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CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO, 29.06.2009


Alle ore 9.30 di oggi, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Basilica Vaticana la Concelebrazione dell’Eucaristia con 34 Arcivescovi Metropoliti ai quali, nel corso del Sacro Rito, impone i Palli presi dalla Confessione di San Pietro.
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, composta da: Sua Eminenza Emmanuel, Metropolita di Francia, Direttore dell’Ufficio della Chiesa Ortodossa presso l’Unione Europea, Sua Eccellenza Athenagoras, Vescovo di Sinope, Assistente del Metropolita del Belgio, Rev.do Diacono Ioakim Billis, della Sede patriarcale del Fanar.
Dopo la lettura del Vangelo e prima del Rito di benedizione e imposizione dei Palli agli Arcivescovi Metropoliti, il Papa tiene l’omelia. Ne riportiamo di seguito il testo:

TESTO IN LINGUA ITALIANA

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle!

A tutti rivolgo il mio saluto cordiale con le parole dell’Apostolo accanto alla cui tomba ci troviamo: "A voi grazia e pace in abbondanza" (1Pt 1, 2). Saluto, in particolare, i Membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e i numerosi Metropoliti che oggi ricevono il Pallio. Nella colletta di questa giornata solenne chiediamo al Signore "che la Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede". La richiesta che rivolgiamo a Dio interpella al contempo noi stessi: seguiamo noi l’insegnamenti dei grandi Apostoli fondatori? Li conosciamo veramente? Nell’Anno Paolino che si è ieri concluso abbiamo cercato di ascoltare in modo nuovo lui, il "maestro delle genti", e di apprendere così nuovamente l’alfabeto della fede. Abbiamo cercato di riconoscere con Paolo e mediante Paolo il Cristo e di trovare così la via per la retta vita cristiana. Nel Canone del Nuovo Testamento, oltre alle Lettere di san Paolo, ci sono anche due Lettere sotto il nome di san Pietro. La prima di esse si conclude esplicitamente con un saluto da Roma, che però appare sotto l’apocalittico nome di copertura di Babilonia: "Vi saluta la co-eletta che vive in Babilonia…" (5, 13). Chiamando la Chiesa di Roma la "co-eletta", la colloca nella grande comunità di tutte le Chiese locali – nella comunità di tutti coloro che Dio ha adunato, affinché nella "Babilonia" del tempo di questo mondo costruiscano il suo Popolo e facciano entrare Dio nella storia. La Prima Lettera di san Pietro è un saluto rivolto da Roma all’intera cristianità di tutti i tempi. Essa ci invita ad ascoltare "l’insegnamento degli Apostoli", che ci indica la via verso la vita.

Questa Lettera è un testo ricchissimo, che proviene dal cuore e tocca il cuore. Il suo centro è – come potrebbe essere diversamente? – la figura di Cristo, che viene illustrato come Colui che soffre e che ama, come Crocifisso e Risorto: "Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta … Dalle sue piaghe siete stati guariti" (1Pt 2, 23s). Partendo dal centro che è Cristo, la Lettera costituisce poi anche un’introduzione ai fondamentali Sacramenti cristiani del Battesimo e dell’Eucaristia e un discorso rivolto ai sacerdoti, nel quale Pietro si qualifica come co-presbitero con loro. Egli parla ai Pastori di tutte le generazioni come colui che personalmente è stato incaricato dal Signore di pascere le sue pecorelle e così ha ricevuto in modo particolare un mandato sacerdotale. Che cosa, dunque, ci dice san Pietro – proprio nell’Anno sacerdotale – circa il compito del sacerdote? Innanzitutto, egli comprende il ministero sacerdotale totalmente a partire da Cristo. Chiama Cristo il "pastore e custode delle … anime" (2, 25). Dove la traduzione italiana parla di "custode", il testo greco ha la parola epíscopos (vescovo). Un po’ più avanti, Cristo viene qualificato come il Pastore supremo: archipoimen (5, 4). Sorprende che Pietro chiami Cristo stesso vescovo – vescovo delle anime. Che cosa intende dire con ciò? Nella parola greca "episcopos" è contenuto il verbo "vedere"; per questo è stata tradotta con "custode" ossia "sorvegliante". Ma certamente non s’intende una sorveglianza esterna, come s’addice forse ad una guardia carceraria. S’intende piuttosto un vedere dall’alto – un vedere a partire dall’elevatezza di Dio. Un vedere nella prospettiva di Dio è un vedere dell’amore che vuole servire l’altro, vuole aiutarlo a diventare veramente se stesso. Cristo è il "vescovo delle anime", ci dice Pietro. Ciò significa: Egli ci vede nella prospettiva di Dio. Guardando a partire da Dio, si ha una visione d’insieme, si vedono i pericoli come anche le speranze e le possibilità. Nella prospettiva di Dio si vede l’essenza, si vede l’uomo interiore. Se Cristo è il vescovo delle anime, l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il "vescovo delle anime", è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita.

