouvons remercier Dieu pour les deux réalités : pour les difficultés et pour les joies, pour les heures sombres et les heures heureuses. Dans les deux cas nous reconnaissons la présence continuelle de son amour, qui toujours nous porte et nous supporte.
Maintenant, nous devons cependant nous demander : de quelle sorte est le fruit que le Seigneur attend de nous ? Le vin est l’image de l’amour : celui-ci est le vrai fruit qui demeure, celui que Dieu veut de nous. N’oublions pas pourtant que dans l’Ancien Testament le vin qu’on attend du raisin de qualité est avant tout une image de la justice qui se développe dans une vie vécue selon la loi de Dieu ! Et nous ne disons pas qu’il s’agit d’une vision vétérotestamentaire et dépassée aujourd’hui : non, cela demeure toujours vrai. L’authentique contenu de la Loi, sa summa, est l’amour pour Dieu et le prochain. Ce double amour, cependant, n’est pas simplement quelque chose de doux. Il porte en lui la charge de la patience, de l’humilité, de la maturation dans la formation de notre volonté jusqu’à son assimilation à la volonté de Dieu, à la volonté de Jésus-Christ, l’Ami. Ainsi seulement, l’amour véritable se situe aussi dans le devenir vrai et juste de tout notre être, ainsi seulement il est un fruit mûr. Son exigence intrinsèque, la fidélité au Christ et à son Église, requiert toujours d’être réalisée aussi dans la souffrance. Ainsi vraiment grandit la véritable joie. Au fond, l’essence de l’amour, du vrai fruit, correspond à l’idée de se mettre en chemin, de marcher : l’amour signifie s’abandonner, se donner ; il porte en soi le signe de la croix. Dans ce contexte Grégoire-le-Grand a dit une fois : si vous tendez vers Dieu, veillez à ne pas le rejoindre seul (cf. H Ev 1,6,6 : PL 76, 1097s) - une parole qui doit nous être, à nous comme prêtres, intimement présente chaque jour.
Chers amis, je me suis peut-être attardé trop longtemps sur la mémoire intérieure des soixante années de mon ministère sacerdotal. Il est maintenant temps de penser à ce qui est propre au moment présent.
À l’occasion de la Solennité des Saints Apôtres Pierre et Paul, j’adresse mon salut le plus cordial au Patriarche Œcuménique Bartolomeo Ier et à la Délégation qu’il a envoyée et que je remercie vivement pour la visite appréciée en cette heureuse circonstance des Saints Apôtres Patrons de Rome. Je salue également Messieurs les Cardinaux, les Frères dans l’Épiscopat, Messieurs les Ambassadeurs et les Autorités civiles, ainsi que les prêtres, les compagnons de ma première Messe, les religieux et les fidèles laïcs. Je vous remercie tous pour votre présence et pour votre prière.
Aux Archevêques Métropolitains nommés après la dernière Fête des grands Apôtres, le pallium va maintenant être imposé. Qu’est-ce que cela signifie ? Celui-ci peut nous rappeler avant tout le joug léger du Christ qui nous est déposé sur les épaules (cf. Mt 11, 29s). Le joug du Christ est identique à son amitié. C’est un joug d’amitié et donc un « joug doux », mais justement pour cela aussi, un joug qui exige et qui modèle. C’est le joug de sa volonté, qui est une volonté de vérité et d’amour. Ainsi, c’est pour nous surtout le joug qui introduit les autres dans l’amitié avec le Christ et nous rend disponibles aux autres pour en prendre soin comme Pasteurs. Avec cela, nous atteignons un sens supplémentaire du pallium : tissé avec de la laine des agneaux bénis en la fête de Sainte Agnès, il nous rappelle ainsi le Pasteur devenu Lui-même Agneau par amour pour nous. Il rappelle le Christ qui a marché sur les montagnes et dans les déserts, où son agneau - l’humanité - s’était égaré. Le pallium nous rappelle que Lui a pris l’agneau, l’humanité - moi - sur ses épaules, pour me ramener à la maison. Il nous rappelle de cette manière que, comme Pasteurs à son service, nous devons aussi porter les autres, les prendre, pour ainsi dire, sur nos épaules et les porter au Christ. Il nous rappelle que nous pouvons être Pasteurs de son troupeau qui reste toujours sien et ne devient pas nôtre. Enfin, le pallium signifie aussi très concrètement la communion des Pasteurs de l’Église avec Pierre et avec ses successeurs – il signifie que nous devons être des Pasteurs pour l’unité et dans l’unité et que c’est seulement dans l’unité dont Pierre est le symbole que nous conduisons vraiment vers le Christ.
Soixante années de ministère sacerdotal – chers amis, je me suis peut-être trop attardé sur des éléments particuliers. Mais en cet instant, je me suis senti poussé à regarder ce qui a caractérisé ces dizaines d’années. Je me suis senti poussé à vous dire - à tous, prêtres et Évêques comme aussi aux fidèles de l’Église - une parole d’espérance et d’encouragement ; une parole, murie à travers l’expérience, sur le fait que le Seigneur est bon. Cependant, c’est surtout un moment de gratitude : gratitude envers le Seigneur pour l’amitié qu’Il m’a donnée et qu’Il veut nous donner à tous. Gratitude envers les personnes qui m’ont formé et accompagné. Et en tout cela se cache la prière qu’un jour le Seigneur dans sa bonté nous accueille et nous fasse contempler sa joie. Amen !
[01026-03.01] [Texte original: Italien]
● TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
Dear Brothers and Sisters,
"Non iam dicam servos, sed amicos" - "I no longer call you servants, but friends" (cf. Jn 15:15).
