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SANTA MESSA "NELLA CENA DEL SIGNORE" NELLA BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO, 09.04.2009


Alle ore 17.30 di questo pomeriggio, Giovedì Santo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, la concelebrazione della Santa Messa "nella Cena del Signore".
Nel corso della Liturgia, il Papa compie il rito della lavanda dei piedi a dodici sacerdoti.
Al momento della presentazione dei doni è affidata al Santo Padre un’offerta a sostegno della Comunità cattolica di Gaza.
Al termine della Celebrazione ha luogo la traslazione del SS.mo Sacramento alla Cappella della reposizione.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia nel corso della Celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

OMELIA IN LINGUA ITALIANA

Cari fratelli e sorelle!

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem: così diremo oggi nel Canone della Santa Messa. "Hoc est hodie" – la Liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola "oggi", sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato "oggi" che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo "oggi" è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo "oggi". Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso. Con la parola "oggi", la Liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione così come la Chiesa, in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato.

Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: qui pridie. Questo "qui" aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, "… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo". In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo. Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l’avvenimento nel Cenacolo, poiché l’agire di Gesù viene descritto con le parole: "gratias agens benedixit – rese grazie con la preghiera di benedizione". Con questa espressione, la Liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell’ebraico berakha è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini eucharistía ed eulogía. Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, "frutto della terra e del lavoro dell’uomo", per riceverlo nuovamente da Lui. Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La Liturgia romana ha ragione, quindi, nell’interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole: "offriamo", "supplichiamo", "chiediamo di accettare", "di benedire queste offerte". Tutto questo si nasconde nella parola "eucharistia"

C’è un’altra particolarità nel racconto dell’istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest’ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell’ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. "Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili…". Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani, che ha imposto agli uomini; alle mani, che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto: prendere nelle mani il pane perché mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell’Ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinché diventino mani di benedizione. Preghiamo in quest’ora il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà!

Dall’introduzione alla Preghiera sacerdotale di Gesù (cfr Gv 17, 1), il Canone prende poi le parole: "Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente…" Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore. A sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinché non accolgano e non lascino entrare in noi le "vanitates" – le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza. Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinché diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinché guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della nostra azione.

Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell’ospitalità con cui lo straniero, l’ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere – con-dividere è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all’amore sino alla morte. Egli distribuisce se stesso, il vero "pane per la vita del mondo" (cfr Gv 6, 51). Il nutrimento di cui l’uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l’inizio della trasformazione del mondo. Affinché diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell’uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato.

Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell’unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l’intima natura dell’Eucaristia: essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola "agape" i significati di Eucaristia e amore si compènetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l’amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema: Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo. Allo stesso tempo vediamo che l’Eucaristia non può mai essere solo un’azione liturgica. È completa solo, se l’agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una – l’essere gratificati dal Signore nell’atto cultuale e il culto dell’amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest’ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell’Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo.

Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino. Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come "praeclarus calix" (come calice glorioso), alludendo con ciò al Salmo 23 [22], quel Salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge: "Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici … Il mio calice trabocca" – è calix praeclarus. Il Canone romano interpreta questa parola del Salmo come una profezia, che si adempie nell’Eucaristia: Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso – il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo – il calice colmo del vino del suo amore. Il calice significa le nozze: adesso è arrivata l’"ora", alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l’Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell’autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell’Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l’espressione "novum Testamentum". Questo calice è il nuovo Testamento – "la nuova Alleanza nel mio sangue", come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Kor 11, 25). Il Canone romano aggiunge: "per la nuova ed eterna alleanza", per esprime l’indissolubilità del legame nuziale di Dio con l’umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di Alleanza, ma di Testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica Alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore – se stesso. E certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente "partner" e si realizza il mistero nuziale dell’amore.

Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, "ratificare un’alleanza" significa "entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l’altro nella propria federazione ed entrare così un una comunione di diritti l’uno con l’altro". In questo modo si crea una consanguineità reale benché non materiale. I partner diventano in qualche modo "fratelli dalla stessa carne e dalle stesse ossa". L’alleanza opera un’insieme che significa pace (cfr ThWNT II 105 – 137). Possiamo adesso farci almeno un’idea di ciò che avvenne nell’ora dell’Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una "consanguineità" tra sé e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinché comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinché esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri.

Ora, però, emerge ancora un’altra domanda. Nel Cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è: in quell’ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore: "Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo…" (Gv 10, 18). Nessuno può toglierGli la vita: Egli la dà per libera decisione. In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.

Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Pènetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo "oggi". Rendici strumenti della tua pace! Amen.

[00554-01.02] [Testo originale: Italiano]

TESTO IN LINGUA FRANCESE

Chers frères et sœurs,

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem : ainsi dirons-nous aujourd’hui dans le Canon de la Messe. « Hoc est hodie » - la Liturgie du Jeudi Saint insère dans le texte de la prière la parole « aujourd’hui », soulignant ainsi la dignité particulière de cette journée. C’est aujourd’hui qu’Il l’a fait : pour toujours, il s’est donné lui-même à nous dans le Sacrement de son Corps et de son Sang. Cet « aujourd’hui » est avant toute chose le mémorial de la Pâques d’alors. Mais il est davantage encore. Avec le Canon, nous entrons dans cet « aujourd'hui ». Notre aujourd'hui rejoint son aujourd'hui. Il fait cela maintenant. Par la parole « aujourd'hui », la Liturgie de l’Église veut nous amener à porter une grande attention intérieure au mystère de ce jour, aux mots dans lesquels il est exprimé. Cherchons donc à écouter de façon neuve le récit de l’institution comme l’Église l’a formulé sur la base de l’Écriture, tout en contemplant le Seigneur.

En premier lieu, il est frappant que le récit de l’institution ne soit pas une phrase autonome, mais qu’il débute par un pronom relatif : qui pridie. Ce « qui » rattache le récit entier aux paroles précédentes de la prière, « … qu’elle devienne pour nous le corps et le sang de ton Fils bien-aimé, Jésus Christ, notre Seigneur ». De cette façon, le récit est lié à la prière précédente, à l’ensemble du Canon, et il devient lui-même une prière. Ce n’est pas simplement un récit qui est ici inséré, et il ne s’agit pas davantage de paroles d’autorité indépendantes, qui viendraient interrompre la prière. C’est une prière. C’est seulement dans la prière que s’accomplit l’acte sacerdotal de la consécration qui devient transformation, transsubstantiation de nos dons du pain et du vin dans le Corps et le Sang du Christ. En priant, en cet instant capital, l’Église est en accord total avec l’événement du Cénacle, puisque l’agir de Jésus est décrit par ces mots : « gratias agens benedixit – il rendit grâce par la prière de bénédiction ». Par cette expression, la Liturgie romaine a énoncé en deux mots ce qui dans l’hébreu berakha n’est qu’un seul mot et qui dans le grec apparaît en revanche à travers les deux termes eucharistie et eulogie. Le Seigneur rend grâce. En rendant grâce, nous reconnaissons que telle chose est un don que nous recevons d’un autre. Le Seigneur rend grâce et par là il rend à Dieu le pain, « fruit de la terre et du travail des hommes », pour le recevoir à nouveau de Lui. Rendre grâce devient bénir. Ce qui a été remis entre les mains de Dieu, nous est retourné par Lui béni et transformé. La Liturgie romaine a raison, donc, en interprétant notre prière en ce moment sacré par les paroles : « offrons », « supplions », « prions d’accepter », « de bénir ces offrandes ». Tout cela est contenu dans le terme « eucharistie».

