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SANTA MESSA DEL CRISMA NELLA BASILICA VATICANA, 09.04.2009


Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Papa presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.
La Messa del Crisma è concelebrata dal Santo Padre Benedetto XVI con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri - diocesani e religiosi - presenti a Roma.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la rinnovazione delle promesse sacerdotali, vengono benedetti l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e il crisma.
Riportiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la lettura del Santo Vangelo:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

Nel Cenacolo, la sera prima della sua passione, il Signore ha pregato per i suoi discepoli riuniti intorno a Lui, guardando al contempo in avanti alla comunità dei discepoli di tutti i secoli, a "quelli che crederanno in me mediante la loro parola" (Gv 17, 20). Nella preghiera per i discepoli di tutti i tempi Egli ha visto anche noi e ha pregato per noi. Ascoltiamo, che cosa chiede per i Dodici e per noi qui riuniti: "Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità" (17, 17ss). Il Signore chiede la nostra santificazione, la nostra consacrazione nella verità. E ci manda per continuare la sua stessa missione. Ma c’è in questa preghiera una parola che attira la nostra attenzione, ci sembra poco comprensibile. Gesù dice: "Per loro io consacro me stesso". Che cosa significa? Gesù non è forse di per sé "il Santo di Dio", come Pietro ha confessato nell’ora decisiva a Cafarnao (cfr Gv 6, 69)? Come può ora consacrare, santificare se stesso?

Per comprendere questo dobbiamo soprattutto chiarire che cosa vogliono dire nella Bibbia le parole "santo" e "santificare/consacrare". "Santo" – con questa parola si descrive innanzitutto la natura di Dio stesso, il suo modo d’essere tutto particolare, divino, che a Lui solo è proprio. Egli solo è il vero e autentico Santo nel senso originario. Ogni altra santità deriva da Lui, è partecipazione al suo modo d’essere. Egli è la Luce purissima, la Verità e il Bene senza macchia. Consacrare qualcosa o qualcuno significa quindi dare la cosa o la persona in proprietà a Dio, toglierla dall’ambito di ciò che è nostro e immetterla nell’atmosfera sua, così che non appartenga più alle cose nostre, ma sia totalmente di Dio. Consacrazione è dunque un togliere dal mondo e un consegnare al Dio vivente. La cosa o la persona non appartiene più a noi, e neppure più a se stessa, ma viene immersa in Dio. Un tale privarsi di una cosa per consegnarla a Dio, lo chiamiamo poi anche sacrificio: questo non sarà più proprietà mia, ma proprietà di Lui. Nell’Antico Testamento, la consegna di una persona a Dio, cioè la sua "santificazione" si identifica con l’Ordinazione sacerdotale, e in questo modo si definisce anche in che cosa consista il sacerdozio: è un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio. Con ciò si evidenziano ora le due direzioni che fanno parte del processo della santificazione/consacrazione. È un uscire dai contesti della vita del mondo – un "essere messi da parte" per Dio. Ma proprio per questo non è una segregazione. Essere consegnati a Dio significa piuttosto essere posti a rappresentare gli altri. Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti. Quando Gesù dice: "Io mi consacro", Egli si fa insieme sacerdote e vittima. Pertanto Bultmann ha ragione traducendo l’affermazione: "Io mi consacro" con "Io mi sacrifico". Comprendiamo ora che cosa avviene, quando Gesù dice: "Io mi consacro per loro"? È questo l’atto sacerdotale in cui Gesù – l’Uomo Gesù, che è una cosa sola col Figlio di Dio – si consegna al Padre per noi. È l’espressione del fatto che Egli è insieme sacerdote e vittima. Mi consacro – mi sacrifico: questa parola abissale, che ci lascia gettare uno sguardo nell’intimo del cuore di Gesù Cristo, dovrebbe sempre di nuovo essere oggetto della nostra riflessione. In essa è racchiuso tutto il mistero della nostra redenzione. E vi è contenuta anche l’origine del sacerdozio della Chiesa, del nostro sacerdozio.

Solo adesso possiamo comprendere fino in fondo la preghiera, che il Signore ha presentato al Padre per i discepoli – per noi. "Consacrali nella verità": è questo l’inserimento degli apostoli nel sacerdozio di Gesù Cristo, l’istituzione del suo sacerdozio nuovo per la comunità dei fedeli di tutti i tempi. "Consacrali nella verità": è questa la vera preghiera di consacrazione per gli apostoli. Il Signore chiede che Dio stesso li attragga verso di sé, dentro la sua santità. Chiede che Egli li sottragga a se stessi e li prenda come sua proprietà, affinché, a partire da Lui, essi possano svolgere il servizio sacerdotale per il mondo. Questa preghiera di Gesù appare due volte in forma leggermente modificata. Dobbiamo ambedue le volte ascoltare con molta attenzione, per cominciare a capire almeno vagamente la cosa sublime che qui sta verificandosi. "Consacrali nella verità". Gesù aggiunge: "La tua parola è verità". I discepoli vengono quindi tirati nell’intimo di Dio mediante l’essere immersi nella parola di Dio. La parola di Dio è, per così dire, il lavacro che li purifica, il potere creatore che li trasforma nell’essere di Dio. E allora, come stanno le cose nella nostra vita? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un’impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo? Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità di tutto ciò che, di solito, s’impone all’uomo di oggi? Ci lasciamo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio? Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo. Orbene, esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgrègano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta umiltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell’obbedienza, che si sottomette alla verità, alla volontà di Dio? "Consacrali nella verità; la tua parola è verità": questa parola dell’inserimento nel sacerdozio illumina la nostra vita e ci chiama a diventare sempre di nuovo discepoli di quella verità, che si dischiude nella parola di Dio.

Nell’interpretazione di questa frase possiamo fare ancora un passo ulteriore. Non ha forse Cristo detto di se stesso: "Io sono la verità" (cfr Gv 14, 6)? E non è forse Egli stesso la Parola vivente di Dio, alla quale si riferiscono tutte le altre singole parole? Consacrali nella verità – ciò vuol dire, dunque, nel più profondo: rendili una cosa sola con me, Cristo. Lègali a me. Tìrali dentro di me. E di fatto: esiste in ultima analisi solo un unico sacerdote della Nuova Alleanza, lo stesso Gesù Cristo. E il sacerdozio dei discepoli, pertanto, può essere solo partecipazione al sacerdozio di Gesù. Il nostro essere sacerdoti non è quindi altro che un nuovo e radicale modo di unificazione con Cristo. Sostanzialmente essa ci è stata donata per sempre nel Sacramento. Ma questo nuovo sigillo dell’essere può diventare per noi un giudizio di condanna, se la nostra vita non si sviluppa entrando nella verità del Sacramento. Le promesse che oggi rinnoviamo dicono a questo proposito che la nostra volontà deve essere così orientata: "Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes". L’unirsi a Cristo suppone la rinuncia. Comporta che non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà; che non desideriamo diventare questo o quest’altro, ma ci abbandoniamo a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi. "Vivo, tuttavia non vivo più io, ma Cristo vive in me", ha detto san Paolo a questo proposito (cfr Gal 2, 20). Nel "sì" dell’Ordinazione sacerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla "autorealizzazione". Ma bisogna giorno per giorno adempiere questo grande "sì" nei molti piccoli "sì" e nelle piccole rinunce. Questo "sì" dei piccoli passi, che insieme costituiscono il grande "sì", potrà realizzarsi senza amarezza e senza autocommiserazione soltanto se Cristo è veramente il centro della nostra vita. Se entriamo in una vera familiarità con Lui. Allora, infatti, sperimentiamo in mezzo alle rinunce, che in un primo tempo possono causare dolore, la gioia crescente dell’amicizia con Lui, tutti i piccoli e a volte anche grandi segni del suo amore, che ci dona continuamente. "Chi perde se stesso, si trova". Se osiamo perdere noi stessi per il Signore, sperimentiamo quanto sia vera la sua parola.

Essere immersi nella Verità, in Cristo – di questo processo fa parte la preghiera, in cui ci esercitiamo nell’amicizia con Lui e anche impariamo a conoscerLo: il suo modo di essere, di pensare, di agire. Pregare è un camminare in comunione personale con Cristo, esponendo davanti a Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche e le nostre gioie – è un semplice presentare noi stessi davanti a Lui. Ma affinché questo non diventi uno autocontemplarsi, è importante che impariamo continuamente a pregare pregando con la Chiesa. Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo l’Eucaristia in modo giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole, che la Chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come sacerdoti siamo nella Celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi siamo interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare e trasformare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole. Allora tutti diventiamo veramente "un corpo solo e un’anima sola" con Cristo.

Essere immersi nella verità e così nella santità di Dio – ciò significa per noi anche accettare il carattere esigente della verità; contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo così svariato è presente nel mondo; accettare la fatica della verità, perché la sua gioia più profonda sia presente in noi. Quando parliamo dell’essere consacrati nella verità, non dobbiamo neppure dimenticare che in Gesù Cristo verità e amore sono una cosa sola. Essere immersi in Lui significa essere immersi nella sua bontà, nell’amore vero. L’amore vero non è a buon mercato, può essere anche molto esigente. Oppone resistenza al male, per portare all’uomo il vero bene. Se diventiamo una cosa sola con Cristo, impariamo a riconoscerLo proprio nei sofferenti, nei poveri, nei piccoli di questo mondo; allora diventiamo persone che servono, che riconoscono i fratelli e le sorelle di Lui e in essi incontrano Lui stesso.