Sixty years on from the day of my priestly ordination, I hear once again deep within me these words of Jesus that were addressed to us new priests at the end of the ordination ceremony by the Archbishop, Cardinal Faulhaber, in his slightly frail yet firm voice. According to the liturgical practice of that time, these words conferred on the newly-ordained priests the authority to forgive sins. "No longer servants, but friends": at that moment I knew deep down that these words were no mere formality, nor were they simply a quotation from Scripture. I knew that, at that moment, the Lord himself was speaking to me in a very personal way. In baptism and confirmation he had already drawn us close to him, he had already received us into God’s family. But what was taking place now was something greater still. He calls me his friend. He welcomes me into the circle of those he had spoken to in the Upper Room, into the circle of those whom he knows in a very special way, and who thereby come to know him in a very special way. He grants me the almost frightening faculty to do what only he, the Son of God, can legitimately say and do: I forgive you your sins. He wants me – with his authority – to be able to speak, in his name ("I" forgive), words that are not merely words, but an action, changing something at the deepest level of being. I know that behind these words lies his suffering for us and on account of us. I know that forgiveness comes at a price: in his Passion he went deep down into the sordid darkness of our sins. He went down into the night of our guilt, for only thus can it be transformed. And by giving me authority to forgive sins, he lets me look down into the abyss of man, into the immensity of his suffering for us men, and this enables me to sense the immensity of his love. He confides in me: "No longer servants, but friends". He entrusts to me the words of consecration in the Eucharist. He trusts me to proclaim his word, to explain it aright and to bring it to the people of today. He entrusts himself to me. "You are no longer servants, but friends": these words bring great inner joy, but at the same time, they are so awe-inspiring that one can feel daunted as the decades go by amid so many experiences of one’s own frailty and his inexhaustible goodness.
"No longer servants, but friends": this saying contains within itself the entire programme of a priestly life. What is friendship? Idem velle, idem nolle – wanting the same things, rejecting the same things: this was how it was expressed in antiquity. Friendship is a communion of thinking and willing. The Lord says the same thing to us most insistently: "I know my own and my own know me" (Jn 10:14). The Shepherd calls his own by name (cf. Jn 10:3). He knows me by name. I am not just some nameless being in the infinity of the universe. He knows me personally. Do I know him? The friendship that he bestows upon me can only mean that I too try to know him better; that in the Scriptures, in the Sacraments, in prayer, in the communion of saints, in the people who come to me, sent by him, I try to come to know the Lord himself more and more. Friendship is not just about knowing someone, it is above all a communion of the will. It means that my will grows into ever greater conformity with his will. For his will is not something external and foreign to me, something to which I more or less willingly submit or else refuse to submit. No, in friendship, my will grows together with his will, and his will becomes mine: this is how I become truly myself. Over and above communion of thinking and willing, the Lord mentions a third, new element: he gives his life for us (cf. Jn 15:13; 10:15). Lord, help me to come to know you more and more. Help me to be ever more at one with your will. Help me to live my life not for myself, but in union with you to live it for others. Help me to become ever more your friend.
Jesus’ words on friendship should be seen in the context of the discourse on the vine. The Lord associates the image of the vine with a commission to the disciples: "I appointed you that you should go out and bear fruit, and that your fruit should abide" (Jn 15:16). The first commission to the disciples, to his friends, is that of setting out – appointed to go out -, stepping outside oneself and towards others. Here we hear an echo of the words of the risen Lord to his disciples at the end of Matthew’s Gospel: "Go therefore and make disciples of all nations ..." (cf. Mt 28:19f.) The Lord challenges us to move beyond the boundaries of our own world and to bring the Gospel to the world of others, so that it pervades everything and hence the world is opened up for God’s kingdom. We are reminded that even God stepped outside himself, he set his glory aside in order to seek us, in order to bring us his light and his love. We want to follow the God who sets out in this way, we want to move beyond the inertia of self-centredness, so that he himself can enter our world.
After the reference to setting out, Jesus continues: bear fruit, fruit that abides. What fruit does he expect from us? What is this fruit that abides? Now, the fruit of the vine is the grape, and it is from the grape that wine is made. Let us reflect for a moment on this image. For good grapes to ripen, sun is needed, but so too is rain, day and night. For noble wine to mature, the grapes need to be pressed, patience is needed while the juice ferments, watchful care is needed to assist the processes of maturation. Noble wine is marked not only by sweetness, but by rich and subtle flavours, the manifold aroma that develops during the processes of maturation and fermentation. Is this not already an image of human life, and especially of our lives as priests? We need both sun and rain, festivity and adversity, times of purification and testing, as well as times of joyful journeying with the Gospel. In hindsight we can thank God for both: for the challenges and the joys, for the dark times and the glad times. In both, we can recognize the constant presence of his love, which unfailingly supports and sustains us.
Yet now we must ask: what sort of fruit does the Lord expect from us? Wine is an image of love: this is the true fruit that abides, the fruit that God wants from us. But let us not forget that in the Old Testament the wine expected from noble grapes is above all an image of justice, which arises from a life lived in accordance with God’s law. And this is not to be dismissed as an Old Testament view that has been surpassed – no, it still remains true. The true content of the Law, its summa, is love for God and for one’s neighbour. But this twofold love is not simply saccharine. It bears within itself the precious cargo of patience, humility, and growth in the conforming of our will to God’s will, to the will of Jesus Christ, our friend. Only in this way, as the whole of our being takes on the qualities of truth and righteousness, is love also true, only thus is it ripe fruit. Its inner demand – faithfulness to Christ and to his Church – seeks a fulfilment that always includes suffering. This is the way that true joy grows. At a deep level, the essence of love, the essence of genuine fruit, coincides with the idea of setting out, going towards: it means self-abandonment, self-giving, it bears within itself the sign of the cross. Gregory the Great once said in this regard: if you are striving for God, take care not to go to him by yourselves alone – a saying that we priests need to keep before us every day (H Ev 1:6:6 PL 76, 1097f.).
Dear friends, perhaps I have dwelt for too long on my inner recollections of sixty years of priestly ministry. Now it is time to turn our attention to the particular task that is to be performed today.
On the feast of Saints Peter and Paul my most cordial greeting goes first of all to the Ecumenical Patriarch Bartholomaios I and to the Delegation he has sent, to whom I express sincere thanks for their most welcome visit on the happy occasion of this feast of the holy Apostles who are Rome’s patrons. I also greet the Cardinals, my brother bishops, the ambassadors and civil authorities as well as the priests, the confrères of my first Mass, religious and lay faithful. I thank all of you for your presence and your prayers.
The metropolitan archbishops appointed since the feast of Saints Peter and Paul last year are now going to receive the pallium. What does this mean? It may remind us in the first instance of Christ’s easy yoke that is laid upon us (cf. Mt 11:29f.). Christ’s yoke is identical with his friendship. It is a yoke of friendship and therefore "a sweet yoke", but as such it is also a demanding yoke, one that forms us. It is the yoke of his will, which is a will of truth and love. For us, then, it is first and foremost the yoke of leading others to friendship with Christ and being available to others, caring for them as shepherds. This brings us to a further meaning of the pallium: it is woven from the wool of lambs blessed on the feast of Saint Agnes. Thus it reminds us of the Shepherd who himself became a lamb, out of love for us. It reminds us of Christ, who set out through the mountains and the deserts, in which his lamb, humanity, had strayed. It reminds us of him who took the lamb – humanity – me – upon his shoulders, in order to carry me home. It thus reminds us that we too, as shepherds in his service, are to carry others with us, taking them as it were upon our shoulders and bringing them to Christ. It reminds us that we are called to be shepherds of his flock, which always remains his and does not become ours. Finally the pallium also means quite concretely the communion of the shepherds of the Church with Peter and with his successors – it means that we must be shepherds for unity and in unity, and that it is only in the unity represented by Peter that we truly lead people to Christ.