Il y a une autre particularité dans le récit de l’institution rapporté dans le Canon romain, que nous voulons méditer en ce moment. L’Église priante regarde les mains et les yeux du Seigneur. Elle veut comme l’observer, elle veut percevoir le geste de sa prière et de son agir en cette heure singulière, rencontrer la figure de Jésus, pour ainsi dire, même à travers ses sens. "Il prit le pain dans ses mains très saintes…". Regardons ces mains avec lesquelles il a guéri les hommes; les mains avec lesquelles il a béni les enfants; les mains, qu’il a imposées aux hommes; les mains qui ont été clouées à la Croix et qui pour toujours porteront les stigmates comme signes de son amour prêt à mourir. Maintenant nous sommes chargés de faire ce qu’Il a fait: prendre entre les mains le pain pour que, par la prière eucharistique, il soit transformé. Dans l’Ordination sacerdotale, nos mains ont reçu l’onction, afin qu’elles deviennent des mains de bénédiction. En cette heure, prions le Seigneur pour que nos mains servent toujours plus à porter le salut, à porter la bénédiction, à rendre présente sa bonté!

De l’introduction à la prière sacerdotale de Jésus (cf. Jn 17, 1), le Canon prend ensuite les paroles suivantes: "Les yeux levés au ciel, vers toi, Dieu, son Père tout-puissant…" Le Seigneur nous enseigne à lever les yeux et surtout le cœur. À élever le regard, le détachant des choses du monde, à nous orienter vers Dieu dans la prière et ainsi à nous relever. Dans une hymne de la prière des heures nous demandons au Seigneur de garder nos yeux, afin qu’ils n’accueillent pas et ne laissent pas entrer en nous les "vanitates" – les vanités, les futilités, ce qui est seulement apparence. Nous prions pour qu’à travers nos yeux n’entre pas en nous le mal, falsifiant et salissant ainsi notre être. Mais nous voulons surtout prier pour avoir des yeux qui voient tout ce qui est vrai, lumineux et bon; afin que nous devenions capables de voir la présence de Dieu dans le monde. Nous prions afin que nous regardions le monde avec des yeux d’amour, avec les yeux de Jésus, reconnaissant ainsi les frères et les sœurs, qui ont besoin de nous, qui attendent notre parole et notre action.

En bénissant, le Seigneur rompit ensuite le pain et le distribua à ses disciples. Rompre le pain est le geste du père de famille qui se préoccupe des siens et leur donne ce dont ils ont besoin pour la vie. Mais c’est aussi le geste de l’hospitalité par lequel l’étranger, l’hôte est accueilli dans la famille et il lui est consenti de prendre part à sa vie. Partager – partager avec, c’est unir. Par le fait de partager une communion se crée. Dans le pain rompu, le Seigneur se distribue lui-même. Le geste de rompre fait aussi mystérieusement allusion à sa mort, à son amour jusqu’à la mort. Il se distribue lui-même, le vrai "pain pour la vie du monde" (cf. Jn 6, 51). La nourriture dont l’homme a besoin au plus profond de lui-même est la communion avec Dieu lui-même. Rendant grâce et bénissant, Jésus transforme le pain, il ne donne plus du pain terrestre, mais la communion avec lui-même. Cette transformation, cependant, veut être le commencement de la transformation du monde. Afin qu’il devienne un monde de résurrection, un monde de Dieu. Oui, il s’agit d’une transformation. De l’homme nouveau et du monde nouveau qui prennent leur commencement dans le pain consacré, transformé, transsubstantié.

Nous avons dit que le fait de rompre le pain est un geste de communion, d’union par le fait de partager. Ainsi, dans le geste même est déjà indiquée la nature profonde de l’Eucharistie: elle est agape, elle est amour rendu corporel. Dans le mot "agape" les significations d’Eucharistie et d’amour s’interpénètrent. Dans le geste de Jésus qui rompt le pain, l’amour auquel nous participons a atteint sa radicalité extrême: Jésus se laisse rompre comme pain vivant. Dans le pain distribué nous reconnaissons le mystère du grain de blé, qui meurt et qui ainsi porte du fruit. Nous reconnaissons la nouvelle multiplication des pains, qui vient de la mort du grain de blé et qui continuera jusqu’à la fin du monde. En même temps nous voyons que l’Eucharistie ne peut jamais être seulement une action liturgique. Elle est complète seulement si l’agape liturgique devient amour dans le quotidien. Dans le culte chrétien les deux choses deviennent une – le fait d’être comblés par le Seigneur dans l’acte cultuel et le culte de l’amour à l’égard du prochain. Demandons en ce moment au Seigneur la grâce d’apprendre à vivre toujours mieux le mystère de l’Eucharistie si bien que de cette façon la transformation du monde trouve son commencement.

Après le pain, Jésus prend la coupe remplie de vin. Le Canon romain qualifie la coupe que le Seigneur donne à ses disciples, de "praeclarus calix" (de coupe glorieuse), faisant allusion ainsi au Psaume 22 [23], ce Psaume qui parle de Dieu comme du Pasteur puissant et bon. On y lit: "Tu prépares la table pour moi devant mes ennemis… ma coupe est débordante" – calix praeclarus. Le Canon romain interprète ces paroles du Psaume comme une prophétie qui se réalise dans l’Eucharistie: Oui, le Seigneur nous prépare la table au milieu des menaces de ce monde, et il nous donne la coupe glorieuse – la coupe de la grande joie, de la vraie fête, à laquelle tous nous aspirons ardemment – la coupe remplie du vin de son amour. La coupe signifie les noces : maintenant est arrivée l’ « heure », à laquelle les noces de Cana avaient fait allusion de façon mystérieuse. Oui, l’Eucharistie est plus qu’un banquet, c’est un festin de noces. Et ces noces se fondent dans l’auto-donation de Dieu jusqu’à la mort. Dans les paroles de la dernière Cène de Jésus et dans le Canon de l’Église, le mystère solennel des noces se cache sous l’expression « novum Testamentum ». Cette coupe est le nouveau Testament – « la nouvelle Alliance en mon sang », tel que Paul rapporte les paroles de Jésus sur la coupe dans la deuxième lecture d’aujourd’hui (1 Co 11, 25). Le Canon romain ajoute : « de l’alliance nouvelle et éternelle » pour exprimer l’indissolubilité du lien nuptial de Dieu avec l’humanité. Le motif pour lequel les anciennes traductions de la Bible ne parlent pas d’Alliance mais de Testament, se trouve dans le fait que ce ne sont pas deux contractants à égalité qui ici se rencontrent, mais entre en jeu l’infinie distance entre Dieu et l’homme. Ce que nous appelons nouvelle et ancienne Alliance n’est pas un acte d’entente entre deux parties égales, mais le simple don de Dieu qui nous laisse en héritage son amour – lui-même. Il est certain, par ce don de son amour, abolissant toute distance, qu’il nous rend finalement vraiment « partenaire » et le mystère nuptial de l’amour se réalise.

Pour pouvoir comprendre ce qui arrive là en profondeur, nous devons écouter encore plus attentivement les paroles de la Bible et leur signification originaire. Les savants nous disent que, dans les temps lointains dont nous parlent les histoires des Pères d’Israël, « ratifier une alliance » signifie « entrer avec d’autres dans un lien fondé sur le sang, ou plutôt accueillir l’autre dans sa propre fédération et entrer ainsi dans une communion de droits l’un avec l’autre. De cette façon se crée une consanguinité réelle bien que non matérielle. Les partenaires deviennent en quelque sorte « frères de la même chair et des mêmes os ». L’alliance réalise un ensemble qui signifie paix (cf. ThWNT II, 105-137). Pouvons-nous maintenant nous faire au moins une idée de ce qui arrive à l’heure de la dernière Cène et qui, depuis lors, se renouvelle chaque fois que nous célébrons l’Eucharistie ? Dieu, le Dieu vivant établit avec nous une communion de paix, ou mieux, il crée une « consanguinité » entre lui et nous. Par l’incarnation de Jésus, par son sang versé, nous avons été introduits dans une consanguinité bien réelle avec Jésus et donc avec Dieu lui-même. Le sang de Jésus est son amour, dans lequel la vie divine et la vie humaine sont devenues une seule chose. Prions le Seigneur afin que nous comprenions toujours plus la grandeur de ce mystère ! Afin qu’il développe sa force transformante dans notre vie intime, de façon que nous devenions vraiment consanguins de Jésus, pénétrés de sa paix et également en communion les uns avec les autres.