"Consacrali nella verità" – è questa la prima parte di quella parola di Gesù. Ma poi Egli aggiunge: "Io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati in verità" – cioè veramente (Gv 17, 19). Io penso che questa seconda parte abbia un suo specifico significato. Esistono nelle religioni del mondo molteplici modi rituali di "santificazione", di consacrazione di una persona umana. Ma tutti questi riti possono rimanere semplicemente una cosa formale. Cristo chiede per i discepoli la vera santificazione, che trasforma il loro essere, loro stessi; che non rimanga una forma rituale, ma sia un vero divenire proprietà di Dio stesso. Potremmo anche dire: Cristo ha chiesto per noi il Sacramento che ci tocca nella profondità del nostro essere. Ma ha anche pregato, affinché questa trasformazione giorno per giorno in noi si traduca in vita; affinché nel nostro quotidiano e nella nostra vita concreta di ogni giorno siamo veramente pervasi dalla luce di Dio.

Alla vigilia della mia Ordinazione sacerdotale, 58 anni fa, ho aperto la Sacra Scrittura, perché volevo ricevere ancora una parola del Signore per quel giorno e per il mio futuro cammino da sacerdote. Il mio sguardo cadde su questo brano: "Consacrali nella verità; la tua parola è verità". Allora seppi: il Signore sta parlando di me, e sta parlando a me. Precisamente la stessa cosa avverrà domani in me. In ultima analisi non veniamo consacrati mediante riti, anche se c’è bisogno di riti. Il lavacro, in cui il Signore ci immerge, è Lui stesso – la Verità in persona. Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi in Lui, nella Verità. Appartengo in un modo nuovo a Lui e così agli altri, "affinché venga il suo Regno". Cari amici, in questa ora del rinnovo delle promesse vogliamo pregare il Signore di farci diventare uomini di verità, uomini di amore, uomini di Dio. Preghiamolo di attirarci sempre più dentro di sé, affinché diventiamo veramente sacerdoti della Nuova Alleanza. Amen.

[00552-01.01] [Testo originale: Italiano]

TESTO IN LINGUA FRANCESE

Chers frères et sœurs,

Au Cénacle, la veille de sa passion, le Seigneur a prié pour ses disciples réunis autour de Lui, regardant en même temps par avance vers la communauté des disciples de tous les temps, vers « ceux qui accueilleront leur parole et croiront en moi » (Jn 17, 20). Dans sa prière pour tous ses disciples de tous les temps, il a pensé aussi à nous et il a prié pour nous. Écoutons ce qu’il demande pour les Douze et pour nous qui sommes réunis ici : « Consacre-les par la vérité : ta parole est vérité. De même que tu m’as envoyé dans le monde, moi aussi, je les ai envoyés dans le monde. Et pour eux je me consacre moi-même, afin qu’ils soient, eux aussi consacrés par la vérité » (Jn 17, 17ss). Le Seigneur demande notre sanctification, notre consécration dans la vérité. Et il nous envoie pour continuer sa propre mission. Mais il y a dans cette prière une phrase qui attire notre attention, qui nous semble peu compréhensible. Jésus dit : « Pour eux je me consacre moi-même ». Qu’est-ce que cela signifie ? En soi, Jésus n’est-il pas « le Saint de Dieu », comme Pierre l’a déclaré à un moment décisif à Capharnaüm (cf. Jn 6, 69) ? Comment peut-il à présent se consacrer, c’est-à-dire se sanctifier lui-même ?

Pour le comprendre, nous devons surtout expliquer ce que veulent dire dans la Bible les mots « saint » et « sanctifier/consacrer». « Saint » - ce mot indique avant tout la nature même de Dieu, sa manière d’être toute particulière, sa divinité, qui est propre à Lui seul. Lui seul est le véritable et authentique Saint au sens originaire. Toute autre sainteté provient de Lui, est une participation à sa manière d’être. Il est la Lumière très pure, la Vérité et le Bien sans tâche. Consacrer quelque chose ou quelqu’un signifie donc donner cette chose ou cette personne en propriété à Dieu, la retirer du cadre de ce qui est nôtre et l’introduire dans son domaine, afin qu’elle ne nous appartienne plus, mais soit totalement de Dieu. Consacrer c’est donc enlever du monde et remettre au Dieu vivant. La chose ou la personne ne nous appartient plus, et ne s’appartient même plus à elle-même, mais elle est plongée en Dieu. Se priver de cette manière d’une chose pour la donner à Dieu, c’est ce que nous appelons aussi sacrifice : cela ne sera plus ma propriété, mais sera sa propriété à Lui. Dans l’Ancien Testament, la remise d’une personne à Dieu, c’est-à-dire sa « sanctification », s’identifie avec l’Ordination sacerdotale, et, de cette manière, est défini aussi ce en quoi consiste le sacerdoce : c’est un passage de propriété, c’est être enlevé du monde et donné à Dieu. Ainsi sont mises en évidence les deux directions qui font partie du processus de sanctification/consécration. C’est sortir du contexte de la vie du monde – c’est « être mis à part » pour Dieu. Mais, pour cette raison précisément, ce n’est pas une ségrégation. Être remis à Dieu, cela signifie plutôt être placé pour représenter les autres. Le prêtre est soustrait aux liens du monde et donné à Dieu, et ainsi, à partir de Dieu, il doit être disponible pour les autres, pour tous. Quand Jésus dit : « Je me consacre », Il se fait en même temps prêtre et victime. C’est pourquoi Bultmann a raison en traduisant l’affirmation : « Je me consacre » par « Je me sacrifie ». Comprenons-nous à présent ce qui se produit quand Jésus dit : « Je me consacre pour eux » ? C’est là l’acte sacerdotal par lequel Jésus – l’homme Jésus, qui ne fait qu’un avec le Fils de Dieu – se donne au Père pour nous. C’est l’expression du fait qu’il est à la fois prêtre et victime. Je me consacre – je me sacrifie : cette expression abyssale, qui nous laisse percer l’intimité du cœur de Jésus Christ, devrait être continuellement l’objet de notre réflexion. En elle est englobé tout le mystère de notre rédemption. Et l’origine du sacerdoce de l‘Église, de notre sacerdoce y est aussi contenue.

À présent seulement, nous pouvons comprendre pleinement la prière que le Seigneur a présentée à son Père pour les disciples – pour nous. « Consacre-les par la vérité » : c’est là l’entrée des apôtres dans le sacerdoce de Jésus Christ, l’institution de son sacerdoce nouveau pour la communauté des fidèles de tous les temps. « Consacre-les par la vérité » : c’est là la véritable prière de consécration pour les apôtres. Le Seigneur demande que Dieu lui-même les attire à lui, dans sa sainteté. Il Lui demande de les soustraire à eux-mêmes et de les faire siens, afin que, à partir de Lui, ils puissent remplir leur service sacerdotal pour le monde. Cette prière de Jésus apparaît deux fois sous une forme légèrement modifiée. Les deux fois, nous devons l’écouter avec beaucoup d’attention pour commencer à comprendre au moins un peu le fait sublime qui est en train de s’accomplir. « Consacre-les par la vérité ». Jésus ajoute : « Ta parole est vérité ». Les disciples sont donc attirés dans l’intimité de Dieu par leur immersion dans la parole de Dieu. La parole de Dieu est, pour ainsi dire, le bain qui les purifie, le pouvoir créateur qui les transforme dans l’être de Dieu. Qu’en est-il alors dans notre vie ? Sommes-nous vraiment imprégnés de la parole de Dieu ? Est-elle vraiment la nourriture qui nous fait vivre, plus encore que le pain et les choses de ce monde ? La connaissons-nous vraiment ? L’aimons-nous ? Intérieurement, nous préoccupons-nous de cette parole au point qu’elle façonne réellement notre vie et informe notre pensée ? Ou bien notre pensée n’est-elle pas plutôt sans cesse modelée sur tout ce qui se dit et tout ce qui se fait ? Les opinions prédominantes ne sont-elles pas très souvent les critères sur lesquels nous nous basons ? Ne demeurons-nous pas, en fin de compte, dans la superficialité de tout ce qui s’impose en général à l’homme d’aujourd’hui ? Nous laissons-nous vraiment purifier dans notre for intérieur par la parole de Dieu ? Nietzsche a décrit ironiquement l’humilité et l’obéissance comme des vertus serviles, par lesquelles les hommes auraient été diminués. Il a mis à leur place la fierté et la liberté absolue de l’homme. Or, il y a des caricatures d’une humilité erronée et d’une soumission erronée, que nous ne voulons pas imiter. Mais il y a aussi l’orgueil destructeur et la présomption qui désintègrent toute communauté et aboutissent à la violence. Savons-nous apprendre du Christ la juste humilité qui correspond à la vérité de notre être, et l’obéissance qui se soumet à la vérité, à la volonté de Dieu ? « Consacre-les par la vérité ; ta parole est vérité » : ces mots qui introduisent dans le sacerdoce éclairent notre vie et nous appellent à devenir toujours à nouveau disciples de cette vérité, qui se révèle dans la parole de Dieu.