Sixty years of priestly ministry – dear friends, perhaps I have spoken for too long about this. But I felt prompted at this moment to look back upon the things that have left their mark on the last six decades. I felt prompted to address to you, to all priests and bishops and to the faithful of the Church, a word of hope and encouragement; a word that has matured in long experience of how good the Lord is. Above all, though, it is a time of thanksgiving: thanks to the Lord for the friendship that he has bestowed upon me and that he wishes to bestow upon us all. Thanks to the people who have formed and accompanied me. And all this includes the prayer that the Lord will one day welcome us in his goodness and invite us to contemplate his joy. Amen.
[01026-02.01] [Original text: Italian]
● TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA
„Non iam dicam servos, sed amicos" – „Nicht mehr Knechte nenne ich euch, sondern Freunde" (cfr. Joh 15, 15).
Liebe Brüder und Schwestern, sechzig Jahre nach dem Tag meiner Priesterweihe höre ich inwendig wieder, wie am Ende der Weihezeremonien unser greiser Erzbischof Kardinal Faulhaber mit etwas brüchig gewordener und doch fester Stimme dieses Wort Jesu uns Neupriestern zusprach. Nach der liturgischen Ordnung jener Zeit damals bedeutete dieser Zuruf die ausdrückliche Zuweisung der Vollmacht der Sündenvergebung an die neugeweihten Priester. „Nicht mehr Knechte, sondern Freunde": Ich wußte und spürte, daß das in diesem Augenblick nicht nur ein zeremonielles Wort war und auch mehr als ein Zitat aus der Heiligen Schrift. Ich wußte: In dieser Stunde sagt er selbst, der Herr, es jetzt zu mir ganz persönlich. In der Taufe und in der Firmung hatte er uns schon an sich gezogen, uns in die Familie Gottes aufgenommen. Aber was nun geschah, war doch noch einmal mehr. Er nennt mich Freund. Er nimmt mich in den Kreis derer auf, die er damals angeredet hatte im Abendmahlssaal. In den Kreis derer, die er auf ganz besondere Weise kennt und die ihn so in besonderer Weise kennenlernen. Er gibt mir die fast erschreckende Vollmacht zu tun, was nur er, der Sohn Gottes, sagen und tun kann und darf: Ich vergebe dir deine Sünden. Er will, daß ich – von ihm bevollmächtigt – mit seinem Ich ein Wort sagen kann, das nicht nur Wort ist, sondern Handeln, das im Tiefsten des Seins etwas verändert. Ich weiß, daß hinter diesem Wort sein Leiden um uns und für uns steht. Daß die Vergebung ihren Preis hat: In seinem Leiden ist er hinabgestiegen in den dunklen, schmutzigen Grund unserer Sünde. Er ist hinabgestiegen in die Nacht unserer Schuld, und nur so kann sie umgewandelt werden. Und er läßt mich durch die Vollmacht der Vergebung hineinschauen in den Abgrund des Menschen und in die Größe seines Leidens um uns Menschen, die mich die Größe seiner Liebe ahnen läßt. Er vertraut sich mir an: „Nicht mehr Knechte, sondern Freunde." Er vertraut mir das Wort der Verwandlung in der Eucharistie an. Er traut mir zu, daß ich sein Wort verkünde, es recht auslegen und zu den Menschen von heute bringen kann. Er vertraut sich mir an. Ihr seid nicht mehr Knechte, sondern Freunde: Dies ist ein Wort einer großen inneren Freude, das einen zugleich schaudern machen kann in seiner Größe, über die Jahrzehnte und mit all den Erfahrungen der eigenen Schwachheit und seiner nicht zu erschöpfenden Güte.
„Nicht mehr Knechte, sondern Freunde": In diesem Wort liegt das ganze Programm eines priesterlichen Lebens. Was ist das eigentlich, Freundschaft? Idem velle, idem nolle – dasselbe wollen und nicht wollen, sagten die Alten. Freundschaft ist Gemeinschaft des Denkens und des Wollens. Der Herr sagt uns das Gleiche ganz nachdrücklich: „Ich kenne die Meinen, und die Meinen kennen mich" (Joh 10, 14). Der Hirt ruft die Seinen beim Namen (Joh 10, 3). Er kennt mich mit Namen. Ich bin nicht irgendein anonymes Wesen in der Unendlichkeit des Alls. Er kennt mich ganz persönlich. Kenne ich ihn? Die Freundschaft, die er mir schenkt, kann nur bedeuten, daß auch ich ihn immer mehr zu erkennen versuche; daß ich in der Schrift, in den Sakramenten, in der Begegnung des Betens, in der Gemeinschaft der Heiligen, in den Menschen, die auf mich zukommen und die er mir schickt, immer mehr ihn selber zu erkennen versuche. Freundschaft ist nicht nur Erkennen, sie ist vor allem Gemeinschaft des Wollens. Sie bedeutet, daß mein Wille hineinwächst in das Ja zu dem Seinigen. Denn sein Wille ist für mich kein äußerer, fremder Wille, dem ich mich mehr oder weniger willig beuge oder auch nicht beuge. Nein, in der Freundschaft wächst mein Wille mit dem Seinigen zusammen, wird sein Wille der Meinige, und gerade so werde ich wahrhaft ich selber. Über die Denk- und Willensgemeinschaft hinaus benennt der Herr ein drittes, neues Element: Er gibt sein Leben für uns (Joh 15, 13; 10, 15). Herr, hilf mir, dich immer besser zu erkennen. Hilf mir, immer mehr eins zu sein mit deinem Willen. Hilf mir, mein Leben nicht für mich selbst zu leben, sondern es mit dir für die anderen zu leben. Hilf mir, immer mehr dein Freund zu werden.
