Alle ore 21 il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la solenne Veglia nella Notte Santa di Pasqua.
La Veglia ha inizio nell’atrio della Basilica di San Pietro con la benedizione del fuoco e l’accensione del cero pasquale. Alla processione verso l’Altare con il cero pasquale e il canto dell’Exsultet, fanno seguito la Liturgia della Parola, la Liturgia Battesimale e la Liturgia Eucaristica, concelebrata con i Cardinali.
Nel corso della Liturgia Battesimale, il Santo Padre amministra i sacramenti dell’iniziazione cristiana a 5 catecumeni provenienti da diversi Paesi.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
● OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle!
San Marco ci racconta nel suo Vangelo che i discepoli, scendendo dal monte della Trasfigurazione, discutevano tra di loro su che cosa volesse dire "risorgere dai morti" (cfr Mc 9, 10). Prima il Signore aveva annunciato loro la sua passione e la risurrezione dopo tre giorni. Pietro aveva protestato contro l’annuncio della morte. Ma ora si domandavano che cosa potesse essere inteso con il termine "risurrezione". Non succede forse la stessa cosa anche a noi? Il Natale, la nascita del Bambino divino ci è in qualche modo immediatamente comprensibile. Possiamo amare il Bambino, possiamo immaginare la notte di Betlemme, la gioia di Maria, la gioia di san Giuseppe e dei pastori e il giubilo degli angeli. Ma risurrezione – che cosa è? Non entra nell’ambito delle nostre esperienze, e così il messaggio spesso rimane in qualche misura incompreso, una cosa del passato. La Chiesa cerca di condurci alla sua comprensione, traducendo questo avvenimento misterioso nel linguaggio dei simboli nei quali possiamo in qualche modo contemplare questo evento sconvolgente. Nella Veglia Pasquale ci indica il significato di questo giorno soprattutto mediante tre simboli: la luce, l’acqua e il canto nuovo – l’alleluia.
C’è innanzitutto la luce. La creazione di Dio – ne abbiamo appena ascoltato il racconto biblico – comincia con la parola: "Sia la luce!" (Gen 1, 3). Dove c’è la luce, nasce la vita, il caos può trasformarsi in cosmo. Nel messaggio biblico, la luce è l’immagine più immediata di Dio: Egli è interamente Luminosità, Vita, Verità, Luce. Nella Veglia Pasquale, la Chiesa legge il racconto della creazione come profezia. Nella risurrezione si verifica in modo più sublime ciò che questo testo descrive come l’inizio di tutte le cose. Dio dice nuovamente: "Sia la luce!". La risurrezione di Gesù è un’eruzione di luce. La morte è superata, il sepolcro spalancato. Il Risorto stesso è Luce, la Luce del mondo. Con la risurrezione, il giorno di Dio entra nelle notti della storia. A partire dalla risurrezione, la luce di Dio si diffonde nel mondo e nella storia. Si fa giorno. Solo questa Luce – Gesù Cristo – è la Luce vera, più del fenomeno fisico di luce. Egli è la Luce pura: Dio stesso, che fa nascere una nuova creazione in mezzo a quella antica, trasforma il caos in cosmo.
Cerchiamo di comprendere questo ancora un po’ meglio. Perché Cristo è Luce? Nell’Antico Testamento, la Torah era considerata come la luce proveniente da Dio per il mondo e per gli uomini. Essa separa nella creazione la luce dalle tenebre, cioè il bene dal male. Indica all’uomo la via giusta per vivere veramente. Gli indica il bene, gli mostra la verità e lo conduce verso l’amore, che è il suo contenuto più profondo. Essa è "lampada" per i passi e "luce" sul cammino (cfr Sal 119, 105). I cristiani, poi, sapevano: in Cristo è presente la Torah, la Parola di Dio è presente in Lui come Persona. La Parola di Dio è la vera Luce di cui l’uomo ha bisogno. Questa Parola è presente in Lui, nel Figlio. Il Salmo 19 aveva paragonato la Torah al sole che, sorgendo, manifesta la gloria di Dio visibilmente in tutto il mondo. I cristiani capiscono: sì, nella risurrezione il Figlio di Dio è sorto come Luce sul mondo. Cristo è la grande Luce dalla quale proviene ogni vita. Egli ci fa riconoscere la gloria di Dio da un confine all’altro della terra. Egli ci indica la strada. Egli è il giorno di Dio che ora, crescendo, si diffonde per tutta la terra. Adesso, vivendo con Lui e per Lui, possiamo vivere nella luce.
Nella Veglia Pasquale, la Chiesa rappresenta il mistero di luce del Cristo nel segno del cero pasquale, la cui fiamma è insieme luce e calore. Il simbolismo della luce è connesso con quello del fuoco: luminosità e calore, luminosità ed energia di trasformazione contenuta nel fuoco – verità e amore vanno insieme. Il cero pasquale arde e con ciò si consuma: croce e risurrezione sono inseparabili. Dalla croce, dall’autodonazione del Figlio nasce la luce, viene la vera luminosità nel mondo. Al cero pasquale noi tutti accendiamo le nostre candele, soprattutto quelle dei neobattezzati, ai quali in questo Sacramento la luce di Cristo viene calata nel profondo del cuore. La Chiesa antica ha qualificato il Battesimo come fotismos, come Sacramento dell’illuminazione, come una comunicazione di luce e l’ha collegato inscindibilmente con la risurrezione di Cristo. Nel Battesimo Dio dice al battezzando: "Sia la luce!". Il battezzando viene introdotto entro la luce di Cristo. Cristo divide ora la luce dalle tenebre. In Lui riconosciamo che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è la luminosità e che cosa il buio. Con Lui sorge in noi la luce della verità e cominciamo a capire. Quando una volta Cristo vide la gente che era convenuta per ascoltarlo e aspettava da Lui un orientamento, ne sentì compassione, perché erano come pecore senza pastore (cfr Mc 6, 34). In mezzo alle correnti contrastanti del loro tempo non sapevano dove rivolgersi. Quanta compassione Egli deve sentire anche del nostro tempo – a causa di tutti i grandi discorsi dietro i quali si nasconde in realtà un grande disorientamento. Dove dobbiamo andare? Quali sono i valori, secondo cui possiamo regolarci? I valori secondo cui possiamo educare i giovani, senza dare loro delle norme che forse non resisteranno o esigere delle cose che forse non devono essere loro imposte? Egli è la Luce. La candela battesimale è il simbolo dell’illuminazione che nel Battesimo ci vien donata. Così in quest’ora anche san Paolo ci parla in modo molto immediato. Nella Lettera ai Filippesi dice che, in mezzo a una generazione tortuosa e stravolta, i cristiani dovrebbero risplendere come astri nel mondo (cfr Fil 2, 15). Preghiamo il Signore che il piccolo lume della candela, che Egli ha acceso in noi, la luce delicata della sua parola e del suo amore in mezzo alle confusioni di questo tempo non si spenga in noi, ma diventi sempre più grande e più luminosa. Affinché siamo con Lui persone del giorno, astri per il nostro tempo.
Il secondo simbolo della Veglia Pasquale – la notte del Battesimo – è l’acqua. Essa appare nella Sacra Scrittura, e quindi anche nella struttura interiore del Sacramento del Battesimo, in due significati opposti. C’è da una parte il mare che appare come il potere antagonista della vita sulla terra, come la sua continua minaccia, alla quale Dio, però, ha posto un limite. Per questo l’Apocalisse dice del mondo nuovo di Dio che lì il mare non ci sarà più (cfr 21, 1). È l’elemento della morte. E così diventa la rappresentazione simbolica della morte in croce di Gesù: Cristo è disceso nel mare, nelle acque della morte come Israele nel Mar Rosso. Risorto dalla morte, Egli ci dona la vita. Ciò significa che il Battesimo non è solo un lavacro, ma una nuova nascita: con Cristo quasi discendiamo nel mare della morte, per risalire come creature nuove.
L’altro modo in cui incontriamo l’acqua è come sorgente fresca, che dona la vita, o anche come il grande fiume da cui proviene la vita. Secondo l’ordinamento primitivo della Chiesa, il Battesimo doveva essere amministrato con acqua sorgiva fresca. Senza acqua non c’è vita. Colpisce quale importanza abbiano nella Sacra Scrittura i pozzi. Essi sono luoghi dove scaturisce la vita. Presso il pozzo di Giacobbe, Cristo annuncia alla Samaritana il pozzo nuovo, l’acqua della vita vera. Egli si manifesta a lei come il nuovo Giacobbe, quello definitivo, che apre all’umanità il pozzo che essa attende: quell’acqua che dona la vita che non s’esaurisce mai (cfr Gv 4, 5–15). San Giovanni ci racconta che un soldato con una lancia colpì il fianco di Gesù e che dal fianco aperto – dal suo cuore trafitto – uscì sangue e acqua (cfr Gv 19, 34). La Chiesa antica ne ha visto un simbolo per il Battesimo e l’Eucaristia che derivano dal cuore trafitto di Gesù. Nella morte Gesù è divenuto Egli stesso la sorgente. Il profeta Ezechiele in una visione aveva visto il Tempio nuovo dal quale scaturisce una sorgente che diventa un grande fiume che dona la vita (cfr Ez 47, 1–12) – in una Terra che sempre soffriva la siccità e la mancanza d’acqua, questa era una grande visione di speranza. La cristianità degli inizi capì: in Cristo questa visione si è realizzata. Egli è il vero, il vivente Tempio di Dio. E Lui è la sorgente di acqua viva. Da Lui sgorga il grande fiume che nel Battesimo fruttifica e rinnova il mondo; il grande fiume di acqua viva, il suo Vangelo che rende feconda la terra. Gesù ha però profetizzato una cosa ancora più grande. Dice: "Chi crede in me … dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva" (Gv 7, 38). Nel Battesimo il Signore fa di noi non solo persone di luce, ma anche sorgenti dalle quali scaturisce acqua viva. Noi tutti conosciamo persone simili che ci lasciano in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta e così via, persone attraverso le quali veramente fiumi di acqua viva sono entrati nella storia. Grazie a Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano: persone che sono una sorgente. Certo, conosciamo anche il contrario: persone dalle quali promana un’atmosfera come da uno stagno con acqua stantia o addirittura avvelenata. Chiediamo al Signore, che ci ha donato la grazia del Battesimo, di poter essere sempre sorgenti di acqua pura, fresca, zampillante dalla fonte della sua verità e del suo amore!