Dans l’interprétation de cette phrase, nous pouvons faire encore un pas de plus. Jésus n’a-t-il pas dit de lui-même : « Je suis la vérité » (cf. Jn 14. 6) ? Est-ce qu’il n’est pas lui-même la Parole vivante de Dieu, à laquelle se rapportent toutes les autres paroles ? Consacre-les par la vérité – cela veut donc dire, au sens le plus profond : fais qu’ils ne soient qu’un avec moi, le Christ. Attache-les à moi. Attire-les en moi. Et, de fait, il n’existe en dernière analyse qu’un seul prêtre de la Nouvelle Alliance, Jésus lui-même. Et le sacerdoce des disciples, par conséquent, ne peut être qu’une participation au sacerdoce de Jésus. Notre être de prêtres n’est donc pas autre chose qu’une nouvelle et radicale façon d’être unis au Christ. Substantiellement, cela nous a été donné pour toujours dans le Sacrement. Mais ce nouveau sceau sur notre être peut devenir pour nous un jugement de condamnation si notre vie ne se déploie pas dans la vérité du Sacrement. Les promesses que nous renouvelons aujourd’hui disent à ce propos que notre volonté doit être orientée ainsi : Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes. S’unir au Christ suppose le renoncement. Cela implique que nous ne voulons pas imposer notre route, ni notre volonté ; que nous ne désirons pas devenir ceci ou cela, mais que nous nous abandonnons à Lui, sans nous préoccuper de savoir où et de quelle manière il voudra se servir de nous. « Je vis, mais ce n’est plus moi, c’est le Christ qui vit en moi » (Ga 2, 20) a dit saint Paul à ce sujet. Dans le « oui » de l’Ordination sacerdotale nous avons fait ce renoncement fondamental à la volonté d’être autonomes, à l’« autoréalisation ». Mais, jour après jour, il faut réaliser ce grand « oui » dans les nombreux petits « oui » et dans les petits renoncements. Ce « oui » des petits pas qui mis ensemble forment le grand « oui », pourra se réaliser sans amertume et sans apitoiement sur soi, seulement si le Christ est vraiment le centre de notre vie. Dans la mesure où nous entrons dans une authentique familiarité avec Lui. Alors, en fait, au milieu des renoncements qui au début peuvent être cause de souffrances, nous faisons l’expérience de la joie croissante de l’amitié avec Lui, de tous les petits et parfois aussi des grands signes de l’amour qu’il nous donne continuellement. « Qui perd sa vie la trouve ». Si nous osons nous perdre nous-mêmes pour le Seigneur, nous vérifions alors par l’expérience combien cette parole est vraie.

Être plongés dans la Vérité, dans le Christ – la prière fait partie de ce processus dans lequel nous apprenons à devenir ses amis et aussi à le connaître : sa manière d’être, de penser, d’agir. Prier est un cheminement dans une communion personnelle avec le Christ, lui présentant notre vie quotidienne, nos succès et nos échecs, nos épreuves et nos joies – il s’agit simplement de se présenter devant Lui. Mais pour éviter que cela ne devienne une auto-contemplation, il est important que nous apprenions continuellement à prier en priant avec l'Église. Célébrer l’Eucharistie veut dire prier. Nous célébrons l’Eucharistie de manière juste, si en pensée et par tout notre être nous entrons dans les paroles que l'Église nous propose. En elles se trouve la prière de toutes les générations qui nous entraînent avec elles sur le chemin vers le Seigneur. Comme prêtres, nous sommes ceux qui, dans la célébration eucharistique, par leur prière, ouvrent la route à la prière des fidèles d’aujourd’hui. Si nous sommes intérieurement unis aux paroles de la prière, si nous nous laissons guider et transformer par elles, alors les fidèles eux-aussi trouvent l’accès à ces paroles. Alors, nous devenons tous véritablement « un seul corps et une seule âme » avec le Christ.

Être plongés dans la vérité et ainsi dans la sainteté de Dieu, cela signifie pour nous accepter aussi le caractère exigeant de la vérité ; s’opposer, dans les grandes choses comme dans les petites au mensonge, qui de manière extrêmement variée est présent dans le monde ; accepter le combat pour la vérité, pour que sa joie la plus profonde soit présente en nous. Quand nous parlons d’être consacrés par la vérité, nous ne devons pas non plus oublier qu’en Jésus Christ vérité et amour sont une seule réalité. Être plongés en Lui signifie être plongés dans sa bonté, dans l’amour vrai. L’amour vrai ne se trouve pas à bon marché, il peut même être très exigeant. Il oppose résistance au mal, pour conduire l’homme vers le bien véritable. Si nous devenons un avec le Christ, nous apprenons à Le reconnaître dans ceux qui souffrent, dans les pauvres, dans les petits de ce monde ; alors nous devenons des personnes qui servent, qui reconnaissent les frères et sœurs du Christ et qui en eux le rencontrent Lui-même.

« Consacre-les par la vérité » - c’est la première partie de cette parole de Jésus. Mais il ajoute après : « Pour eux, je me consacre moi-même, afin qu’ils soient, eux aussi, consacrés par la vérité » - c’est-à-dire authentiquement (Jn 17,19). Je pense que cette deuxième partie a une signification particulière. Il existe dans les diverses religions dans le monde de multiples modes rituels de « sanctification », de consécration d’une personne humaine. Mais tous ces rites peuvent rester à un niveau purement formel. Le Christ demande pour ses disciples la vraie sanctification, qui transforme leur être, qui les transforme eux-mêmes ; que cela ne reste pas purement rituel, mais soit une véritable appropriation par le Dieu lui-même. Nous pourrions dire encore : le Christ a demandé pour nous le Sacrement qui nous touche dans la profondeur de notre être. Mais il a prié aussi pour que cette transformation qui s’accomplit jour après jour en nous se traduise en vie ; il a prié pour que dans notre vie quotidienne, dans le concret de notre vie de chaque jour, nous soyons vraiment envahis par la lumière de Dieu.

A la veille de mon Ordination sacerdotale, il y a 58 ans, j’ai ouvert la Sainte Écriture, parce que je voulais encore recevoir une Parole du Seigneur pour ce jour et pour le chemin que j’aurai à parcourir comme prêtre. Et mon regard est tombé sur ce passage : « Consacre-les par la vérité : ta parole est vérité ». Alors j’ai su : le Seigneur est en train de parler de moi, et il est en train de me parler. C’est exactement ce qui arrivera pour moi demain. En dernière analyse, nous ne sommes pas consacrés par des rites, même s’il y a besoin de rites. Le bain dans lequel le Seigneur nous plonge, c’est Lui-même – la Vérité en personne. Ordination sacerdotale, veut dire : être immergés en Lui, dans la Vérité. Je lui appartiens d’une manière nouvelle et de cette manière j’appartiens aux autres, « pour que ton règne vienne ». Chers amis, au moment du renouvellement des promesses, nous voulons prier le Seigneur afin qu’il fasse de nous des hommes de vérité, des hommes d’amour, des hommes de Dieu. Prions-le de nous attirer toujours plus en lui, afin que nous devenions véritablement prêtres de la Nouvelle Alliance. Amen.

[00552-03.02] [Texte original: Français]

TESTO IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters,

In the Upper Room, on the eve of his Passion, the Lord prayed for his disciples gathered about him. At the same time he looked ahead to the community of disciples of all centuries, "those who believe in me through their word" (Jn 17:20). In his prayer for the disciples of all time, he saw us too, and he prayed for us. Let us listen to what he asks for the Twelve and for us gathered here: "Sanctify them in the truth; your word is truth. As you sent me into the world, so I have sent them into the world. And for their sake I consecrate myself, so that they also may be consecrated in truth" (17:17ff.). The Lord asks for our sanctification, our consecration in truth. And he sends us forth to carry on his own mission. But in this prayer there is one word which draws our attention, and appears difficult to understand. Jesus says: "For their sake I consecrate myself". What does this mean? Is Jesus not himself "the Holy One of God", as Peter acknowledged at that decisive moment in Capharnaum (cf. Jn 6:69)? How can he now consecrate – sanctify – himself?

To understand this, we need first to clarify what the Bible means by the words "holy" and "sanctify – consecrate". "Holy" – this word describes above all God’s own nature, his completely unique, divine, way of being, one which is his alone. He alone is the true and authentic Holy One, in the original sense of the word. All other holiness derives from him, is a participation in his way of being. He is purest Light, Truth and untainted Good. To consecrate something or someone means, therefore, to give that thing or person to God as his property, to take it out of the context of what is ours and to insert it in his milieu, so that it no longer belongs to our affairs, but is totally of God. Consecration is thus a taking away from the world and a giving over to the living God. The thing or person no longer belongs to us, or even to itself, but is immersed in God. Such a giving up of something in order to give it over to God, we also call a sacrifice: this thing will no longer be my property, but his property. In the Old Testament, the giving over of a person to God, his "sanctification", is identified with priestly ordination, and this also defines the essence of the priesthood: it is a transfer of ownership, a being taken out of the world and given to God. We can now see the two directions which belong to the process of sanctification-consecration. It is a departure from the milieux of worldly life – a "being set apart" for God. But for this very reason it is not a segregation. Rather, being given over to God means being charged to represent others. The priest is removed from worldly bonds and given over to God, and precisely in this way, starting with God, he must be available for others, for everyone. When Jesus says: "I consecrate myself", he makes himself both priest and victim. Bultmann was right to translate the phrase: "I consecrate myself" by "I sacrifice myself". Do we now see what happens when Jesus says: "I consecrate myself for them"? This is the priestly act by which Jesus – the Man Jesus, who is one with the Son of God – gives himself over to the Father for us. It is the expression of the fact that he is both priest and victim. I consecrate myself – I sacrifice myself: this unfathomable word, which gives us a glimpse deep into the heart of Jesus Christ, should be the object of constantly renewed reflection. It contains the whole mystery of our redemption. It also contains the origins of the priesthood in the Church, of our priesthood.

