Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 05.04.2009


Alle ore 9.30 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI presiede, in Piazza San Pietro, la solenne celebrazione liturgica della Domenica delle Palme e della Passione del Signore. Il Papa benedice le palme e gli ulivi e, al termine della processione, celebra la Santa Messa della Passione del Signore.

Alla celebrazione prendono parte giovani di Roma e di altre Diocesi, in occasione della ricorrenza diocesana della XXIV Giornata Mondiale della Gioventù sul tema: "Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente" (1 Tm 4, 10).

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Santo Padre Benedetto XVI pronuncia dopo la proclamazione della Passione del Signore secondo Marco:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

cari giovani!

Insieme con una schiera crescente di pellegrini, Gesù era salito a Gerusalemme per la Pasqua. Nell’ultima tappa del cammino, vicino a Gerico, Egli aveva guarito il cieco Bartimeo che lo aveva invocato come Figlio di Davide, chiedendo pietà. Ora – essendo ormai capace di vedere – con gratitudine si era inserito nel gruppo dei pellegrini. Quando, alle porte di Gerusalemme, Gesù sale sopra un asino, l’animale simbolo della regalità davidica, tra i pellegrini scoppia spontaneamente la gioiosa certezza: È Lui, il Figlio di Davide! Salutano perciò Gesù con l’acclamazione messianica: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore", e aggiungono: "Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!" (Mc 11, 9s). Non sappiamo che cosa precisamente i pellegrini entusiasti immaginavano fosse il Regno di Davide che viene. Ma noi, abbiamo veramente compreso il messaggio di Gesù, Figlio di Davide? Abbiamo capito che cosa sia il Regno di cui Egli ha parlato nell’interrogatorio davanti a Pilato? Comprendiamo che cosa significhi che questo Regno non è di questo mondo? O desidereremmo forse che invece sia di questo mondo?

San Giovanni, nel suo Vangelo, dopo il racconto dell’ingresso in Gerusalemme, riporta una serie di parole di Gesù, nelle quali Egli spiega l’essenziale di questo nuovo genere di Regno. A una prima lettura di questi testi possiamo distinguere tre immagini diverse del Regno nelle quali, sempre in modo diverso, si rispecchia lo stesso mistero. Giovanni racconta innanzitutto che, tra i pellegrini che durante la festa "volevano adorare Dio", c’erano anche alcuni Greci (cfr 12, 20). Facciamo attenzione al fatto che il vero obiettivo di questi pellegrini era di adorare Dio. Questo corrisponde perfettamente a ciò che Gesù dice in occasione della purificazione del Tempio: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni" (Mc 11, 17). Il vero scopo del pellegrinaggio deve essere quello di incontrare Dio; di adorarlo e così mettere nell’ordine giusto la relazione di fondo della nostra vita. I Greci sono persone alla ricerca di Dio, con la loro vita sono in cammino verso Dio. Ora, per il tramite di due Apostoli di lingua greca, Filippo ed Andrea, fanno giungere al Signore la richiesta: "Vogliamo vedere Gesù" (Gv 12, 21). Una parola grande. Cari amici, per questo ci siamo riuniti qui: Vogliamo vedere Gesù. A questo scopo, l’anno scorso, migliaia di giovani sono andati a Sydney. Certo, avranno avuto molteplici attese per questo pellegrinaggio. Ma l’obiettivo essenziale era questo: Vogliamo vedere Gesù.

Riguardo a questa richiesta, in quell’ora che cosa ha detto e fatto Gesù? Dal Vangelo non risulta chiaramente se ci sia stato un incontro tra quei Greci e Gesù. Lo sguardo di Gesù va molto più in là. Il nucleo della sua risposta alla richiesta di quelle persone è: "Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12, 24). Ciò significa: non ha importanza ora un colloquio più o meno breve con alcune poche persone, che poi ritornano a casa. Come chicco di grano morto e risorto verrò, in modo totalmente nuovo e al di là dei limiti del momento, incontro al mondo e ai Greci. Mediante la risurrezione Gesù oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo. Come Risorto, Egli è in cammino verso la vastità del mondo e della storia. Sì, come Risorto va dai Greci e parla con loro, si mostra loro così che essi, i lontani, diventano vicini e proprio nella loro lingua, nella loro cultura, la sua parola viene portata avanti in modo nuovo e compresa in modo nuovo – viene il suo Regno. Possiamo così riconoscere due caratteristiche essenziali di questo Regno. La prima è che questo Regno passa attraverso la croce. Poiché Gesù si dona totalmente, può come Risorto appartenere a tutti e rendersi presente a tutti. Nella santa Eucaristia riceviamo il frutto del chicco di grano morto, la moltiplicazione dei pani che prosegue sino alla fine del mondo e in tutti i tempi. La seconda caratteristica dice: il suo Regno è universale. Si adempie l’antica speranza di Israele: questa regalità di Davide non conosce più frontiere. Si estende "da mare a mare" – come dice il profeta Zaccaria (9, 10) – cioè abbraccia tutto il mondo. Questo, però, è possibile solo perché non è una regalità di un potere politico, ma si basa unicamente sulla libera adesione dell’amore – un amore che, da parte sua, risponde all’amore di Gesù Cristo che si è donato per tutti. Penso che dobbiamo imparare sempre di nuovo ambedue le cose – innanzitutto l’universalità, la cattolicità. Essa significa che nessuno può porre come assoluto se stesso, la sua cultura e il suo mondo. Ciò richiede che tutti ci accogliamo a vicenda, rinunciando a qualcosa di nostro. L’universalità include il mistero della croce – il superamento di se stessi, l’obbedienza verso la comune parola di Gesù Cristo nella comune Chiesa. L’universalità è sempre un superamento di se stessi, rinuncia a qualcosa di personale. L’universalità e la croce vanno insieme. Solo così si crea la pace.

La parola circa il chicco di grano morto fa ancora parte della risposta di Gesù ai Greci, è la sua risposta. Poi, però, Egli formula ancora una volta la legge fondamentale dell’esistenza umana: "Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna" (Gv 12, 25). Chi vuole avere la sua vita per sé, vivere solo per se stesso, stringere tutto a sé e sfruttarne tutte le possibilità – proprio costui perde la vita. Essa diventa noiosa e vuota. Soltanto nell’abbandono di se stessi, soltanto nel dono disinteressato dell’io in favore del tu, soltanto nel "sì" alla vita più grande, propria di Dio, anche la nostra vita diventa ampia e grande. Così questo principio fondamentale, che il Signore stabilisce, in ultima analisi è semplicemente identico al principio dell’amore. L’amore, infatti, significa lasciare se stessi, donarsi, non voler possedere se stessi, ma diventare liberi da sé: non ripiegarsi su se stessi – cosa sarà di me –, ma guardare avanti, verso l’altro – verso Dio e verso gli uomini che Egli mi manda. E questo principio dell’amore, che definisce il cammino dell’uomo, è ancora una volta identico al mistero della croce, al mistero di morte e risurrezione che incontriamo in Cristo. Cari amici, è forse relativamente facile accettare questo come grande visione fondamentale della vita. Nella realtà concreta, però, non si tratta di riconoscere semplicemente un principio, ma di vivere la sua verità, la verità della croce e della risurrezione. E per questo, di nuovo, non basta un’unica grande decisione. È sicuramente importante osare una volta la grande decisione fondamentale, osare il grande "sì", che il Signore ci chiede in un certo momento della nostra vita. Ma il grande "sì" del momento decisivo nella nostra vita – il "sì" alla verità che il Signore ci mette davanti – deve poi essere quotidianamente riconquistato nelle situazioni di tutti i giorni in cui, sempre di nuovo, dobbiamo abbandonare il nostro io, metterci a disposizione, quando in fondo vorremmo invece aggrapparci al nostro io. Ad una vita retta appartiene anche il sacrificio, la rinuncia. Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente. Non esiste una vita riuscita senza sacrificio. Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto "sì" ad una rinuncia sono stati i momenti grandi ed importanti della mia vita.