Così la parola "vescovo" s’avvicina molto al termine "pastore", anzi, i due concetti diventano interscambiabili. È compito del pastore pascolare e custodire il gregge e condurlo ai pascoli giusti. Pascolare il gregge vuol dire aver cura che le pecore trovino il nutrimento giusto, sia saziata la loro fame e spenta la loro sete. Fuori di metafora, questo significa: la parola di Dio è il nutrimento di cui l’uomo ha bisogno. Rendere sempre di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere, indicare la via, conservare l’unità del gregge. Pietro, nel suo discorso ai presbiteri, evidenzia ancora una cosa molto importante. Non basta parlare. I Pastori devono farsi "modelli del gregge" (5, 3). La parola di Dio viene portata dal passato nel presente, quando è vissuta. È meraviglioso vedere come nei santi la parola di Dio diventi una parola rivolta al nostro tempo. In figure come Francesco e poi di nuovo come Padre Pio e molti altri, Cristo è diventato veramente contemporaneo della loro generazione, è uscito dal passato ed entrato nel presente. Questo significa essere Pastore – modello del gregge: vivere la Parola ora, nella grande comunità della santa Chiesa.

Molto brevemente vorrei ancora richiamare l’attenzione su due altre affermazioni della Prima Lettera di san Pietro, che riguardano in modo speciale noi, in questo nostro tempo. C’è innanzitutto la frase oggi nuovamente scoperta, in base alla quale i teologi medievali compresero il loro compito, il compito del teologo: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (3, 15). La fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede. Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande. La fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore. Fa parte dei nostri doveri come Pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo. Tuttavia, il pensare – pur così necessario – da solo non basta. Così come parlare, da solo, non basta. Nella sua catechesi battesimale ed eucaristica nel secondo capitolo della sua Lettera, Pietro allude al Salmo usato nella Chiesa antica nel contesto della comunione, e cioè al versetto che dice: "Gustate e vedete com’è buono il Signore" (Ps 34 [33], 9; 1 Pt 2, 3). Solo il gustare conduce al vedere. Pensiamo ai discepoli di Emmaus: solo nella comunione conviviale con Gesù, solo nella frazione del pane si aprono i loro occhi. Solo nella comunione col Signore veramente sperimentata essi diventano vedenti. Ciò vale per tutti noi: al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. Se nel Sacramento incontriamo il Signore; se nella preghiera parliamo con Lui; se nelle decisioni del quotidiano aderiamo a Cristo – allora "vediamo" sempre di più quanto Egli è buono. Allora sperimentiamo che è cosa buona stare con Lui. Da una tale certezza vissuta deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile. Il Curato d’Ars non era un grande pensatore. Ma egli "gustava" il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne "uno che vede". Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono. Preghiamo il Signore, affinché ci doni questo gustare e possiamo così diventare testimoni credibili della speranza che è in noi.