Only now can we fully understand the prayer which the Lord offered the Father for his disciples – for us. "Sanctify them in the truth": this is the inclusion of the Apostles in the priesthood of Jesus Christ, the institution of his new priesthood for the community of the faithful of all times. "Sanctify them in truth": this is the true prayer of consecration for the Apostles. The Lord prays that God himself draw them towards him, into his holiness. He prays that God take them away from themselves to make them his own property, so that, starting from him, they can carry out the priestly ministry for the world. This prayer of Jesus appears twice in slightly different forms. Both times we need to listen very carefully, in order to understand, even dimly the sublime reality that is about to be accomplished. "Sanctify them in the truth". Jesus adds: "Your word is truth". The disciples are thus drawn deep within God by being immersed in the word of God. The word of God is, so to speak, the bath which purifies them, the creative power which transforms them into God’s own being. So then, how do things stand in our own lives? Are we truly pervaded by the word of God? Is that word truly the nourishment we live by, even more than bread and the things of this world? Do we really know that word? Do we love it? Are we deeply engaged with this word to the point that it really leaves a mark on our lives and shapes our thinking? Or is it rather the case that our thinking is constantly being shaped by all the things that others say and do? Aren’t prevailing opinions the criterion by which we all too often measure ourselves? Do we not perhaps remain, when all is said and done, mired in the superficiality in which people today are generally caught up? Do we allow ourselves truly to be deeply purified by the word of God? Nietzsche scoffed at humility and obedience as the virtues of slaves, a source of repression. He replaced them with pride and man’s absolute freedom. Of course there exist caricatures of a misguided humility and a mistaken submissiveness, which we do not want to imitate. But there also exists a destructive pride and a presumption which tear every community apart and result in violence. Can we learn from Christ the correct humility which corresponds to the truth of our being, and the obedience which submits to truth, to the will of God? "Sanctify them in the truth; your word is truth": this word of inclusion in the priesthood lights up our lives and calls us to become ever anew disciples of that truth which is revealed in the word of God.

We can advance another step in the interpretation of these words. Did not Christ say of himself: "I am the truth" (cf. Jn 14:6)? Is he not himself the living Word of God, to which every other word refers? Sanctify them in the truth – this means, then, in the deepest sense: make them one with me, Christ. Bind them to me. Draw them into me. Indeed, when all is said and done, there is only one priest of the New Covenant, Jesus Christ himself. Consequently, the priesthood of the disciples can only be a participation in the priesthood of Jesus. Our being priests is simply a new and radical way of being united to Christ. In its substance, it has been bestowed on us for ever in the sacrament. But this new seal imprinted upon our being can become for us a condemnation, if our lives do not develop by entering into the truth of the Sacrament. The promises we renew today state in this regard that our will must be directed along this path: "Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes". Being united to Christ calls for renunciation. It means not wanting to impose our own way and our own will, not desiring to become someone else, but abandoning ourselves to him, however and wherever he wants to use us. As Saint Paul said: "It is no longer I who live, but Christ who lives in me" (Gal 2:20). In the words "I do", spoken at our priestly ordination, we made this fundamental renunciation of our desire to be independent, "self-made". But day by day this great "yes" has to be lived out in the many little "yeses" and small sacrifices. This "yes" made up of tiny steps which together make up the great "yes", can be lived out without bitterness and self-pity only if Christ is truly the center of our lives. If we enter into true closeness to him. Then indeed we experience, amid sacrifices which can at first be painful, the growing joy of friendship with him, and all the small and sometimes great signs of his love, which he is constantly showing us. "The one who loses himself, finds himself". When we dare to lose ourselves for the Lord, we come to experience the truth of these words.

To be immersed in the Truth, in Christ – part of this process is prayer, in which we exercise our friendship with him and also come to know him: his way of being, of thinking, of acting. Praying is a journey in personal communion with Christ, setting before him our daily life, our successes and failures, our struggles and our joys – in a word, it is to stand in front of him. But if this is not to become a form of self-contemplation, it is important that we constantly learn to pray by praying with the Church. Celebrating the Eucharist means praying. We celebrate the Eucharist rightly if with our thoughts and our being we enter into the words which the Church sets before us. There we find the prayer of all generations, which accompany us along the way towards the Lord. As priests, in the Eucharistic celebration we are those who by their prayer blaze a trail for the prayer of today’s Christians. If we are inwardly united to the words of prayer, if we let ourselves be guided and transformed by them, then the faithful will also enter into those words. And then all of us will become truly "one body, one spirit" in Christ.

To be immersed in God’s truth and thus in his holiness – for us this also means to acknowledge that the truth makes demands, to stand up, in matters great and small, to the lie which in so many different ways is present in the world; accepting the struggles associated with the truth, because its inmost joy is present within us. Nor, when we talk about being sanctified in the truth, should we forget that in Jesus Christ truth and love are one. Being immersed in him means being immersed in his goodness, in true love. True love does not come cheap, it can also prove quite costly. It resists evil in order to bring men true good. If we become one with Christ, we learn to recognize him precisely in the suffering, in the poor, in the little ones of this world; then we become people who serve, who recognize our brothers and sisters in him, and in them, we encounter him.

"Sanctify them in truth" – this is the first part of what Jesus says. But then he adds: "I consecrate myself, so that they also may be consecrated in truth" – that is, truly consecrated (Jn 17:19). I think that this second part has a special meaning of its own. In the world’s religions there are many different ritual means of "sanctification", of the consecration of a human person. Yet all these rites can remain something merely formal. Christ asks for his disciples the true sanctification which transforms their being, their very selves; he asks that it not remain a ritual formality, but that it make them truly the "property" of God himself. We could even say that Christ prayed on behalf of us for that sacrament which touches us in the depths of our being. But he also prayed that this interior transformation might be translated day by day in our lives; that in our everyday routine and our concrete daily lives we might be truly pervaded by the light of God.

On the eve of my priestly ordination, fifty-eight years ago, I opened the Sacred Scripture, because I wanted to receive once more a word from the Lord for that day and for my future journey as a priest. My gaze fell on this passage: "Sanctify them in the truth; your word is truth". Then I realized: the Lord is speaking about me, and he is speaking to me. This very same thing will be accomplished tomorrow in me. When all is said and done, we are not consecrated by rites, even though rites are necessary. The bath in which the Lord immerses us is himself – the Truth in person. Priestly ordination means: being immersed in him, immersed in the Truth. I belong in a new way to him and thus to others, "that his Kingdom may come". Dear friends, in this hour of the renewal of promises, we want to pray to the Lord to make us men of truth, men of love, men of God. Let us implore him to draw us ever anew into himself, so that we may become truly priests of the New Covenant. Amen.

[00552-02.02] [Original text: English]

TESTO IN LINGUA TEDESCA

Liebe Brüder und Schwestern!

Am Abend vor seinem Leiden hat der Herr im Abendmahlsaal für seine um ihn versammelten Jünger gebetet und dabei zugleich vorausgeschaut auf die Jüngergemeinde aller Jahrhunderte, auf alle, „die durch ihr Wort an mich glauben" (Joh 17, 20). Im Gebet für die Jünger aller Zeiten hat er auch uns gesehen und für uns gebetet. Hören wir, worum er den Vater für die Zwölf, für uns hier bittet: „Heilige sie in der Wahrheit; dein Wort ist Wahrheit. Wie du mich in die Welt gesandt hast, so habe auch ich sie in die Welt gesandt. Und ich heilige mich für sie, damit auch sie in Wahrheit geheiligt sind" (17, 17ff). Der Herr betet für uns um Heiligung, um Heiligung in der Wahrheit. Und er sendet uns zur Fortführung seiner eigenen Sendung. Aber da ist in diesem Gebet ein Wort, das uns aufhorchen läßt, uns unverständlich scheint. Jesus sagt: „Ich heilige mich für sie." Was bedeutet das? Ist Jesus nicht in sich „der Heilige Gottes", als den ihn Petrus in der kritischen Stunde zu Karphanaum bekannt hat (Joh 6, 69)? Wie kann er sich nun selbst heiligen?

Um dies zu verstehen, müssen wir vor allem klären, was die Worte „heilig" und „heiligen" in der Bibel aussagen. „Heilig" – mit diesem Wort wird zunächst die Wesensart Gottes selbst umschrieben, seine ganz eigene, göttliche Weise des Seins, die nur ihm eigen ist. Er allein ist der wirklich und ursprünglich Heilige. Alle andere Heiligkeit leitet sich von ihm ab, ist Teilhabe an seiner Weise des Seins. Er ist das reine Licht, die Wahrheit und das Gute ohne Makel. Etwas oder jemanden heiligen bedeutet daher, die Sache oder die Person Gott zueignen, sie aus dem Bereich des Unsrigen herausnehmen und sie in seine Atmosphäre übertragen, so daß dieses nicht mehr zur Welt, zum Unsrigen gehört, sondern ganz Gottes ist. So ist Heiligung Weggabe aus der Welt und Übergabe an den lebendigen Gott. Die Sache oder die Person gehört nicht mehr uns, nicht mehr sich selbst, sondern sie wird in Gott eingetaucht. Weggabe einer Sache an Gott nennen wir aber auch Opfer: Dies soll nun nicht mehr mir gehören, sondern ihm. Weggabe einer Person an Gott, Heiligung einer Person ist im Alten Testament identisch mit Priesterweihe, und so wird zugleich definiert, worin Priestertum besteht: Übereignung aus der Welt heraus und Zueignung zu Gott. Damit werden nun die zwei Richtungen deutlich, die zum Geschehen der Heiligung gehören. Es ist Heraustreten aus den Zusammenhängen des weltlichen Lebens – Aussonderung für Gott. Aber gerade so ist es nicht Absonderung. Übergabe an Gott bedeutet vielmehr Stellvertretung für die anderen. Der Priester wird aus den weltlichen Zusammenhängen weggegeben an Gott, und gerade so muß er für die anderen, für alle von Gott her da sein. Wenn Jesus sagt: „Ich heilige mich", so macht er sich damit zum Priester und zum Opfer zugleich. Bultmann hat daher recht, wenn er das Wort „Ich heilige mich" übersetzt: „Ich opfere mich". Verstehen wir nun, was geschieht, wenn Jesus sagt: „Ich heilige mich für sie"? Dies ist der priesterliche Akt, in dem Jesus – der mit dem Sohn Gottes geeinte Mensch Jesus – sich für uns dem Vater übergibt. Es ist Ausdruck dafür, daß er Priester und Opfer zugleich ist. Ich heilige mich – ich opfere mich: Dieses abgründige Wort, das uns zutiefst in das Herz Jesu Christi hineinschauen läßt, sollten wir immer wieder bedenken. Darin liegt das ganze Geheimnis unserer Erlösung. Und der Ursprung des Priestertums der Kirche – unseres Priestertums – liegt darin.