Infine, san Giovanni ha accolto, nella sua composizione delle parole del Signore per la "Domenica delle Palme", anche una forma modificata della preghiera di Gesù nell’Orto degli Ulivi. C’è innanzitutto l’affermazione: "L’anima mia è turbata" (12, 27). Qui appare lo spavento di Gesù, illustrato ampiamente dagli altri tre evangelisti – il suo spavento davanti al potere della morte, davanti a tutto l’abisso del male che Egli vede e nel quale deve discendere. Il Signore soffre le nostre angosce insieme con noi, ci accompagna attraverso l’ultima angoscia fino alla luce. Poi seguono in Giovanni le due domande di Gesù. La prima, espressa solo condizionatamente: "Che cosa dirò – Padre, salvami da quest’ora?" (12, 27). Come essere umano, anche Gesù si sente spinto a chiedere che gli sia risparmiato il terrore della passione. Anche noi possiamo pregare in questo modo. Anche noi possiamo lamentarci davanti al Signore come Giobbe, presentargli tutte le nostre domande che, di fronte all’ingiustizia nel mondo e alla difficoltà del nostro stesso io, emergono in noi. Davanti a Lui non dobbiamo rifugiarci in pie frasi, in un mondo fittizio. Pregare significa sempre anche lottare con Dio, e come Giacobbe possiamo dirGli: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!" (Gen 32, 27). Ma poi viene la seconda domanda di Gesù: "Glorifica il tuo nome!" (Gv 12, 28). Nei sinottici, questa domanda suona così: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!" (Lc 22, 42). Alla fine la gloria di Dio, la sua signoria, la sua volontà è sempre più importante e più vera che il mio pensiero e la mia volontà. Ed è questo l’essenziale nella nostra preghiera e nella nostra vita: apprendere questo ordine giusto della realtà, accettarlo intimamente; confidare in Dio e credere che Egli sta facendo la cosa giusta; che la sua volontà è la verità e l’amore; che la mia vita diventa buona se imparo ad aderire a quest’ordine. Vita, morte e risurrezione di Gesù sono per noi la garanzia che possiamo veramente fidarci di Dio. È in questo modo che si realizza il suo Regno.

Cari amici! Alla fine di questa Liturgia, i giovani dell’Australia consegneranno la Croce della Giornata Mondiale della Gioventù ai loro coetanei della Spagna. La Croce è in cammino da un lato del mondo all’altro, da mare a mare. E noi la accompagniamo. Progrediamo con essa sulla sua strada e troviamo così la nostra strada. Quando tocchiamo la Croce, anzi, quando la portiamo, tocchiamo il mistero di Dio, il mistero di Gesù Cristo. Il mistero che Dio ha tanto amato il mondo – noi – da dare il Figlio unigenito per noi (cfr Gv 3, 16). Tocchiamo il mistero meraviglioso dell’amore di Dio, l’unica verità realmente redentrice. Ma tocchiamo anche la legge fondamentale, la norma costitutiva della nostra vita, cioè il fatto che senza il "sì" alla Croce, senza il camminare in comunione con Cristo giorno per giorno, la vita non può riuscire. Quanto più per amore della grande verità e del grande amore – per amore della verità e dell’amore di Dio – possiamo fare anche qualche rinuncia, tanto più grande e più ricca diventa la vita. Chi vuole riservare la sua vita per se stesso, la perde. Chi dona la sua vita – quotidianamente nei piccoli gesti, che fanno parte della grande decisione – questi la trova. È questa la verità esigente, ma anche profondamente bella e liberatrice, nella quale vogliamo passo passo entrare durante il cammino della Croce attraverso i continenti. Voglia il Signore benedire questo cammino. Amen.

[00533-01.01] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Chers frères et sœurs,

Chers jeunes,

Uni à une foule grossissante de pèlerins, Jésus était monté à Jérusalem pour la Pâques. Au cours de la dernière étape de son périple, près de Jéricho, Il avait guéri l’aveugle Barthimée qui, lui demandant pitié, l’avait invoqué comme Fils de David. À présent – étant désormais capable de voir – il s’était avec gratitude mêlé au groupe des pèlerins. Quand, aux portes de Jérusalem, Jésus monte sur un âne - l’animal symbole de la royauté davidique - la joyeuse certitude éclate spontanément au milieu des pèlerins : C’est Lui, le Fils de David ! C’est pourquoi ils saluent Jésus avec l’acclamation messianique : « Béni soit celui qui vient au nom du Seigneur ! », et ils ajoutent : « Béni le Règne qui vient, celui de notre Père David. Hosanna au plus haut des cieux ! » (Mc 11, 9s). Nous ne savons pas précisément comment les pèlerins enthousiastes pouvaient imaginer ce que fut le Règne de David à venir. Mais nous, avons-nous vraiment compris le message de Jésus, Fils de David ? Avons-nous compris ce qu’est le Règne dont Il a parlé au cours de l’interrogatoire devant Pilate ? Comprenons-nous ce que cela signifie que ce Royaume n’est pas de ce monde ? Ou bien désirerions-nous à l’inverse qu’il soit de ce monde ?

Saint Jean, dans son Évangile, après le récit de l’entrée à Jérusalem, rapporte une série de parole de Jésus, à travers lesquelles il explique l’essentiel de ce royaume d’un genre nouveau. Dans une première lecture de ces textes, nous pouvons distinguer trois images du Royaume dans lesquelles, toujours de façon toujours différente, se reflète le même mystère. Jean raconte avant tout que, parmi les pèlerins qui durant la fête « voulaient adorer Dieu », il y avait aussi des Grecs (cf. 12, 20). Prêtons attention au fait que le véritable but de ces pèlerins était d’adorer Dieu. Ceci correspond parfaitement à ce que Jésus dit à l’occasion de la purification du Temple : « Ma maison s’appellera maison de prière pour toutes les nations » (Mc 11, 17). Le véritable but du pèlerinage doit être celui de rencontrer Dieu ; de l’adorer et ainsi de mettre dans l’ordre juste la relation fondamentale de notre existence. Les grecs sont des personnes à la recherche de Dieu ; à travers leur vie, ils sont en chemin vers Dieu. Ainsi, par l’intermédiaire de deux Apôtres de langue grecque, Philippe et André, font-ils parvenir leur demande au Seigneur : « Nous voudrions voir Jésus » (Jn 12, 21). Voilà une parole importante ! Chers amis, c’est pour cela que nous nous sommes réunis ici : nous voulons voir Jésus. Dans ce but, l’année dernière, des milliers de jeunes sont allés à Sydney. Certes, il devait y avoir des attentes multiples pour ce pèlerinage. Mais l’objectif essentiel était celui-ci : nous voulons voir Jésus.

À l’égard de cette requête, qu’a dit et fait Jésus alors ? L’Évangile ne laisse pas apparaître clairement si une rencontre entre ces Grecs et Jésus a eu lieu. Le regard de Jésus va bien au-delà. Le cœur de sa réponse à la demande de ces personnes est : « Si le grain de blé tombé en terre ne meurt pas, il reste seul ; mais s’il meurt, il donne beaucoup de fruit » (Jn 12, 24). Cela signifie : il n’est plus important maintenant qu’ait lieu un dialogue plus ou moins bref avec quelques personnes, qui s’en retourneront ensuite chez elles. Comme grain de blé mort et ressuscité, je viendrai, de façon totalement nouvelle et au-delà des limites du moment présent, à la rencontre du monde des Grecs. Par la Résurrection, Jésus dépasse les limites de l’espace et du temps. Ressuscité, Il est en chemin vers l’étendue du monde et de l’histoire. Oui, ressuscité, il va chez les Grecs et parle avec eux, il se montre à eux de sorte que eux, les lointains, deviennent proches et, dans leur propre langue, dans leur propre culture, sa parole advient sur un mode nouveau et est comprise d’une façon nouvelle – advient son Royaume. Nous pouvons ainsi reconnaître deux caractéristiques essentielles de ce Règne. La première est que ce Royaume s’institue à travers la croix. Puisque Jésus se donne totalement, il peut en tant que ressuscité appartenir à tous et se rendre présent à tous. Dans la Sainte Eucharistie, nous recevons le fruit du grain de blé tombé en terre, la multiplication des pains qui se poursuit jusqu’à la fin du monde dans tous les temps. La seconde caractéristique est celle-ci : sa Royauté est universelle. L’antique espérance d’Israël s’accomplit : la royauté de David ne connaît plus de frontière. Elle s’étend « d’une mer à l’autre » (Zach 9, 10). – c’est-à-dire embrasse le monde entier. Cependant, ceci n’est possible que parce qu’elle n’est pas la souveraineté d’un pouvoir politique, mais qu’elle se fonde uniquement sur la libre adhésion de l’amour – un amour qui, pour sa part, répond à l’amour de Jésus Christ qui s’est donné pour tous. Je pense que nous devons apprendre toujours à nouveau les deux choses, surtout l’universalité, la catholicité. Cela signifie que personne ne peut prendre pour l’absolu soi-même, sa culture, son temps et son monde. Cela demande que tous, nous nous accueillons mutuellement, renonçant à une part de ce qui nous est propre. L’universalité inclut le mystère de la Croix – le dépassement de soi-même, l’obéissance à la parole de Jésus qui nous est commune dans l’Église qui nous est commune. L’universalité est toujours un dépassement de soi-même, un renoncement à quelque chose de personnel. L’universalité et la croix vont ensemble. C’est seulement ainsi que la paix se crée.