Il terzo grande simbolo della Veglia Pasquale è di natura tutta particolare; esso coinvolge l’uomo stesso. È il cantare il canto nuovo – l’alleluia. Quando un uomo sperimenta una grande gioia, non può tenerla per sé. Deve esprimerla, trasmetterla. Ma che cosa succede quando l’uomo viene toccato dalla luce della risurrezione e in questo modo viene a contatto con la Vita stessa, con la Verità e con l’Amore? Di ciò egli non può semplicemente parlare soltanto. Il parlare non basta più. Egli deve cantare. La prima menzione del cantare nella Bibbia, la troviamo dopo la traversata del Mar Rosso. Israele si è sollevato dalla schiavitù. È salito dalle profondità minacciose del mare. È come rinato. Vive ed è libero. La Bibbia descrive la reazione del popolo a questo grande evento del salvamento con la frase: "Il popolo credette nel Signore e in Mosè suo servo" (cfr Ex 14, 31). Ne segue poi la seconda reazione che, con una specie di necessità interiore, emerge dalla prima: "Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore…". Nella Veglia Pasquale, anno per anno, noi cristiani intoniamo dopo la terza lettura questo canto, lo cantiamo come il nostro canto, perché anche noi mediante la potenza di Dio siamo stati tirati fuori dall’acqua e liberati alla vita vera.
Per la storia del canto di Mosè dopo la liberazione di Israele dall’Egitto e dopo la risalita dal Mar Rosso, c’è un parallelismo sorprendente nell’Apocalisse di san Giovanni. Prima dell’inizio degli ultimi sette flagelli imposti alla terra, appare al veggente qualcosa "come un mare di cristallo misto a fuoco; coloro che avevano vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome, stavano in piedi sul mare di cristallo. Hanno cetre divine e cantano il canto di Mosè, il servo di Dio, e il canto dell’Agnello…" (Ap 15, 2s). Con questa immagine è descritta la situazione dei discepoli di Gesù Cristo in tutti i tempi, la situazione della Chiesa nella storia di questo mondo. Considerata umanamente, essa è in se stessa contraddittoria. Da una parte, la comunità si trova nell’Esodo, in mezzo al Mar Rosso. In un mare che, paradossalmente, è insieme ghiaccio e fuoco. E non deve forse la Chiesa, per così dire, camminare sempre sul mare, attraverso il fuoco e il freddo? Umanamente parlando, essa dovrebbe affondare. Ma, mentre cammina ancora in mezzo a questo Mar Rosso, essa canta – intona il canto di lode dei giusti: il canto di Mosè e dell’Agnello, in cui s’accordano l’Antica e la Nuova Alleanza. Mentre, tutto sommato, dovrebbe affondare, la Chiesa canta il canto di ringraziamento dei salvati. Essa sta sulle acque di morte della storia e tuttavia è già risorta. Cantando essa si aggrappa alla mano del Signore, che la tiene al di sopra delle acque. Ed essa sa che con ciò è sollevata fuori dalla forza di gravità della morte e del male – una forza dalla quale altrimenti non ci sarebbe via di scampo – sollevata e attirata dentro la nuova forza di gravità di Dio, della verità e dell’amore. Al momento, la Chiesa e noi tutti ci troviamo ancora tra i due campi gravitazionali. Ma da quando Cristo è risorto, la gravitazione dell’amore è più forte di quella dell’odio; la forza di gravità della vita è più forte di quella della morte. Non è forse questa veramente la situazione della Chiesa di tutti i tempi, la situazione nostra? Sempre c’è l’impressione che essa debba affondare, e sempre è già salvata. San Paolo ha illustrato questa situazione con le parole: "Siamo … come moribondi, e invece viviamo", (2 Cor 6, 9). La mano salvifica del Signore ci sorregge, e così possiamo cantare già ora il canto dei salvati, il canto nuovo dei risorti: alleluia! Amen.
[00563-01.02] [Testo originale: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE
Chers Frères et Sœurs !
Dans son Évangile saint Marc nous raconte que les disciples, en descendant du mont de la Transfiguration, discutaient entre eux, se demandant ce que voulait dire « ressusciter d’entre les morts » (cf. Mc 9,10). Peu avant, le Seigneur leur avait annoncé sa passion et sa résurrection après trois jours. Pierre avait protesté à l’annonce de sa mort. Mais maintenant, ils se demandaient comment pouvait être compris le terme de « résurrection ». Est-ce que cela ne nous arrive pas à nous aussi ? Noël, la naissance de l’Enfant divin, nous est en quelque sorte compréhensible de manière immédiate. Nous pouvons aimer l’Enfant, nous pouvons imaginer la nuit de Bethléem, la joie de Marie, la joie de saint Joseph et des bergers ainsi que la jubilation des anges. Mais la résurrection ? – qu’est-ce que c’est ? Cela n’entre pas dans le cadre de nos expériences, et ainsi le message reste souvent, dans une certaine mesure, incompris, il apparaît comme quelque chose du passé. L'Église essaie de nous introduire à sa compréhension, en traduisant cet événement mystérieux par le langage des symboles dans lesquels nous pouvons en quelque manière contempler ce fait bouleversant. Dans la Veillée pascale, elle nous montre la signification de ce jour essentiellement à travers trois symboles : la lumière, l’eau et le cantique nouveau – l’alléluia.
Il y a tout d’abord la lumière. La création de Dieu – dont nous venons d’entendre le récit biblique – commence par ces paroles : « Que la lumière soit ! » (Gn 1, 3). Là où il y a la lumière, la vie apparaît, le chaos peut se transformer en cosmos. Dans le message biblique, la lumière est l’image la plus immédiate de Dieu : Il est tout entier Clarté, Vie, Vérité, Lumière. Dans la Veillée pascale, l'Église lit le récit de la création comme une prophétie. Dans la résurrection, ce que ce texte décrit comme le début de toutes choses, s’accomplit d’une manière plus sublime. Dieu dit à nouveau : « Que la lumière soit ! ». La résurrection de Jésus est une irruption de lumière. La mort a été vaincue, le sépulcre est grand ouvert. Le Ressuscité est lui-même la Lumière, la Lumière du monde. Avec la résurrection, le jour de Dieu entre dans les nuits de l’histoire. A partir de la résurrection, la lumière de Dieu se répand dans le monde et dans l’histoire. Le jour se lève. Seule cette Lumière – Jésus Christ – est la lumière véritable, bien plus que le phénomène physique de lumière. Il est la Lumière pure : Dieu lui-même, qui fait naître une nouvelle création au cœur de l’ancienne, transforme le chaos en cosmos.
Efforçons-nous de comprendre cela un peu mieux encore. Pourquoi le Christ est-il Lumière ? Dans l’Ancien Testament, la Torah était considérée comme la lumière venant de Dieu pour le monde et pour les hommes. Dans la création elle sépare la lumière des ténèbres, c’est-à-dire le bien du mal. Elle indique à l’homme la voie juste pour qu’il puisse vivre véritablement. Elle lui indique le bien, elle lui montre la vérité et elle le conduit vers l’amour, qui est son contenu le plus profond. Elle est « une lampe» sur nos pas et « une lumière » sur le chemin (cf. Ps 118, 105). Les chrétiens d’ailleurs le savaient : la Torah est présente dans le Christ, la Parole de Dieu est présente en Lui en tant que Personne. La Parole de Dieu est la vraie Lumière dont l’homme a besoin. Cette Parole est présente en Lui, dans le Fils. Le Psaume 18 compare la Torah au soleil qui, à son lever, manifeste la gloire de Dieu de manière visible dans le monde entier. Les chrétiens comprennent : oui, dans la résurrection le Fils de Dieu a surgi comme Lumière sur le monde. Le Christ est la grande Lumière d’où provient toute vie. Il nous fait reconnaître la gloire de Dieu d’un bout du monde à l’autre. Il nous montre la route. Il est le jour de Dieu qui, désormais, à mesure qu’il grandit, se répand sur toute la terre. Maintenant, en vivant avec Lui et par Lui, nous pouvons vivre dans la lumière.
Dans la Veillée pascale, l'Église représente le mystère de lumière du Christ par le signe du cierge pascal, dont la flamme est à la fois lumière et chaleur. Le symbolisme de la lumière est lié à celui du feu : luminosité et chaleur, luminosité et énergie de transformation contenue dans le feu – vérité et amour vont ensemble. Le cierge pascal brûle et ainsi il se consume : la croix et la résurrection sont inséparables. De la croix, de l’autodonation du Fils, naît la lumière, advient la vraie luminosité du monde. C’est au cierge pascal que tous nous allumons notre cierge, surtout celui des nouveaux baptisés, pour lesquels le Sacrement fait descendre dans les profondeurs de leur cœur la lumière du Christ. L'Église antique qualifiait le Baptême de fotismos, sacrement de l’illumination, communication de la lumière, et elle le reliait inséparablement à la résurrection du Christ. Dans le Baptême, Dieu dit à celui qui va recevoir le sacrement : « Que la lumière soit ! ». Celui-ci est alors introduit dans la lumière du Christ. Le Christ sépare alors la lumière des ténèbres. En Lui nous pouvons reconnaître ce qui est vrai et ce qui est faux, ce qui est luminosité et ce qui est obscurité. Avec Lui, jaillit en nous la lumière de la vérité et nous commençons à comprendre. Lorsqu’un jour Jésus vit venir à lui les foules qui se rassemblaient pour l’écouter et qui attendaient de lui une orientation, il en eut pitié, car ils étaient comme des brebis sans berger (cf. Mc 6, 34). Au milieu des courants contraires de l’époque, ils ne savaient pas vers qui aller. Combien sa compassion doit être grande aussi pour notre temps devant tous les grands discours derrière lesquels se cache en réalité un profond désarrois ! Où devons-nous aller ? Quelles sont les valeurs sur lesquelles nous pouvons nous régler ? Les valeurs selon lesquelles nous pouvons éduquer les jeunes, sans leur donner des règles qui peut-être ne résisteront pas, ni exiger d’eux des choses qui peut-être ne doivent pas leur être imposées ? Il est la Lumière. Le cierge du baptême est le symbole de l’illumination qui nous est communiquée par le Sacrement. C’est ainsi, qu’en cette heure, saint Paul nous parle d’une manière très directe. Dans la Lettre aux Philippiens, il dit qu’au sein d’une génération dévoyée et pervertie les chrétiens doivent briller comme des astres dans l’univers (cf. Ph 2, 15). Prions le Seigneur pour qu’au milieu de la confusion de ce temps, la petite flamme du cierge qu’Il a allumée en nous, la lumière délicate de sa parole et de son amour, ne s’éteigne pas en nous, mais qu’elle grandisse et devienne toujours plus lumineuse. Afin que nous soyons, avec Lui, des fils du jour, des foyers de lumière pour notre temps.