Maintenant, cependant, une autre question se pose encore. Au Cénacle, le Christ a donné aux disciples son Corps et son Sang, c’est-à-dire lui-même dans la totalité de sa personne. Mais a-t-il pu le faire ? Il est encore physiquement présent au milieu d’eux, il se trouve devant eux ! La réponse est : en cette heure Jésus réalise ce qu’il avait annoncé précédemment dans le discours sur le Bon Pasteur : « Personne ne m’enlève ma vie : je la donne de moi-même. J’ai le pouvoir de la donner, et le pouvoir de la reprendre… » (Jn 10, 18). Personne ne peut lui enlever la vie : il la donne par sa libre décision. En cette heure il anticipe la crucifixion et la résurrection. Ce qui se réalisera là, pour ainsi dire, physiquement en lui, il l’accomplit déjà par avance dans la liberté de son amour. Il donne sa vie et la reprend dans la résurrection pour pouvoir la partager pour toujours.

Seigneur, aujourd’hui tu nous donnes ta vie, tu te donne toi-même à nous. Pénètre-nous de ton amour. Fais-nous vivre dans ton « aujourd’hui ». Fais de nous des instruments de ta paix ! Amen.

[00554-03.02] [Texte original: Français]

TESTO IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters,

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem: these words we shall pray today in the Canon of the Mass. "Hoc est hodie" – the Liturgy of Holy Thursday places the word "today" into the text of the prayer, thereby emphasizing the particular dignity of this day. It was "today" that He did this: he gave himself to us for ever in the Sacrament of his Body and Blood. This "today" is first and foremost the memorial of that first Paschal event. Yet it is something more. With the Canon, we enter into this "today". Our today comes into contact with his today. He does this now. With the word "today", the Church’s Liturgy wants us to give great inner attention to the mystery of this day, to the words in which it is expressed. We therefore seek to listen in a new way to the institution narrative, in the form in which the Church has formulated it, on the basis of Scripture and in contemplation of the Lord himself.

The first thing to strike us is that the institution narrative is not an independent phrase, but it starts with a relative pronoun: qui pridie. This "qui" connects the entire narrative to the preceding section of the prayer, "let it become for us the body and blood of Jesus Christ, your only Son, our Lord." In this way, the institution narrative is linked to the preceding prayer, to the entire Canon, and it too becomes a prayer. By no means is it merely an interpolated narrative, nor is it a case of an authoritative self-standing text that actually interrupts the prayer. It is a prayer. And only in the course of the prayer is the priestly act of consecration accomplished, which becomes transformation, transubstantiation of our gifts of bread and wine into the Body and Blood of Christ. As she prays at this central moment, the Church is fully in tune with the event that took place in the Upper Room, when Jesus’ action is described in the words: "gratias agens benedixit – he gave you thanks and praise". In this expression, the Roman liturgy has made two words out of the one Hebrew word berakha, which is rendered in Greek with the two terms eucharistía and eulogía. The Lord gives thanks. When we thank, we acknowledge that a certain thing is a gift that has come from another. The Lord gives thanks, and in so doing gives back to God the bread, "fruit of the earth and work of human hands", so as to receive it anew from him. Thanksgiving becomes blessing. The offering that we have placed in God’s hands returns from him blessed and transformed. The Roman liturgy rightly interprets, therefore, our praying at this sacred moment by means of the words: "through him, we ask you to accept and bless these gifts we offer you in sacrifice". All this lies hidden within the word "eucharistia".

There is another aspect of the institution narrative cited in the Roman Canon on which we should reflect this evening. The praying Church gazes upon the hands and eyes of the Lord. It is as if she wants to observe him, to perceive the form of his praying and acting in that remarkable hour, she wants to encounter the figure of Jesus even, as it were, through the senses. "He took bread in his sacred hands …" Let us look at those hands with which he healed men and women; the hands with which he blessed babies; the hands that he laid upon men; the hands that were nailed to the Cross and that forever bear the stigmata as signs of his readiness to die for love. Now we are commissioned to do what he did: to take bread in our hands so that through the Eucharistic Prayer it will be transformed. At our priestly ordination, our hands were anointed, so that they could become hands of blessing. Let us pray to the Lord at this hour that our hands will serve more and more to bring salvation, to bring blessing, to make his goodness present!

From the introduction to the Priestly Prayer of Jesus (cf. Jn 17:1), the Canon takes these words: "Looking up to heaven, to you his almighty Father …" The Lord teaches us to raise our eyes, and especially our hearts. He teaches us to fix our gaze upwards, detaching it from the things of this world, to direct ourselves in prayer towards God and thus to raise ourselves. In a hymn from the Liturgy of the Hours, we ask the Lord to guard our eyes, so that they do not take in or cause to enter within us "vanitates" – vanities, nothings, that which is merely appearance. Let us pray that no evil will enter through our eyes, falsifying and tainting our very being. But we want to pray above all for eyes that see whatever is true, radiant and good; so that they become capable of seeing God’s presence in the world. Let us pray that we will look upon the world with eyes of love, with the eyes of Jesus, recognizing our brothers and sisters who need our help, who are awaiting our word and our action.

Having given thanks and praise, the Lord then breaks the bread and gives it to the disciples. Breaking the bread is the act of the father of the family who looks after his children and gives them what they need for life. But it is also the act of hospitality with which the stranger, the guest, is received within the family and is given a share in its life. Dividing (dividere), sharing (condividere) brings about unity. Through sharing, communion is created. In the broken bread, the Lord distributes himself. The gesture of breaking also alludes mysteriously to his death, to the love that extends even to death. He distributes himself, the true "bread for the life of the world" (cf. Jn 6:51). The nourishment that man needs in his deepest self is communion with God himself. Giving thanks and praise, Jesus transforms the bread, he no longer gives earthly bread, but communion with himself. This transformation, though, seeks to be the start of the transformation of the world – into a world of resurrection, a world of God. Yes, it is about transformation – of the new man and the new world that find their origin in the bread that is consecrated, transformed, transubstantiated.

We said that breaking the bread is an act of communion, an act of uniting through sharing. Thus, in the act itself, the intimate nature of the Eucharist is already indicated: it is agape, it is love made corporeal. In the word "agape", the meanings of Eucharist and love intertwine. In Jesus’ act of breaking the bread, the love that is shared has attained its most radical form: Jesus allows himself to be broken as living bread. In the bread that is distributed, we recognize the mystery of the grain of wheat that dies, and so bears fruit. We recognize the new multiplication of the loaves, which derives from the dying of the grain of wheat and will continue until the end of the world. At the same time, we see that the Eucharist can never be just a liturgical action. It is complete only if the liturgical agape then becomes love in daily life. In Christian worship, the two things become one – experiencing the Lord’s love in the act of worship and fostering love for one’s neighbour. At this hour, we ask the Lord for the grace to learn to live the mystery of the Eucharist ever more deeply, in such a way that the transformation of the world can begin to take place.

After the bread, Jesus takes the chalice of wine. The Roman Canon describes the chalice which the Lord gives to his disciples as "praeclarus calix" (the glorious cup), thereby alluding to Psalm 23 [22], the Psalm which speaks of God as the Good Shepherd, the strong Shepherd. There we read these words: "You have prepared a banquet for me in the sight of my foes … My cup is overflowing" – calix praeclarus. The Roman Canon interprets this passage from the Psalm as a prophecy that is fulfilled in the Eucharist: yes, the Lord does indeed prepare a banquet for us in the midst of the threats of this world, and he gives us the glorious chalice – the chalice of great joy, of the true feast, for which we all long – the chalice filled with the wine of his love. The chalice signifies the wedding-feast: now the "hour" has come to which the wedding-feast of Cana had mysteriously alluded. Yes indeed, the Eucharist is more than a meal, it is a wedding-feast. And this wedding is rooted in God’s gift of himself even to death. In the words of Jesus at the Last Supper and in the Church’s Canon, the solemn mystery of the wedding is concealed under the expression "novum Testamentum". This chalice is the new Testament – "the new Covenant in my blood", as Saint Paul presents the words of Jesus over the chalice in today’s second reading (1 Cor 11:25). The Roman Canon adds: "of the new and everlasting covenant", in order to express the indissolubility of God’s nuptial bond with humanity. The reason why older translations of the Bible do not say Covenant, but Testament, lies in the fact that this is no mere contract between two parties on the same level, but it brings into play the infinite distance between God and man. What we call the new and the ancient Covenant is not an agreement between two equal parties, but simply the gift of God who bequeaths to us his love – himself. Certainly, through this gift of his love, he transcends all distance and makes us truly his "partners" – the nuptial mystery of love is accomplished.