La parole concernant le grain de blé tombé en terre fait partie de la réponse de Jésus aux Grecs, elle est sa réponse. Toutefois, il formule ensuite une nouvelle fois la loi fondamentale de l’existence humaine : « Celui qui aime sa vie la perd ; celui qui s’en détache en ce monde la garde pour la vie éternelle » (12, 25). C’est-à-dire, qui veut garder sa vie pour lui, vivre seulement pour lui-même, rapporter tout à soi et jouir de toutes les opportunités – c’est proprement lui qui perd la vie. Celle-ci devient ennuyeuse et vide. Ce n’est que dans l’abandon de soi-même, dans le don désintéressé du je en faveur du tu, dans le « oui » à une vie plus grande - celle de Dieu -, que notre vie devient grande et belle. Ce principe fondamental, que le Seigneur établit, est en dernière analyse purement et simplement identique au principe de l’amour. En effet, l’amour signifie : s’abandonner soi-même, se donner, ne pas vouloir se posséder soi-même, mais devenir libre de soi-même : ne pas se replier sur soi – (en pensant) qu’adviendra-t-il de moi ? -, mais regarder en avant, vers l’autre – vers Dieu et vers les hommes que Lui m’envoie. Et ce principe de l’amour, qui marque le chemin de l’homme, est encore une fois identique au mystère de la croix, au mystère de mort et de résurrection que nous rencontrons dans le Christ. Chers amis, il est peut-être relativement facile d’accepter cela comme le sens profond de la vie. Dans la réalité concrète, cependant, il ne s’agit pas de simplement reconnaître un principe, mais d’en vivre la vérité, la vérité de la croix et de la résurrection. Et pour cela, à nouveau, une unique et grande résolution ne suffit pas. Il est certainement important, essentiel d’oser poser une fois le grand choix décisif, d’oser le grand « oui » que le Seigneur nous demande à un certain moment de notre vie. Mais le grand « oui » du moment décisif dans notre vie – le « oui » à la vérité que le Seigneur nous propose – doit ensuite être quotidiennement reconquis dans les situations de chaque jour dans lesquels, toujours de nouveau, nous devons abandonner notre moi, nous mettre à disposition, quand au fond nous voudrions à l’inverse nous accrocher à notre moi. Le renoncement, le sacrifice font aussi partie d’une vie droite. Qui promet une vie sans ce don de soi-même toujours renouvelé, trompe les gens. Il n’existe pas de vie réussie sans sacrifice. Si je jette un regard rétrospectif sur ma vie personnelle, je dois dire que ce sont précisément les moments où j’ai dit « oui » à un renoncement, qui ont été les moments importants et décisifs de ma vie.

Enfin, saint Jean a accueilli dans l’écho qu’il donne des paroles du Seigneur pour le « Dimanche des Rameaux », une forme modifiée de la prière de Jésus dans le jardin des oliviers. Il y a avant tout l’affirmation : « Mon âme est bouleversée » (Jn 12, 27). L’effroi de Jésus apparaît ici, souligné fortement par les autres évangélistes – son effroi devant le pouvoir de la mort, devant tout l’abîme du mal qu’Il voit et dans lequel il doit descendre. Le Seigneur souffre nos angoisses avec nous, il nous accompagne à travers l’ultime angoisse jusqu’à la lumière. Puis viennent en saint Jean, les deux demandes de Jésus. La première, exprimée seulement au conditionnel : « Que puis-je dire ? Dirai-je ? : Père, délivre-moi de cette heure ? » (Jn 12, 27). En tant qu’être humain, Jésus aussi se sent poussé à demander que lui soit épargnée la terreur de la Passion. Nous aussi pouvons prier ainsi. Nous aussi, nous pouvons nous plaindre au Seigneur comme Job le fît, lui présenter toutes les demandes qui, face à l’injustice du monde et au trouble de notre propre moi, surgissent en nous. Devant Lui nous ne devons pas nous réfugier dans des phrases pieuses, dans un monde factice. Prier signifie toujours aussi lutter avec Dieu, et comme Jacob nous pouvons lui dire : « Je ne te lâcherai que si tu me bénis » (Gn 32, 27). Mais vient ensuite la seconde demande de Jésus : « Glorifie ton nom ! » (Jn 12, 28). Dans les synoptiques, cette demande résonne ainsi : « Que ce ne soit pas ma volonté qui se fasse, mais la tienne » (Lc 22, 42). En définitive, la gloire de Dieu, sa seigneurie, sa volonté sont toujours plus importantes et plus vraies que mes pensées et que ma volonté. C’est là l’essentiel dans notre prière et dans notre vie : apprendre cet ordre juste de la réalité, l’accepter profondément ; faire confiance à Dieu et croire qu’Il fait la chose juste ; que sa volonté est la vérité et l’amour ; que ma vie devient bonne si j’apprends à adhérer à cet ordre. Vie, mort et résurrection de Jésus sont pour nous la garantie que nous pouvons véritablement nous fier à Dieu. Et c’est de cette façon que se réalise son royaume.

Chers amis, au terme de cette liturgie, les jeunes venus d’Australie remettront la Croix de la Journée Mondiale de la Jeunesse à leurs homologues venus d’Espagne. La Croix est en chemin d’un côté du monde à l’autre, d’une mer à une autre. Et nous, nous l’accompagnons. Nous progressons avec elle sur la route qu’elle trace et nous trouvons ainsi notre route. Quand nous touchons la Croix, ou plutôt, quand nous la portons, nous touchons le mystère de Dieu, le mystère de Jésus Christ. Ce mystère est que Dieu a tant aimé le monde – nous – qu’il a donné son Fils unique pour nous (cf. Jn 3, 16). Nous touchons le mystère merveilleux de l’amour de Dieu, l’unique vérité authentiquement rédemptrice. Mais nous touchons aussi la loi fondamentale, la norme constitutive de notre vie, c’est-à-dire le fait que sans le « oui » à la Croix, sans le cheminement en communion avec le Christ jour après jour, la vie ne peut aboutir. Plus nous sommes capables de quelques renoncements, par amour de la grande vérité et du grand amour – par amour de la vérité et par amour de Dieu -, plus grande et plus riche est notre vie. Qui veut garder sa vie pour soi-même, la perd. Qui donne sa vie – quotidiennement dans les petits gestes, qui sont constitutifs de la grande décision -, celui-ci la trouvera. C’est là la vérité exigeante, mais aussi profondément belle et libératrice, dans laquelle nous voulons pas à pas entrer au cours de ce parcours de la Croix d’un continent à l’autre. Que le Seigneur daigne bénir ce chemin ! Amen.

[00533-03.01] [Texte original: Italien]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters,

Dear Young People,

Together with a growing multitude of pilgrims, Jesus had gone up to Jerusalem for the Passover. In the final stage of the journey, near Jericho, he had healed blind Bartimaeus, who called upon him as Son of David, pleading for mercy. Now – having received his sight – he had gratefully joined the group of pilgrims. At the gates of Jerusalem, when Jesus sat upon a donkey, an animal symbolizing the Davidic kingship, there spontaneously arose among the pilgrims the joyful conviction: It is He, the Son of David! Accordingly, they greet Jesus with the messianic acclamation: "Blessed is he who comes in the name of the Lord", and they add: "Blessed is the kingdom of our father David that is coming! Hosanna in the highest!" (Mk 11:9f.). We do not know exactly what the enthusiastic pilgrims imagined the coming kingdom of David would be like. But what about us, have we truly understood the message of Jesus, the Son of David? Have we grasped what is meant by the Kingdom of which He speaks during his interrogation with Pilate? Do we understand what it means to say that this Kingdom is not of this world? Or would we actually prefer that it were of this world?