Le deuxième symbole de la Veillée pascale – de la nuit du Baptême – est l’eau. Dans la Sainte Écriture, et donc également dans la structure intérieure du sacrement du Baptême, elle apparaît avec deux sens opposés. Il y a d’une part la mer qui est vue comme la puissance antagoniste de la vie sur la terre, comme une menace permanente, à laquelle toutefois Dieu a imposé une limite. Pour cette raison l’Apocalypse dit en parlant du monde nouveau de Dieu qu’il n’y aura plus de mer (cf. 21, 1). C’est l’élément de la mort. Et il devient ainsi la représentation symbolique de la mort de Jésus en croix : le Christ est descendu dans la mer, dans les eaux de la mort comme Israël dans la Mer Rouge. Relevé de la mort, Il nous donne la vie. Cela signifie que le Baptême n’est pas seulement un bain, mais une nouvelle naissance : avec le Christ nous descendons quasiment dans l’océan de la mort, pour remonter comme des créatures nouvelles.
L’eau nous est présentée aussi d’une autre manière : comme la source fraîche qui donne la vie, ou aussi comme le grand fleuve d’où provient la vie. Selon la règle primitive de l’Église, le Baptême devait être administré avec de l’eau de source vive. Sans eau, il n’y a pas de vie. L’importance que les puits revêtent dans la Sainte Écriture est frappante. Ce sont des lieux où jaillit la vie. Près du puits de Jacob, le Christ annonce à la Samaritaine le puits nouveau, l’eau de la vraie vie. Il se manifeste à elle comme le nouveau Jacob, le Jacob définitif, qui ouvre à l’humanité le puits qu’elle attend : l’eau qui donne la vie qui ne s’épuise jamais (cf. Jn 4, 5-15). Saint Jean nous raconte qu’un soldat avec une lance perça le côté de Jésus et que, de son côté ouvert – de son cœur transpercé –, sortit du sang et de l’eau (cf. Jn 19, 34). L’Église primitive y a vu un symbole du Baptême et de l’Eucharistie qui dérivent du cœur transpercé de Jésus. Dans la mort, Jésus est devenu Lui-même la source. Au cours d’une vision, le prophète Ézéchiel avait vu le nouveau Temple duquel jaillit une source qui devient un grand fleuve qui donne la vie (cf. Ez 47, 1-12) – dans une terre qui souffrait toujours de la soif et du manque d’eau, c’était là une grande vision d’espérance. La chrétienté des débuts a compris : dans le Christ, cette vision s’est réalisée. Il est le vrai et vivant Temple de Dieu. C’est Lui la source d’eau vive. De lui jaillit le grand fleuve qui, dans le Baptême, fait fructifier le monde et le renouvelle, le grand fleuve d’eau vive, son Évangile qui rend la terre féconde. Jésus a cependant prophétisé une chose encore plus grande. Il dit : « celui qui croit en moi… des fleuves d’eau vive jailliront de son cœur » (Jn 7, 38). Dans le Baptême, le Seigneur fait de nous non seulement des personnes de lumière, mais aussi des sources d’où jaillit l’eau vive. Nous connaissons tous de telles personnes, qui nous laissent en quelque sorte rafraîchis et renouvelés ; des personnes qui sont comme une source vive d’eau pure. Nous ne devons pas nécessairement penser à des personnes remarquables comme Augustin, François d’Assise, Thérèse d’Avila, Mère Teresa de Calcutta, etc., par lesquelles des fleuves d’eau vive sont vraiment entrées dans l’histoire. Dieu merci, ces personnes qui sont une source, nous les trouvons aussi continuellement dans notre vie quotidienne. Certes, nous rencontrons aussi le contraire : des personnes dont émane une atmosphère semblable à celle provenant d’un étang où l’eau stagne ou qui est même empoisonnée. Demandons au Seigneur, qui nous a donné la grâce du Baptême, de pouvoir être toujours des sources d’eau pure, fraîche, jaillissant de la source de sa vérité et de son amour !
Le troisième grand symbole de la Veillée pascale est de nature toute particulière ; il implique l’homme lui-même. C’est entonner le chant nouveau – l’alléluia. Quand un homme fait l’expérience d’une grande joie, il ne peut pas la garder pour lui. Il doit l’exprimer, la communiquer. Mais qu’arrive-t-il lorsqu’une personne est touchée par la lumière de la Résurrection et entre ainsi en contact avec la Vie même, avec la Vérité et avec l’Amour ? Elle ne peut pas se contenter simplement d’en parler. Parler ne suffit plus. Elle doit chanter. L’acte de chanter est mentionné pour la première fois dans la Bible après le passage de la Mer Rouge. Israël s’est libéré de l’esclavage. Il est sorti des profondeurs menaçantes de la mer. Il est comme né de nouveau. Il vit et il est libre. La Bible décrit la réaction du peuple face à ce grand événement du salut par la phrase : « Le peuple mit sa foi dans le Seigneur et dans son serviteur Moïse » (Ex 14, 31). Il s’ensuit la deuxième réaction qui, par une sorte de nécessité intérieure, surgit de la première : « Alors Moïse et les fils d’Israël chantèrent ce cantique au Seigneur… ». Durant la veillée pascale, chaque année, nous qui sommes chrétiens, nous entonnons après la troisième lecture ce chant, nous le chantons comme notre chant, parce que nous aussi, à travers la puissance de Dieu, nous avons été tirés hors de l’eau, libérés et rendus à la vraie vie.
En ce qui concerne l’histoire du chant de Moïse après la libération d’Israël de l’Égypte et après la remontée de la Mer Rouge, on trouve un parallélisme surprenant dans l’Apocalypse de saint Jean. Avant le début des sept derniers fléaux imposés à la terre, au voyant apparaît quelque chose « comme une mer transparente, et pleine de flammes ; et, debout au bord de cette mer transparente, il y avait tous ceux qui ont remporté la victoire sur la Bête, sur son image et le chiffre contenu dans les lettres de son nom. Ils tiennent en main les harpes de Dieu, et ils chantent le cantique de Moïse, le serviteur de Dieu, le cantique de l’Agneau… » (Ap 15, 2s). Cette image décrit la situation des disciples de Jésus Christ à toutes les époques, la situation de l’Église dans l’histoire de ce monde. Considérée humainement, elle est en elle-même contradictoire. D’un côté, la communauté se trouve dans l’Exode, au milieu de la Mer Rouge. Dans une mer qui, paradoxalement, est à la fois de glace et de feu. Et l’Église ne doit-elle pas toujours marcher, pour ainsi dire, sur la mer, à travers le froid et le feu ? Humainement parlant, elle devrait sombrer. Mais tandis qu’elle marche encore au milieu de la Mer Rouge, elle chante – elle entonne le chant de louange des justes : le chant de Moïse et de l’Agneau, dans lequel s’accordent l’Ancienne et la Nouvelle Alliance. Alors qu’au fond elle devrait sombrer, l’Église chante le chant d’action de grâce de ceux qui sont sauvés. Elle marche sur les eaux de mort de l’histoire et toutefois elle est déjà ressuscitée. En chantant, elle s’agrippe à la main du Seigneur, qui la tient au-dessus des eaux. Et elle sait qu’ainsi elle est hissée hors de la force de gravité de la mort et du mal – force à de laquelle il serait impossible autrement d’échapper – qu’elle est élevée et attirée au sein de la force de gravité de Dieu, de la vérité et de l’amour. Pour l’instant, l’Église et nous tous nous nous trouvons encore entre les deux champs de gravité. Mais depuis que le Christ est ressuscité, la gravitation de l’amour est plus forte que celle de la haine ; la force de gravité de la vie est plus forte que celle de la mort. N’est-ce pas là réellement la situation de l’Église de tout temps, notre situation ? On a toujours l’impression qu’elle doit sombrer et, toujours, elle est déjà sauvée. Saint Paul a décrit cette situation par ces mots : « On nous croit mourants, et nous sommes bien vivants » ( 2 Co 6, 9). La main salvatrice du Seigneur nous soutient, et ainsi nous pouvons chanter dès à présent le chant de ceux qui sont sauvés, le chant nouveau de ceux qui sont ressuscités : alléluia ! Amen.
[00563-03.01] [Texte original: Italien]
● TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
Dear Brothers and Sisters,
Saint Mark tells us in his Gospel that as the disciples came down from the Mount of the Transfiguration, they were discussing among themselves what "rising from the dead" could mean (cf. Mk 9:10). A little earlier, the Lord had foretold his passion and his resurrection after three days. Peter had protested against this prediction of death. But now, they were wondering what could be meant by the word "resurrection". Could it be that we find ourselves in a similar situation? Christmas, the birth of the divine Infant, we can somehow immediately comprehend. We can love the child, we can imagine that night in Bethlehem, Mary’s joy, the joy of Saint Joseph and the shepherds, the exultation of the angels. But what is resurrection? It does not form part of our experience, and so the message often remains to some degree beyond our understanding, a thing of the past. The Church tries to help us understand it, by expressing this mysterious event in the language of symbols in which we can somehow contemplate this astonishing event. During the Easter Vigil, the Church points out the significance of this day principally through three symbols: light, water, and the new song – the Alleluia.
First of all, there is light. God’s creation – which has just been proclaimed to us in the Biblical narrative – begins with the command: "Let there be light!" (Gen 1:3). Where there is light, life is born, chaos can be transformed into cosmos. In the Biblical message, light is the most immediate image of God: He is total Radiance, Life, Truth, Light. During the Easter Vigil, the Church reads the account of creation as a prophecy. In the resurrection, we see the most sublime fulfilment of what this text describes as the beginning of all things. God says once again: "Let there be light!" The resurrection of Jesus is an eruption of light. Death is conquered, the tomb is thrown open. The Risen One himself is Light, the Light of the world. With the resurrection, the Lord’s day enters the nights of history. Beginning with the resurrection, God’s light spreads throughout the world and throughout history. Day dawns. This Light alone – Jesus Christ – is the true light, something more than the physical phenomenon of light. He is pure Light: God himself, who causes a new creation to be born in the midst of the old, transforming chaos into cosmos.