Das Wort Jesu von der Freundschaft steht im Zusammenhang mit der Rede vom Weinstock. Der Herr verbindet das Bild vom Weinstock mit einem Auftrag an die Jünger: „Ich habe euch dazu bestimmt, daß ihr hingeht und daß ihr Frucht bringt und daß eure Frucht bleibt" (Joh 15, 16). Der erste Auftrag an die Jünger – an die Freunde – ist das Aufbrechen – „dazu bestimmt, daß ihr hingeht" –, das Herausgehen aus dem Eigenen zu den anderen hin. Wir können hier das Wort des Auferstandenen an die Seinigen mithören, mit dem Matthäus sein Evangelium beschließt: „Geht hin und lehrt alle Völker …" (Mt 28, 19f). Der Herr fordert uns auf, unseren eigenen Lebensbereich zu überschreiten, das Evangelium in die Welt der anderen hineinzutragen, damit es das Ganze durchdringe und so die Welt sich für das Reich Gottes öffne. Dies mag uns daran erinnern, daß Gott selber aus sich herausgetreten ist, seine Herrlichkeit verlassen hat, um uns zu suchen, um uns sein Licht und seine Liebe zu bringen. Dem aufbrechenden Gott wollen wir folgen, die Trägheit des Bei-sich-Bleibens überwinden, damit er selber hineintreten kann in die Welt.
Nach dem Wort vom Aufbrechen fährt Jesus fort: Bringt Frucht, Frucht, die bleibt. Welche Frucht erwartet er von uns? Welche Frucht bleibt? Nun – die Frucht des Weinstocks ist die Traube, aus der dann der Wein bereitet wird. Bleiben wir zunächst bei diesem Bild. Damit gute Trauben reifen können, bedarf es der Sonne, aber auch des Regens, des Tages und der Nacht. Damit edler Wein reift, braucht es das Keltern, die Geduld der Gärungen, die sorgsame Pflege, die den Prozessen der Reifung dient. Zum edlen Wein gehört nicht nur die Süße, sondern der Reichtum der Nuancen, das vielfältige Aroma, das sich in den Prozessen des Reifens und der Gärung gebildet hat. Ist das nicht schon ein Bild des menschlichen Lebens, unseres Lebens als Priester ganz besonders? Wir brauchen Sonne und Regen, das Heitere und das Schwere, die Phasen der Reinigung und der Prüfung wie auch die Zeiten des freudigen Unterwegsseins mit dem Evangelium. In der Rückschau können wir Gott für beides danken: für das Schwere und für das Frohe, für die dunklen und für die glücklichen Stunden. In beidem erkennen wir die immerwährende Gegenwart seiner Liebe, die uns stets neu trägt und erträgt.
Aber nun müssen wir doch fragen: Was ist das für eine Frucht, die der Herr von uns erwartet? Der Wein ist Bild für die Liebe: Sie ist die eigentliche, die bleibende Frucht, die Gott von uns will. Aber vergessen wir dabei nicht, daß im Alten Testament der erwartete Wein aus den edlen Trauben vor allem Bild für die Gerechtigkeit ist, die in einem Leben wächst, das Gottes Gesetz entsprechend gelebt wird. Und sagen wir nicht, dies sei alttestamentlich und nun überwunden – nein, das bleibt immer wahr. Der wahre Inhalt des Gesetzes, seine Summe, ist die Liebe zu Gott und zum Nächsten. Aber diese doppelte Liebe ist nichts bloß Süßes. Sie trägt in sich die Fracht der Geduld, der Demut, des Reifwerdens in der Einformung unseres Willens in den Willen Gottes, in den Willen Jesu Christi, des Freundes. Nur so, in dem Wahrwerden und Rechtwerden unseres ganzen Seins ist auch die Liebe wahr, nur so ist sie reife Frucht. Ihr innerer Anspruch, die Treue zu Christus und seiner Kirche will immer auch erlitten sein. Gerade so wächst die wahre Freude. Zutiefst deckt sich das Wesen der Liebe, der wahren Frucht mit dem Wort vom Aufbrechen, vom Hingehen: Sie bedeutet das Sichverlassen, das Sichhingeben; sie trägt in sich das Zeichen des Kreuzes. Gregor der Große hat in diesem Zusammenhang einmal gesagt: Wenn ihr zu Gott strebt, sorgt dafür, nicht allein zu ihm zu gelangen – ein Wort, das uns als Priester jeden Tag vor der Seele stehen muß (H Ev 1, 6, 6 PL 76, 1097f).
Liebe Freunde, vielleicht habe ich mich zu lange mit dem inwendigen Rückblick auf die sechzig Jahre meines priesterlichen Dienstes aufgehalten. Nun wird es Zeit, an das Besondere dieser Stunde zu denken.
Am Hochfest der heiligen Apostel Petrus und Paulus richte ich meinen ganz herzlichen Gruß an den Ökumenischen Patriarchen Bartholomäus I. und an die Delegation, die er gesandt hat. Ich danke ihr von Herzen für den geschätzten Besuch anläßlich der Feierlichkeiten zu Ehren der Apostelfürsten, der Patrone Roms. Ebenso grüße ich die Herren Kardinäle, die Mitbrüder im Bischofsamt, die Botschafter und die Vertreter des öffentlichen Lebens, wie auch die Priester, meine Weihekollegen, die Personen geweihten Lebens und die gläubigen Laien. Ihnen allen danke ich für ihre Teilnahme und für ihr Gebet.
Den Erzbischöfen, die seit dem letzten Fest der großen Apostel ernannt worden sind, wird in dieser Stunde das Pallium auferlegt. Was bedeutet das? Es mag uns zunächst an das süße Joch Christi erinnern, das uns auferlegt wird (cfr. Mt 11, 29f). Das Joch Christi ist identisch mit seiner Freundschaft. Es ist ein Joch der Freundschaft und darum „ein süßes Joch", aber gerade so auch ein forderndes und formendes Joch. Es ist das Joch seines Willens, der ein Wille der Wahrheit und der Liebe ist. So ist es für uns vor allem auch das Joch, andere in die Freundschaft mit Christus zu führen und für die anderen da zu sein, uns um sie als Hirten zu sorgen. Damit sind wir bei einer weiteren Bedeutung des Palliums angelangt: Es wird gewoben aus der Wolle von Lämmern, die am Festtag der heiligen Agnes gesegnet werden. So erinnert es uns an den Hirten, der selbst Lamm geworden ist, aus Liebe zu uns. Es erinnert uns an Christus, der sich aufgemacht hat in die Berge und in die Wüsten, in denen sich sein Lamm, die Menschheit verlaufen hat. Es erinnert uns an ihn, der das Lamm, die Menschheit – mich – auf seine Schultern genommen hat, um mich heimzutragen. Es erinnert uns so daran, daß wir als Hirten in seinem Dienst die anderen mittragen, gleichsam auf die Schultern nehmen und zu Christus bringen sollen. Es erinnert uns daran, daß wir Hirten seiner Herde sein dürfen, die immer die Seine bleibt und nicht die Unsere wird. Endlich bedeutet das Pallium ganz praktisch auch die Gemeinschaft der Hirten der Kirche mit Petrus und mit seinen Nachfolgern – daß wir Hirten für die Einheit und in der Einheit sein müssen und nur in der Einheit, für die Petrus steht, auch wahrhaft zu Christus hinführen.