In Saint John’s Gospel, after the account of the entry into Jerusalem, there follows a series of sayings in which Jesus explains the essential content of this new kind of Kingdom. On a first reading of these texts, we can distinguish three different images of the Kingdom in which the same mystery is reflected in a number of different ways. John recounts, first of all, that during the feast there were some Greeks among the pilgrims who "wanted to adore God" (cf. 12:20). Let us note the fact that the true intention of these pilgrims was to adore God. This corresponds perfectly to what Jesus says on the occasion of the cleansing of the Temple: "My house shall be called a house of prayer for all the nations" (Mk 11:17). The true purpose of the pilgrimage must be that of encountering God; adoring him, and thus rightly ordering the fundamental relationship of our life. The Greeks are searching for God, their lives are a journey towards God. Now, through the two Greek-speaking Apostles, Philip and Andrew, they convey this request to the Lord: "We wish to see Jesus" (Jn 12:21). These are stirring words. Dear friends, we have gathered here for the same reason: we wish to see Jesus. With this end in view, thousands of young people travelled to Sydney last year. No doubt they will have had many different expectations in making this pilgrimage. But the essential objective was this: we wish to see Jesus.

Concerning this request, what did Jesus say and do at the time? It does not emerge clearly from the Gospel whether any meeting took place between those Greeks and Jesus. Jesus takes a much longer view. The essence of his response to those people’s request is this: "Unless a grain of wheat falls into the earth and dies, it remains alone; but if it dies, it bears much fruit" (Jn 12:24). In other words: what matters here is not a brief conversation with one or two people who then return home. I will come, like a grain of wheat that has died and is risen, in a manner that is totally new and beyond the limits of the moment, to encounter the world of the Greeks. Through the resurrection, Jesus surpasses the limits of space and time. As the Risen One, he is journeying towards the vast horizon of the world and of history. Yes indeed, as the Risen One he goes to the Greeks and speaks with them, he shows himself to them in such a way that they who are far away become near, and it is in their language, in their culture, that his word is carried forward in a new way and understood in a new way – his Kingdom comes. Thus we can recognize two essential characteristics of this Kingdom. The first is that it comes by way of the cross. Since Jesus gives himself completely, then as the Risen One he can belong to all and become present to all. In the holy Eucharist, we receive the fruit of the grain of wheat that died, the multiplication of the loaves that continues to the end of the world and throughout all time. The second characteristic is this: his Kingdom is universal. The ancient hope of Israel is fulfilled: this Davidic kingship no longer has boundaries. It extends "from sea to sea" – as the prophet Zechariah says (9:10) – in other words, it embraces the whole world. Yet this is possible only because it is not a kingship of political power, but is based solely on the free adherence of love – a love which, for its part, is a response to the love of Jesus Christ who gave himself for all. I think that above all we must learn these two things over and over again – universality and catholicity. This means that no-one can propose himself, his culture, his generation and his world as an absolute. It means that we all have to accept one another, renouncing something of ourselves. Universality includes the mystery of the cross – going beyond ourselves, obeying the communal word of Jesus Christ in the communal Church. Universality is always a transcending of ourselves, a renunciation of something that is ours. Universality and the cross go together. Only thus is peace created.

The saying about the grain of wheat that dies is still located within Jesus’ response to the Greeks, in fact it is his response. Then, however, he goes on to formulate once again the fundamental law of human existence: "He who loves his life loses it, and he who hates his life in this world will keep it for eternal life" (Jn 12:25). In other words, the one who wants to have his life for himself, living only for himself, keeping everything to himself and exploiting all its possibilities – is actually the one who loses his life. Life becomes boring and empty. Only by self-abandonment, only by the disinterested gift of the "I" in favour of the "you", only in the "yes" to the greater life, the life of God, does our life also become broad and great. Thus this fundamental principle established by the Lord is ultimately identical to the principle of love. Love, in fact, means letting go of oneself, giving oneself, not wanting to possess oneself, but becoming free from oneself: not retiring into oneself – (what will become of me?) – but looking ahead, towards the other – towards God and towards the men that he sends to me. And once again, this principle of love, which defines man’s path, is identical to the mystery of the cross, to the mystery of death and resurrection that we encounter in Christ. Dear friends, perhaps it is relatively easy to accept this as the fundamental great vision of life. In practice, however, it is not a question of simply recognizing a principle, but of living according to the truth that it contains, the truth of the cross and resurrection. Hence, once again, a single great decision is not enough. It is certainly important, it is essential to dare to take the great fundamental decision once, to dare to utter the great "yes" that the Lord asks of us at a certain moment of our lives. But the great "yes" of the decisive moment in our life – the "yes" to the truth that the Lord puts before us – must then be won afresh every day in the situations of daily life when we have to abandon our "I" over and over again, placing ourselves at the Lord’s disposal when deep down we would prefer to cling to our "I". An upright life always involves sacrifice, renunciation. To hold out the promise of a life without this constant re-giving of self, is to mislead. There is no such thing as a successful life without sacrifice. If I cast a glance back over my whole life, I have to say that it was precisely the moments when I said "yes" to renunciation that were the great and important moments of my life.

At the end of the passage, Saint John uses a modified form of Jesus’ prayer in the Garden of Olives in his redaction of our Lord’s "Palm Sunday" sayings. First comes the statement: "my soul is troubled" (12:27). Here we see Jesus’ fear, amply illustrated by the other three evangelists – his fear before the power of death, before the whole abyss of evil that he sees and into which he must descend. The Lord suffers our fears together with us, he accompanies us through the final anguish into the light. Then, in John’s narrative, Jesus makes two petitions. The first, expressed only conditionally, is this: "What shall I say – Father, save me from this hour?" (12:27). As a human being, even Jesus feels impelled to ask that he be spared the terror of the passion. We too can pray in this way. We too can grumble before the Lord, like Job, we can present him with all the pleas that arise within us when we are faced with the injustice of the world and the difficulty of our own "I". When we come before him, we must not take refuge in pious phrases, in a world of make-believe. Praying always also means struggling with God, and like Jacob, we can say to him: "I will not let you go, unless you bless me!" (Gen 32:26). But then comes Jesus’ second petition: "Glorify your name!" (Jn 12:28). In the Synoptics, it is expressed in another way: "Not my will, but yours be done!" (Lk 22:42). In the end, God’s glory, his lordship, his will, is always more important and more true than my thought and my will. And this is the essential point in our prayer and in our life: learning this right order of reality, accepting it intimately; trusting in God and believing that he is doing what is right; that his will is truth and love; that my life becomes good if I learn to adhere to this right order. The life, death and resurrection of Jesus are for us the guarantee that we can truly trust God. It is in this way that his Kingdom is realized.

Dear Friends! At the end of this liturgy, the young people of Australia will hand over the World Youth Day Cross to their counterparts from Spain. The Cross is on a journey from one side of the world to the other, from sea to sea. And we are accompanying it. With the Cross, we move forward along its path and thus we find our own path. When we touch the Cross, or rather, when we carry it, we touch the mystery of God, the mystery of Jesus Christ. The mystery that God so loved the world – us – that he gave his only-begotten Son for us (cf. Jn 3:16). We touch the marvellous mystery of God’s love, the only genuinely redemptive truth. But we also touch the fundamental law, the constitutive norm of our lives, namely the fact that without this "yes" to the Cross, without walking in communion with Christ day by day, life cannot succeed. The more we can make some sacrifice, out of love for the great truth and the great love, out of love for the truth and for God’s love, the greater and richer life becomes. Anyone who wants to keep his life for himself loses it. Anyone who gives his life – day by day in small acts, which form part of the great decision – that person finds it. This is the challenging, but also profoundly beautiful and liberating truth that we wish to enter into, step by step, as the Cross makes its journey across the continents. May the Lord bless this journey. Amen.

[00533-02.01] [Original text: Italian]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Liebe Brüder und Schwestern,

liebe junge Freunde!

Mit einer wachsenden Schar von Pilgern war Jesus zum Osterfest hinaufgestiegen nach Jerusalem. Auf dem letzten Wegstück, bei Jericho, hatte er den blinden Bartimäus geheilt, der ihn als Davidssohn um Erbarmen angerufen hatte. Nun reihte er sich – sehend geworden – dankbar in die Pilgergruppe mit ein. Als Jesus an den Toren Jerusalems einen Esel, das Symboltier des davidischen Königtums besteigt, bricht in den Pilgernden spontan die freudige Gewißheit auf: Er ist es, der Sohn Davids. Sie grüßen Jesus mit dem messianischen Jubelruf: „Gesegnet sei er, der kommt im Namen des Herrn", und sie fügen hinzu: „Gesegnet sei das Reich unseres Vaters David, das nun kommt. Hosanna in der Höhe" (Mk 11, 9f). Was sich die begeisterten Pilger unter dem nun kommenden Reich Davids näherhin vorstellten, wissen wir nicht. Aber haben wir eigentlich die Botschaft Jesu, des Davidssohns verstanden? Haben wir begriffen, was sein Reich ist, von dem er im Verhör bei Pilatus gesprochen hat? Verstehen wir, was das heißt, dies Reich sei nicht von dieser Welt? Oder möchten wir nicht doch, daß es von dieser Welt sei?