Jetzt erst können wir die Bitte ganz verstehen, die der Herr für die Jünger – für uns – vor den Vater hingestellt hat. „Heilige sie in der Wahrheit": Dies ist die Einsetzung der Apostel ins Priestertum Jesu Christi, die Einsetzung seines neuen Priestertums für die Gemeinschaft der Glaubenden aller Zeiten. „Heilige sie in der Wahrheit": Das ist das eigentliche Weihegebet für die Apostel. Der Herr bittet darum, daß Gott sie selbst an sich zieht, in seine Heiligkeit hinein. Daß er sie aus dem Eigenen wegnimmt und sie sich zueignet, damit sie von ihm her priesterlichen Dienst für die Welt tun können. Diese Bitte Jesu erscheint zweimal in leicht abgewandelter Form. Wir müssen beide Male genau zuhören, damit wir das Große wenigstens ahnungsweise zu verstehen beginnen, das hier geschieht. „Heilige sie in der Wahrheit." Jesus fügt hinzu: „Dein Wort ist Wahrheit." Die Jünger werden also in Gott hineingezogen, indem sie in das Wort Gottes eingetaucht werden. Das Wort Gottes ist gleichsam das Bad, das sie reinigt, die schöpferische Macht, die sie umformt in Gottes Sein hinein. Und wie ist es da mit uns? Sind wir wirklich durchtränkt vom Wort Gottes? Ist es wirklich die Nahrung, von der wir leben, mehr als vom Brot und von den Dingen dieser Welt? Kennen wir es wirklich? Lieben wir es? Gehen wir innerlich damit um, so daß es wirklich unser Leben prägt, unser Denken formt? Oder formt sich unser Denken nicht doch immer wieder aus alledem, was man sagt, was man tut? Sind nicht doch oft genug die herrschenden Meinungen der Maßstab, an dem wir uns messen? Bleiben wir nicht doch in der Oberflächlichkeit all dessen, was sich dem Menschen von heute eben so aufdrängt? Lassen wir uns vom Wort Gottes wirklich inwendig reinigen? Nietzsche hat Demut und Gehorsam als Knechtstugenden verhöhnt, mit denen man die Menschen niedergehalten habe. An deren Stelle hat er den Stolz und die absolute Freiheit des Menschen gesetzt. Nun, es gibt Zerrbilder falscher Demut und falscher Unterwürfigkeit, die wir nicht nachahmen wollen. Aber es gibt auch den zerstörerischen Hochmut und die Selbstherrlichkeit, die jede Gemeinschaft zersetzen und in der Gewalt enden. Lernen wir von Christus die rechte Demut, die der Wahrheit unseres Seins entspricht, und jenen Gehorsam, der sich der Wahrheit, dem Willen Gottes beugt? „Heilige sie in der Wahrheit; dein Wort ist Wahrheit": Dieses Wort der Einsetzung ins Priestertum leuchtet in unser Leben hinein und ruft uns, immer neu Jünger der Wahrheit zu werden, die sich in Gottes Wort öffnet.

Wir dürfen in der Auslegung dieses Satzes noch einen Schritt weitergehen. Hat nicht Christus von sich selbst gesagt: „Ich bin die Wahrheit" (vgl. Joh 14, 6)? Und ist er nicht selbst das lebendige Wort Gottes, auf das alle einzelnen Wörter verweisen? Heilige sie in der Wahrheit – das heißt dann zutiefst: Einige sie mit mir – Christus. Binde sie an mich. Ziehe sie hinein in mich. Und in der Tat: Es gibt letztlich nur einen Priester des Neuen Bundes, Jesus Christus selbst. Und das Priestertum der Jünger kann daher nur Teilhabe an Jesu Priestertum sein. Unser Priestersein ist daher nichts anderes als eine neue, radikale Weise der Einigung mit Christus. Seinsmäßig ist sie uns im Sakrament für immer geschenkt. Aber dieses neue Siegel des Seins kann uns zum Gericht werden, wenn nicht unser Leben in die Wahrheit des Sakraments hineinwächst. Das Weiheversprechen, das wir heute wiederholen, sagt dazu, daß unser Wille darauf gerichtet sein muß, Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes. Das Einswerden mit Christus setzt Verzicht voraus. Es schließt ein, daß wir nicht unseren Weg und unseren Willen durchsetzen wollen. Nicht dies oder jenes werden möchten, sondern uns ihm überlassen, wo und wie er uns brauchen will. „Ich lebe, doch nicht mehr ich, sondern Christus lebt in mir", hat der heilige Paulus dazu gesagt (vgl. Gal 2, 20). Im Ja der Priesterweihe haben wir diesen grundlegenden Verzicht auf das Selber-sein-Wollen, auf das Sich-selbst-Verwirklichen vollzogen. Aber dieses große Ja muß in vielen kleinen Ja und in kleinen Verzichten Tag um Tag eingelöst werden. Ohne Bitterkeit und ohne Selbstbemitleidung kann dieses Ja kleiner Schritte, die zusammen das große Ja ausmachen, nur möglich werden, wenn Jesus Christus wirklich die Mitte unseres Lebens ist. Wenn wir wirklich mit ihm vertraut werden. Denn dann erleben wir mitten in Verzichten, die zunächst schmerzen mögen, die wachsende Freude der Freundschaft mit ihm, all die kleinen und manchmal auch großen Zeichen seiner Liebe, die er uns fortwährend schenkt. „Wer sich verliert, findet sich." Wenn wir es wagen, uns für den Herrn zu verlieren, erfahren wir, wie wahr sein Wort ist.

In die Wahrheit, in Christus eingetaucht werden, dazu gehört das Beten, in dem wir Freundschaft mit ihm einüben, in dem wir ihn auch kennenlernen – seine Weise des Seins, des Denkens, des Tuns. Beten ist persönliche Weggemeinschaft mit Christus, in dem wir unseren Alltag, unser Gelingen und unser Scheitern, unsere Mühsale und Freuden vor ihm ausbreiten – ganz einfach uns selbst vor ihn hinstellen. Aber damit daraus nicht Selbstbespiegelung wird, ist es wichtig, daß wir immer wieder beten lernen im Mitbeten mit der Kirche. Eucharistie feiern heißt beten. Wir feiern die Eucharistie recht, wenn wir mit unserem Denken und Sein in die Worte eintreten, die uns die Kirche vorgibt. In ihnen ist das Beten aller Generationen anwesend. Sie alle nehmen uns mit auf den Weg zum Herrn. Und als Priester sind wir in der Eucharistie die Vor-beter der Gläubigen von heute. Wenn wir mit diesen Gebetsworten inwendig eins sind, wenn wir uns von ihnen führen und umformen lassen, dann finden auch die Gläubigen in diese Worte hinein. Dann werden wir alle wirklich „ein Leib und ein Geist" mit Christus.

In die Wahrheit eingetaucht werden und so in die Heiligkeit Gottes – das bedeutet auch, daß wir den Ernst der Wahrheit annehmen. Daß wir uns im Großen und Kleinen der Lüge entgegenstellen, die auf so vielfältige Weise in der Welt anwesend ist. Daß wir die Mühsal der Wahrheit annehmen, damit ihre tiefere Freude in uns gegenwärtig ist. Wenn wir vom Geheiligtwerden in der Wahrheit sprechen, dann vergessen wir auch nicht, daß in Jesus Christus Wahrheit und Liebe eins sind. Eingetauchtwerden in ihn ist Eingetauchtwerden in seine Güte, in die wahre Liebe. Die wahre Liebe ist nicht billig, sie kann auch streng sein. Sie leistet dem Bösen Widerstand, um dem Menschen das wirklich Gute zu bringen. Wenn wir mit Christus eins werden, dann lernen wir, ihn gerade in den Leidenden, in den Armen, in den Kleinen dieser Welt zu erkennen; dann werden wir Dienende, die seine Brüder und Schwestern erkennen und in ihnen ihm selbst begegnen.