Let us try to understand this a little better. Why is Christ Light? In the Old Testament, the Torah was considered to be like the light coming from God for the world and for humanity. The Torah separates light from darkness within creation, that is to say, good from evil. It points out to humanity the right path to true life. It points out the good, it demonstrates the truth and it leads us towards love, which is the deepest meaning contained in the Torah. It is a "lamp" for our steps and a "light" for our path (cf. Ps 119:105). Christians, then, knew that in Christ, the Torah is present, the Word of God is present in him as Person. The Word of God is the true light that humanity needs. This Word is present in him, in the Son. Psalm 19 had compared the Torah to the sun which manifests God’s glory as it rises, for all the world to see. Christians understand: yes indeed, in the resurrection, the Son of God has emerged as the Light of the world. Christ is the great Light from which all life originates. He enables us to recognize the glory of God from one end of the earth to the other. He points out our path. He is the Lord’s day which, as it grows, is gradually spreading throughout the earth. Now, living with him and for him, we can live in the light.
At the Easter Vigil, the Church represents the mystery of the light of Christ in the sign of the Paschal candle, whose flame is both light and heat. The symbolism of light is connected with that of fire: radiance and heat, radiance and the transforming energy contained in the fire – truth and love go together. The Paschal candle burns, and is thereby consumed: Cross and resurrection are inseparable. From the Cross, from the Son’s self-giving, light is born, true radiance comes into the world. From the Paschal candle we all light our own candles, especially the newly baptized, for whom the light of Christ enters deeply into their hearts in this Sacrament. The early Church described Baptism as fotismos, as the Sacrament of illumination, as a communication of light, and linked it inseparably with the resurrection of Christ. In Baptism, God says to the candidate: "Let there be light!" The candidate is brought into the light of Christ. Christ now divides the light from the darkness. In him we recognize what is true and what is false, what is radiance and what is darkness. With him, there wells up within us the light of truth, and we begin to understand. On one occasion when Christ looked upon the people who had come to listen to him, seeking some guidance from him, he felt compassion for them, because they were like sheep without a shepherd (cf. Mk 6:34). Amid the contradictory messages of that time, they did not know which way to turn. What great compassion he must feel in our own time too – on account of all the endless talk that people hide behind, while in reality they are totally confused. Where must we go? What are the values by which we can order our lives? The values by which we can educate our young, without giving them norms they may be unable to resist, or demanding of them things that perhaps should not be imposed upon them? He is the Light. The baptismal candle is the symbol of enlightenment that is given to us in Baptism. Thus at this hour, Saint Paul speaks to us with great immediacy. In the Letter to the Philippians, he says that, in the midst of a crooked and perverse generation, Christians should shine as lights in the world (cf. Phil 2:15). Let us pray to the Lord that the fragile flame of the candle he has lit in us, the delicate light of his word and his love amid the confusions of this age, will not be extinguished in us, but will become ever stronger and brighter, so that we, with him, can be people of the day, bright stars lighting up our time.
The second symbol of the Easter Vigil – the night of Baptism – is water. It appears in Sacred Scripture, and hence also in the inner structure of the Sacrament of Baptism, with two opposed meanings. On the one hand there is the sea, which appears as a force antagonistic to life on earth, continually threatening it; yet God has placed a limit upon it. Hence the book of Revelation says that in God’s new world, the sea will be no more (cf. 21:1). It is the element of death. And so it becomes the symbolic representation of Jesus’ death on the Cross: Christ descended into the sea, into the waters of death, as Israel did into the Red Sea. Having risen from death, he gives us life. This means that Baptism is not only a cleansing, but a new birth: with Christ we, as it were, descend into the sea of death, so as to rise up again as new creatures.
The other way in which we encounter water is in the form of the fresh spring that gives life, or the great river from which life comes forth. According to the earliest practice of the Church, Baptism had to be administered with water from a fresh spring. Without water there is no life. It is striking how much importance is attached to wells in Sacred Scripture. They are places from which life rises forth. Beside Jacob’s well, Christ spoke to the Samaritan woman of the new well, the water of true life. He reveals himself to her as the new, definitive Jacob, who opens up for humanity the well that is awaited: the inexhaustible source of life-giving water (cf. Jn 4:5-15). Saint John tells us that a soldier with a lance struck the side of Jesus, and from his open side – from his pierced heart – there came out blood and water (cf. Jn 19:34). The early Church saw in this a symbol of Baptism and Eucharist flowing from the pierced heart of Jesus. In his death, Jesus himself became the spring. The prophet Ezekiel saw a vision of the new Temple from which a spring issues forth that becomes a great life-giving river (cf. Ezek 47:1-12). In a land which constantly suffered from drought and water shortage, this was a great vision of hope. Nascent Christianity understood: in Christ, this vision was fulfilled. He is the true, living Temple of God. He is the spring of living water. From him, the great river pours forth, which in Baptism renews the world and makes it fruitful; the great river of living water, his Gospel which makes the earth fertile. Jesus, however, prophesied something still greater. He said: "Whoever believes in me … out of his heart shall flow rivers of living water" (Jn 7:38). In Baptism, the Lord makes us not only persons of light, but also sources from whi
ch living water bursts forth. We all know people like that, who leave us somehow refreshed and renewed; people who are like a fountain of fresh spring water. We do not necessarily have to think of great saints like Augustine, Francis of Assisi, Teresa of Avila, Mother Teresa of Calcutta and so on, people through whom rivers of living water truly entered into human history. Thanks be to God, we find them constantly even in our daily lives: people who are like a spring. Certainly, we also know the opposite: people who spread around themselves an atmosphere like a stagnant pool of stale, or even poisoned water. Let us ask the Lord, who has given us the grace of Baptism, for the gift always to be sources of pure, fresh water, bubbling up from the fountain of his truth and his love!
The third great symbol of the Easter Vigil is something rather different; it has to do with man himself. It is the singing of the new song – the alleluia. When a person experiences great joy, he cannot keep it to himself. He has to express it, to pass it on. But what happens when a person is touched by the light of the resurrection, and thus comes into contact with Life itself, with Truth and Love? He cannot merely speak about it. Speech is no longer adequate. He has to sing. The first reference to singing in the Bible comes after the crossing of the Red Sea. Israel has risen out of slavery. It has climbed up from the threatening depths of the sea. It is as it were reborn. It lives and it is free. The Bible describes the people’s reaction to this great event of salvation with the verse: "The people … believed in the Lord and in Moses his servant" (Ex 14:31). Then comes the second reaction which, with a kind of inner necessity, follows from the first one: "Then Moses and the Israelites sang this song to the Lord …" At the Easter Vigil, year after year, we Christians intone this song after the third reading, we sing it as our song, because we too, through God’s power, have been drawn forth from the water and liberated for true life.
There is a surprising parallel to the story of Moses’ song after Israel’s liberation from Egypt upon emerging from the Red Sea, namely in the Book of Revelation of Saint John. Before the beginning of the seven last plagues imposed upon the earth, the seer has a vision of something "like a sea of glass mingled with fire; and those who had conquered the beast and its image and the number of its name, standing beside the sea of glass with harps of God in their hands. And they sing the song of Moses, the servant of God, and the song of the Lamb …" (Rev 15:2f.). This image describes the situation of the disciples of Jesus Christ in every age, the situation of the Church in the history of this world. Humanly speaking, it is self-contradictory. On the one hand, the community is located at the Exodus, in the midst of the Red Sea, in a sea which is paradoxically ice and fire at the same time. And must not the Church, so to speak, always walk on the sea, through the fire and the cold? Humanly speaking, she ought to sink. But while she is still walking in the midst of this Red Sea, she sings – she intones the song of praise of the just: the song of Moses and of the Lamb, in which the Old and New Covenants blend into harmony. While, strictly speaking, she ought to be sinking, the Church sings the song of thanksgiving of the saved. She is standing on history’s waters of death and yet she has already risen. Singing, she grasps at the Lord’s hand, which holds her above the waters. And she knows that she is thereby raised outside the force of gravity of death and evil – a force from which otherwise there would be no way of escape – raised and drawn into the new gravitational force of God, of truth and of love. At present, the Church and all of us are still between the two gravitational fields. But once Christ is risen, the gravitational pull of love is stronger than that of hatred; the force of gravity of life is stronger than that of death. Perhaps this is actually the situation of the Church in every age, perhaps it is our situation? It always seems as if she ought to be sinking, and yet she is always already saved. Saint Paul illustrated this situation with the words: "We are as dying, and behold we live" (2 Cor 6:9). The Lord’s saving hand holds us up, and thus we can already sing the song of the saved, the new song of the risen ones: alleluia! Amen.
[00563-02.01] [Original text: Italian]
● TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA
Liebe Brüder und Schwestern!
Der heilige Markus erzählt uns in seinem Evangelium, daß die Jünger beim Herabsteigen vom Berg der Verklärung miteinander darüber diskutierten, was das bedeute: „von den Toten auferstehen". Der Herr hatte ihnen zuvor sein Leiden und die Auferstehung nach drei Tagen angekündigt. Petrus hatte Einspruch gegen die Ankündigung des Todes erhoben. Aber nun fragten sie sich, was denn mit Auferstehung gemeint sein könne. Geht es uns nicht auch so? Weihnachten, die Geburt des göttlichen Kindes, ist uns irgendwie unmittelbar zugänglich. Das Kind können wir lieben, uns die Nacht zu Bethlehem vorstellen, die Freude Marias, die Freude des heiligen Josefs und der Hirten und den Jubel der Engel. Aber Auferstehung – was ist das? In unserem Erfahrungskreis kommt das nicht vor, und so bleibt die Botschaft häufig irgendwie unbegriffen in der Vergangenheit stehen. Die Kirche versucht, uns zum Verstehen zu führen, indem sie dieses geheimnisvolle Ereignis in die Sprache der Symbole übersetzt, in denen wir irgendwie das Wesen dieses umwälzenden Geschehens anschauen können. In der Osternacht zeigt sie uns vor allem in drei Symbolen an, was dieser Tag bedeutet: das Licht, das Wasser und das neue Lied – das Halleluja.