Alla fine vorrei far notare ancora una piccola, ma importante parola di san Pietro. Subito all’inizio della Lettera egli ci dice che la mèta della nostra fede è la salvezza delle anime (cfr 1, 9). Nel mondo del linguaggio e del pensiero dell’attuale cristianità questa è un’affermazione strana, per alcuni forse addirittura scandalosa. La parola "anima" è caduta in discredito. Si dice che questo porterebbe ad una divisione dell’uomo in spirito e fisico, in anima e corpo, mentre in realtà egli sarebbe un’unità indivisibile. Inoltre "la salvezza delle anime" come mèta della fede sembra indicare un cristianesimo individualistico, una perdita di responsabilità per il mondo nel suo insieme, nella sua corporeità e nella sua materialità. Ma di tutto questo non si trova nulla nella Lettera di san Pietro. Lo zelo per la testimonianza in favore della speranza, la responsabilità per gli altri caratterizzano l’intero testo. Per comprendere la parola sulla salvezza delle anime come mèta della fede dobbiamo partire da un altro lato. Resta vero che l’incuria per le anime, l’immiserirsi dell’uomo interiore non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità. La vera malattia delle anime san Pietro, alla nostra sorpresa, la qualifica come ignoranza – cioè come non conoscenza di Dio. Chi non conosce Dio, chi almeno non lo cerca sinceramente, resta fuori della vera vita (cfr 1 Pt 1, 14). Ancora un’altra parola della Lettera può esserci utile per capire meglio la formula "salvezza delle anime": "Purificate le vostre anime con l’obbedienza alla verità" (cfr 1, 22). È l’obbedienza alla verità che rende pura l’anima. Ed è il convivere con la menzogna che la inquina. L’obbedienza alla verità comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo. Tale obbedienza ci rende non solo puri, ma soprattutto anche liberi per il servizio a Cristo e così alla salvezza del mondo, che pur sempre prende inizio dalla purificazione obbediente della propria anima mediante la verità. Possiamo indicare la via verso la verità solo se noi stessi – in obbedienza e pazienza – ci lasciamo purificare dalla verità.

E ora mi rivolgo a voi, cari Confratelli nell’episcopato, che in quest’ora riceverete dalla mia mano il Pallio. È stato intessuto con la lana di agnelli che il Papa benedice nella festa di sant’Agnese. In questo modo esso ricorda gli agnelli e le pecore di Cristo, che il Signore risorto ha affidato a Pietro con il compito di pascerli (cfr Gv 21, 15-18). Ricorda il gregge di Gesù Cristo, che voi, cari Fratelli, dovete pascere in comunione con Pietro. Ci ricorda Cristo stesso, che come Buon Pastore ha preso sulle sue spalle la pecorella smarrita, l’umanità, per riportarla a casa. Ci ricorda il fatto che Egli, il Pastore supremo, ha voluto farsi Lui stesso Agnello, per farsi carico dal di dentro del destino di tutti noi; per portarci e risanarci dall’interno. Vogliamo pregare il Signore, affinché ci doni di essere sulle sue orme Pastori giusti, "non perché costretti, ma volentieri, come piace a Dio … con animo generoso … modelli del gregge" (1 Pt 5, 2s). Amen.

[01023-01.01] [Testo originale: Italiano]

TESTO IN LINGUA TEDESCA

Meine Herrn Kardinäle,
verehrte Mitbrüder im bischöflichen und im priesterlichen Dienst,
liebe Brüder und Schwestern!

Mit den Worten des Apostels, an dessen Grab wir uns befinden, begrüße ich Sie alle herzlich: „Gnade sei mit euch und Friede in Fülle" (1 Petr 1, 2). Insbesondere grüße die Delegationsmitglieder des Ökumenischen Patriarchats von Konstantinopel und die zahlreichen Metropoliten, die heute das Pallium empfangen. In der Oration dieses festlichen Tages bitten wir den Herrn: "Hilf deiner Kirche, in allem der Weisung deiner Boten zu folgen, durch die sie den Glauben … empfangen hat". Die Bitte, die wir an Gott richten, ist zugleich ein Anruf an uns selbst: Folgen wir der Lehre der großen Gründer-Apostel? Kennen wir sie überhaupt? Im nun zu Ende gegangenen Paulusjahr haben wir versucht, ihm, dem „Lehrer der Völker", neu zuzuhören und so das Alphabet des Glaubens neu zu erlernen. Wir haben versucht, mit Paulus und durch Paulus Christus zu erkennen und so zum rechten christlichen Leben zu finden. Im Kanon des Neuen Testaments sind neben den Paulus-Briefen auch zwei Briefe unter dem Namen des heiligen Petrus enthalten. Der erste davon schließt ausdrücklich mit einem Gruß aus Rom, das freilich unter dem apokalyptischen Decknamen Babylon erscheint: „Es grüßt euch die Mitauserwählte in Babylon…" (5, 13). Indem der Apostel die Kirche zu Rom die Mitauserwählte nennt, stellt er sie in die große Gemeinschaft aller Ortskirchen hinein – in die Gemeinschaft all derer, die Gott zusammen gerufen hat, damit sie im „Babylon" dieser Weltzeit sein Volk aufbauen und Gott einlassen in die Geschichte. Der 1. Petrus-Brief ist ein Gruß aus Rom an die ganze Christenheit aller Zeiten. Er lädt uns ein, die „Lehre der Apostel" zu hören, die uns den Weg zum Leben zeigt.