„Heilige sie in der Wahrheit" – das ist das eine Wort Jesu. Aber dann sagt er noch: „Ich heilige mich, damit sie in Wahrheit – wirklich – geheiligt sind." Ich denke, dieses zweite Wort habe seine eigene Bedeutung. Es gibt ja in den Religionen der Welt vielfältige rituelle Weisen der Heiligung, der Weihung eines Menschen. Aber all diese Riten können bloße Form bleiben. Christus bittet für die Jünger um die wirkliche Heiligung, die ihr Sein, sie selbst verwandelt, die nicht rituelle Form bleibt, sondern wirkliche Übereignung an Gott selber wird. Wir könnten auch sagen: Christus hat uns das Sakrament erbetet, das uns in der Tiefe unseres Seins trifft. Aber er hat auch darum gebetet, daß diese Verwandlung in uns täglich Leben wird. Daß wir wirklich in unserem Alltag, in unseren täglichen Lebensvollzügen von Gottes Licht durchdrungen werden.

Am Vorabend meiner Priesterweihe vor 58 Jahren habe ich die Heilige Schrift aufgeschlagen, weil ich noch ein Wort des Herrn für diesen Tag und für meinen kommenden Weg als Priester empfangen wollte. Mein Blick fiel auf diese Stelle: „Heilige sie in der Wahrheit; dein Wort ist Wahrheit." Da wußte ich: Der Herr spricht von mir, und er spricht zu mir. Genau dies wird morgen an mir geschehen. Wir werden letztlich nicht durch Riten geweiht, auch wenn es des Ritus bedarf. Das Bad, in das uns der Herr eintaucht, ist er selbst – die Wahrheit in Person. Priesterweihe heißt: Eingetauchtwerden in ihn, in die Wahrheit. Ich gehöre auf neue Weise ihm und so den anderen, „damit sein Reich komme". Liebe Freunde, bitten wir in dieser Stunde der Weiheerneuerung den Herrn, daß er uns zu Menschen der Wahrheit macht, zu Menschen der Liebe, zu Gottesmenschen. Bitten wir ihn, daß er uns immer mehr in sich hineinzieht, damit wir wahrhaft Priester des Neuen Bundes werden. Amen.

[00552-05.02] [Originalsprache: Deutsch]

TESTO IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos y hermanas

En el Cenáculo, la tarde antes de su pasión, el Señor oró por sus discípulos reunidos en torno a Él, pero con la vista puesta al mismo tiempo en la comunidad de los discípulos de todos los siglos, «los que crean en mí por la palabra de ellos» (Jn 17,20). En la plegaria por los discípulos de todos los tiempos, Él nos ha visto también a nosotros y ha rezado por nosotros. Escuchemos lo que pide para los Doce y para los que estamos aquí reunidos: «Santifícalos en la verdad: tu palabra es verdad. Como tú me enviaste al mundo, así los envío yo también al mundo. Y por ellos me consagro yo, para que también se consagren ellos en la verdad» (17,17ss). El Señor pide nuestra santificación, nuestra consagración en la verdad. Y nos envía para continuar su misma misión. Pero hay en esta súplica una palabra que nos llama la atención, que nos parece poco comprensible. Dice Jesús: «Por ellos me consagro yo». ¿Qué quiere decir? ¿Acaso Jesús no es de por sí «el Santo de Dios», como confesó Pedro en la hora decisiva en Cafarnaún (cf. Jn 6,69)? ¿Cómo puede ahora consagrarse, es decir, santificarse a sí mismo?

Para entender esto, hemos de aclarar antes de nada lo que quieren decir en la Biblia las palabras «santo» y «santificar/consagrar». Con el término «santo» se describe en primer lugar la naturaleza de Dios mismo, su modo de ser del todo singular, divino, que corresponde sólo a Él. Sólo Él es el auténtico y verdadero Santo en el sentido originario. Cualquier otra santidad deriva de Él, es participación en su modo de ser. Él es la Luz purísima, la Verdad y el Bien sin mancha. Por tanto, consagrar algo o alguno significa dar en propiedad a Dios algo o alguien, sacarlo del ámbito de lo que es nuestro e introducirlo en su ambiente, de modo que ya no pertenezca a lo nuestro, sino enteramente a Dios. Consagración es, pues, un sacar del mundo y un entregar al Dios vivo. La cosa o la persona ya no nos pertenece, ni pertenece a sí misma, sino que está inmersa en Dios. Un privarse así de algo para entregarlo a Dios, lo llamamos también sacrificio: ya no será propiedad mía, sino suya. En el Antiguo Testamento, la entrega de una persona a Dios, es decir, su «santificación», se identifica con la Ordenación sacerdotal y, de este modo, se define también en qué consiste el sacerdocio: es un paso de propiedad, un ser sacado del mundo y entregado a Dios. Con ello se subrayan ahora las dos direcciones que forman parte del proceso de la santificación/consagración. Es un salir del contexto de la vida mundana, un «ser puestos a parte» para Dios. Pero precisamente por eso no es una segregación. Ser entregados a Dios significa más bien ser puestos para representar a los otros. El sacerdote es sustraído a los lazos mundanos y entregado a Dios, y precisamente así, a partir de Dios, debe quedar disponible para los otros, para todos. Cuando Jesús dice «Yo me consagro», Él se hace a la vez sacerdote y víctima. Por tanto, Bultmann tiene razón traduciendo la afirmación «Yo me consagro» por «Yo me sacrifico». ¿Comprendemos ahora lo que sucede cuando Jesús dice: «Por ellos me consagro yo»? Éste es el acto sacerdotal en el que Jesús – el hombre Jesús, que es una cosa sola con el Hijo de Dios – se entrega al Padre por nosotros. Es la expresión de que Él es al mismo tiempo sacerdote y víctima. Me consagro, me sacrifico: esta palabra abismal, que nos permite asomarnos a lo íntimo del corazón de Jesucristo, debería ser una y otra vez objeto de nuestra reflexión. En ella se encierra todo el misterio de nuestra redención. Y ella contiene también el origen del sacerdocio de la Iglesia, de nuestro sacerdocio.

Sólo ahora podemos comprender a fondo la súplica que el Señor ha presentado al Padre por los discípulos, por nosotros. «Conságralos en la verdad»: ésta es la inserción de los apóstoles en el sacerdocio de Jesucristo, la institución de su sacerdocio nuevo para la comunidad de los fieles de todos los tiempos. «Conságralos en la verdad»: ésta es la verdadera oración de consagración para los apóstoles. El Señor pide que Dios mismo los atraiga hacia sí, al seno de su santidad. Pide que los sustraiga de sí mismos y los tome como propiedad suya, para que, desde Él, puedan desarrollar el servicio sacerdotal para el mundo. Esta oración de Jesús aparece dos veces en forma ligeramente modificada. En ambos casos debemos escuchar con mucha atención para empezar a entender, al menos vagamente, la sublime realidad que se está operando aquí. «Conságralos en la verdad». Y Jesús añade: «Tu palabra es verdad». Por tanto, los discípulos son sumidos en lo íntimo de Dios mediante su inmersión en la palabra de Dios. La palabra de Dios es, por decirlo así, el baño que los purifica, el poder creador que los transforma en el ser de Dios. Y entonces, ¿cómo están las cosas en nuestra vida? ¿Estamos realmente impregnados por la palabra de Dios? ¿Es ella en verdad el alimento del que vivimos, más que lo que pueda ser el pan y las cosas de este mundo? ¿La conocemos verdaderamente? ¿La amamos? ¿Nos ocupamos interiormente de esta palabra hasta el punto de que realmente deja una impronta en nuestra vida y forma nuestro pensamiento? ¿O no es más bien nuestro pensamiento el que se amolda una y otra vez a todo lo que se dice y se hace? ¿Acaso no son con frecuencia las opiniones predominantes los criterios que marcan nuestros pasos? ¿Acaso no nos quedamos, a fin de cuentas, en la superficialidad de todo lo que frecuentemente se impone al hombre de hoy? ¿Nos dejamos realmente purificar en nuestro interior por la palabra de Dios? Nietzsche se ha burlado de la humildad y la obediencia como virtudes serviles, por las cuales se habría reprimido a los hombres. En su lugar, ha puesto el orgullo y la libertad absoluta del hombre. Ahora bien, hay caricaturas de una humildad equivocada y una falsa sumisión que no queremos imitar. Pero existe también la soberbia destructiva y la presunción, que disgregan toda comunidad y acaban en la violencia. ¿Sabemos aprender de Cristo la recta humildad, que corresponde a la verdad de nuestro ser, y esa obediencia que se somete a la verdad, a la voluntad de Dios? «Santifícalos en la verdad: tu palabra es verdad»: esta palabra de la incorporación en el sacerdocio ilumina nuestra vida y nos llama a ser siempre nuevamente discípulos de esa verdad que se desvela en la palabra de Dios.