Da ist zunächst das Licht. Gottes Schöpfung – so sagt uns der eben gehörte biblische Bericht – beginnt mit dem Wort: „Es werde Licht!" (Gen 1, 3). Wo Licht ist, da entsteht Leben, da kann aus Chaos Kosmos werden. Für den biblischen Bericht ist das Licht das unmittelbarste Abbild Gottes selbst: Er ist ganz Helligkeit, Leben, Wahrheit, Licht. Die Kirche liest den Schöpfungsbericht in der Osternacht als Prophetie. In der Auferstehung geschieht auf größere Weise das, was dieser Text als Anfang aller Dinge schildert. Gott sagt neu: Es werde Licht! Die Auferstehung Jesu ist eine Eruption des Lichts. Tod wird überwunden, das Grab aufgerissen. Der Auferstandene selbst ist Licht, das Licht der Welt. Mit der Auferstehung tritt der Tag Gottes in die Nächte der Geschichte hinein. Von der Auferstehung her verbreitet sich Gottes Licht durch die Welt und die Geschichte. Es wird Tag. Erst dieses Licht – Jesus Christus – ist das wahre Licht, mehr als das physikalische Phänomen Licht. Er ist das reine Licht: Gott selbst, der eine neue Schöpfung mitten in der alten werden läßt, Chaos zu Kosmos gestaltet.
Versuchen wir, das noch etwas näher zu verstehen. Wieso ist Christus Licht? Im Alten Testament wurde die Tora als das von Gott kommende Licht für die Welt und für die Menschen angesehen. Sie scheidet in der Schöpfung Licht und Finsternis, das heißt gut und böse. Sie zeigt dem Menschen, wo der rechte Weg verläuft, um wirklich zu leben. Sie zeigt ihm das Gute, zeigt ihm die Wahrheit und führt ihn zur Liebe, die ihr tiefster Inhalt ist. Sie ist „Leuchte für den Fuß und Licht für den Pfad" (Ps 119, 105). Und nun wußten die Christen: In Christus ist die Tora, in ihm ist Gottes Wort als Person da. Gottes Wort ist das eigentliche Licht, das der Mensch braucht. Dieses Wort ist in ihm, dem Sohn, gegenwärtig. Der Psalm 19 hatte die Tora mit der aufgehenden Sonne verglichen, die Gottes Herrlichkeit über die weite Welt hin sichtbar zeigt. Die Christen begreifen: Ja, Gottes Sohn ist als Licht aufgegangen über der Welt in der Auferstehung. Christus ist das große Licht, von dem alles Leben kommt. Er läßt uns Gottes Herrlichkeit erkennen von einem Ende der Erde bis zum anderen. Er zeigt uns den Weg. Er ist Gottes Tag, der sich nun wachsend ausbreitet über die Erde. Nun können wir im Licht leben, indem wir mit ihm und für ihn leben.
In der Osternacht stellt die Kirche das Lichtgeheimnis Christi im Zeichen der Osterkerze dar, deren Flamme zugleich Licht und Wärme ist. Die Symbolik des Lichts ist mit der des Feuers verbunden: Helligkeit und Wärme, Helligkeit und Energie der Verwandlung, die im Feuer liegt – Wahrheit und Liebe gehören zusammen. Die Osterkerze brennt und verzehrt sich dabei: Kreuz und Auferstehung sind untrennbar. Aus dem Kreuz, dem Sichgeben des Sohnes, kommt das Licht, kommt die wahre Helligkeit in die Welt. An der Osterkerze entzünden wir alle unsere Kerzen, besonders die Kerzen der Neugetauften, denen in diesem Sakrament das Licht Christi ins Herz gesenkt wird. Die alte Kirche hat die Taufe als Photismos, als Sakrament der Erleuchtung, als Licht-Mitteilung bezeichnet und sie untrennbar mit der Auferstehung Christi verbunden. In der Taufe sagt Gott zum Täufling: Es werde Licht! Der Täufling wird ins Licht Christi hineingehalten. Christus scheidet nun zwischen Licht und Finsternis. An ihm erkennen wir, was wahr und was falsch, was Helligkeit und was Dunkel ist. Mit ihm geht uns das Licht der Wahrheit auf. Als Christus einmal die Menschen sah, die zusammengekommen waren, um ihn zu hören, und von ihm Orientierung erwarteten, hatte er Mitleid mit ihnen, weil sie wie Schafe ohne Hirten waren (vgl. Mk 6, 34). Inmitten der einander widerstreitenden Strömungen ihrer Zeit wußten sie nicht, woran sich halten. Wieviel Mitleid muß er auch mit unserer Zeit empfinden – ob all des großen Geredes, in dem sich doch eine große Orientierungslosigkeit verbirgt. Wohin sollen wir gehen? Was sind die Werte, an die wir uns halten können? Die Werte, nach denen wir erziehen dürfen, ohne den jungen Menschen aufzuerlegen, was vielleicht nicht standhält und nicht auferlegt werden darf? Er ist das Licht. Die Taufkerze ist Sinnbild für die Erleuchtung, die uns in der Taufe geschenkt wird. So spricht in dieser Stunde auch der heilige Paulus ganz unmittelbar zu uns. Im Philipper-Brief sagt er, in einer verkehrten und verwirrten Generation sollten die Christen als Lichter in der Welt leuchten (vgl. Phil 2, 15). Bitten wir den Herrn, daß das kleine Licht der Kerze, das er in uns entzündet hat, das leise Licht seines Wortes und seiner Liebe in uns in den Wirren dieser Zeit nicht ausgelöscht, sondern heller und größer wird. Daß wir mit ihm Menschen des Tages seien, Lichter für unsere Zeit.
Das zweite große Symbol der Osternacht – der Taufnacht – ist das Wasser. Es erscheint in der Heiligen Schrift und so auch im inneren Aufbau des Taufsakraments in zwei gegensätzlichen Bedeutungen. Da ist zum einen das Meer, das als die Gegenmacht zum Leben auf der Erde erscheint, als deren immerwährende Bedrohung, der Gott freilich eine Grenze gesetzt hat. Deshalb sagt die Apokalypse von der neuen Welt Gottes, daß es da das Meer nicht mehr gebe (vgl. 21, 1). Es ist das Element des Todes. Und so wird es zur symbolischen Darstellung von Christi Tod am Kreuz: Christus ist in das Meer, in die Wasser des Todes hinabgestiegen wie Israel in das Rote Meer. Aus dem Tod auferstanden schenkt er uns das Leben. Das bedeutet, daß die Taufe nicht nur Waschung ist, sondern Neugeburt: Wir steigen gleichsam mit Christus in das Meer des Todes hinunter, um als neue Geschöpfe heraufzusteigen.
Die zweite Weise, in der uns das Wasser begegnet, ist die frische Quelle, die Leben gibt oder auch der große Strom, von dem Leben ausgeht. Die Taufe sollte nach der frühen Ordnung der Kirche mit frischem, quellendem Wasser gespendet werden. Ohne Wasser kein Leben. In der Heiligen Schrift fällt auf, welche Bedeutung die Brunnen haben. Sie stehen als Quellorte des Lebens da. Christus kündet der Samariterin am Jakobsbrunnen den neuen Brunnen, das wirkliche Lebenswasser an. Er zeigt sich ihr als der neue, endgültige Jakob, der der Menschheit den Brunnen öffnet, auf den sie wartet: das Wasser, das nie versiegendes Leben gibt (vgl. Joh 4, 5–15). Der heilige Johannes erzählt uns, daß ein Soldat die Seite Christi mit der Lanze durchstieß und daß aus der geöffneten Seite des Herrn – aus seinem durchbohrten Herzen – Blut und Wasser kamen (vgl. Joh 19, 34). Die alte Kirche hat darin ein Sinnbild für Taufe und Eucharistie gesehen, die aus dem durchbohrten Herzen Jesu kommen. Jesus ist im Tod selbst zur Quelle geworden. Der Prophet Ezechiel hatte in einer Vision den neuen Tempel gesehen, aus dem eine Quelle entspringt, die zum großen, lebenspendenden Strom wird (vgl. Ez 47, 1–12) – in einem Land, das immer unter Dürre und Mangel an Wasser litt, eine große Vision der Hoffnung. Die frühe Christenheit begriff: In Christus ist diese Vision wahr geworden. Er ist der wahre, der lebendige Tempel Gottes. Und er ist Quell lebendigen Wassers. Von ihm geht der große Strom aus, der in der Taufe die Welt befruchtet und erneuert; der große Strom lebendigen Wassers, sein Evangelium, das die Erde Frucht tragen läßt. Jesus hat aber noch Größeres prophezeit. Er sagt: „Wer an mich glaubt…, aus dessen Innerem werden Ströme lebendigen Wassers fließen" (Joh 7, 38). In der Taufe macht uns der Herr nicht nur zu Lichtmenschen, sondern auch zu Quellen, von denen lebendiges Wasser ausgeht. Wir alle kennen solche Menschen, von denen wir irgendwie erfrischt und erneuert weggehen. Von denen etwas ausgeht wie frisches Quellwasser. Wir brauchen da gar nicht an die Großen zu denken wie Augustinus, Franz von Assisi, Teresa von Avila, Mutter Teresa und so fort, von denen wirklich Ströme lebendigen Wassers in die Geschichte gekommen sind. Im Alltag finden wir sie gottlob immer wieder, Menschen, die Quelle sind. Und freilich kennen wir auch das Umgekehrte: Menschen, von denen eine Atmosphäre kommt wie von einem Tümpel mit abgestandenem oder gar vergiftetem Wasser. Bitten wir den Herrn, der uns die Gnade der Taufe geschenkt hat, daß wir immer Quellen reinen, frischen, lebendigen Wassers aus der Quelle seiner Wahrheit und Liebe seien!