In order to understand profoundly what is taking place here, we must pay even greater attention to the words of the Bible and their original meaning. Scholars tell us that in those ancient times of which the histories of Israel’s forefathers speak, to "ratify a Covenant" means "to enter with others into a bond based on blood or to welcome the other into one’s own covenant fellowship and thus to enter into a communion of mutual rights and obligations". In this way, a real, if non-material form of consanguinity is established. The partners become in some way "brothers of the same flesh and the same bones". The covenant brings about a fellowship that means peace (cf. ThWNT II, 105-137). Can we now form at least an idea of what happened at the hour of the Last Supper, and what has been renewed ever since, whenever we celebrate the Eucharist? God, the living God, establishes a communion of peace with us, or to put it more strongly, he creates "consanguinity" between himself and us. Through the incarnation of Jesus, through the outpouring of his blood, we have been drawn into an utterly real consanguinity with Jesus and thus with God himself. The blood of Jesus is his love, in which divine life and human life have become one. Let us pray to the Lord, that we may come to understand ever more deeply the greatness of this mystery. Let us pray that in our innermost selves its transforming power will increase, so that we truly acquire consanguinity with Jesus, so that we are filled with his peace and grow in communion with one another.

Now, however, a further question arises. In the Upper Room, Christ gives his Body and Blood to the disciples, that is, he gives himself in the totality of his person. But can he do so? He is still physically present in their midst, he is standing in front of them! The answer is: at that hour, Jesus fulfils what he had previously proclaimed in the Good Shepherd discourse: "No one takes my life from me: I lay it down of my own accord. I have power to lay it down and I have power to take it again …" (Jn 10:18). No one can take his life from him: he lays it down by his own free decision. At that hour, he anticipates the crucifixion and resurrection. What is later to be fulfilled, as it were, physically in him, he already accomplishes in anticipation, in the freedom of his love. He gives his life and he takes it again in the resurrection, so as to be able to share it for ever.

Lord, today you give us your life, you give us yourself. Enter deeply within us with your love. Make us live in your "today". Make us instruments of your peace! Amen.

[00554-02.02] [Original text: English]

TESTO IN LINGUA TEDESCA

Liebe Brüder und Schwestern!

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem: So werden wir heute beim Hochgebet der heiligen Messe sagen. „Hoc est hodie" – die Liturgie des Gründonnerstags fügt in den Wortlaut des Gebets das „Heute" ein und unterstreicht damit die besondere Würde dieses Tages. „Heute" war es, daß er dies getan, uns für immer sich selbst im Sakrament seines Leibes und Blutes geschenkt hat. Dieses „Heute" ist zunächst Erinnerung an das Pascha von damals. Aber es ist doch mehr. Mit dem Hochgebet treten wir in dieses Heute hinein. Unser Heute berührt sich mit seinem Heute. Er tut es jetzt. Die Liturgie der Kirche will uns mit diesem Wort „Heute" dazu bringen, mit großer innerer Wachheit auf das Geheimnis dieses Tages zu achten, auf die Worte, in denen es sich ausdrückt. Versuchen wir also, neu dem Einsetzungsbericht zuzuhören, wie ihn die Kirche von der Schrift her im Hinschauen auf den Herrn selber formuliert hat.

Da wird uns als erstes treffen, daß der Einsetzungsbericht gar kein selbständiger Satz ist, sondern mit einem Relativpronomen beginnt: qui pridie. Dieses „qui" hängt den ganzen Bericht an das vorhergehende Gebetswort an: „Mache sie uns … zum Leib und Blut deines geliebten Sohnes, unseres Herrn Jesus Christus". Der Bericht ist so mit dem vorausgehenden Gebet, mit dem ganzen Hochgebet verknüpft und selbst zum Gebet gemacht. Er ist gar nicht einfach ein Bericht, der hier eingeschoben wäre, und es sind auch nicht selbständige Vollmachtsworte, die etwa das Gebet unterbrechen würden. Er ist Gebet. Und nur im Beten vollzieht sich der priesterliche Akt des Verwandelns, der Transsubstantiation unserer Gaben von Brot und Wein in den Leib und das Blut Christi. Betend steht die Kirche in diesem zentralen Moment ganz im Einklang mit dem Geschehen im Abendmahlsaal, denn Jesu Tun wird beschrieben mit den Worten: „Gratias agens benedixit Danksagend segnete er". Die römische Liturgie hat damit in zwei Wörter auseinandergenommen, was im hebräischen Berakha eins ist und im Griechischen hingegen auch in den zwei Worten Eucharistia und Eulogia erscheint. Der Herr dankt. Im Danken anerkennen wir, daß etwas Gabe ist, die von einem anderen kommt. Der Herr dankt und gibt damit das Brot, „die Frucht der Erde und der menschlichen Arbeit", an Gott zurück, um es von ihm her neu zu empfangen. Danken wird segnen. Was Gott in die Hand gegeben ist, kehrt von ihm gesegnet, verwandelt zurück. Die römische Liturgie hat also recht, wenn sie unser Beten in diesem heiligen Moment mit den Worten auslegt: „wir bringen [die Opfergaben] dar", „wir flehen", „wir bitten, nimm diese Opfergaben an", „segne sie". All das verbirgt sich in dem Wort „Eucharistia"

Im Einsetzungsbericht des Römischen Kanons gibt es noch eine Besonderheit, die wir in dieser Stunde bedenken wollen. Die betende Kirche blickt hin auf die Hände und auf die Augen des Herrn. Sie will gleichsam zusehen, sie will die Gebärde seines Betens und Tuns in dieser einzigartigen Stunde wahrnehmen, gleichsam auch über die Sinne der Gestalt Jesu begegnen. „Er nahm das Brot in seine heiligen und ehrwürdigen Hände…" Wir schauen auf die Hände hin, mit denen er Menschen geheilt hat; auf die Hände, mit denen er Kinder gesegnet hat; auf die Hände, die er Menschen aufgelegt hat; und auf die Hände, die am Kreuz angenagelt wurden und die für immer die Wundmale als Zeichen seiner todbereiten Liebe tragen. Nun sind wir beauftragt zu tun, was er getan hat: das Brot in die Hände zu nehmen, damit es durch das eucharistische Gebet verwandelt werde. In der Priesterweihe sind unsere Hände gesalbt worden, damit sie Segenshände werden. Bitten wir den Herrn in dieser Stunde, daß unsere Hände immer mehr dem Heil, dem Segen, der Vergegenwärtigung seiner Güte dienen!

Aus der Einleitung zum hohepriesterlichen Gebet Jesu (vgl. Joh 17, 1) entnimmt der Kanon dann die Worte: „Er erhob seine Augen zum Himmel, zu dir, seinem Vater, dem allmächtigen Gott." Der Herr lehrt uns, unsere Augen und vor allem unser Herz zu erheben. Aufzuschauen aus den Dingen dieser Welt und uns betend auf Gott hin auszurichten und aufzurichten. In einem Hymnus des Stundengebets bitten wir den Herrn, daß er unsere Augen behüte, damit sie nicht „vanitates" schöpfen und in uns einlassen – das Eitle, das Nichtige, den bloßen Schein. Wir bitten darum, daß nicht durch die Augen das Böse in uns eintritt und unser Sein von innen her verfälscht und beschmutzt. Wir wollen aber vor allem darum bitten, daß wir Augen haben für alles Wahre, Helle, Gute; daß wir sehend werden für die Gegenwart Gottes in der Welt. Daß wir mit Augen der Liebe, mit Jesu Augen in die Welt schauen und so die Brüder und Schwestern erkennen, die unser bedürfen, die auf unser Wort und unsere Tat warten.