En la interpretación de esta frase podemos dar un paso más todavía. ¿Acaso no ha dicho Cristo de sí mismo: «Yo soy la verdad» (cf. Jn 14,6)? ¿Y acaso no es Él mismo la Palabra viva de Dios, a la que se refieren todas las otras palabras? Conságralos en la verdad, quiere decir, pues, en lo más hondo: hazlos una sola cosa conmigo, Cristo. Sujétalos a mí. Ponlos dentro de mí. Y, en efecto, en último término hay un único sacerdote de la Nueva Alianza, Jesucristo mismo. Por tanto, el sacerdocio de los discípulos sólo puede ser participación en el sacerdocio de Jesús. Así, pues, nuestro ser sacerdotes no es más que un nuevo y radical modo de unión con Cristo. Ésta se nos ha dado sustancialmente para siempre en el Sacramento. Pero este nuevo sello del ser puede convertirse para nosotros en un juicio de condena, si nuestra vida no se desarrolla entrando en la verdad del Sacramento. A este propósito, las promesas que hoy renovamos dicen que nuestra voluntad ha de ser orientada así: «Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes». Unirse a Cristo supone la renuncia. Comporta que no queremos imponer nuestro rumbo y nuestra voluntad; que no deseamos llegar a ser esto o lo otro, sino que nos abandonamos a Él, donde sea y del modo que Él quiera servirse de nosotros. San Pablo decía a este respecto: «Vivo yo, pero no soy yo, es Cristo quien vive en mí» (Ga 2,20). En el «sí» de la Ordenación sacerdotal hemos hecho esta renuncia fundamental al deseo de ser autónomos, a la «autorrealización». Pero hace falta cumplir día tras día este gran «sí» en los muchos pequeños «sí» y en las pequeñas renuncias. Este «sí» de los pequeños pasos, que en su conjunto constituyen el gran «sí», sólo se podrá realizar sin amargura y autocompasión si Cristo es verdaderamente el centro de nuestra vida. Si entramos en una verdadera familiaridad con Él. En efecto, entonces experimentamos en medio de las renuncias, que en un primer momento pueden causar dolor, la alegría creciente de la amistad con Él; todos los pequeños, y a veces también grandes signos de su amor, que continuamente nos da. «Quien se pierde a sí mismo, se guarda». Si nos arriesgamos a perdernos a nosotros mismos por el Señor, experimentamos lo verdadera que es su palabra.

Estar inmersos en la Verdad, en Cristo, es un proceso que forma parte de la oración en la que nos ejercitamos en la amistad con Él y también aprendemos a conocerlo: en su modo de ser, pensar, actuar. Orar es un caminar en comunión personal con Cristo, exponiendo ante Él nuestra vida cotidiana, nuestros logros y fracasos, nuestras dificultades y alegrías: es un sencillo presentarnos a nosotros mismos delante de Él. Pero para que eso no se convierta en una autocontemplación, es importante aprender continuamente a orar rezando con la Iglesia. Celebrar la Eucaristía quiere decir orar. Celebramos correctamente la Eucaristía cuando entramos con nuestro pensamiento y nuestro ser en las palabras que la Iglesia nos propone. En ellas está presente la oración de todas las generaciones, que nos llevan consigo por el camino hacia el Señor. Y, como sacerdotes, en la celebración eucarística somos aquellos que, con su oración, abren paso a la plegaria de los fieles de hoy. Si estamos unidos interiormente a las palabras de la oración, si nos dejamos guiar y transformar por ellas, también los fieles tienen al alcance esas palabras. Y, entonces, todos nos hacemos realmente «un cuerpo solo y una sola alma» con Cristo.

Estar inmersos en la verdad y, así, en la santidad de Dios, también significa para nosotros aceptar el carácter exigente de la verdad; contraponerse tanto en las cosas grandes como en las pequeñas a la mentira que hay en el mundo en tantas formas diferentes; aceptar la fatiga de la verdad, para que su alegría más profunda esté presente en nosotros. Cuando hablamos del ser consagrados en la verdad, tampoco hemos de olvidar que, en Jesucristo, verdad y amor son una misma cosa. Estar inmersos en Él significa afondar en su bondad, en el amor verdadero. El amor verdadero no cuesta poco, puede ser también muy exigente. Opone resistencia al mal, para llevar el verdadero bien al hombre. Si nos hacemos uno con Cristo, aprendemos a reconocerlo precisamente en los que sufren, en los pobres, en los pequeños de este mundo; entonces nos convertimos en personas que sirven, que reconocen a sus hermanos y hermanas, y en ellos encuentran a Él mismo.

«Conságralos en la verdad». Ésta es la primera parte de aquel dicho de Jesús. Pero luego añade: «Y por ellos me consagro yo, para que también se consagren ellos en la verdad» (Jn 17,19), es decir, verdaderamente. Pienso que esta segunda parte tiene un propio significado específico. En las religiones del mundo hay múltiples modos rituales de «santificación», de consagración de una persona humana. Pero todos estos ritos pueden quedarse en simples formalidades. Cristo pide para los discípulos la verdadera santificación, que transforma su ser, a ellos mismos; que no se quede en una forma ritual, sino que sea un verdadero convertirse en propiedad del mismo Dios. También podríamos decir: Cristo ha pedido para nosotros el Sacramento que nos toca en la profundidad de nuestro ser. Pero también ha rogado para que esta transformación en nosotros, día tras día, se haga vida; para que en lo ordinario, en lo concreto de cada día, estemos verdaderamente inundados de la luz de Dios.

La víspera de mi Ordenación sacerdotal, hace 58 años, abrí la Sagrada Escritura porque todavía quería recibir una palabra del Señor para aquel día y mi camino futuro de sacerdote. Mis ojos se detuvieron en este pasaje: «Santifícalos en la verdad: tu palabra es verdad». Entonces me dí cuenta: el Señor está hablando de mí, y está hablándome a mí. Y lo mismo me ocurrirá mañana. No somos consagrados en último término por ritos, aunque haya necesidad de ellos. El baño en el que nos sumerge el Señor es Él mismo, la Verdad en persona. La Ordenación sacerdotal significa ser injertados en Él, en la Verdad. Pertenezco de un modo nuevo a Él y, por tanto, a los otros, «para que venga su Reino». Queridos amigos, en esta hora de la renovación de las promesas queremos pedir al Señor que nos haga hombres de verdad, hombres de amor, hombres de Dios. Roguémosle que nos atraiga cada vez más dentro de sí, para que nos convirtamos verdaderamente en sacerdotes de la Nueva Alianza. Amén.

[00552-04.02] [Texto original: Español]

TESTO IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos e irmãs!

No Cenáculo, na noite anterior à sua paixão, o Senhor rezou pelos discípulos reunidos ao seu redor, estendendo ao mesmo tempo o olhar para a comunidade dos discípulos de todos os séculos, para «aqueles que – disse – vão acreditar em Mim por meio da sua palavra» (Jo 17, 20). Na oração pelos discípulos de todos os tempos, Ele viu-nos também a nós e rezou por nós. Ouçamos o que pede para os Doze e para nós aqui reunidos: «Consagra-os na verdade. A tua palavra é a verdade. Assim como Tu Me enviaste ao mundo, também Eu os enviei ao mundo. Eu consagro-Me por eles, para que também eles sejam consagrados na verdade» (Jo 17, 17s). O Senhor pede a nossa santificação, a nossa consagração na verdade. E envia-nos para continuarmos a sua própria missão. Mas há, nesta oração, uma palavra que chama a nossa atenção; parece-nos pouco compreensível. Jesus diz: «Eu consagro-Me por eles». Que significa? Porventura não é Jesus por natureza «o Santo de Deus», como Pedro confessou na hora decisiva de Cafarnaum (cf. Jo 6, 69)? Como pode agora consagrar-Se, isto é, santificar-Se a Si mesmo?

Para o compreendermos, temos sobretudo de esclarecer o significado das palavras «santo» e «santificar/consagrar», na Bíblia. «Santo»: com esta palavra, descreve-se em primeiro lugar a natureza do próprio Deus, o seu modo de ser muito particular, divino, que é próprio só d’Ele. Só Ele é o verdadeiro e autêntico Santo no sentido originário. Qualquer outra santidade deriva d’Ele, é participação no seu modo de ser. Ele é a Luz puríssima, a Verdade e o Bem sem mancha. Por isso, consagrar alguma coisa ou alguém significa dar tal coisa ou pessoa em propriedade a Deus, tirá-la do âmbito daquilo que é nosso e inseri-la na atmosfera d’Ele, de tal modo que deixe de pertencer às nossas coisas para ser totalmente de Deus. Consagração é, pois, tirar do mundo e entregar ao Deus vivo. Aquela coisa ou pessoa deixa de pertencer a nós ou a si mesma, mas é imersa em Deus. Este acto de privar-se duma coisa para a entregar a Deus, chamamo-lo também sacrifício: já não será propriedade minha, mas d’Ele. No Antigo Testamento, a entrega duma pessoa a Deus, isto é, a sua «santificação» coincide com a sua ordenação sacerdotal, e assim se define também em que consiste o sacerdócio: é uma passagem de propriedade, um ser tirado do mundo e dado a Deus. E, deste modo, ficam agora patentes as duas direcções que fazem parte do processo da santificação/consagração: sair dos contextos da vida do mundo e «ser posto à parte» para Deus. Mas por isto mesmo não é uma segregação; antes, ser entregue a Deus significa ser posto a representar os outros. O sacerdote é subtraído aos laços do mundo e dado a Deus, e precisamente assim, a partir de Deus, deve estar disponível para os outros, para todos. Quando Jesus diz «Eu consagro-Me», faz-Se simultaneamente sacerdote e vítima. Por conseguinte, Bultmann tem razão ao traduzir a afirmação «Eu consagro-Me» por «Eu sacrifico-Me». Compreendemos nós agora o que acontece quando Jesus diz «Eu consagro-Me por eles»? Isto é o acto sacerdotal em que Jesus – o Homem Jesus, que forma um só com o Filho de Deus – Se entrega ao Pai por nós. É a expressão do facto que Ele é ao mesmo tempo sacerdote e vítima. Consagro-Me, sacrifico-Me: esta palavra abismal, que nos permite lançar um olhar no íntimo do coração de Jesus Cristo, deveria ser sempre de novo objecto da nossa reflexão. Nela se encerra todo o mistério da nossa redenção. E nela está contida também a origem do sacerdócio da Igreja, do nosso sacerdócio.