Sechzig Jahre priesterlicher Dienst – liebe Freunde, vielleicht bin ich zu ausführlich geworden. Aber es drängte mich in dieser Stunde, auf das hinzuschauen, was die Jahrzehnte geprägt hat. Es drängte mich, Euch – allen Priestern und Bischöfen wie auch den Gläubigen der Kirche – ein Wort der Hoffnung und Ermutigung zu sagen; ein in der Erfahrung gereiftes Wort davon, daß der Herr gut ist. Vor allem aber ist dies eine Stunde des Dankes: Dank an den Herrn für die Freundschaft, die er mir geschenkt hat und die er uns allen schenken will. Dank an die Menschen, die mich geformt und begleitet haben. Und in alledem verbirgt sich die Bitte, daß der Herr einmal in seiner Güte uns annimmt und uns seine Freude schauen läßt. Amen.
[01026-05.01] [Originalsprache: Italienisch]
● TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA
Queridos hermanos y hermanas,
«Non iam dicam servos, sed amicos» - «Ya no os llamo siervos, sino amigos» (cf.Jn 15,15). Sesenta años después de mi Ordenación sacerdotal, siento todavía resonar en mi interior estas palabras de Jesús, que nuestro gran Arzobispo, el Cardenal Faulhaber, con la voz ya un poco débil pero firme, nos dirigió a los nuevos sacerdotes al final de la ceremonia de Ordenación. Según las normas litúrgicas de aquel tiempo, esta aclamación significaba entonces conferir explícitamente a los nuevos sacerdotes el mandato de perdonar los pecados. «Ya no siervos, sino amigos»: yo sabía y sentía que, en ese momento, esta no era sólo una palabra «ceremonial», y era también algo más que una cita de la Sagrada Escritura. Era bien consciente: en este momento, Él mismo, el Señor, me la dice a mí de manera totalmente personal. En el Bautismo y la Confirmación, Él ya nos había atraído hacia sí, nos había acogido en la familia de Dios. Pero lo que sucedía en aquel momento era todavía algo más. Él me llama amigo. Me acoge en el círculo de aquellos a los que se había dirigido en el Cenáculo. En el grupo de los que Él conoce de modo particular y que, así, llegan a conocerle de manera particular. Me otorga la facultad, que casi da miedo, de hacer aquello que sólo Él, el Hijo de Dios, puede decir y hacer legítimamente: Yo te perdono tus pecados. Él quiere que yo – por mandato suyo – pronuncie con su «Yo» unas palabras que no son únicamente palabras, sino acción que produce un cambio en lo más profundo del ser. Sé que tras estas palabras está su Pasión por nuestra causa y por nosotros. Sé que el perdón tiene su precio: en su Pasión, Él ha descendido hasta el fondo oscuro y sucio de nuestro pecado. Ha bajado hasta la noche de nuestra culpa que, sólo así, puede ser transformada. Y, mediante el mandato de perdonar, me permite asomarme al abismo del hombre y a la grandeza de su padecer por nosotros los hombres, que me deja intuir la magnitud de su amor. Él se fía de mí: «Ya no siervos, sino amigos». Me confía las palabras de la Consagración en la Eucaristía. Me considera capaz de anunciar su Palabra, de explicarla rectamente y de llevarla a los hombres de hoy. Él se abandona a mí. «Ya no sois siervos, sino amigos»: esta es una afirmación que produce una gran alegría interior y que, al mismo tiempo, por su grandeza, puede hacernos estremecer a través de las décadas, con tantas experiencias de nuestra propia debilidad y de su inagotable bondad.
«Ya no siervos, sino amigos»: en estas palabras se encierra el programa entero de una vida sacerdotal. ¿Qué es realmente la amistad? Ídem velle, ídem nolle – querer y no querer lo mismo, decían los antiguos. La amistad es una comunión en el pensamiento y el deseo. El Señor nos dice lo mismo con gran insistencia: «Conozco a los míos y los míos me conocen» (cf. Jn 10,14). El Pastor llama a los suyos por su nombre (cf. Jn 10,3). Él me conoce por mi nombre. No soy un ser anónimo cualquiera en la inmensidad del universo. Me conoce de manera totalmente personal. Y yo, ¿le conozco a Él? La amistad que Él me ofrece sólo puede significar que también yo trate siempre de conocerle mejor; que yo, en la Escritura, en los Sacramentos, en el encuentro de la oración, en la comunión de los Santos, en las personas que se acercan a mí y que Él me envía, me esfuerce siempre en conocerle cada vez más. La amistad no es solamente conocimiento, es sobre todo comunión del deseo. Significa que mi voluntad crece hacia el «sí» de la adhesión a la suya. En efecto, su voluntad no es para mí una voluntad externa y extraña, a la que me doblego más o menos de buena gana. No, en la amistad mi voluntad se une a la suya a medida que va creciendo; su voluntad se convierte en la mía, y justo así llego a ser yo mismo. Además de la comunión de pensamiento y voluntad, el Señor menciona un tercer elemento nuevo: Él da su vida por nosotros (cf. Jn 15,13; 10,15). Señor, ayúdame siempre a conocerte mejor. Ayúdame a estar cada vez más unido a tu voluntad. Ayúdame a vivir mi vida, no para mí mismo, sino junto a Ti para los otros. Ayúdame a ser cada vez más tu amigo.