Das dritte große Symbol der Osternacht ist ganz eigener Art; es bezieht den Menschen mit ein. Es ist das Singen des neuen Liedes – Halleluja. Wenn ein Mensch von einer großen Freude getroffen wird, dann kann er sie nicht für sich behalten. Er muß sie aussprechen, sie weitergeben. Was aber geschieht, wenn der Mensch vom Licht der Auferstehung berührt wird und dadurch das Leben selbst, die Wahrheit, die Liebe anrührt? Davon kann er nicht einfach nur sprechen. Das Reden reicht nicht mehr aus. Er muß singen. Die erste Erwähnung des Singens finden wir in der Bibel nach dem Durchzug durch das Rote Meer. Israel ist aus der Knechtschaft heraufgestiegen. Es ist heraufgestiegen aus der drohenden Tiefe des Meeres. Es ist wie neu geboren. Es lebt, und es ist frei. Die Bibel beschreibt die Reaktion des Volkes auf dieses große Ereignis der Rettung mit dem Satz: „Sie glaubten an den Herrn und an Mose, seinen Knecht" (Ex 14, 31). Darauf folgt dann eine zweite Reaktion, die aus der ersten mit einer Art innerer Notwendigkeit aufsteigt: „Damals sang Mose mit den Israeliten dem Herrn dieses Lied…" In der Osternacht stimmen wir Christen nach der dritten Lesung Jahr um Jahr in dieses Lied ein, singen es als unser Lied, weil auch wir durch Gottes Macht „aus dem Wasser" gezogen sind, zum wirklichen Leben befreit.
Zu der Geschichte vom Lied des Mose nach der Rettung Israels aus Ägypten und nach dem Aufstieg aus dem Roten Meer gibt es eine merkwürdige Parallele in der Apokalypse des heiligen Johannes. Vor dem Beginn der letzten sieben Plagen, die über die Erde verhängt sind, erscheint dem Seher „etwas, das einem gläsernen Meer glich und mit Feuer durchsetzt war. Und die Sieger über das Tier, über sein Standbild und über die Zahl seines Namens standen auf dem gläsernen Meer und trugen die Harfen Gottes. Sie sangen das Lied des Mose, des Knechtes Gottes, und das Lied zu Ehren des Lammes…" (Apk 15, 2f). Mit diesem Bild wird die Situation der Jünger Jesu Christi zu allen Zeiten, die Situation der Kirche in der Geschichte dieser Welt beschrieben. Menschlich gesehen ist sie widersprüchlich. Einerseits steht diese Gemeinschaft im Exodus, mitten im Roten Meer. In einem Meer, das paradoxerweise zugleich Eis und Feuer ist. Und muß nicht die Kirche sozusagen immer über das Meer wandern, durch Feuer und Kälte? Sie muß – menschlich gesprochen – untergehen. Aber während sie noch mitten in diesem Roten Meer wandert, singt sie, singt sie das Loblied der Gerechten: das Lied des Mose und des Lammes, in dem Alter und Neuer Bund zusammenklingen. Während sie eigentlich untergehen muß, singt sie das Danklied der Geretteten. Sie steht auf den Todeswassern der Geschichte und ist doch schon auferstanden. Singend greift sie nach der Hand des Herrn, der sie über den Wassern hält. Und sie weiß, daß sie damit aus der sonst unentrinnbaren Schwerkraft des Todes und des Bösen hinausgehoben ist in die neue Schwerkraft Gottes, der Wahrheit und der Liebe hinein. Noch ist sie, sind wir alle zwischen beiden Gravitationsfeldern. Aber seit Christus auferstanden ist, ist die Gravitation der Liebe stärker als die des Hasses; die Schwerkraft des Lebens stärker als die des Todes. Ist das nicht wirklich die Situation der Kirche aller Zeiten, unsere Situation? Immer scheint sie untergehen zu müssen, und immer ist sie schon gerettet. „Wir sind wie Sterbende und seht: wir leben", hat der heilige Paulus diese Situation formuliert (2 Kor 6, 9). Die rettende Hand des Herrn hält uns, und so können wir jetzt schon das Lied der Geretteten, das neue Lied der Auferstandenen singen: Halleluja. Amen.
[00563-05.01] [Originalsprache: Italienisch]
● TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA
Queridos hermanos y hermanas
San Marcos nos relata en su Evangelio que los discípulos, bajando del monte de la Transfiguración, discutían entre ellos sobre lo quería decir «resucitar de entre los muertos» (cf. Mc 9,10). Antes, el Señor les había anunciado su pasión y su resurrección a los tres días. Pedro había protestado ante el anuncio de la muerte. Pero ahora se preguntaban qué podía entenderse con el término «resurrección». ¿Acaso no nos sucede lo mismo a nosotros? La Navidad, el nacimiento del Niño divino, nos resulta enseguida hasta cierto punto comprensible. Podemos amar al Niño, podemos imaginar la noche de Belén, la alegría de María, de san José y de los pastores, el júbilo de los ángeles. Pero resurrección, ¿qué es? No entra en el ámbito de nuestra experiencia y, así, el mensaje muchas veces nos parece en cierto modo incomprensible, como una cosa del pasado. La Iglesia trata de hacérnoslo comprender traduciendo este acontecimiento misterioso al lenguaje de los símbolos, en los que podemos contemplar de alguna manera este acontecimiento sobrecogedor. En la Vigilia Pascual nos indica el sentido de este día especialmente mediante tres símbolos: la luz, el agua y el canto nuevo, el Aleluya.
Primero la luz. La creación de Dios – lo acabamos de escuchar en el relato bíblico – comienza con la expresión: «Que exista la luz» (Gn 1,3). Donde hay luz, nace la vida, el caos puede transformarse en cosmos. En el mensaje bíblico, la luz es la imagen más inmediata de Dios: Él es todo Luminosidad, Vida, Verdad, Luz. En la Vigilia Pascual, la Iglesia lee la narración de la creación como profecía. En la resurrección se realiza del modo más sublime lo que este texto describe como el principio de todas las cosas. Dios dice de nuevo: «Que exista la luz». La resurrección de Jesús es un estallido de luz. Se supera la muerte, el sepulcro se abre de par en par. El Resucitado mismo es Luz, la luz del mundo. Con la resurrección, el día de Dios entra en la noche de la historia. A partir de la resurrección, la luz de Dios se difunde en el mundo y en la historia. Se hace de día. Sólo esta Luz, Jesucristo, es la luz verdadera, más que el fenómeno físico de luz. Él es la pura Luz: Dios mismo, que hace surgir una nueva creación en aquella antigua, y transforma el caos en cosmos.
Tratemos de entender esto aún mejor. ¿Por qué Cristo es Luz? En el Antiguo Testamento, se consideraba a la Torah como la luz que procede de Dios para el mundo y la humanidad. Separa en la creación la luz de las tinieblas, es decir, el bien del mal. Indica al hombre la vía justa para vivir verdaderamente. Le indica el bien, le muestra la verdad y lo lleva hacia el amor, que es su contenido más profundo. Ella es «lámpara para mis pasos» y «luz en el sendero» (cf. Sal 119,105). Además, los cristianos sabían que en Cristo está presente la Torah, que la Palabra de Dios está presente en Él como Persona. La Palabra de Dios es la verdadera Luz que el hombre necesita. Esta Palabra está presente en Él, en el Hijo. El Salmo 19 compara la Torah con el sol que, al surgir, manifiesta visiblemente la gloria de Dios en todo el mundo. Los cristianos entienden: sí, en la resurrección, el Hijo de Dios ha surgido como Luz del mundo. Cristo es la gran Luz de la que proviene toda vida. Él nos hace reconocer la gloria de Dios de un confín al otro de la tierra. Él nos indica la senda. Él es el día de Dios que ahora, avanzando, se difunde por toda la tierra. Ahora, viviendo con Él y por Él, podemos vivir en la luz.
En la Vigilia Pascual, la Iglesia representa el misterio de luz de Cristo con el signo del cirio pascual, cuya llama es a la vez luz y calor. El simbolismo de la luz se relaciona con el del fuego: luminosidad y calor, luminosidad y energía transformadora del fuego: verdad y amor van unidos. El cirio pascual arde y, al arder, se consume: cruz y resurrección son inseparables. De la cruz, de la autoentrega del Hijo, nace la luz, viene la verdadera luminosidad al mundo. Todos nosotros encendemos nuestras velas del cirio pascual, sobre todo las de los recién bautizados, a los que, en este Sacramento, se les pone la luz de Cristo en lo más profundo de su corazón. La Iglesia antigua ha calificado el Bautismo como fotismos, como Sacramento de la iluminación, como una comunicación de luz, y lo ha relacionado inseparablemente con la resurrección de Cristo. En el Bautismo, Dios dice al bautizando: «Recibe la luz». El bautizando es introducido en la luz de Cristo. Ahora, Cristo separa la luz de las tinieblas. En Él reconocemos lo verdadero y lo falso, lo que es la luminosidad y lo que es la oscuridad. Con Él surge en nosotros la luz de la verdad y empezamos a entender. Una vez, cuando Cristo vio a la gente que había venido para escucharlo y esperaba de Él una orientación, sintió lástima de ellos, porque andaban como ovejas sin pastor (cf. Mc 6,34). Entre las corrientes contrastantes de su tiempo, no sabían dónde ir. Cuánta compasión debe sentir Cristo también en nuestro tiempo por tantas grandilocuencias, tras las cuales se esconde en realidad una gran desorientación. ¿Dónde hemos de ir? ¿Cuáles son los valores sobre los cuales regularnos? ¿Los valores en que podemos educar a los jóvenes, sin darles normas que tal vez no aguantan o exigirles algo que quizás no se les debe imponer? Él es la Luz. El cirio bautismal es el símbolo de la iluminación que recibimos en el Bautismo. Así, en esta hora, también san Pablo nos habla muy directamente. En la Carta a los Filipenses, dice que, en medio de una generación tortuosa y convulsa, los cristianos han de brillar como lumbreras del mundo (cf. 2,15). Pidamos al Señor que la llamita de la vela, que Él ha encendido en nosotros, la delicada luz de su palabra y su amor, no se apague entre las confusiones de estos tiempos, sino que sea cada vez más grande y luminosa, con el fin de que seamos con Él personas amanecidas, astros para nuestro tiempo.
El segundo símbolo de la Vigilia Pascual – la noche del Bautismo – es el agua. Aparece en la Sagrada Escritura y, por tanto, también en la estructura interna del Sacramento del Bautismo en dos sentidos opuestos. Por un lado está el mar, que se manifiesta como el poder antagonista de la vida sobre la tierra, como su amenaza constante, pero al que Dios ha puesto un límite. Por eso, el Apocalipsis dice que en el mundo nuevo de Dios ya no habrá mar (cf. 21,1). Es el elemento de la muerte. Y por eso se convierte en la representación simbólica de la muerte en cruz de Jesús: Cristo ha descendido en el mar, en las aguas de la muerte, como Israel en el Mar Rojo. Resucitado de la muerte, Él nos da la vida. Esto significa que el Bautismo no es sólo un lavacro, sino un nuevo nacimiento: con Cristo es como si descendiéramos en el mar de la muerte, para resurgir como criaturas nuevas.