Der heilige Johannes hat in seinem Evangelium an die Geschichte vom Einzug in Jerusalem eine Reihe von Jesusworten angeschlossen, in denen er das Wesentliche dieser neuen Art von Reich deutet. Beim ersten Lesen dieser Texte können wir drei verschiedene Bilder des Reichs unterscheiden, in denen sich in je verschiedener Weise das gleiche Geheimnis spiegelt. Da erzählt Johannes zunächst, daß zu den Pilgern, die beim Fest „Gott anbeten wollten", auch einige Griechen gehörten (vgl.12, 20). Beachten wir, daß das eigentliche Ziel dieser Pilger war, Gott anzubeten. Das entspricht genau dem, was Jesus bei der Tempelreinigung sagt: „Mein Haus soll ein Gebetshaus für alle Völker genannt werden" (Mk 11, 17). Das eigentliche Ziel der Pilgerschaft muß es sein, Gott zu begegnen; ihn anzubeten und so die Grundbeziehung unseres Lebens in die rechte Ordnung zu bringen. Diese Griechen sind Menschen, die nach Gott Ausschau halten, mit ihrem Leben zu Gott unterwegs sind. Nun lassen sie durch zwei griechischsprechende Apostel, über Philippus und Andreas, den Herrn wissen: „Wir möchten Jesus sehen" (Joh 12, 21). Ein großes Wort. Liebe Freunde, dazu sind wir hier zusammengekommen: Wir möchten Jesus sehen. Dazu sind viele Tausende junger Menschen im vergangenen Jahr nach Sydney gepilgert. Gewiß, vielerlei mögen sie sich von dieser Pilgerfahrt erwartet haben. Aber das eigentliche Ziel war doch dieses: Wir möchten Jesus sehen.

Was hat nun Jesus in jener Stunde, auf diese Bitte hin, gesagt und getan? Aus dem Evangelium geht nicht klar hervor, ob es zu einer Begegnung zwischen diesen Griechen und Jesus gekommen ist. Der Blick Jesu reicht viel weiter. Der Kern seiner Antwort auf die Bitte dieser Menschen lautet: „Wenn das Weizenkorn nicht in die Erde fällt und stirbt, bleibt es allein. Wenn es aber stirbt, bringt es viele Frucht" (12, 24). Das bedeutet: Es kommt nicht jetzt auf ein mehr oder weniger zufälliges und kurzes Gespräch mit einigen Wenigen an, die dann wieder heimkehren. Als gestorbenes und auferstandenes Weizenkorn werde ich ganz neu über die Grenze des Augenblicks hinaus zur Welt der Griechen kommen. Durch die Auferstehung überschreitet Jesus die Grenzen von Raum und Zeit. Als Auferstandener ist er auf dem Weg in die Weite der Welt und der Geschichte. Ja, als Auferstandener kommt er zu den Griechen und spricht mit ihnen, zeigt sich ihnen, so daß sie, die Fernen, nahe werden und gerade in ihrer Sprache, in ihrer Kultur sein Wort neu weitergeführt, neu verstanden wird – sein Reich kommt. Zwei wesentliche Merkmale dieses Reiches können wir so erkennen. Zum einen geht dieses Reich durch das Kreuz hindurch. Weil er sich ganz gibt, kann er als Auferstandener allen gehören und allen gegenwärtig werden. In der heiligen Eucharistie empfangen wir die Frucht des gestorbenen Weizenkorns, die Brotvermehrung, die bis ans Ende der Welt und aller Zeiten reicht. Die zweite Erkenntnis lautet: Sein Reich ist universal. Die alte Hoffnung Israels erfüllt sich: Dieses Königtum Davids kennt keine Grenzen mehr. Es reicht „von Meer zu Meer", wie der Prophet Sacharja sagt (9, 10), das heißt es umspannt die ganze Welt. Aber das ist nur möglich, weil es kein Königtum politischer Macht ist, sondern einzig und allein auf der freien Zustimmung der Liebe beruht, die wiederum auf die Liebe Jesu Christi antwortet, der sich für alle gegeben hat. Mir scheint, beides müssen wir immer neu erlernen – zunächst die Universalität, die Katholizität. Sie bedeutet, daß keiner sich und seine Kultur, seine Zeit und seine Welt absolut setzt. Dies verlangt, daß wir alle einander annehmen und auf Eigenes verzichten. Universalität schließt das Geheimnis des Kreuzes ein – die Selbstüberschreitung, den Gehorsam zum gemeinsamen Wort Christi in der gemeinsamen Kirche. Universalität ist immer Selbstüberschreitung, Verzicht auf das Eigene. Universalität und Kreuz gehören zusammen. Nur so wird Friede.

Das Wort vom gestorbenen Weizenkorn gehört noch zur Antwort Jesu an die Griechen, es ist seine Antwort. Dann aber formuliert er noch einmal das Grundgesetz menschlicher Existenz: „Wer an seinem Leben hängt, verliert es; wer aber sein Leben in dieser Welt geringschätzt, wird es bewahren bis ins ewige Leben hinein" (Joh 12, 25). Das heißt: Wer sein Leben für sich haben möchte, nur sich selber leben, alles an sich ziehen und ausschöpfen, was es gibt – gerade der verliert das Leben. Es wird öde und leer. Nur im Loslassen seiner selbst, nur in der Freigabe des Ich für das Du, nur im Ja zum größeren Leben Gottes wird auch unser Leben weit und groß. So ist dieses Grundprinzip, das der Herr aufstellt, letztlich einfach identisch mit dem Prinzip Liebe. Denn Liebe heißt sich loslassen, sich geben, nicht sich selber wollen, sondern frei werden von sich: nicht auf sich selber zurückschauen – was aus mir wird –, sondern vorwärts schauen, auf den anderen – auf Gott hin und auf die Menschen, die er mir schickt. Und dieses Prinzip Liebe, das den Weg des Menschen definiert, ist wiederum identisch mit dem Mysterium des Kreuzes, mit dem Geheimnis von Tod und Auferstehung, dem wir in Christus begegnen. Liebe Freunde – es ist wohl verhältnismäßig leicht, dies als große Grundvision des Lebens zu bejahen. Aber es geht in der Wirklichkeit gerade darum, daß wir nicht ein Prinzip anerkennen, sondern daß wir seine Wahrheit, die Wahrheit von Kreuz und Auferstehung leben. Dazu wiederum reicht nicht ein einmaliger großer Entscheid. Es ist freilich wichtig, wesentlich, einmal den großen Grundentscheid zu wagen, das große Ja zu wagen, das der Herr in einem Augenblick unseres Lebens von uns erfragt. Aber das große Ja des entscheidenden Augenblicks in unserem Leben – das Ja zu der Wahrheit, die der Herr vor uns hinstellt – muß dann auch täglich neu eingeholt werden in den Situationen des Alltags, in denen wir immer wieder neu uns loslassen, uns freigeben müssen, wo wir eigentlich an uns festhalten möchten. Zum rechten Leben gehört das Opfer, gehört Verzicht. Wer ein Leben ohne diese immer neue Freigabe unserer selbst verspricht, der betrügt den Menschen. Geglücktes Leben ohne Opfer gibt es nicht. Wenn ich auf mein eigenes Leben zurückschaue, dann muß ich sagen, daß gerade die Augenblicke, in denen ich ja gesagt habe zu einem Verzicht, die großen und wichtigen Augenblicke meines Lebens waren.