Dieser Brief ist ein überaus reicher, von Herzen kommender und zu Herzen gehender Text. Seine Mitte ist – wie könnte es anders sein – die Gestalt Christi, der als der Leidende und Liebende, als der Gekreuzigte und Auferstandene gezeichnet wird: „Er wurde geschmäht, schmähte aber nicht; er litt, drohte aber nicht… Durch seine Wunden seid ihr geheilt" (2, 23f). Von der Mitte Christus her ist der Brief dann auch eine Einführung in die christlichen Grundsakramente von Taufe und Eucharistie und eine Anrede an die Priester, in der Petrus sich als Mit-Presbyter mit ihnen bezeichnet. Er spricht zu den Hirten aller Generationen als derjenige, der selbst vom Herrn mit dem Weiden seiner Lämmer beauftragt worden war und so in besonderer Weise priesterliche Sendung empfangen hatte. Was also sagt uns – gerade im Jahr der Priester – der heilige Petrus über den Auftrag des Priesters? Zunächst – er versteht den priesterlichen Dienst ganz von Christus her. Er nennt Christus den „Hirten und Bischof der Seelen" (vgl. 2, 25). Das ist die wörtliche Übersetzung des griechischen Wortes epíscopos. Etwas später wird Christus als „oberster Hirte" bezeichnet: archipoimén (5, 4). Es wundert uns, daß Petrus Christus selbst als Bischof – Bischof der Seelen – bezeichnet. Was will er damit sagen? In dem griechischen Wort „epíscopos" steckt das Verbum „sehen"; so hat man es mit „Aufseher" übersetzt. Aber gemeint ist natürlich nicht eine äußerliche Beaufsichtigung, wie sie vielleicht einem Gefängniswärter zukommt. Gemeint ist vielmehr ein Sehen aus der Höhe heraus – ein Sehen von der Höhe Gottes her. Ein Sehen von Gott her ist ein Sehen der Liebe, das dem anderen dienen, ihm helfen will, wirklich er selbst zu werden. Christus ist der „Bischof der Seelen", sagt uns Petrus. Das bedeutet: Er sieht uns von Gott her. Von Gott her sehend überblickt man das Ganze, die Gefahren wie die Hoffnungen und Möglichkeiten. Von Gott her sieht man das Eigentliche, den inneren Menschen. Wenn Christus der Bischof der Seelen ist, geht es darum, daß die Seele nicht verkümmere im Menschen, daß der Mensch sein Eigentliches, die Fähigkeit zur Wahrheit und zur Liebe nicht verliere. Daß er Gott kennenlerne. Daß er sich nicht in Sackgassen verläuft. Daß er sich nicht in der Isolation verliert, sondern offen bleibt für das Ganze. Jesus, der „Bischof der Seelen", ist das Urbild alles bischöflichen und priesterlichen Dienstes. Bischof-sein, Priester-sein bedeutet von da aus: den Standort Christi annehmen. Von seiner Höhe her denken, sehen und handeln. Von ihm her für die Menschen da sein, damit sie das Leben finden.

So berührt sich das Wort „Bischof" ganz eng mit der Bezeichnung „Hirte", ja, es wird austauschbar damit. Aufgabe des Hirten ist das Weiden, das Hüten und das Führen der Herde zu den richtigen Weideorten. Weiden bedeutet: dafür sorgen, daß die Schafe die rechte Nahrung finden, daß ihr Hunger und ihr Durst gestillt werden. Ohne Bild sagt das: Das Wort Gottes ist die Nahrung, die der Mensch braucht. Das Wort Gottes immer neu gegenwärtig zu machen und so den Menschen Nahrung zu geben, ist Auftrag des rechten Hirten. Und er muß auch den Feinden, den Wölfen zu wehren wissen. Er muß vorausgehen, den Weg zeigen, die Einheit der Herde erhalten. Petrus stellt in seiner Anrede an die Presbyter noch etwas sehr Wichtiges heraus. Das Reden tut es nicht. Die Hirten müssen „Vorbilder für die Herde" (5, 3) werden. Das Wort Gottes wird aus der Vergangenheit dann in die Gegenwart geholt, wenn es gelebt wird. Es ist wunderbar zu sehen, wie in den Heiligen das Wort Gottes ein Wort an unsere Zeit wird. In Gestalten wie Franziskus und dann wieder wie Padre Pio und vielen anderen ist Christus wirklich Zeitgenosse ihrer Generation geworden, aus der Vergangenheit heraus in die Gegenwart hereingetreten. Das heißt Hirte sein – Vorbild für die Herde werden: Das Wort jetzt leben in der großen Gemeinschaft der heiligen Kirche.