Segnend bricht der Herr dann das Brot und teilt es seinen Jüngern aus. Brotbrechen ist die Gebärde des Hausvaters, der für seine Familie sorgt und ihr gibt, was sie zum Leben braucht. Es ist aber auch die Gebärde der Gastlichkeit, mit der der Fremdling, der Gast in die Familie aufgenommen wird, Anteil an ihrem Leben erhält. Teilen – Aus-teilen ist Einen. Durch das Teilen wird Gemeinschaft gestiftet. Im gebrochenen Brot teilt der Herr sich selbst aus. Der Gestus des Brechens weist auch geheimnisvoll auf seinen Tod hin, auf die Liebe bis zum Tod. Er teilt sich aus, das wahre „Brot für das Leben der Welt" (vgl. Joh 6, 51). Denn die Nahrung, die der Mensch im tiefsten braucht, ist die Gemeinschaft mit Gott selber. Im Danksagen und Segnen verwandelt Jesus das Brot, gibt nicht mehr irdisches Brot, sondern die Gemeinschaft mit sich selbst. Diese Verwandlung aber will der Anfang der Verwandlung der Welt sein. Daß sie Welt der Auferstehung, Welt Gottes werde. Ja, es geht um Verwandlung. Um den neuen Menschen und um die neue Welt, die im konsekrierten, verwandelten, transsubstantiierten Brot anbricht.

Wir hatten gesagt, daß Brotbrechen Gestus der Gemeinschaft, des Einens durch Teilen ist. So ist in der Gebärde selbst schon das innere Wesen der Eucharistie angedeutet: Sie ist Agape, sie ist leibhaftig gewordene Liebe. Im Wort Agape gehen die Bedeutungen Eucharistie und Liebe ineinander über. Im Brotbrechen Jesu hat die sich austeilende Liebe ihre äußerste Radikalität erlangt: Jesus läßt sich als lebendiges Brot brechen. Im ausgeteilten Brot erkennen wir das Geheimnis des Weizenkorns, das stirbt und so Frucht bringt. Wir erkennen die neue Brotvermehrung, die aus dem Sterben des Weizenkorns kommt und bis ans Ende der Welt reicht. Zugleich sehen wir, daß Eucharistie nie bloß liturgische Handlung sein kann. Sie ist nur ganz, wenn aus liturgischer Agape Liebe im Alltag wird. Im christlichen Kult ist beides eins – das Beschenktwerden durch den Herrn im gottesdienstlichen Akt und der Gottesdienst der Liebe dem Nächsten gegenüber. Bitten wir in dieser Stunde den Herrn, daß wir das ganze Geheimnis der Eucharistie immer mehr zu leben lernen und daß so die Verwandlung der Welt beginne.

Nach dem Brot nimmt Jesus den Kelch mit Wein. Der Römische Kanon bezeichnet den Kelch, den der Herr den Jüngern reicht, als præclarus calix (als „erhabenen Kelch") und spielt damit auf Ps 23 [22] an, den Psalm von Gott, dem mächtigen und gütigen Hirten. Da heißt es: "Du deckst mir den Tisch vor den Augen meiner Feinde … Du füllst mir reichlich den Becher" – calix præclarus. Der Römische Kanon versteht dieses Psalmwort als eine Prophetie, die in der Eucharistie sich erfüllt: Ja, der Herr deckt uns den Tisch mitten in den Bedrohungen dieser Welt, und er schenkt uns den herrlichen Kelch – den Kelch der großen Freude, des wahren Festes, nach dem wir uns alle sehnen. Den Kelch gefüllt mit dem Wein seiner Liebe. Der Kelch bedeutet Hochzeit: Nun ist die Stunde da, auf die die Hochzeit von Kana geheimnisvoll hingedeutet hatte. Ja, die Eucharistie ist mehr als Mahl, sie ist Hochzeit. Und diese Hochzeit beruht auf der Selbstschenkung Gottes bis in den Tod hinein. In den Abendmahlsworten Jesu und im Hochgebet der Kirche verbirgt sich das festliche Geheimnis der Hochzeit unter dem Wort „novum testamentum". Dieser Kelch ist das Neue Testament – „der Neue Bund in meinem Blut", so gibt Paulus in der zweiten Lesung das Kelchwort Jesu wieder (1 Kor 11, 25). Der Römische Kanon fügt hinzu, „des Neuen und ewigen Bundes", um die Unauflöslichkeit dieser hochzeitlichen Verbindung Gottes mit der Menschheit auszudrücken. Daß die alten Übersetzungen der Bibel nicht von Bund, sondern von Testament sprechen, hat seinen Grund darin, daß da nicht zwei gleichberechtigte Partner einander begegnen, sondern der unendliche Abstand von Gott und Mensch waltet. Was wir Neuen und Alten Bund nennen, ist nicht ein Akt der Partnerschaft zwischen zwei gleichen Partnern, sondern reines Geschenk von Gott her, der uns seine Liebe – sich selbst – vermacht. Freilich – durch dieses Geschenk seiner Liebe macht er uns dann über allen Abstand hinweg wirklich zu Partnern, vollzieht sich das hochzeitliche Geheimnis der Liebe.

Damit wir verstehen können, was in der Tiefe da geschieht, müssen wir noch genauer auf die Worte der Bibel und auf ihre ursprüngliche Bedeutung hören. Da sagen uns die Forscher, daß „einen Bund herstellen" in der frühen Zeit, von der die Geschichten der Väter Israels sprechen, die Bedeutung hat: „in einen fremden Blutsverband eintreten bzw. den Partner in den eigenen Verband einbeziehen und so in Rechtsgemeinschaft miteinander treten". Auf diese Weise wird eine reale, wenn auch nicht materielle Blutsverwandtschaft geschaffen. Die Partner werden zu „Brüdern aus demselben Fleisch und Bein". Der Bund bewirkt eine Ganzheit, die Friede ist (ThWNT II 105–137). Ahnen wir nun, was in der Stunde des Abendmahls geschah und seither sich immer wieder vollzieht, wenn wir Eucharistie feiern? Gott, der lebendige Gott, tritt mit uns in eine Gemeinschaft des Friedens, mehr, er schafft „Blutsverwandtschaft" zwischen sich und uns. Durch Jesu Menschwerdung, durch sein vergossenes Blut sind wir in eine ganz reale Blutsverwandtschaft mit Jesus und so mit Gott selbst hineingezogen. Das Blut Jesu ist seine Liebe, in der göttliches und menschliches Leben eins geworden sind. Bitten wir den Herrn, daß wir die Größe dieses Geheimnisses immer mehr verstehen. Daß es seine verwandelnde Kraft in unserm Innern entfalte, damit wir wahrhaft Blutsverwandte Jesu werden, von seinem Frieden durchdrungen und so auch einander zugehörig.

Nun steht aber noch einmal eine Frage auf. Christus reicht im Abendmahlssaal den Jüngern seinen Leib und sein Blut, das heißt sich selber in der Ganzheit seiner Person dar. Aber kann er das? Er steht doch noch physisch unter ihnen, ihnen gegenüber! Die Antwort lautet: In dieser Stunde tut Jesus das, was er zuvor in der Hirtenrede angekündigt hatte: „Niemand entreißt mir mein Leben, sondern ich gebe es von mir aus hin. Ich habe Macht, mein Leben hinzugeben, und ich habe Macht, es wieder zu nehmen…" (Joh 10, 18). Niemand kann ihm sein Leben entreißen: Er gibt es selbst. In dieser Stunde nimmt er Kreuzigung und Auferstehung voraus. Was dort sozusagen physisch an ihm geschehen wird, vollzieht er jetzt schon voraus in der Freiheit seiner Liebe. Er gibt sein Leben, und er nimmt es in der Auferstehung wieder, um es für immer austeilen zu können.