Las palabras de Jesús sobre la amistad están en el contexto del discurso sobre la vid. El Señor enlaza la imagen de la vid con una tarea que encomienda a los discípulos: «Os he elegido y os he destinado para vayáis y deis fruto, y vuestro fruto permanezca» (Jn 15,16). El primer cometido que da a los discípulos, a los amigos, es el de ponerse en camino –os he destinado para que vayáis-, de salir de sí mismos y de ir hacia los otros. Podemos oír juntos aquí también las palabras que el Resucitado dirige a los suyos, con las que san Mateo concluye su Evangelio: «Id y enseñad a todos los pueblos...» (cf. Mt 28,19s). El Señor nos exhorta a superar los confines del ambiente en que vivimos, a llevar el Evangelio al mundo de los otros, para que impregne todo y así el mundo se abra para el Reino de Dios. Esto puede recordarnos que el mismo Dios ha salido de si, ha abandonado su gloria, para buscarnos, para traernos su luz y su amor. Queremos seguir al Dios que se pone en camino, superando la pereza de quedarnos cómodos en nosotros mismos, para que Él mismo pueda entrar en el mundo.
Después de la palabra sobre el ponerse en camino, Jesús continúa: dad fruto, un fruto que permanezca. ¿Qué fruto espera Él de nosotros? ¿Cuál es el fruto que permanece? Pues bien, el fruto de la vid es la uva, del que luego se hace el vino. Detengámonos un momento en esta imagen. Para que una buena uva madure, se necesita sol, pero también lluvia, el día y la noche. Para que madure un vino de calidad, hay que prensar la uva, se requiere la paciencia de la fermentación, los atentos cuidados que sirven a los procesos de maduración. Un vino de clase no solamente se caracteriza por su dulzura, sino también por la riqueza de los matices, la variedad de aromas que se han desarrollado en los procesos de maduración y fermentación. ¿Acaso no es ésta una imagen de la vida humana, y particularmente de nuestra vida de sacerdotes? Necesitamos el sol y la lluvia, la serenidad y la dificultad, las fases de purificación y prueba, y también los tiempos de camino alegre con el Evangelio. Volviendo la mirada atrás, podemos dar gracias a Dios por ambas cosas: por las dificultades y por las alegrías, por las horas oscuras y por aquellas felices. En las dos reconocemos la constante presencia de su amor, que nos lleva y nos sostiene siempre de nuevo.
Ahora, sin embargo, debemos preguntarnos: ¿Qué clase de fruto es el que espera el Señor de nosotros? El vino es imagen del amor: éste es el verdadero fruto que permanece, el que Dios quiere de nosotros. Pero no olvidemos que, en el Antiguo Testamento, el vino que se espera de la uva selecta es sobre todo imagen de la justicia, que se desarrolla en una existencia vivida según la ley de Dios. Y no digamos que esta es una visión veterotestamentaria ya superada: no, ella sigue siendo siempre verdadera. El auténtico contenido de la Ley, su summa, es el amor a Dios y al prójimo. Este doble amor, sin embargo, no es simplemente algo dulce. Conlleva en sí la carga de la paciencia, de la humildad, de la maduración de nuestra voluntad en la formación e identificación con la voluntad de Dios, la voluntad de Jesucristo, el Amigo. Sólo así, en el hacerse todo nuestro ser verdadero y recto, también el amor es verdadero; sólo así es un fruto maduro. Su exigencia intrínseca, la fidelidad a Cristo y a su Iglesia, requiere que se cumpla siempre también en el sufrimiento. Precisamente de este modo, crece la verdadera alegría. En el fondo, la esencia del amor, del verdadero fruto, se corresponde con las palabras sobre el ponerse en camino, sobre el salir: amor significa abandonarse, entregarse; lleva en sí el signo de la cruz. En este contexto, Gregorio Magno decía una vez: Si tendéis hacia Dios, tened cuidado de no alcanzarlo solos (cf. H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s); una palabra que nosotros, como sacerdotes, hemos de tener presente íntimamente cada día.
Queridos amigos, quizás me he entretenido demasiado con la memoria íntima sobre los sesenta años de mi ministerio sacerdotal. Es hora de pensar en lo que es propio de este momento.
En la solemnidad de los Apóstoles San Pedro y San Pablo, dirijo ante todo mi más cordial saludo al Patriarca Ecuménico Bartolomé I y a la Delegación que ha enviado, y a la que agradezco vivamente su grata visita en la gozosa ocasión de los Santos Apóstoles Patronos de Roma. Saludo cordialmente también a los Señores Cardenales, a los Hermanos en el Episcopado, a los Señores Embajadores y a las Autoridades civiles, así como a los sacerdotes, a mis compañeros de Primera Misa, a los religiosos y fieles laicos. Agradezco a todos su presencia y su oración.
A los Arzobispos Metropolitanos nombrados desde la última Fiesta de los grandes Apóstoles, les será impuesto ahora el palio. ¿Qué significa? Nos puede recordar ante todo el suave yugo de Cristo que se nos pone sobre los hombros (cf. Mt 11,29s). El yugo de Cristo es idéntico a su amistad. Es un yugo de amistad y, por tanto, un «yugo suave», pero precisamente por eso es también un yugo que exige y que plasma. Es el yugo de su voluntad, que es una voluntad de verdad y amor. Así, es también para nosotros sobre todo el yugo de introducir a otros en la amistad con Cristo y de estar a disposición de los demás, de cuidar de ellos como Pastores. Con esto hemos llegado a un nuevo significado del palio: está tejido con la lana de corderos que son bendecidos en la fiesta de santa Inés. Nos recuerda de este modo al Pastor que se ha convertido Él mismo en cordero por amor nuestro. Nos recuerda a Cristo que se ha encaminado por las montañas y los desiertos en los que su cordero, la humanidad, se había extraviado. Nos recuerda a Él, que ha tomado el cordero, la humanidad – a mí – sobre sus hombros, para llevarme de nuevo a casa. De este modo, nos recuerda que, como Pastores a su servicio, también nosotros hemos de llevar a los otros, cargándolos, por así decir, sobre nuestros hombros y llevarlos a Cristo. Nos recuerda que podemos ser Pastores de su rebaño, que sigue siendo siempre suyo, y no se convierte en el nuestro. Por fin, el palio significa muy concretamente también la comunión de los Pastores de la Iglesia con Pedro y con sus sucesores; significa que tenemos que ser Pastores para la unidad y en la unidad, y que sólo en la unidad de la cual Pedro es símbolo, guiamos realmente hacia Cristo.