Schließlich hat der heilige Johannes in seine Komposition der Palmsonntagsworte des Herrn auch eine abgewandelte Form von Jesu Ölberggebet aufgenommen. Da steht zuerst das Wort: „Meine Seele ist erschüttert" (12, 27). Hier erscheint das ausführlich von den drei anderen Evangelisten geschilderte Erschrecken Jesu vor der Macht des Todes, vor dem ganzen Abgrund des Bösen, den er sieht, in den er hinabsteigen soll. Der Herr leidet unsere Ängste mit, er begleitet uns durch die letzte Angst hindurch ins Licht hinein. Darauf folgen dann bei Johannes die zwei Bitten Jesu. Die erste, nur bedingt ausgesprochen: „Soll ich sagen – Vater, errette mich aus dieser Stunde?" (12, 27). Auch Jesus als Mensch fühlt sich gedrängt zu bitten, daß ihm das Furchtbare der Passion erspart bleibe. Auch wir dürfen so bitten. Auch wir dürfen wie Ijob klagen vor dem Herrn, ihm all unsere Fragen vorbringen, die angesichts des Unrechts in der Welt und der Nöte unseres eigenen Ich in uns aufsteigen. Wir dürfen uns ihm gegenüber nicht in fromme Phrasen, nicht in eine Scheinwelt flüchten. Beten heißt immer auch: Ringen mit Gott, und wie Jakob dürfen wir zu ihm sagen: „Ich lasse dich nicht, du segnest mich denn" (Gen 32, 27). Aber dann kommt die zweite Bitte Jesu: „Verherrliche deinen Namen" (Joh 12, 28). Bei den Synoptikern lautet die Bitte: „Nicht mein, sondern dein Wille geschehe" (Lk 22, 42). Am Ende ist die Herrlichkeit Gottes, sein Herrsein, sein Wille immer wichtiger und wahrer als mein Denken und Wollen. Und darum geht es in unserem Beten und in unserem Leben: Diese rechte Ordnung der Wirklichkeit zu erlernen, sie von innen her anzunehmen; Gott zu trauen, daß er das Rechte tut. Daß sein Wille die Wahrheit ist und die Liebe. Daß mein eigenes Leben gut wird, wenn ich in diese Ordnung einzuwilligen lerne. Jesu Leben und Sterben und Auferstehen ist uns die Gewähr dafür, daß wir Gott wirklich trauen dürfen. So verwirklicht sich sein Reich.

Liebe Freunde! Am Ende dieser Liturgie wird die Jugend von Australien den jungen Menschen aus Spanien das Kreuz des Weltjugendtags übergeben. Das Kreuz wandert von einem Ende der Welt zum anderen, von Meer zu Meer. Und wir begleiten es. Wir gehen seinen Weg mit und finden so unseren Weg. Wenn wir das Kreuz anrühren und mehr – es tragen, dann berühren wir das Geheimnis Gottes, das Geheimnis Jesu Christi. Das Geheimnis, daß Gott die Welt – uns – so geliebt hat, daß er seinen eingeborenen Sohn für uns hingab (vgl. Joh 3, 16). Wir berühren das wunderbare Geheimnis der Liebe Gottes, das die einzig wirklich erlösende Wahrheit ist. Aber wir berühren auch das Grundgesetz, die Grundform unseres Lebens: daß ohne das Ja zum Kreuz, ohne die Weggemeinschaft mit Christus Tag um Tag das Leben nicht gelingen kann. Je mehr wir um der großen Wahrheit und Liebe – um der Wahrheit und Liebe Gottes willen – auch verzichten können, desto größer und reicher wird das Leben. Wer sein Leben für sich haben will, der verliert es. Wer sein Leben schenkt – täglich in den kleinen Gebärden, die zum großen Entscheid gehören – der findet es. Das ist die anspruchsvolle, aber auch zutiefst schöne und befreiende Wahrheit, in die wir mit der Wanderung des Kreuzes durch die Kontinente hineinwandern wollen. Möge der Herr diese Wanderung segnen. Amen.

[00533-05.01] [Originalsprache: Italienisch]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos y hermanas,

Queridos jóvenes

Junto con una creciente muchedumbre de peregrinos, Jesús había subido a Jerusalén para la Pascua. En la última etapa del camino, cerca de Jericó, había curado al ciego Bartimeo, que lo había invocado como Hijo de David y suplicado piedad. Ahora que ya podía ver, se había sumado con gratitud al grupo de los peregrinos. Cuando a las puertas de Jerusalén Jesús montó en un borrico, que simbolizaba el reinado de David, entre los peregrinos explotó espontáneamente la alegre certeza: Es él, el Hijo de David. Y saludan a Jesús con la aclamación mesiánica: «¡Bendito el que viene en nombre del Señor!»; y añaden: «¡Bendito el reino que llega, el de nuestro padre David! ¡Hosanna en el cielo!», (Mc 11,9s). No sabemos cómo se imaginaban exactamente los peregrinos entusiastas el reino de David que llega. Pero nosotros, ¿hemos entendido realmente el mensaje de Jesús, Hijo de David? ¿Hemos entendido lo que es el Reino del que habló al ser interrogado por Pilato? ¿Comprendemos lo que quiere decir que su Reino no es de este mundo? ¿O acaso quisiéramos más bien que fuera de este mundo?

San Juan, en su Evangelio, después de narrar la entrada en Jerusalén, añade una serie de dichos de Jesús, en los que Él explica lo esencial de este nuevo género de reino. A simple vista podemos distinguir en estos textos tres imágenes diversas del reino en las que, aunque de modo diferente, se refleja el mismo misterio. Ante todo, Juan relata que, entre los peregrinos que querían «adorar a Dios» durante la fiesta, había también algunos griegos (cf. 12,20). Fijémonos en que el verdadero objetivo de estos peregrinos era adorar a Dios. Esto concuerda perfectamente con lo que Jesús dice en la purificación del Templo: «Mi casa será llamada casa de oración para todos los pueblos» (Mc 11,17). La verdadera meta de la peregrinación ha de ser encontrar a Dios, adorarlo, y así poner en el justo orden la relación de fondo de nuestra vida. Los griegos están en busca de Dios, con su vida están en camino hacia Dios. Ahora, mediante dos Apóstoles de lengua griega, Felipe y Andrés, hacen llegar al Señor esta petición: «Quisiéramos ver a Jesús» (Jn 12,21). Son palabras mayores. Queridos amigos, por eso nos hemos reunido aquí: Queremos ver a Jesús. Para eso han ido a Sydney el año pasado miles de jóvenes. Ciertamente, habrán puesto muchas ilusiones en esta peregrinación. Pero el objetivo esencial era éste: Queremos ver a Jesús.

¿Qué dijo, qué hizo Jesús en aquel momento ante esta petición? En el Evangelio no aparece claramente que hubiera un encuentro entre aquellos griegos y Jesús. La vista de Jesús va mucho más allá. El núcleo de su respuesta a la solicitud de aquellas personas es: «Si el grano de trigo no cae en tierra y muere, queda infecundo; pero si muere, da mucho fruto» (Jn 12,24). Y esto quiere decir: ahora no tiene importancia un coloquio más o menos breve con algunas personas, que después vuelven a casa. Vendré al encuentro del mundo de los griegos como grano de trigo muerto y resucitado, de manera totalmente nueva y por encima de los límites del momento. Por su resurrección, Jesús supera los límites del espacio y del tiempo. Como Resucitado, recorre la inmensidad del mundo y de la historia. Sí, como Resucitado, va a los griegos y habla con ellos, se les manifiesta, de modo que ellos, los lejanos, se convierten en cercanos y, precisamente en su lengua, en su cultura, la palabra de Jesús irá avanzando y será entendida de un modo nuevo: así viene su Reino. Por tanto, podemos reconocer dos características esenciales de este Reino. La primera es que este Reino pasa por la cruz. Puesto que Jesús se entrega totalmente, como Resucitado puede pertenecer a todos y hacerse presente a todos. En la sagrada Eucaristía recibimos el fruto del grano de trigo que muere, la multiplicación de los panes que continúa hasta el fin del mundo y en todos los tiempos. La segunda característica dice: su Reino es universal. Se cumple la antigua esperanza de Israel: esta realeza de David ya no conoce fronteras. Se extiende «de mar a mar», como dice el profeta Zacarías (9,10), es decir, abarca todo el mundo. Pero esto es posible sólo porque no es la soberanía de un poder político, sino que se basa únicamente en la libre adhesión del amor; un amor que responde al amor de Jesucristo, que se ha entregado por todos. Pienso que siempre hemos de aprender de nuevo ambas cosas. Ante todo, la universalidad, la catolicidad. Ésta significa que nadie puede considerarse a sí mismo, a su cultura a su tiempo y su mundo como absoluto. Y eso requiere que todos nos acojamos recíprocamente, renunciando a algo nuestro. La universalidad incluye el misterio de la cruz, la superación de sí mismos, la obediencia a la palabra de Jesucristo, que es común, en la común Iglesia. La universalidad es siempre una superación de sí mismos, renunciar a algo personal. La universalidad y la cruz van juntas. Sólo así se crea la paz.