Herr, heute schenkst du uns dein Leben, schenkst uns dich selbst. Durchdringe uns mit deiner Liebe. Laß uns in deinem Heute leben. Mache uns zu Werkzeugen deines Friedens. Amen.

[00554-05.02] [Originalsprache: Deutsch]

TESTO IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos y hermanas

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem. Así diremos hoy en el Canon de la Santa Misa. «Hoc est hodie». La Liturgia del Jueves Santo incluye la palabra «hoy» en el texto de la plegaria, subrayando con ello la dignidad particular de este día. Ha sido «hoy» cuando Él lo ha hecho: se nos ha entregado para siempre en el Sacramento de su Cuerpo y de su Sangre. Este «hoy» es sobre todo el memorial de la Pascua de entonces. Pero es más aún. Con el Canon entramos en este «hoy». Nuestro hoy se encuentra con su hoy. Él hace esto ahora. Con la palabra «hoy», la Liturgia de la Iglesia quiere inducirnos a que prestemos gran atención interior al misterio de este día, a las palabras con que se expresa. Tratemos, pues, de escuchar de modo nuevo el relato de la institución, tal y como la Iglesia lo ha formulado basándose en la Escritura y contemplando al Señor mismo.

Lo primero que nos sorprende es que el relato de la institución no es una frase suelta, sino que empieza con un pronombre relativo: qui pridie. Este «qui» enlaza todo el relato con la palabra precedente de la oración, «…de manera que sea para nosotros Cuerpo y Sangre de tu Hijo amado, Jesucristo, nuestro Señor». De este modo, el relato está unido a la oración anterior, a todo el Canon, y se hace él mismo oración. En efecto, en modo alguno se trata de un relato sencillamente insertado aquí; tampoco se trata de palabras aisladas de autoridad, que quizás interrumpirían la oración. Es oración. Y solamente en la oración se cumple el acto sacerdotal de la consagración que se convierte en transformación, transustanciación de nuestros dones de pan y vino en el Cuerpo y la Sangre de Cristo. Rezando en este momento central, la Iglesia concuerda totalmente con el acontecimiento del Cenáculo, ya que el actuar de Jesús se describe con las palabras: «gratias agens benedixit», «te dio gracias con la plegaria de bendición». Con esta expresión, la Liturgia romana ha dividido en dos palabras, lo que en hebreo es una sola, berakha, que en griego, en cambio, aparece en los dos términos de eucharistía y eulogía. El Señor agradece. Al agradecer, reconocemos que una cosa determinada es un don de otro. El Señor agradece, y de este modo restituye a Dios el pan, «fruto de la tierra y del trabajo del hombre», para poder recibirlo nuevamente de Él. Agradecer se transforma en bendecir. Lo que ha sido puesto en las manos de Dios, vuelve de Él bendecido y transformado. Por tanto, la Liturgia romana tiene razón al interpretar nuestro orar en este momento sagrado con las palabras: «ofrecemos», «pedimos», «acepta», «bendice esta ofrenda». Todo esto se oculta en la palabra eucharistia.

Hay otra particularidad en el relato de la institución del Canon Romano que queremos meditar en esta hora. La Iglesia orante se fija en las manos y los ojos del Señor. Quiere casi observarlo, desea percibir el gesto de su orar y actuar en aquella hora singular, encontrar la figura de Jesús, por decirlo así, también a través de los sentidos. «Tomó pan en sus santas y venerables manos». Nos fijamos en las manos con las que Él ha curado a los hombres; en las manos con las que ha bendecido a los niños; en las manos que ha impuesto sobre los hombres; en las manos clavadas en la Cruz y que llevarán siempre los estigmas como signos de su amor dispuesto a morir. Ahora tenemos el encargo de hacer lo que Él ha hecho: tomar en las manos el pan para que sea convertido mediante la plegaria eucarística. En la Ordenación sacerdotal, nuestras manos fueron ungidas, para que fuesen manos de bendición. Pidamos al Señor ahora que nuestras manos sirvan cada vez más para llevar la salvación, para llevar la bendición, para hacer presente su bondad.

De la introducción a la Oración sacerdotal de Jesús (cf. Jn 17, 1), el Canon usa luego las palabras: "elevando los ojos al cielo, hacia ti, Dios, Padre suyo todopoderoso". El Señor nos enseña a levantar los ojos y sobre todo el corazón. A levantar la mirada, apartándola de las cosas del mundo, a orientarnos hacia Dios en la oración y así elevar nuestro ánimo. En un himno de la Liturgia de las Horas pedimos al Señor que custodie nuestros ojos, para que no acojan ni dejen que en nosotros entren las "vanitates", las vanidades, la banalidad, lo que sólo es apariencia. Pidamos que a través de los ojos no entre el mal en nosotros, falsificando y ensuciando así nuestro ser. Pero queremos pedir sobre todo que tengamos ojos que vean todo lo que es verdadero, luminoso y bueno, para que seamos capaces de ver la presencia de Dios en el mundo. Pidamos, para que miremos el mundo con ojos de amor, con los ojos de Jesús, reconociendo así a los hermanos y las hermanas que nos necesitan, que están esperando nuestra palabra y nuestra acción.

Después de bendecir, el Señor parte el pan y lo da a los discípulos. Partir el pan es el gesto del padre de familia que se preocupa de los suyos y les da lo que necesitan para la vida. Pero es también el gesto de la hospitalidad con que se acoge al extranjero, al huésped, y se le permite participar en la propia vida. Dividir, com-partir, es unir. A través del compartir se crea comunión. En el pan partido, el Señor se reparte a sí mismo. El gesto del partir alude misteriosamente también a su muerte, al amor hasta la muerte. Él se da a sí mismo, que es el verdadero «pan para la vida del mundo» (cf. Jn 6, 51). El alimento que el hombre necesita en lo más hondo es la comunión con Dios mismo. Al agradecer y bendecir, Jesús transforma el pan, y ya no es pan terrenal lo que da, sino la comunión consigo mismo. Esta transformación, sin embargo, quiere ser el comienzo de la transformación del mundo. Para que llegue a ser un mundo de resurrección, un mundo de Dios. Sí, se trata de transformación. Del hombre nuevo y del mundo nuevo que comienzan en el pan consagrado, transformado, transustanciado.

Hemos dicho que partir el pan es un gesto de comunión, de unir mediante el compartir. Así, en el gesto mismo se alude ya a la naturaleza íntima de la Eucaristía: ésta es agape, es amor hecho corpóreo. En la palabra «agape», se compenetran los significados de Eucaristía y amor. En el gesto de Jesús que parte el pan, el amor que se comparte ha alcanzado su extrema radicalidad: Jesús se deja partir como pan vivo. En el pan distribuido reconocemos el misterio del grano de trigo que muere y así da fruto. Reconocemos la nueva multiplicación de los panes, que deriva del morir del grano de trigo y continuará hasta el fin del mundo. Al mismo tiempo vemos que la Eucaristía nunca puede ser sólo una acción litúrgica. Sólo es completa, si el agape litúrgico se convierte en amor cotidiano. En el culto cristiano, las dos cosas se transforman en una, el ser agraciados por el Señor en el acto cultual y el cultivo del amor respecto al prójimo. Pidamos en esta hora al Señor la gracia de aprender a vivir cada vez mejor el misterio de la Eucaristía, de manera que comience así la transformación del mundo.