Sesenta años de ministerio sacerdotal. Queridos amigos, tal vez me he extendido demasiado en los detalles. Pero en esta hora me he sentido impulsado a mirar a lo que ha caracterizado estas décadas. Me he sentido impulsado a deciros – a todos los sacerdotes y Obispos, así como también a los fieles de la Iglesia – una palabra de esperanza y ánimo; una palabra, madurada en la experiencia, sobre el hecho de que el Señor es bueno. Pero, sobre todo, éste es un momento de gratitud: gratitud al Señor por la amistad que me ha ofrecido y que quiere ofrecer a todos nosotros. Gratitud a las personas que me han formado y acompañado. Y en todo ello se esconde la petición de que un día el Señor, en su bondad, nos acoja y nos haga contemplar su alegría. Amén.
[01026-04.01] [Texto original: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE
Amados irmãos e irmãs!
«Non iam servos, sed amicos» - «Já não vos chamo servos, mas amigos» (cf. Jo 15, 15). Passados sessenta anos da minha Ordenação Sacerdotal, sinto ainda ressoar no meu íntimo estas palavras de Jesus, que o nosso grande Arcebispo, o Cardeal Faulhaber, com voz um pouco débil já mas firme, nos dirigiu, a nós novos sacerdotes, no final da cerimónia da Ordenação. Segundo o ordenamento litúrgico daquele tempo, esta proclamação significava então a explícita concessão aos novos sacerdotes do mandato de perdoar os pecados. «Já não sois servos, mas amigos»: eu sabia e sentia que esta não era, naquele momento, apenas uma frase «de cerimónia»; e que era mais do que uma mera citação da Sagrada Escritura. Estava certo disto: neste momento, Ele mesmo, o Senhor, di-la a mim de modo muito pessoal. No Baptismo e na Confirmação, Ele já nos atraíra a Si, acolhera-nos na família de Deus. Mas o que estava a acontecer naquele momento, ainda era algo mais. Ele chama-me amigo. Acolhe-me no círculo daqueles que receberam a sua palavra no Cenáculo; no círculo daqueles que Ele conhece de um modo muito particular e que chegam assim a conhecê-Lo de modo particular. Concede-me a faculdade, que quase amedronta, de fazer aquilo que só Ele, o Filho de Deus, pode legitimamente dizer e fazer: Eu te perdoo os teus pecados. Ele quer que eu – por seu mandato – possa pronunciar com o seu «Eu» uma palavra que não é meramente palavra mas acção que produz uma mudança no mais íntimo do ser. Sei que, por detrás de tais palavras, está a sua Paixão por nossa causa e em nosso favor. Sei que o perdão tem o seu preço: na sua Paixão, Ele desceu até ao fundo tenebroso e sórdido do nosso pecado. Desceu até à noite da nossa culpa, e só assim esta pode ser transformada. E, através do mandato de perdoar, Ele permite-me lançar um olhar ao abismo do homem e à grandeza do seu padecer por nós, homens, que me deixa intuir a grandeza do seu amor. Diz-me Ele em confidência: «Já não és servo, mas amigo». Ele confia-me as palavras da Consagração na Eucaristia. Ele considera-me capaz de anunciar a sua Palavra, de explicá-la rectamente e de a levar aos homens de hoje. Ele entrega-Se a mim. «Já não sois servos, mas amigos»: trata-se de uma afirmação que gera uma grande alegria interior mas ao mesmo tempo, na sua grandeza, pode fazer-nos sentir ao longo dos decénios calafrios com todas as experiências da própria fraqueza e da sua bondade inexaurível.
«Já não sois servos, mas amigos»: nesta frase está encerrado o programa inteiro duma vida sacerdotal. O que é verdadeiramente a amizade? Idem velle, idem nolle – querer as mesmas coisas e não querer as mesmas coisas: diziam os antigos. A amizade é uma comunhão do pensar e do querer. O Senhor não se cansa de nos dizer a mesma coisa: «Conheço os meus e os meus conhecem-Me» (cf. Jo 10, 14). O Pastor chama os seus pelo nome (cf. Jo 10, 3). Ele conhece-me por nome. Não sou um ser anónimo qualquer, na infinidade do universo. Conhece-me de modo muito pessoal. E eu? Conheço-O a Ele? A amizade que Ele me dedica pode apenas traduzir-se em que também eu O procure conhecer cada vez melhor; que eu, na Escritura, nos Sacramentos, no encontro da oração, na comunhão dos Santos, nas pessoas que se aproximam de mim mandadas por Ele, procure conhecer sempre mais a Ele próprio. A amizade não é apenas conhecimento; é sobretudo comunhão do querer. Significa que a minha vontade cresce rumo ao «sim» da adesão à d’Ele. De facto, a sua vontade não é uma vontade externa e alheia a mim mesmo, à qual mais ou menos voluntariamente me submeto ou então nem sequer me submeto. Não! Na amizade, a minha vontade, crescendo, une-se à d’Ele: a sua vontade torna-se a minha, e é precisamente assim que me torno de verdade eu mesmo. Além da comunhão de pensamento e de vontade, o Senhor menciona um terceiro e novo elemento: Ele dá a sua vida por nós (cf. Jo 15, 13; 10, 15). Senhor, ajudai-me a conhecer-Vos cada vez melhor! Ajudai-me a identificar-me cada vez mais com a vossa vontade! Ajudai-me a viver a minha existência, não para mim mesmo, mas a vivê-la juntamente convoco para os outros! Ajudai-me a tornar-me sempre mais vosso amigo!
Esta palavra de Jesus sobre a amizade situa-se no contexto do discurso sobre a videira. O Senhor relaciona a imagem da videira com uma tarefa dada aos discípulos: «Eu vos destinei, para que vades e deis fruto e o vosso fruto permaneça» (Jo 15, 16). A primeira tarefa dada aos discípulos, aos amigos, é pôr-se a caminho – destinei, para que vades –, sair de si mesmos e ir ao encontro dos outros. A par desta, podemos ouvir também a frase que o Ressuscitado dirige aos seus e que aparece na conclusão do Evangelho de Mateus: «Ide fazer discípulos de todas as nações…» (cf. Mt 28, 19). O Senhor exorta-nos a superar as fronteiras do ambiente onde vivemos e levar ao mundo dos outros o Evangelho, para que permeie tudo e, assim, o mundo se abra ao Reino de Deus. Isto pode trazer-nos à memória que o próprio Deus saiu de Si, abandonou a sua glória, para vir à nossa procura e trazer-nos a sua luz e o seu amor. Queremos seguir Deus que Se põe a caminho, vencendo a preguiça de permanecer cómodos em nós mesmos, para que Ele mesmo possa entrar no mundo.