El otro modo en que aparece el agua es como un manantial fresco, que da la vida, o también como el gran río del que proviene la vida. Según el primitivo ordenamiento de la Iglesia, se debía administrar el Bautismo con agua fresca de manantial. Sin agua no hay vida. Impresiona la importancia que tienen los pozos en la Sagrada Escritura. Son lugares de donde brota la vida. Junto al pozo de Jacob, Cristo anuncia a la Samaritana el pozo nuevo, el agua de la vida verdadera. Él se manifiesta como el nuevo Jacob, el definitivo, que abre a la humanidad el pozo que ella espera: ese agua que da la vida y que nunca se agota (cf. Jn 4,5.15). San Juan nos dice que un soldado golpeó con una lanza el costado de Jesús, y que del costado abierto, del corazón traspasado, salió sangre y agua (cf. Jn 19,34). La Iglesia antigua ha visto aquí un símbolo del Bautismo y la Eucaristía, que provienen del corazón traspasado de Jesús. En la muerte, Jesús se ha convertido Él mismo en el manantial. El profeta Ezequiel percibió en una visión el Templo nuevo del que brota un manantial que se transforma en un gran río que da la vida (cf. 47,1-12): en una Tierra que siempre sufría la sequía y la falta de agua, ésta era una gran visión de esperanza. El cristianismo de los comienzos entendió que esta visión se ha cumplido en Cristo. Él es el Templo auténtico y vivo de Dios. Y es la fuente de agua viva. De Él brota el gran río que fructifica y renueva el mundo en el Bautismo, el gran río de agua viva, su Evangelio que fecunda la tierra. Pero Jesús ha profetizado en un discurso durante la Fiesta de las Tiendas algo más grande aún. Dice: «El que cree en mí ... de sus entrañas manarán torrentes de agua viva» (Jn 7,38). En el Bautismo, el Señor no sólo nos convierte en personas de luz, sino también en fuentes de las que brota agua viva. Todos nosotros conocemos personas de este tipo, que nos dejan en cierto modo sosegados y renovados; personas que son como el agua fresca de un manantial. No hemos de pensar sólo en los grandes personajes, como Agustín, Francisco de Asís, Teresa de Ávila, Madre Teresa de Calcuta, y así sucesivamente; personas por las que han entrado en la historia realmente ríos de agua viva. Gracias a Dios, las encontramos continuamente también en nuestra vida cotidiana: personas que son una fuente. Ciertamente, conocemos también lo opuesto: gente de la que promana un vaho como el de un charco de agua putrefacta, o incluso envenenada. Pidamos al Señor, que nos ha dado la gracia del Bautismo, que seamos siempre fuentes de agua pura, fresca, saltarina del manantial de su verdad y de su amor.
El tercer gran símbolo de la Vigilia Pascual es de naturaleza singular, y concierne al hombre mismo. Es el cantar el canto nuevo, el aleluya. Cuando un hombre experimenta una gran alegría, no puede guardársela para sí mismo. Tiene que expresarla, transmitirla. Pero, ¿qué sucede cuando el hombre se ve alcanzado por la luz de la resurrección y, de este modo, entra en contacto con la Vida misma, con la Verdad y con el Amor? Simplemente, que no basta hablar de ello. Hablar no es suficiente. Tiene que cantar. En la Biblia, la primera mención de este cantar se encuentra después de la travesía del Mar Rojo. Israel se ha liberado de la esclavitud. Ha salido de las profundidades amenazadoras del mar. Es como si hubiera renacido. Está vivo y libre. La Biblia describe la reacción del pueblo a este gran acontecimiento de salvación con la expresión: «El pueblo creyó en el Señor y en Moisés, su siervo» (cf. Ex 14,31). Sigue a continuación la segunda reacción, que se desprende de la primera como una especie de necesidad interior: «Entonces Moisés y los hijos de Israel cantaron un cántico al Señor». En la Vigilia Pascual, año tras año, los cristianos entonamos después de la tercera lectura este canto, lo entonamos como nuestro cántico, porque también nosotros, por el poder de Dios, hemos sido rescatados del agua y liberados para la vida verdadera.
La historia del canto de Moisés tras la liberación de Israel de Egipto y el paso del Mar Rojo, tiene un paralelismo sorprendente en el Apocalipsis de san Juan. Antes del comienzo de las últimas siete plagas a las que fue sometida la tierra, al vidente se le aparece «una especie de mar de vidrio veteado de fuego; en la orilla estaban de pie los que habían vencido a la bestia, a su imagen y al número que es cifra de su nombre: tenían en sus manos las arpas que Dios les había dado. Cantaban el cántico de Moisés, el siervo de Dios, y el cántico del Cordero» (Ap 15,2s). Con esta imagen se describe la situación de los discípulos de Jesucristo en todos los tiempos, la situación de la Iglesia en la historia de este mundo. Humanamente hablando, es una situación contradictoria en sí misma. Por un lado, se encuentra en el éxodo, en medio del Mar Rojo. En un mar que, paradójicamente, es a la vez hielo y fuego. Y ¿no debe quizás la Iglesia, por decirlo así, caminar siempre sobre el mar, a través del fuego y del frío? Considerándolo humanamente, debería hundirse. Pero mientras aún camina por este Mar Rojo, canta, entona el canto de alabanza de los justos: el canto de Moisés y del Cordero, en el cual se armonizan la Antigua y la Nueva Alianza. Mientras que a fin de cuentas debería hundirse, la Iglesia entona el canto de acción de gracias de los salvados. Está sobre las aguas de muerte de la historia y, no obstante, ya ha resucitado. Cantando, se agarra a la mano del Señor, que la mantiene sobre las aguas. Y sabe que, con eso, está sujeta, fuera del alcance de la fuerza de gravedad de la muerte y del mal – una fuerza de la cual, de otro modo, no podría escapar –, sostenida y atraída por la nueva fuerza de gravedad de Dios, de la verdad y del amor. Por el momento, la Iglesia y todos nosotros nos encontramos entre los dos campos de gravitación. Pero desde que Cristo ha resucitado, la gravitación del amor es más fuerte que la del odio; la fuerza de gravedad de la vida es más fuerte que la de la muerte. ¿Acaso no es ésta realmente la situación de la Iglesia de todos los tiempos, nuestra propia situación? Siempre se tiene la impresión de que ha de hundirse, y siempre está ya salvada. San Pablo ha descrito así esta situación: «Somos... los moribundos que están bien vivos» (2 Co 6,9). La mano salvadora del Señor nos sujeta, y así podemos cantar ya ahora el canto de los salvados, el canto nuevo de los resucitados: ¡aleluya! Amén.
[00563-04.01] [Texto original: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE
Amados irmãos e irmãs!
Narra São Marcos no seu Evangelho que os discípulos, ao descer do monte da Transfiguração, discutiam entre si o que queria dizer «ressuscitar dos mortos» (cf. Mc 9, 10). Antes, o Senhor tinha-lhes anunciado a sua paixão e a ressurreição três dias depois. Pedro tinha protestado contra o anúncio da morte. Mas agora interrogavam-se acerca do que se poderia entender pelo termo «ressurreição». Porventura não acontece o mesmo também a nós? O Natal, o nascimento do Deus Menino de certo modo é-nos imediatamente compreensível. Podemos amar o Menino, podemos imaginar a noite de Belém, a alegria de Maria, a alegria de São José e dos pastores e o júbilo dos Anjos. Mas, a ressurreição: o que é? Não entra no âmbito das nossas experiências, e assim a mensagem frequentemente acaba, em qualquer medida, incompreendida, algo do passado. A Igreja procura levar-nos à sua compreensão, traduzindo este acontecimento misterioso na linguagem dos símbolos pelos quais nos seja possível de algum modo contemplar este facto impressionante. Na Vigília Pascal, indica-nos o significado deste dia sobretudo através de três símbolos: a luz, a água e o cântico novo do aleluia.
Temos, em primeiro lugar, a luz. A criação por obra de Deus – acabámos de ouvir a sua narração bíblica – começa com as palavras: «Haja luz!» (Gen 1, 3). Onde há luz, nasce a vida, o caos pode transformar-se em cosmos. Na mensagem bíblica, a luz é a imagem mais imediata de Deus: Ele é todo Resplendor, Vida, Verdade, Luz. Na Vigília Pascal, a Igreja lê a narração da criação como profecia. Na ressurreição, verifica-se de modo mais sublime aquilo que este texto descreve como o início de todas as coisas. Deus diz de novo: «Haja luz». A ressurreição de Jesus é uma irrupção de luz. A morte fica superada, o sepulcro escancarado. O próprio Ressuscitado é Luz, a Luz do mundo. Com a ressurreição, o dia de Deus entra nas noites da história. A partir da ressurreição, a luz de Deus difunde-se pelo mundo e pela história. Faz-se dia. Somente esta Luz – Jesus Cristo – é a luz verdadeira, mais verdadeira que o fenómeno físico da luz. Ele é a Luz pura: é o próprio Deus, que faz nascer uma nova criação no meio da antiga, transforma o caos em cosmos.
Procuremos compreender isto um pouco melhor ainda. Porque é que Cristo é Luz? No Antigo Testamento, a Torah era considerada como a luz vinda de Deus para o mundo e para os homens. Aquela separa, na criação, a luz das trevas, isto é, o bem do mal. Aponta ao homem o caminho justo para viver de modo autêntico. Indica-lhe o bem, mostra-lhe a verdade e conduz-lo para o amor, que é o seu conteúdo mais profundo. Aquela é «lâmpada» para os passos, e «luz» no caminho (cf. Sal 119/118, 105). Ora, os cristãos sabiam que, em Cristo está presente a Torah: a Palavra de Deus está presente n’Ele como Pessoa. A Palavra de Deus é a verdadeira Luz de que o homem necessita. Esta Palavra está presente n’Ele, no Filho. O Salmo 19 comparara a Torah ao sol, que, nascendo, manifesta a glória de Deus visivelmente em todo o mundo. Os cristãos compreendem: sim, na ressurreição, o Filho de Deus surgiu como Luz sobre o mundo. Cristo é a grande Luz, da qual provém toda a vida. Ele faz-nos reconhecer a glória de Deus de um extremo ao outro da terra. Indica-nos a estrada. Ele é o dia de Deus que agora, crescendo, se difunde por toda a terra. Agora, vivendo com Ele e por Ele, podemos viver na luz.