Ganz kurz möchte ich noch auf zwei weitere Worte des 1. Petrus-Briefes hinweisen, die uns in unserer Zeit besonders angehen. Da ist zunächst der heute neu entdeckte Satz, von dem aus die mittelalterlichen Theologen ihren Auftrag verstanden, den Auftrag des Theologen: „Haltet in eurem Herzen Christus, den Herrn, heilig! Seid stets bereit, jedem Rede und Antwort zu stehen, der euch nach dem vernünftigen Grund der Hoffnung fragt, die euch erfüllt" (3, 15). Der christliche Glaube ist Hoffnung. Er öffnet den Weg in die Zukunft. Und er ist eine Hoffnung, die Vernunft hat; eine Hoffnung, deren Vernunft wir angeben können und müssen. Er kommt aus der ewigen Vernunft, die in unsere Welt hereingetreten ist und uns den wahren Gott gezeigt hat. Er geht über das eigene Vermögen unserer Vernunft hinaus, so wie Liebe mehr sieht als der bloße Verstand. Aber er redet zur Vernunft und kann im Disput der Vernunft standhalten. Er widerspricht ihr nicht, sondern er geht mit ihr Hand in Hand und führt zugleich über sie hinaus – in die größere Vernunft Gottes hinein. Als Hirten unserer Zeit ist uns aufgetragen, selber die Vernunft des Glaubens zu verstehen. Ihn nicht bloß Überlieferung bleiben zu lassen, sondern ihn als Antwort auf unsere Fragen zu erkennen. Der Glaube fordert unser Mitdenken, das sich im Mitlieben vertieft und reinigt. Es gehört zu unseren Aufgaben als Hirten, den Glauben mitzudenken, um fähig zu sein, den vernünftigen Grund unserer Hoffnung im Disput der Gegenwart zu zeigen. Freilich – Denken allein genügt nicht, so notwendig es auch ist. So wie Reden allein nicht genügt. Petrus spielt in seiner Tauf- und Eucharistie-Katechese im 2. Kapitel des Briefes auf den Kommunion-Psalm der frühen Kirche an, auf den Vers: „Kostet und seht, wie gütig der Herr ist" (Ps 34 [33], 9; 1 Petr 2, 3). Erst das Verkosten führt zum Sehen. Denken wir an die Jünger von Emmaus: Erst in der Tischgemeinschaft mit Jesus, erst im Brotbrechen öffnen sich ihre Augen. Erst in der erfahrenen Gemeinschaft mit dem Herrn werden sie sehend. Das gilt für uns alle: Über das Denken und Reden hinaus bedürfen wir der Erfahrung des Glaubens. Des lebendigen Umgangs mit Jesus Christus. Glaube darf nicht Theorie bleiben: Er muß Leben sein. Wenn wir im Sakrament dem Herrn begegnen; wenn wir im Gebet mit ihm sprechen; wenn wir in den Entscheidungen des Alltags uns Christus anschließen – dann „sehen" wir immer mehr, wie gut er ist. Dann erfahren wir, daß es gut ist, bei ihm zu sein. Aus solch erlebter Gewißheit kommt dann die Fähigkeit der glaubwürdigen Mitteilung an die anderen. Der Pfarrer von Ars war kein großer Denker. Aber er verkostete den Herrn. Er lebte mit ihm bis in die Kleinigkeiten des Alltags und bis in die großen Ansprüche des Hirtendienstes hinein. So wurde er ein „Sehender". Er hatte verkostet und wußte daher, daß der Herr gut ist. Bitten wir den Herrn, daß er uns dieses Verkosten schenkt und daß wir so glaubhafte Zeugen der Hoffnung werden können, die in uns ist.