La palabra sobre el grano de trigo que muere sigue formando parte de la respuesta de Jesús a los griegos, es su respuesta. Pero, a continuación, Él formula una vez más la ley fundamental de la existencia humana: «El que se ama a sí mismo, se pierde, y el que se aborrece a sí mismo en este mundo, se guardará para la vida eterna» (Jn 12,25). Es decir, quien quiere tener su vida para sí, vivir sólo para él mismo, tener todo en puño y explotar todas sus posibilidades, éste es precisamente quien pierde la vida. Ésta se vuelve tediosa y vacía. Solamente en el abandono de sí mismo, en la entrega desinteresada del yo en favor del tú, en el «sí» a la vida más grande, la vida de Dios, nuestra vida se ensancha y engrandece. Así, este principio fundamental que el Señor establece es, en último término, simplemente idéntico al principio del amor. En efecto, el amor significa dejarse a sí mismo, entregarse, no querer poseerse a sí mismo, sino liberarse de sí: no replegarse sobre sí mismo – ¡qué será de mí! – sino mirar adelante, hacia el otro, hacia Dios y hacia los hombres que Él pone a mi lado. Y este principio del amor, que define el camino del hombre, es una vez más idéntico al misterio de la cruz, al misterio de muerte y resurrección que encontramos en Cristo. Queridos amigos, tal vez sea relativamente fácil aceptar esto como gran visión fundamental de la vida. Pero, en la realidad concreta, no se trata simplemente de reconocer un principio, sino de vivir su verdad, la verdad de la cruz y la resurrección. Y por ello, una vez más, no basta una única gran decisión. Indudablemente, es importante, esencial, lanzarse a la gran decisión fundamental, al gran «sí» que el Señor nos pide en un determinado momento de nuestra vida. Pero el gran «sí» del momento decisivo en nuestra vida – el «sí» a la verdad que el Señor nos pone delante – ha de ser después reconquistado cotidianamente en las situaciones de todos los días en las que, una y otra vez, hemos de abandonar nuestro yo, ponernos a disposición, aun cuando en el fondo quisiéramos más bien aferrarnos a nuestro yo. También el sacrificio, la renuncia, son parte de una vida recta. Quien promete una vida sin este continuo y renovado don de sí mismo, engaña a la gente. Sin sacrificio, no existe una vida lograda. Si echo una mirada retrospectiva sobre mi vida personal, tengo que decir que precisamente los momentos en que he dicho «sí» a una renuncia han sido los momentos grandes e importantes de mi vida.

Finalmente, san Juan ha recogido también en su relato de los dichos del Señor para el «Domingo de Ramos» una forma modificada de la oración de Jesús en el Huerto de los Olivos. Ante todo una afirmación: «Mi alma está agitada» (12,27). Aquí aparece el pavor de Jesús, ampliamente descrito por los otros tres evangelistas: su terror ante el poder de la muerte, ante todo el abismo de mal que ve, y al cual debe bajar. El Señor sufre nuestras angustias junto con nosotros, nos acompaña a través de la última angustia hasta la luz. En Juan, siguen después dos súplicas de Jesús. La primera formulada sólo de manera condicional: «¿Qué diré? Padre, líbrame de esta hora» (12,27). Como ser humano, también Jesús se siente impulsado a rogar que se le libre del terror de la pasión. También nosotros podemos orar de este modo. También nosotros podemos lamentarnos ante el Señor, como Job, presentarle todas las nuestras peticiones que surgen en nosotros frente a la injusticia en el mundo y las trabas de nuestro propio yo. Ante Él, no hemos de refugiarnos en frases piadosas, en un mundo ficticio. Orar siempre significa luchar también con Dios y, como Jacob, podemos decirle: «no te soltaré hasta que me bendigas» (Gn 32,27). Pero luego viene la segunda petición de Jesús: «Glorifica tu nombre» (Jn 12,28). En los sinópticos, este ruego se expresa así: «No se haga mi voluntad, sino la tuya» (Lc 22,42). Al final, la gloria de Dios, su señoría, su voluntad, es siempre más importante y más verdadera que mi pensamiento y mi voluntad. Y esto es lo esencial en nuestra oración y en nuestra vida: aprender este orden justo de la realidad, aceptarlo íntimamente; confiar en Dios y creer que Él está haciendo lo que es justo; que su voluntad es la verdad y el amor; que mi vida se hace buena si aprendo a ajustarme a este orden. Vida, muerte y resurrección de Jesús, son para nosotros la garantía de que verdaderamente podemos fiarnos de Dios. De este modo se realiza su Reino.

Queridos amigos. Al término de esta liturgia, los jóvenes de Australia entregarán la Cruz de la Jornada Mundial de la Juventud a sus coetáneos de España. La Cruz está en camino de una a otra parte del mundo, de mar a mar. Y nosotros la acompañamos. Avancemos con ella por su camino y así encontraremos nuestro camino. Cuando tocamos la Cruz, más aún, cuando la llevamos, tocamos el misterio de Dios, el misterio de Jesucristo: el misterio de que Dios ha tanto amado al mundo, a nosotros, que entregó a su Hijo único por nosotros (cf. Jn 3,16). Toquemos el misterio maravilloso del amor de Dios, la única verdad realmente redentora. Pero hagamos nuestra también la ley fundamental, la norma constitutiva de nuestra vida, es decir, el hecho que sin el «sí» a la Cruz, sin caminar día tras día en comunión con Cristo, no se puede lograr la vida. Cuanto más ºrenunciemos a algo por amor de la gran verdad y el gran amor – por amor de la verdad y el amor de Dios –, tanto más grande y rica se hace la vida. Quien quiere guardar su vida para sí mismo, la pierde. Quien da su vida – cotidianamente, en los pequeños gestos que forman parte de la gran decisión –, la encuentra. Esta es la verdad exigente, pero también profundamente bella y liberadora, en la que queremos entrar paso a paso durante el camino de la Cruz por los continentes. Que el Señor bendiga este camino. Amén.

[00533-04.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos e irmãs,

Queridos jovens!

Acompanhado por uma multidão sempre maior de peregrinos, Jesus subira a Jerusalém para a Páscoa. Na última etapa do caminho, perto de Jericó, tinha curado o cego Bartimeu que O invocara como Filho de David, pedindo compaixão. Agora – já capaz de ver – com gratidão integra-se no grupo dos peregrinos. Às portas de Jerusalém quando Jesus sobe para um jumento, o animal símbolo da realeza davídica, explode espontaneamente entre os peregrinos a jubilosa certeza: Este é o Filho de David! Por isso saúdam Jesus com a aclamação messiânica: «Bendito o que vem em nome do Senhor», e acrescentam: «Bendito o Reino que vem, o Reino do nosso pai David! Hossana nas alturas!» (Mc 11, 9s). Não sabemos com precisão o que os peregrinos entusiasmados imaginavam que fosse o Reino de David que vem. E compreendemos nós verdadeiramente a mensagem de Jesus, Filho de David? Compreendemos nós o que é o Reino de que Ele falou durante o interrogatório de Pilatos? Compreendemos o que significa que o seu Reino não é deste mundo? Ou o nosso desejo não seria porventura o contrário: que fosse deste mundo?

São João no seu Evangelho, depois da narração da entrada em Jerusalém, refere uma série de afirmações pelas quais Jesus explica o essencial deste novo género de Reino. Numa primeira leitura destes textos, podemos distinguir três imagens diversas do Reino, nas quais, de maneira sempre diferente, se espelha o mesmo mistério. João narra, em primeiro lugar, que entre os peregrinos que, durante a festa «queriam adorar a Deus», havia também alguns Gregos (cf. 12, 20). Note-se o facto de que o verdadeiro objectivo destes peregrinos era adorar a Deus. Isto corresponde perfeitamente ao que Jesus disse por ocasião da purificação do Templo: «A minha casa será chamada casa de oração para todos os povos» (Mc 11, 17). O verdadeiro objectivo da peregrinação deve ser encontrar Deus; adorá-Lo e, assim, pôr na ordem justa a relação de fundo da nossa vida. Os Gregos são pessoas à procura de Deus, com a sua vida vão a caminho de Deus. Agora, por intermédio de dois Apóstolos de língua grega, Filipe e André, fazem chegar ao Senhor o pedido: «Queremos ver Jesus» (Jo 12, 21). Uma frase importante! Queridos amigos, para isto reunimo-nos aqui: Queremos ver Jesus. Com este objectivo, no ano passado, milhares de jovens foram a Sidney. Certamente, muitos terão sido os anseios que os moveram a tal peregrinação; mas o objectivo essencial era este: Queremos ver Jesus.