Después del pan, Jesús toma el cáliz de vino. El Canon Romano designa el cáliz que el Señor da a los discípulos, como «praeclarus calix», cáliz glorioso, aludiendo con ello al Salmo 23 [22], el Salmo que habla de Dios como del Pastor poderoso y bueno. En él se lee: «preparas una mesa ante mí, enfrente de mis enemigos; …y mi copa rebosa» (v. 5), calix praeclarus. El Canon Romano interpreta esta palabra del Salmo como una profecía que se cumple en la Eucaristía. Sí, el Señor nos prepara la mesa en medio de las amenazas de este mundo, y nos da el cáliz glorioso, el cáliz de la gran alegría, de la fiesta verdadera que todos anhelamos, el cáliz rebosante del vino de su amor. El cáliz significa la boda: ahora ha llegado «la hora» a la que en las bodas de Caná se aludía de forma misteriosa. Sí, la Eucaristía es más que un banquete, es una fiesta de boda. Y esta boda se funda en la autodonación de Dios hasta la muerte. En las palabras de la última Cena de Jesús y en el Canon de la Iglesia, el misterio solemne de la boda se esconde bajo la expresión «novum Testamentum». Este cáliz es el nuevo Testamento, «la nueva Alianza sellada con mi sangre», según la palabra de Jesús sobre el cáliz, que Pablo transmite en la segunda lectura de hoy (cf. 1 Co 11, 25). El Canon Romano añade: «de la alianza nueva y eterna», para expresar la indisolubilidad del vínculo nupcial de Dios con la humanidad. El motivo por el cual las traducciones antiguas de la Biblia no hablan de Alianza, sino de Testamento, es que no se trata de dos contrayentes iguales quienes la establecen, sino que entra en juego la infinita distancia entre Dios y el hombre. Lo que nosotros llamamos nueva y antigua Alianza no es un acuerdo entre dos partes iguales, sino un mero don de Dios, que nos deja como herencia su amor, a sí mismo. Y ciertamente, a través de este don de su amor Él, superando cualquier distancia, nos convierte verdaderamente en partner y se realiza el misterio nupcial del amor.

Para poder comprender lo que allí ocurre en profundidad, hemos de escuchar más cuidadosamente aún las palabras de la Biblia y su sentido originario. Los estudiosos nos dicen que, en los tiempos remotos de que hablan las historias de los Patriarcas de Israel, «ratificar una alianza» significaba «entrar con otros en una unión fundada en la sangre, o bien acoger a alguien en la propia federación y entrar así en una comunión de derechos recíprocos». De este modo se crea una consanguinidad real, aunque no material. Los aliados se convierten en cierto modo en «hermanos de la misma carne y la misma sangre». La alianza realiza un conjunto que significa paz (cf. ThWNT II 105-137). ¿Podemos ahora hacernos al menos una idea de lo que ocurrió en la hora de la última Cena y que, desde entonces, se renueva cada vez que celebramos la Eucaristía? Dios, el Dios vivo establece con nosotros una comunión de paz, más aún, Él crea una "consanguinidad" entre Él y nosotros. Por la encarnación de Jesús, por su sangre derramada, hemos sido injertados en una consanguinidad muy real con Jesús y, por tanto, con Dios mismo. La sangre de Jesús es su amor, en el que la vida divina y la humana se han hecho una cosa sola. Pidamos al Señor que comprendamos cada vez más la grandeza de este misterio. Que Él despliegue su fuerza trasformadora en nuestro interior, de modo que lleguemos a ser realmente consanguíneos de Jesús, llenos de su paz y, así, también en comunión unos con otros.

Sin embargo, ahora surge aún otra pregunta. En el Cenáculo, Cristo entrega a los discípulos su Cuerpo y su Sangre, es decir, Él mismo en la totalidad de su persona. Pero, ¿puede hacerlo? Todavía está físicamente presente entre ellos, está ante ellos. La respuesta es que, en aquella hora, Jesús cumple lo que previamente había anunciado en el discurso sobre el Buen Pastor: «Nadie me quita la vida, sino que yo la entrego libremente. Tengo poder para entregarla y tengo poder para recuperarla» (cf. Jn 10,18). Nadie puede quitarle la vida: la da por libre decisión. En aquella hora anticipa la crucifixión y la resurrección. Lo que, por decirlo así, se cumplirá físicamente en Él, Él ya lo lleva a cabo anticipadamente en la libertad de su amor. Él entrega su vida y la recupera en la resurrección para poderla compartir para siempre.

Señor, Tú nos entregas hoy tu vida, Tú mismo te nos das. Llénanos de tu amor. Haznos vivir en tu «hoy». Haznos instrumentos de tu paz. Amén.

[00554-04.02] [Texto original: Español]

TESTO IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos e irmãs!

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem: assim diremos hoje no Cânone da Santa Missa. «Hoc est hodie»: a liturgia de Quinta-feira Santa insere no texto da oração a palavra «hoje», sublinhando deste modo a dignidade particular deste dia. Foi «hoje» que Ele o fez: deu-Se a Si mesmo para sempre no sacramento do seu Corpo e do seu Sangue. Este «hoje» é antes de mais nada o memorial da Páscoa de então. Mas é mais do que isso. Com o Cânone, entramos neste «hoje». O nosso hoje entra em contacto com o seu hoje. Ele faz isto agora. Com a palavra «hoje», a liturgia da Igreja quer induzir-nos a olhar com grande atenção interior para o mistério deste dia, para as palavras com que o mesmo se exprime. Procuremos, pois, escutar de maneira nova a narração da instituição tal como a Igreja, com base na Escritura e contemplando o próprio Senhor, a formulou.

A primeira coisa que faz impressão é o facto de a narração da instituição não ser uma frase autónoma, mas começar por um pronome relativo: qui pridie. Este «qui» liga toda a narração à frase anterior da oração: «… se converta para nós no Corpo e Sangue de vosso amado Filho, Nosso Senhor Jesus Cristo». Deste modo, a narração fica unida à oração anterior, ao Cânone inteiro e torna-se ela mesma oração. Não é de modo algum uma simples narração aqui inserida nem se trata de palavras de autoridade, como um todo à parte, que interromperiam mesmo a oração. É oração. E somente na oração se realiza o acto sacerdotal da consagração, que se torna transformação, transubstanciação dos nossos dons de pão e vinho em Corpo e Sangue de Cristo. Rezando neste momento central, a Igreja está em total acordo com o acontecimento no Cenáculo, porque o agir de Jesus é descrito com as palavras: «gratias agens benedixit – dando graças, abençoou-o». Com esta expressão, a liturgia romana dividiu em duas palavras aquilo que, no hebraico é uma palavra só – berakha –, enquanto em grego já aparece em dois termos: eucharistía e eulogía. O Senhor dá graças. Ao agradecermos, reconhecemos que algo é dádiva que provém de outrem. O Senhor agradece e assim restitui a Deus o pão, «fruto da terra e do trabalho do homem», para de novo o receber d’Ele. Agradecer torna-se abençoar. O que foi entregue nas mãos de Deus, volta d’Ele abençoado e transformado. Por isso, a liturgia romana tem razão quando interpreta a nossa prece neste momento sagrado por meio das palavras: «oferecemos», «suplicamos», «pedimos que aceiteis», «que abençoeis estas ofertas». Tudo isto se encerra na palavra «eucharistia».

Há outra particularidade na narração da instituição referida no Cânone Romano, que queremos meditar nesta hora. A Igreja orante fixa o olhar nas mãos e nos olhos do Senhor. Quer de certo modo observá-Lo, quer perceber o gesto do seu rezar e do seu agir naquela hora singular, encontrar a figura de Jesus por assim dizer também através dos sentidos. «Ele tomou o pão em suas santas e adoráveis mãos…». Olhamos para aquelas mãos com que Ele curou os homens; mãos com que abençoou as crianças; mãos que impôs sobre as pessoas; mãos que foram cravadas na Cruz e que para sempre conservarão os estigmas como sinais do seu amor pronto a morrer. Agora somos nós encarregados de fazer o que Ele fez: tomar nas mãos o pão para que, através da oração eucarística, seja transformado. Na Ordenação Sacerdotal, as nossas mãos foram ungidas, para que se tornassem mãos de bênção. Nesta hora, rezemos ao Senhor para que as nossas mãos sirvam cada vez mais para levar a salvação, levar a bênção, tornar presente a sua bondade.