Noch auf ein kleines, aber wichtiges Wort des heiligen Petrus möchte ich am Schluß hinweisen. Gleich zu Beginn des Briefes sagt er uns, das Ziel unseres Glaubens ist das Heil der Seelen (vgl. 1, 9). In der Sprach- und Denkwelt der gegenwärtigen Christenheit ist dies eine merkwürdige, für manche wohl fast anstößige Aussage. Das Wort „Seele" ist in Mißkredit geraten. Man sagt, es laufe auf eine Teilung des Menschen in Geist und Körper, in Seele und Leib hinaus, wo er doch eine unteilbare Einheit sei. Und „Heil der Seelen" als Ziel des Glaubens, das scheint auf ein individualistisches Christentum hinzuweisen, auf einen Verlust an Verantwortung für die Welt als ganzes in ihrer Leibhaftigkeit und Materialität. Aber davon ist im Brief des heiligen Petrus nichts zu finden. Die Leidenschaft für das Zeugnis der Hoffnung, die Verantwortung für die anderen prägt den ganzen Text. Um das Wort vom Heil der Seelen als Ziel des Glaubens zu verstehen, müssen wir von einer anderen Seite ausgehen. Es bleibt wahr, daß die Verwahrlosung der Seelen, die Verkümmerung des inneren Menschen nicht nur den einzelnen zerstört, sondern das Geschick der Menschheit als ganzer bedroht. Ohne Heilung der Seelen, ohne Heilung des Menschen von innen her kann es kein Heil für die Menschheit geben. Die eigentliche Krankheit der Seelen bezeichnet der heilige Petrus zu unserer Überraschung als Unwissenheit – nämlich als Unkenntnis Gottes. Wer Gott nicht kennt, ihn nicht wenigstens aufrichtig sucht, lebt am eigentlichen Leben vorbei (vgl. 1, 14). Noch ein zweites Wort des Briefes kann uns helfen, die Formel Heil der Seelen besser zu verstehen: „Reinigt eure Seelen im Gehorsam gegenüber der Wahrheit" (vgl. 1, 22). Es ist der Gehorsam gegenüber der Wahrheit, der die Seele rein macht. Und es ist das Leben mit der Lüge, das sie verunreinigt. Der Gehorsam der Wahrheit gegenüber beginnt mit den kleinen Wahrheiten des Alltags, die oft mühsam und schmerzlich sein können. Dieser Gehorsam reicht dann bis zum uneingeschränkten Gehorsam gegenüber der Wahrheit selbst, die Christus ist. Dieser Gehorsam macht uns nicht nur rein, sondern vor allem auch frei für den Dienst Christi und so für das Heil der Welt, das doch immer in der gehorsamen Reinigung der eigenen Seele durch die Wahrheit beginnt. Den Weg zur Wahrheit, zu Christus, können wir nur zeigen, wenn wir selbst gehorsam und geduldig uns von der Wahrheit reinigen lassen.

Und nun wende ich mich an Euch, liebe Brüder im Bischofsamt, die Ihr in dieser Stunde aus meiner Hand das Pallium empfangen werdet. Es ist aus der Wolle von Lämmern gewoben, die der Papst am Festtag der heiligen Agnes segnet. So erinnert es an die Lämmer und Schafe Christi, die der auferstandene Herr dem Petrus zu weiden aufgetragen hat (vgl Joh 21, 15 – 18). Es erinnert an die Herde Jesu Christi, die in Gemeinschaft mit Petrus zu weiden Euch, liebe Brüder, aufgegeben ist. Es erinnert uns an Christus selbst, der als der gute Hirte das verlorene Schaf, die Menschheit auf seine Schultern genommen hat, um es heimzutragen. Es erinnert uns daran, daß er, der oberste Hirte, selbst Lamm werden wollte, um unser aller Schicksal von innen her auf sich zu nehmen; uns von innen her zu tragen und zu heilen. Wir wollen den Herrn bitten, daß er uns schenkt, in seiner Nachfolge rechte Hirten zu sein, „nicht aus Zwang, sondern freiwillig, wie Gott es will … mit Hingabe … Vorbilder für die Herde" (1 Petr 5, 2f). Amen.

[01023-05.01] [Originalsprache: Deutsch]

[B0438-XX.02]