Relativamente a este pedido, que disse e fez Jesus naquela hora? O Evangelho não deixa claro se houve ou não um encontro entre aqueles Gregos e Jesus. O olhar de Jesus estende-se muito para além. Eis o núcleo da sua resposta ao pedido daquelas pessoas: «Se o grão de trigo cair na terra e não morrer, fica só ele; mas, se morrer, dá muito fruto» (Jo 12, 24). Isto significa: não tem importância um colóquio agora, mais ou menos breve, com algumas poucas pessoas, que depois regressam a casa. Como grão de trigo morto e ressuscitado, virei, de maneira totalmente nova e fora das limitações actuais, ao encontro do mundo dos Gregos. Através da ressurreição, Jesus supera os limites do espaço e do tempo. Como Ressuscitado, caminha pela vastidão do mundo e da história. Sim, como Ressuscitado, Jesus vai ter com os Gregos e fala com eles, mostra-Se a eles de tal modo que estes, que estavam longe, tornam-se vizinhos e precisamente na sua língua, na sua cultura, a sua palavra avança de modo novo e é compreendida de forma nova: vem o seu Reino. Assim podemos reconhecer duas características essenciais deste Reino. A primeira é que este Reino passa através da cruz. Uma vez que Jesus Se dá totalmente, pode, como Ressuscitado, ser de todos e tornar-Se presente em todos. Na sagrada Eucaristia, recebemos o fruto do grão de trigo morto, a multiplicação dos pães que continua em todos os tempos até ao fim do mundo. A segunda característica diz-nos que o seu Reino é universal. Cumpre-se a antiga esperança de Israel: esta realeza de David já não conhece fronteiras. Estende-se «de mar a mar» – como diz o profeta Zacarias (9, 10) –, isto é, abraça o mundo inteiro. Contudo, isto só é possível porque não é uma realeza feita de poder político, mas baseia-se unicamente na livre adesão do amor – um amor que, por sua vez, responde ao amor de Jesus Cristo que Se entregou por todos. Penso que devemos aprender incessantemente as duas coisas, e, primeira delas, a universalidade, a catolicidade. Esta significa que ninguém pode pôr como absoluto a sua própria pessoa, a sua cultura, o seu tempo e o seu mundo. Isto requer que todos nos acolhamos reciprocamente, renunciando a qualquer coisa de nosso. A universalidade inclui o mistério da cruz: a superação de si mesmo, a obediência à palavra comum de Jesus Cristo na Igreja comum. A universalidade é sempre uma superação de si mesmo, renúncia a algo de pessoal. A universalidade e a cruz caminham juntas. Somente assim se cria a paz.

A palavra sobre o grão de trigo morto faz parte ainda da resposta de Jesus aos Gregos, é a sua resposta. Depois, porém, Ele formula uma vez mais a lei fundamental da existência humana: «Quem tem amor à vida, perde-a, e quem detesta a sua vida neste mundo conservá-la-á para a vida eterna» (Jo 12, 25). Isto é, quem quiser conservar a sua vida para si, viver só para si próprio, agarrar tudo para si e desfrutar todas as suas possibilidades… tal pessoa perde a vida. Esta torna-se chata e vazia. Somente no abandono de si mesmo, apenas no dom desinteressado de mim em favor do outro, unicamente no «sim» à vida maior, própria de Deus, é que a nossa vida se torna vasta e grande. Assim este princípio fundamental, que o Senhor estabelece, em última análise identifica-se simplesmente com o princípio do amor. De facto, o amor significa sair de si mesmo, dar-se, não querer possuir-se a si mesmo, mas tornar-se livre de si: não dobrar-se sobre si próprio – o que será de mim? – mas olhar em frente, para o outro: para Deus e para os homens que Ele me envia. E por sua vez este princípio do amor, que define o caminho do homem, identifica-se com o mistério da cruz, o mistério de morte e ressurreição que encontramos em Cristo. Queridos amigos, talvez seja relativamente fácil aceitar isto como grande e fundamental perspectiva da vida. Mas, na realidade concreta, não se trata de reconhecer simplesmente um princípio mas de viver a sua verdade, a verdade da cruz e da ressurreição. E para isso não basta – repito-o – uma única grande decisão. É seguramente importante, essencial ousar uma vez a grande decisão fundamental, ousar o grande «sim» que o Senhor nos pede num momento determinado da nossa vida. Mas, depois, o grande «sim» do momento decisivo na nossa vida – o «sim» à verdade que o Senhor nos propõe – tem de ser diariamente consolidado nas situações de todos os dias nas quais, sempre de novo, devemos abandonar o nosso eu, colocarmo-nos à disposição, quando no fundo quereríamos pelo contrário poupar o nosso eu. A uma vida recta pertence também o sacrifício, a renúncia. Quem promete uma vida sem este dom incessante de si mesmo, engana as pessoas. Não existe uma vida bem sucedida, sem sacrifício. Se lanço um olhar retrospectivo à minha vida pessoal, devo dizer que os momentos em que disse «sim» a uma renúncia foram precisamente os momentos grandes e importantes da minha vida.

Enfim São João, na sua redacção das palavras do Senhor no «Domingo de Ramos», acolheu também uma forma modificada da oração de Jesus no Horto das Oliveiras. Temos, em primeiro lugar, a afirmação: «A minha alma está perturbada» (12, 27). Transparece aqui o pavor de Jesus, ilustrado amplamente pelos outros três evangelistas: o seu pavor diante do poder da morte, diante de todo o abismo do mal que Ele vê e ao qual deve descer. O Senhor sofre as nossas angústias juntamente connosco, acompanha-nos através da angústia derradeira até à luz. Depois, em João, aparecem duas perguntas de Jesus. A primeira é expressa apenas condicionalmente: «E que hei-de dizer? Pai, salva-me desta hora?» (12, 27). Como ser humano, também Jesus Se sente impelido a pedir que Lhe seja poupado o terror da paixão. Também nós podemos rezar deste modo. Podemos também lamentar-nos na presença do Senhor, como Job, apresentar-Lhe todas as interrogações que surgem em nós à vista da injustiça no mundo e da dificuldade do nosso próprio eu. Diante d’Ele não devemos refugiar-nos em frases piedosas, num mundo fictício. Rezar significa sempre também lutar com Deus e, como Jacob, podemos dizer-Lhe: «Não te deixarei partir enquanto não me abençoares» (Gen 32, 27). Mas depois vem o segundo pedido de Jesus: «Glorifica o teu nome!» (Jo 12, 28). Nos sinópticos, este pedido ressoa assim: «Não se faça, contudo, a minha vontade, mas a tua» (Lc 22, 42). No fim, a glória de Deus, o seu domínio, a sua vontade é sempre mais importante e mais verdadeira do que o meu pensamento e a minha vontade. E, na nossa oração e na nossa vida, o essencial é isto: aprender esta ordem justa da realidade, aceitá-la intimamente; confiar em Deus e crer que Ele está a fazer o que é justo; que a sua vontade é a verdade e o amor; que a minha vida se torna boa, se aprendo a aderir a esta ordem. Vida, morte e ressurreição de Jesus são, para nós, a garantia de que podemos verdadeiramente fiar-nos de Deus. É assim que se realiza o seu Reino.

Queridos amigos! No fim desta Liturgia, os jovens da Austrália entregarão a Cruz da Jornada Mundial da Juventude aos seus coetâneos da Espanha. A Cruz caminha de um lado do mundo até ao outro, de mar a mar. E nós acompanhamo-la. Seguimos com ela pela sua estrada e assim encontramos a nossa estrada. Quando tocamos a cruz, melhor quando a carregamos, tocamos o mistério de Deus, o mistério de Jesus Cristo. O mistério de Deus que amou de tal modo o mundo – isto é, a nós – que entregou o Filho unigénito por nós (cf. Jo 3, 16). Tocamos o mistério maravilhoso do amor de Deus, a única verdade realmente redentora. Mas tocamos também a lei fundamental, a norma constitutiva da nossa vida, isto é, o facto de que, sem o «sim» à Cruz, sem caminhar unidos com Cristo dia após dia, a vida não pode ter êxito. Quanta mais renúncia pudermos fazer por amor da grande verdade e do grande amor – por amor da verdade e do amor de Deus –, tanto maior e mais rica se tornará a vida. Quem quiser reservar a sua vida para si próprio, perde-a. Quem dá a sua vida – diariamente nos pequenos gestos, que fazem parte da grande decisão – tal pessoa encontra-a. Esta é a verdade exigente, mas também profundamente bela e libertadora, na qual queremos penetrar passo a passo ao longo do caminho da Cruz através dos continentes. Queira o Senhor abençoar este caminho. Amen.

[00533-06.01] [Texto original: Italiano]

[B0226-XX.01]