Depois o Cânone toma, da introdução à Oração Sacerdotal de Jesus (cf. Jo 17, 1), as palavras: «Levantando os olhos ao céu, para Vós, Deus, seu Pai todo-poderoso…». O Senhor ensina-nos a levantar os olhos e sobretudo o coração: a levantar o olhar, afastando-o das coisas do mundo; a orientar-nos na oração para Deus e assim nos erguermos. Num hino da Liturgia das Horas, pedimos ao Senhor que guarde os nossos olhos, para que não acolham nem deixem entrar em nós «vanitates» – as vaidades, as nulidades, aquilo que não passa de ilusão. Pedimos que, através dos olhos, não entre em nós o mal, falsificando e manchando assim o nosso ser. Mas queremos rezar principalmente para ter olhos que vejam tudo o que é verdadeiro, esplendoroso e bom; a fim de nos tornarmos capazes de ver a presença de Deus no mundo. Pedimos para vermos o mundo com olhos de amor, com os olhos de Jesus, reconhecendo assim os irmãos e irmãs que precisam de nós, que estão à espera da nossa palavra e da nossa acção.

Depois de o ter abençoado, o Senhor parte o pão e distribui-o aos discípulos. Partir o pão é o gesto do pai de família que se preocupa dos seus e lhes dá aquilo de que têm necessidade para a vida. Mas é também o gesto da hospitalidade com que o estrangeiro, o hóspede é acolhido na família sendo-lhe concedido tomar parte na sua vida. Partir-partilhar é unir. Através da partilha, cria-se comunhão. No pão repartido, o Senhor distribui-Se a Si próprio. O gesto de partir alude misteriosamente também à sua morte, ao amor até à morte. Ele distribui-Se a Si mesmo, verdadeiro «pão para a vida do mundo» (cf. Jo 6, 51). O alimento de que o homem, no mais fundo de si mesmo, tem necessidade é a comunhão com o próprio Deus. Dando graças e abençoando, Jesus transforma o pão: já não dá pão terreno, mas a comunhão consigo mesmo. Esta transformação, porém, quer ser o início da transformação do mundo, para que se torne um mundo de ressurreição, um mundo de Deus. Sim, trata-se de transformação: do homem novo e do mundo novo que têm início no pão consagrado, transformado, transubstanciado.

Dissemos que partir o pão é um gesto de comunhão, é unir através do partilhar. Deste modo, no próprio gesto já se alude à natureza íntima da Eucaristia: esta é agape, é amor que se tornou corpóreo. Na palavra «agape», compenetram-se os significados de Eucaristia e amor. No gesto de Jesus que parte o pão, o amor que se participa alcançou a sua radicalidade extrema: Jesus deixa-Se fazer em pedaços como pão vivo. No pão distribuído, reconhecemos o mistério do grão de trigo que morre e assim dá fruto. Reconhecemos a nova multiplicação dos pães, que deriva da morte do grão de trigo e continuará até ao fim do mundo. Ao mesmo tempo vemos que a Eucaristia não pode jamais ser apenas uma acção litúrgica; só está completa, quando a agape litúrgica se torna amor no dia a dia. No culto cristão, as duas coisas tornam-se uma só: ser cumulados de graça pelo Senhor no acto cultual e o culto do amor para com o próximo. Nesta hora, peçamos ao Senhor a graça de aprender a viver cada vez melhor o mistério da Eucaristia de tal modo que assim tenha início a transformação do mundo.

Depois do pão, Jesus toma o cálice do vinho. O Cânone Romano qualifica o cálice que o Senhor dá aos discípulos como «praeclarus calix» (como cálice sagrado), aludindo assim ao Salmo 23/22, o Salmo que fala de Deus como Pastor poderoso e bom. Lê-se nele: «Diante de mim, preparastes uma mesa, sob o olhar dos meus inimigos… o meu cálice transborda» – calix praeclarus. O Cânone Romano interpreta esta expressão do Salmo como uma profecia, que se realiza na Eucaristia: Sim, o Senhor prepara-nos a mesa no meio das ameaças deste mundo e dá-nos o cálice sagrado – o cálice da grande alegria, da verdadeira festa, pela qual todos anelamos – o cálice cheio do vinho do seu amor. O cálice significa as bodas: agora chegou a «hora», a que de forma misteriosa tinham aludido as bodas de Caná. Sim, a Eucaristia é mais do que um banquete, é uma festa de núpcias. E estas núpcias fundam-se na autodoacção de Deus até à morte. Nas palavras da Última Ceia de Jesus e no Cânone da Igreja, o mistério solene das núpcias esconde-se sob a expressão «novum Testamentum». Este cálice é o novo Testamento, «a nova Aliança no meu Sangue» – assim a frase de Jesus sobre o cálice é referida por Paulo, na segunda leitura de hoje (1 Cor 11, 25). O Cânone Romano acrescenta «da nova e eterna Aliança», para exprimir a indissolubilidade do laço nupcial de Deus com a humanidade. O motivo pelo qual as antigas traduções da Bíblia não falam de Aliança, mas de Testamento, deve-se ao facto de não serem dois contraentes de nível igual que se encontram, mas entra em acção a distância infinita entre Deus e o homem. Aquilo que designamos por nova e antiga Aliança não é um acto acordado entre duas partes iguais, mas dom meramente de Deus que nos deixa em herança o seu amor, nos deixa a Si mesmo. E com certeza Ele, superando toda a distância através deste dom do seu amor, torna-nos depois verdadeiramente seus «parceiros» e realiza-se o mistério nupcial do amor.

Para se poder compreender em profundidade o que ali sucede, devemos escutar ainda mais atentamente as palavras da Bíblia e o seu significado originário. Os estudiosos dizem-nos que, nos tempos remotos de que falam as histórias dos Patriarcas de Israel, «ratificar uma aliança» significa «entrar com outros numa ligação assente sobre o sangue, ou seja, acolher o outro na própria federação e assim entrar numa comunhão de direitos um com o outro». Deste modo, cria-se uma consanguinidade real, embora não material. Os parceiros tornam-se de algum modo «irmãos com a mesma carne e os mesmos ossos». A aliança realiza um todo que significa paz (cf. ThWNT, II, 105-137). Será possível agora fazermos pelo menos uma ideia do que sucedeu na hora da Última Ceia e que, desde então, se renova sempre que celebramos a Eucaristia? Deus, o Deus vivo estabelece connosco uma comunhão de paz; mais, Ele cria uma «consanguinidade» entre Ele e nós. Através da encarnação de Jesus, através do seu sangue derramado, fomos atraídos para dentro duma consanguinidade muito real com Jesus e, consequentemente, com o próprio Deus. O sangue de Jesus é o seu amor, no qual a vida divina e a humana se tornaram uma só. Peçamos ao Senhor para compreendermos cada vez mais a grandeza deste mistério, a fim de que o mesmo desenvolva de tal modo a sua força transformadora no nosso íntimo que nos tornemos verdadeiramente consanguíneos de Jesus, permeados pela sua paz e desta maneira também em comunhão uns com os outros.

Agora, porém, surge ainda uma nova questão. No Cenáculo, Cristo dá aos seus discípulos o seu Corpo e o seu Sangue, isto é, dá-Se a Si mesmo na totalidade da sua pessoa. Mas, como pode fazê-lo? Está ainda fisicamente presente no meio deles, está ali diante deles! Eis a resposta: naquela hora, Jesus realiza aquilo que tinha anteriormente anunciado no discurso do Bom Pastor: «Ninguém me tira a vida, sou Eu que a dou espontaneamente. Tenho o poder de a dar e o de a retomar…» (Jo 10, 18). Ninguém Lhe pode tirar a vida: é Ele que por livre decisão a dá. Naquela hora, antecipa a crucifixão e a ressurreição. O que se há-de realizar por assim dizer fisicamente n’Ele, cumpre-o Ele já de antemão na liberdade do seu amor. Ele dá a sua vida e retoma-a na ressurreição, a fim de poder partilhá-la para sempre.

Senhor, hoje destes-nos a vossa vida, destes-nos a Vós mesmo. Penetrai-nos com o vosso amor. Fazei-nos viver no vosso «hoje». Tornai-nos instrumentos da vossa paz. Amen.

[00554-06.02] [Texto original: Português]

[B0238-XX.02]