Na Vigília Pascal, a Igreja representa o mistério da luz de Cristo no sinal do círio pascal, cuja chama é simultaneamente luz e calor. O simbolismo da luz está ligado com o do fogo: resplendor e calor, resplendor e energia de transformação contida no fogo. Verdade e amor andam juntos. O círio pascal arde e deste modo se consuma: cruz e ressurreição são inseparáveis. Da cruz, da autodoacção do Filho nasce a luz, provém o verdadeiro resplendor sobre o mundo. No círio pascal, todos acendemos as nossas velas, sobretudo as dos neo-baptizados, aos quais, neste sacramento, a luz de Cristo é colocada no fundo do coração. A Igreja Antiga designou o Baptismo como fotismos, como sacramento da iluminação, como uma comunicação de luz e ligou-o inseparavelmente com a ressurreição de Cristo. No Baptismo, Deus diz ao baptizando: «Haja luz». O baptizando é introduzido dentro da luz de Cristo. Cristo divide agora a luz das trevas. N’Ele reconhecemos o que é verdadeiro e o que é falso, o que é o resplendor e o que é a escuridão. Com Ele, surge em nós a luz da verdade e começamos a compreender. Uma vez quando Cristo viu a gente que se congregara para O escutar e esperava d’Ele uma orientação, sentiu compaixão por ela, porque eram como ovelhas sem pastor (cf. Mc 6, 34). No meio das correntes contrastantes do seu tempo, não sabiam a quem dirigir-se. Quanta compaixão deve Ele sentir também do nosso tempo, por causa de todos os grandes discursos por trás dos quais, na realidade, se esconde uma grande desorientação! Para onde devemos ir? Quais são os valores, segundo os quais podemos regular-nos? Os valores segundo os quais podemos educar os jovens, sem lhes dar normas que talvez não subsistam nem exigir coisas que talvez não lhes devam ser impostas? Ele é a Luz. A vela baptismal é o símbolo da iluminação que nos é concedida no Baptismo. Assim, nesta hora, também São Paulo nos fala de modo muito imediato. Na Carta aos Filipenses, diz que, no meio de uma geração má e perversa, os cristãos deveriam brilhar como astros no mundo (cf. Fil 2, 15). Peçamos ao Senhor que a pequena chama da vela, que Ele acendeu em nós, a luz delicada da sua palavra e do seu amor no meio das confusões deste tempo não se apague em nós, mas torne-se cada vez mais forte e mais resplendorosa. Para que sejamos com Ele pessoas do dia, astros para o nosso tempo.
O segundo símbolo da Vigília Pascal – a noite do Baptismo – é a água. Esta aparece, na Sagrada Escritura e consequentemente também na estrutura íntima do sacramento do Baptismo, com dois significados opostos. De um lado, temos o mar que se apresenta como o poder antagonista da vida sobre a terra, como a sua contínua ameaça, à qual, porém, Deus colocou um limite. Por isso o Apocalipse, ao falar do mundo novo de Deus, diz que lá o mar já não existirá (cf. 21, 1). É o elemento da morte. E assim torna-se a representação simbólica da morte de Jesus na cruz: Cristo desceu aos abismos do mar, às águas da morte, como Israel penetrou no Mar Vermelho. Ressuscitado da morte, Ele dá-nos a vida. Isto significa que o Baptismo não é apenas um banho, mas um novo nascimento: com Cristo, como que descemos ao mar da morte para dele subirmos como criaturas novas.
O outro significado com que encontramos a água é como nascente fresca, que dá a vida, ou também como o grande rio donde provém a vida. Segundo o ordenamento primitivo da Igreja, o Baptismo devia ser administrado com água fresca de nascente. Sem água, não há vida. Impressiona a grande importância que têm na Sagrada Escritura os poços. São lugares donde brota a vida. Junto do poço de Jacob, Cristo anuncia à Samaritana o poço novo, a água da vida verdadeira. Manifesta-Se a ela como o novo e definitivo Jacob, que abre à humanidade o poço que esta aguarda: aquela água que dá a vida que jamais se esgota (cf. Jo 4, 5-15). São João narra-nos que um soldado feriu com uma lança o lado de Jesus e que, do lado aberto – do seu coração trespassado –, saiu sangue e água (cf. Jo 19, 34). Nisto, a Igreja Antiga viu um símbolo do Baptismo e da Eucaristia, que brotam do coração trespassado de Jesus. Na morte, Jesus mesmo Se tornou a nascente. Numa visão, o profeta Ezequiel tinha visto o Templo novo, do qual jorra uma nascente que se torna um grande rio que dá a vida (cf. Ez 47, 1-12); para uma Terra que sempre sofria com a seca e a falta de água, esta era uma grande visão de esperança. A cristandade dos primórdios compreendeu: em Cristo, realizou-se esta visão. Ele é o Templo verdadeiro, o Templo vivo de Deus. E é também a nascente de água viva. D’Ele brota o grande rio que, no Baptismo, faz frutificar e renova o mundo; o grande rio de água viva é o seu Evangelho que torna fecunda a terra. Mas Jesus profetizou uma coisa ainda maior; diz Ele: «Do seio daquele que acreditar em Mim, correrão rios de água viva» (Jo 7, 38). No Baptismo, o Senhor faz de nós não só pessoas de luz, mas também nascentes das quais brota água viva. Todos nós conhecemos tais pessoas que nos deixam de algum modo restaurados e renovados; pessoas que são como que uma fonte de água fresca borbotante. Não devemos necessariamente pensar a pessoas grandes como Agostinho, Francisco de Assis, Teresa de Ávila, Madre Teresa de Calcutá e assim por diante, pessoas através das quais verdadeiramente rios de água viva penetraram na história. Graças a Deus, encontramo-las continuamente mesmo no nosso dia a dia: pessoas que são uma nascente. Com certeza, conhecemos também o contrário: pessoas das quais emana um odor parecido com o dum charco com água estagnada ou mesmo envenenada. Peçamos ao Senhor, que nos concedeu a graça do Baptismo, para podermos ser sempre nascentes de água pura, fresca, saltitante da fonte da sua verdade e do seu amor.
O terceiro grande símbolo da Vigília Pascal é de natureza muito particular; envolve o próprio homem. É a entoação do cântico novo: o aleluia. Quando uma pessoa experimenta uma grande alegria, não pode guardá-la para si. Deve manifestá-la, transmiti-la. Mas que sucede quando a pessoa é tocada pela luz da ressurreição, entrando assim em contacto com a própria Vida, com a Verdade e com o Amor? Disto, não pode limitar-se simplesmente a falar; o falar já não basta. Ela tem de cantar. Na Bíblia, a primeira menção do acto de cantar encontra-se depois da travessia do Mar Vermelho. Israel libertou-se da escravidão. Subiu das profundezas ameaçadoras do mar. É como se tivesse renascido. Vive e é livre. A Bíblia descreve a reacção do povo a este grande acontecimento da salvação com a frase: «O povo acreditou no Senhor e em Moisés, seu servo» (Ex 14, 31). Segue-se depois a segunda reacção que nasce, por uma espécie de necessidade interior, da primeira: «Então Moisés e os filhos de Israel cantaram este cântico ao Senhor…». Na Vigília Pascal, ano após ano, nós, cristãos, depois da terceira leitura entoamos este cântico, cantamo-lo como o nosso cântico, porque também nós, pelo poder de Deus, fomos tirados para fora da água e libertos para a vida verdadeira.
Para a história do cântico de Moisés depois da libertação de Israel do Egipto e depois da subida do Mar Vermelho, há um paralelismo surpreendente no Apocalipse de São João. Antes de iniciarem os últimos sete flagelos impostos à terra, aparece ao vidente «uma espécie de mar de cristal misturado com fogo. Sobre o mar de cristal, estavam de pé os vencedores do Monstro, da sua imagem e do número do seu nome. Tinham na mão harpas divinas e cantavam o cântico de Moisés, o servo de Deus, e o cântico do Cordeiro…» (Ap 15, 2s). Com esta imagem, é descrita a situação dos discípulos de Jesus em todos os tempos, a situação da Igreja na história deste mundo. Considerada humanamente, tal situação é contraditória em si mesma. Por um lado, a comunidade encontra-se no Êxodo, no meio do Mar Vermelho. Num mar que, paradoxalmente, é ao mesmo tempo gelo e fogo. E não deve porventura a Igreja caminhar sempre sobre o mar através do fogo e do frio? Humanamente falando, deveria afundar. Mas não, e enquanto caminha ainda no meio deste Mar Vermelho, ela canta – entoa o cântico de louvor dos justos: o cântico de Moisés e do Cordeiro, no qual concordam a Antiga e a Nova Aliança. Enquanto, na realidade deveria afundar, a Igreja entoa o cântico de agradecimento dos redimidos. Está sobre as águas de morte da história e todavia já está ressuscitada. Cantando, ela agarra-se à mão do Senhor, que a sustenta por cima das águas. E sabe que deste modo é guindada fora da força de gravidade da morte e do mal – uma força da qual, sem tal intervenção, não haveria caminho algum de fuga – guindada e atraída para dentro da nova força de gravidade de Deus, da verdade e do amor. De momento, a Igreja e todos nós encontramo-nos ainda entre os dois campos gravitacionais. Mas desde que Jesus ressuscitou, a gravitação do amor é mais forte que a do ódio; a força de gravidade da vida é mais forte que a da morte. Porventura não é esta a situação da Igreja de todos os tempos, a nossa situação? Sempre dá a impressão que ela deva afundar, e todavia já está salva. São Paulo ilustrou esta situação com as palavras: «Somos considerados (…) como agonizantes, embora estejamos com vida» (2 Cor 6, 9). A mão salvadora do Senhor nos sustenta e assim podemos cantar já agora o cântico dos redimidos, o cântico novo dos ressuscitados: Aleluia! Amen.
[00563-06.01] [Texto original: Italiano]
[B0243-XX.03]