Só agora podemos compreender até ao fundo a oração que o Senhor apresentou ao Pai pelos discípulos, por nós. «Consagra-os na verdade»: isto é a integração dos apóstolos no sacerdócio de Jesus Cristo, a instituição do seu sacerdócio novo para a comunidade dos fiéis de todos os tempos. «Consagra-os na verdade»: esta é a verdadeira oração de consagração pelos apóstolos. O Senhor pede que o próprio Deus os atraia a Si, para dentro da sua santidade. Pede que Ele os subtraia a si mesmos e os tome como sua propriedade, a fim de que, a partir d’Ele, possam desempenhar o serviço sacerdotal pelo mundo. Esta oração de Jesus aparece duas vezes, de forma ligeiramente modificada. Temos de ouvir as duas com muita atenção, para começar a entender, pelo menos vagamente, a realidade sublime que aqui se está a verificar: «Consagra-os na verdade» e – Jesus acrescenta – «a tua palavra é a verdade». Por conseguinte os discípulos são atraídos para o íntimo de Deus por meio da sua imersão na palavra de Deus. A palavra de Deus é, por assim dizer, o banho que os purifica, o poder criador que os transforma no ser de Deus. Sendo assim, como se está a realizar isto na nossa vida? Somos verdadeiramente permeados pela palavra de Deus? É verdade que esta é o alimento de que vivemos, mais de quanto o seja o pão e as coisas deste mundo? Conhecemo-la verdadeiramente? Amamo-la? De tal modo nos ocupamos interiormente desta palavra, que a mesma dá realmente um timbre à nossa vida e forma o nosso pensamento? Ou não sucede antes que o nosso pensamento se deixa modelar incessantemente por tudo o que se diz e faz? Porventura não são tantas vezes as opiniões predominantes os critérios pelos quais nos regulamos? No fim de contas, não ficamos porventura na superficialidade de tudo o que, habitualmente, se impõe ao homem de hoje? Deixamo-nos verdadeiramente purificar no nosso íntimo pela palavra de Deus? Nietzsche desdenhou a humildade e a obediência como sendo virtudes servis, pelas quais os homens teriam sido reprimidos. No seu lugar, colocou a ufania e a liberdade absoluta do homem. Ora bem, existem caricaturas duma humildade falsa e duma submissão errada, que não queremos imitar. Mas há também a soberba destrutiva e a presunção, que desagregam qualquer comunidade e acabam na violência. Sabemos nós aprender de Cristo a recta humildade, que corresponde à verdade do nosso ser, e aquela obediência que se submete à verdade, à vontade de Deus? «Consagra-os na verdade. A tua palavra é a verdade»: esta palavra da integração no sacerdócio ilumina a nossa vida e chama-nos a tonarmo-nos sem cessar discípulos daquela verdade que se manifesta na palavra de Deus.

Na interpretação desta frase, podemos dar ainda mais um passo. Não disse Cristo de Si mesmo: «Eu sou a verdade» (cf. Jo 14, 6)? E não é porventura Ele a Palavra viva de Deus, à qual todas e cada uma das outras palavras fazem referência? Assim, consagra-os na verdade quer dizer, fundamentalmente: torna-os um só comigo, Cristo. Une-os a Mim. Atrai-os para dentro de Mim. E de facto, em última análise, há apenas um único sacerdote da Nova Aliança: o próprio Jesus Cristo. E, por conseguinte, o sacerdócio dos discípulos só pode ser participação no sacerdócio de Jesus. Portanto o nosso ser sacerdotes nada mais é que um novo e radical modo de unificação com Cristo. Esta foi-nos substancialmente concedida para sempre no Sacramento. Mas este novo timbre do ser pode tornar-se para nós um juízo de condenação, se a nossa vida não se desenvolve entrando na verdade do Sacramento. A tal propósito, as promessas que hoje renovamos dizem que a nossa vontade assim se deve orientar: «Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes». Unir-se a Cristo supõe a renúncia. Comporta não querermos impor a nossa estrada e a nossa vontade; não desejarmos tornar-nos isto ou aquilo, mas abandonarmo-nos a Ele em todo o lado e modo como Ele quiser servir-Se de nós. «Vivo, e contudo já não sou eu que vivo, é Cristo que vive em mim», disse São Paulo a tal propósito (cf. Gal 2, 20). No «sim» da Ordenação Sacerdotal, fizemos esta renúncia fundamental a querer ser autónomos, à «auto-realização». Mas é preciso dia após dia cumprir este grande «sim» nos múltiplos «sins» e nas pequenas renúncias. Entretanto este «sim» dos pequenos passos, que juntos constituem o grande «sim», só poderá realizar-se sem amargura nem autocomiseração, se Cristo for verdadeiramente o centro da nossa vida; se cultivarmos uma verdadeira familiaridade com Ele. De facto, então experimentaremos no meio das renúncias, que num primeiro momento podem causar sofrimento, a alegria crescente da amizade com Ele, todos os pequenos e às vezes grandes sinais do seu amor, que nos dá continuamente. «Aquele que se perde a si mesmo, encontra-se». Se ousamos perder-nos a nós mesmos pelo Senhor, experimentaremos como é verdadeira a sua palavra.

Deste processo de sermos imersos na Verdade, em Cristo, faz parte a oração, na qual nos exercitamos na amizade com Ele e também aprendemos a conhecê-Lo: o seu modo de ser, de pensar, de agir. Rezar é fazer estrada em comunhão pessoal com Cristo, expondo diante d’Ele a nossa vida diária, os nossos sucessos e os nossos falimentos, as nossas fadigas e as nossas alegrias: é simplesmente apresentarmo-nos a nós mesmos diante d’Ele. Mas, para que isto não se torne um autocontemplar-se, é importante aprendermos continuamente a orar rezando com a Igreja. Celebrar a Eucaristia quer dizer rezar. Celebramos no justo modo a Eucaristia, se, com o nosso pensamento e com o nosso ser, penetramos nas palavras que a Igreja nos propõe. Nelas está presente a oração de todas as gerações, que nos tomam consigo ao longo do caminho para o Senhor. E, como sacerdotes, somos na celebração eucarística aqueles que, com a sua oração, abrem estrada à oração dos fiéis de hoje. Se estivermos interiormente unidos às palavras da oração, se nos deixarmos guiar e transformar por elas, então também os fiéis encontram o acesso a tais palavras. Então tornamo-nos todos verdadeiramente «um só corpo e uma só alma» com Cristo.

Ser imersos na verdade e, deste modo, na santidade de Deus significa para nós também aceitar o carácter exigente da verdade; contrapor-se, tanto nas coisas grandes como nas pequenas, à mentira, que de modo tão variado está presente no mundo; aceitar a fadiga da verdade, para que a sua alegria mais profunda esteja presente em nós. Quando falamos de ser consagrados na verdade, também não devemos esquecer que, em Jesus Cristo, verdade e amor são uma coisa só. Ser imersos n’Ele significa ser imersos na sua bondade, no amor verdadeiro. O amor verdadeiro não se adquire a baixo preço, pode ser até muito exigente. Opõe resistência ao mal, para levar ao homem o verdadeiro bem. Se nos tornamos um só com Cristo, aprendemos a reconhecê-Lo precisamente nos doentes, nos pobres, nos pequenos deste mundo; tornamo-nos então pessoas que servem, que reconhecem os irmãos e irmãs d’Ele e, nestes, encontramo-Lo a Ele mesmo.

«Consagra-os na verdade» – tal é a primeira parte daquela frase de Jesus. Mas depois acrescenta: «Eu consagro-Me por eles, para que também eles sejam consagrados de verdade», isto é, verdadeiramente (cf. Jo 17, 19). Penso que esta segunda parte encerre um específico significado. Nas religiões do mundo, existem variados modos rituais de «santificação», de consagração duma pessoa humana. Mas todos estes ritos podem permanecer algo de simplesmente formal. Cristo pede para os discípulos a verdadeira santificação, que transforme o seu ser, que os transforme a eles mesmos; que não fique uma forma ritual, mas seja um tornar-se verdadeiramente propriedade do próprio Deus. Poderemos também dizer: Cristo pediu para nós o Sacramento que nos toca na profundeza do nosso ser. Mas pediu também que esta transformação em nós dia após dia se traduza em vida; que no nosso quotidiano e na nossa vida concreta de cada dia sejamos verdadeiramente permeados pela luz de Deus.

Na vigília da minha Ordenação Sacerdotal, há 58 anos, abri a Sagrada Escritura, porque queria ainda receber uma palavra do Senhor para aquele dia e para o meu futuro caminho de sacerdote. O meu olhar deteve-se neste texto: «Consagra-os na verdade. A tua palavra é a verdade». Então dei-me conta: o Senhor está a falar de mim, e está a falar a mim; é isto mesmo que amanhã sucederá comigo. Em última análise, não somos consagrados através de ritos, embora haja necessidade de ritos. O banho, onde o Senhor nos imerge, é Ele próprio – a Verdade em pessoa. Ordenação Sacerdotal significa ser imersos n’Ele, na Verdade. Fico a pertencer de modo novo a Ele e, deste modo, aos outros, «para que venha o seu Reino». Queridos amigos, nesta hora da renovação das promessas, queremos pedir ao Senhor que nos faça ser homens de verdade, homens de amor, homens de Deus. Peçamos-Lhe para nos atrair cada vez mais para dentro d’Ele, a fim de nos tornarmos verdadeiramente sacerdotes da Nova Aliança. Amen.

[00552-06.02] [Texto original: Português]

[B0235-XX.03]