Depois da palavra sobre o pôr-se a caminho, Jesus continua: dai fruto, um fruto que permaneça! Que fruto espera Ele de nós? Qual é o fruto que permanece? Sabemos que o fruto da videira são as uvas, com as quais depois se prepara o vinho. Por agora detenhamo-nos sobre esta imagem. Para que as uvas possam amadurecer e tornar-se boas, é preciso o sol mas também a chuva, o dia e a noite. Para que dêem um vinho de qualidade, precisam de ser pisadas, há que aguardar com paciência a fermentação, tem-se de seguir com cuidadosa atenção os processos de maturação. Características do vinho de qualidade são não só a suavidade, mas também a riqueza das tonalidades, o variegado aroma que se desenvolveu nos processos da maturação e da fermentação. E por acaso não constitui já tudo isto uma imagem da vida humana e, de modo muito particular, da nossa vida de sacerdotes? Precisamos do sol e da chuva, da serenidade e da dificuldade, das fases de purificação e de prova mas também dos tempos de caminho radioso com o Evangelho. Num olhar de retrospectiva, podemos agradecer a Deus por ambas as coisas: pelas dificuldades e pelas alegrias, pela horas escuras e pelas horas felizes. Em ambas reconhecemos a presença contínua do seu amor, que incessantemente nos conduz e sustenta.
Agora, porém, devemos interrogar-nos: de que género é o fruto que o Senhor espera de nós? O vinho é imagem do amor: este é o verdadeiro fruto que permanece, aquele que Deus quer de nós. Mas não esqueçamos que, no Antigo Testamento, o vinho que se espera das uvas boas é sobretudo imagem da justiça, que se desenvolve numa vida segundo a lei de Deus. E não digamos que esta é uma visão veterotestamentária, já superada. Não! Isto permanece sempre verdadeiro. O autêntico conteúdo da Lei, a sua summa, é o amor a Deus e ao próximo. Este duplo amor, porém, não é qualquer coisa simplesmente doce; traz consigo o peso da paciência, da humildade, da maturação na educação e assimilação da nossa vontade à vontade de Deus, à vontade de Jesus Cristo, o Amigo. Só deste modo, tornando verdadeiro e recto todo o nosso ser, é que o amor se torna também verdadeiro, só assim é um fruto maduro. A sua exigência intrínseca, ou seja, a fidelidade a Cristo e à sua Igreja, requer sempre que se realize também no sofrimento. É precisamente assim que cresce a verdadeira alegria. No fundo, a essência do amor, do verdadeiro fruto, corresponde à palavra relativa ao pôr-se a caminho, ao ir: amor significa abandonar-se, dar-se; leva consigo o sinal da cruz. Neste contexto, disse uma vez Gregório Magno: Se tendeis para Deus, tende cuidado que não O alcanceis sozinhos (cf. H Ev 1, 6, 6: PL 76, 1097s). Trata-se de uma advertência que nós, sacerdotes, devemos ter intimamente presente cada dia.
Queridos amigos, talvez me tenha demorado demasiado com a recordação interior dos sessenta anos do meu ministério sacerdotal. Agora é tempo de pensar àquilo que é próprio deste momento.
Na solenidade dos Santos Apóstolos Pedro e Paulo, antes de mais nada dirijo a minha mais cordial saudação ao Patriarca Ecuménico Bartolomeu I e à Delegação por ele enviada, cuja aprazível visita na ocasião feliz da festa dos Santos Apóstolos Padroeiros de Roma, vivamente agradeço. Saúdo também os Senhores Cardeais, os Irmãos no Episcopado, os Senhores Embaixadores e as autoridades civis, como também os sacerdotes, os colegas da minha Missa Nova, os religiosos e os fiéis leigos. A todos agradeço a presença e a oração.
Aos Arcebispos Metropolitanos nomeados depois da última festa dos grandes Apóstolos, será agora imposto o pálio. Este, que significa? Pode recordar-nos em primeiro lugar o jugo suave de Cristo que nos é colocado aos ombros (cf. Mt 11, 29-30). O jugo de Cristo coincide com a sua amizade. É um jugo de amizade e, consequentemente, um «jugo suave», mas por isso mesmo também um jugo que exige e plasma. É o jugo da sua vontade, que é uma vontade de verdade e de amor. Assim, para nós, é sobretudo o jugo de introduzir outros na amizade com Cristo e de estar à disposição dos outros, de cuidarmos deles como Pastores. E assim chegamos a um novo significado do pálio: este é tecido com a lã de cordeiros, que são benzidos na festa de Santa Inês. Deste modo recorda-nos o Pastor que Se tornou, Ele mesmo, Cordeiro por nosso amor. Recorda-nos Cristo que Se pôs a caminho pelos montes e descampados, aonde o seu cordeiro – a humanidade – se extraviara. Recorda-nos como Ele pôs o cordeiro, ou seja, a humanidade – a mim – aos seus ombros, para me trazer de regresso a casa. E assim nos recorda que, como Pastores ao seu serviço, devemos também nós carregar os outros, pô-los por assim dizer aos nossos ombros e levá-los a Cristo. Recorda-nos que podemos ser Pastores do seu rebanho, que continua sempre a ser d’Ele e não se torna nosso. Por fim, o pálio significa também, de modo muito concreto, a comunhão dos Pastores da Igreja com Pedro e com os seus sucessores: significa que devemos ser Pastores para a unidade e na unidade, e que só na unidade, de que Pedro é símbolo, guiamos verdadeiramente para Cristo.
Sessenta anos de ministério sacerdotal! Queridos amigos, talvez me tenha demorado demais nos pormenores. Mas, nesta hora, senti-me impelido a olhar para aquilo que caracterizou estes decénios. Senti-me impelido a dizer-vos – a todos os presbíteros e Bispos, mas também aos fiéis da Igreja – uma palavra de esperança e encorajamento; uma palavra, amadurecida na experiência, sobre o facto que o Senhor é bom. Mas esta é sobretudo uma hora de gratidão: gratidão ao Senhor pela amizade que me concedeu e que deseja conceder a todos nós. Gratidão às pessoas que me formaram e acompanharam. E, subjacente a tudo isto, a oração para que um dia o Senhor na sua bondade nos acolha e faça contemplar a sua glória. Amen.
[01026-06.01] [Texto original: Italiano]
[B0406-XX.02]