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SANTA MESSA DELLA NOTTE NELLA SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE, 24.12.2008


A mezzanotte, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa della Notte per la Solennità del Natale del Signore 2008.
Nel corso della celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa tiene la seguente omelia:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

"Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell'alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?" Così canta Israele in uno dei suoi Salmi (113 [112], 5s), in cui esalta insieme la grandezza di Dio e la sua benevola vicinanza agli uomini. Dio dimora nell’alto, ma si china verso il basso… Dio è immensamente grande e di gran lunga al di sopra di noi. È questa la prima esperienza dell’uomo. La distanza sembra infinita. Il Creatore dell’universo, Colui che guida il tutto, è molto lontano da noi: così sembra inizialmente. Ma poi viene l’esperienza sorprendente: Colui al quale nessuno è pari, che "siede nell’alto", Questi guarda verso il basso. Si china in giù. Egli vede noi e vede me. Questo guardare in giù di Dio è più di uno sguardo dall’alto. Il guardare di Dio è un agire. Il fatto che Egli mi vede, mi guarda, trasforma me e il mondo intorno a me. Così il Salmo continua immediatamente: "Solleva l’indigente dalla polvere…" Con il suo guardare in giù Egli mi solleva, benevolmente mi prende per mano e mi aiuta a salire, proprio io, dal basso verso l’alto. "Dio si china". Questa parola è una parola profetica. Nella notte di Betlemme, essa ha acquistato un significato completamente nuovo. Il chinarsi di Dio ha assunto un realismo inaudito e prima inimmaginabile. Egli si china – viene, proprio Lui, come bimbo giù fin nella miseria della stalla, simbolo di ogni necessità e stato di abbandono degli uomini. Dio scende realmente. Diventa un bambino e si mette nella condizione di dipendenza totale che è propria di un essere umano appena nato. Il Creatore che tutto tiene nelle sue mani, dal quale noi tutti dipendiamo, si fa piccolo e bisognoso dell’amore umano. Dio è nella stalla. Nell’Antico Testamento il tempio era considerato quasi come lo sgabello dei piedi di Dio; l’arca sacra come il luogo in cui Egli, in modo misterioso, era presente in mezzo agli uomini. Così si sapeva che sopra il tempio, nascostamente, stava la nube della gloria di Dio. Ora essa sta sopra la stalla. Dio è nella nube della miseria di un bimbo senza albergo: che nube impenetrabile e tuttavia – nube della gloria! In che modo, infatti, la sua predilezione per l’uomo, la sua preoccupazione per lui potrebbe apparire più grande e più pura? La nube del nascondimento, della povertà del bambino totalmente bisognoso dell’amore, è allo stesso tempo la nube della gloria. Perché niente può essere più sublime, più grande dell’amore che in questa maniera si china, discende, si rende dipendente. La gloria del vero Dio diventa visibile quando ci si aprono gli occhi del cuore davanti alla stalla di Betlemme.

Il racconto del Natale secondo san Luca, che abbiamo appena ascoltato nel brano evangelico, ci narra che Dio ha un po’ sollevato il velo del suo nascondimento dapprima davanti a persone di condizione molto bassa, davanti a persone che nella grande società erano piuttosto disprezzate: davanti ai pastori che nei campi intorno a Betlemme facevano la guardia agli animali. Luca ci dice che queste persone "vegliavano". Possiamo così sentirci richiamati a un motivo centrale del messaggio di Gesù, in cui ripetutamente e con crescente urgenza fino all’Orto degli ulivi torna l’invito alla vigilanza – a restare svegli per accorgersi della venuta del Signore ed esservi preparati. Pertanto anche qui la parola significa forse più del semplice essere esternamente svegli durante l’ora notturna. Erano persone veramente vigilanti, nelle quali il senso di Dio e della sua vicinanza era vivo. Persone che erano in attesa di Dio e non si rassegnavano all’apparente lontananza di Lui nella vita di ogni giorno. Ad un cuore vigilante può essere rivolto il messaggio della grande gioia: in questa notte è nato per voi il Salvatore. Solo il cuore vigilante è capace di credere al messaggio. Solo il cuore vigilante può infondere il coraggio di incamminarsi per trovare Dio nelle condizioni di un bambino nella stalla. Preghiamo in quest'ora il Signore affinché aiuti anche noi a diventare persone vigilanti.

San Luca ci racconta inoltre che i pastori stessi erano "avvolti" dalla gloria di Dio, dalla nube di luce, si trovavano nell’intimo splendore di questa gloria. Avvolti dalla nube santa ascoltano il canto di lode degli angeli: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini della sua benevolenza". E chi sono questi uomini della sua benevolenza se non i piccoli, i vigilanti, quelli che sono in attesa, sperano nella bontà di Dio e lo cercano guardando verso di Lui da lontano?

Nei Padri della Chiesa si può trovare un commento sorprendente circa il canto con cui gli angeli salutano il Redentore. Fino a quel momento – dicono i Padri – gli angeli avevano conosciuto Dio nella grandezza dell’universo, nella logica e nella bellezza del cosmo che provengono da Lui e Lo rispecchiano. Avevano accolto, per così dire, il muto canto di lode della creazione e l’avevano trasformato in musica del cielo. Ma ora era accaduta una cosa nuova, addirittura sconvolgente per loro. Colui di cui parla l’universo, il Dio che sostiene il tutto e lo porta in mano – Egli stesso era entrato nella storia degli uomini, era diventato uno che agisce e soffre nella storia. Dal gioioso turbamento suscitato da questo evento inconcepibile, da questa seconda e nuova maniera in cui Dio si era manifestato – dicono i Padri – era nato un canto nuovo, una strofa del quale il Vangelo di Natale ha conservato per noi: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini". Possiamo forse dire che, secondo la struttura della poesia ebraica, questo doppio versetto nei suoi due brani dice in fondo la stessa cosa, ma da un punto di vista diverso. La gloria di Dio è nel più alto dei cieli, ma questa altezza di Dio si trova ora nella stalla, ciò che era basso è diventato sublime. La sua gloria è sulla terra, è la gloria dell’umiltà e dell’amore. E ancora: la gloria di Dio è la pace. Dove c’è Lui, là c’è pace. Egli è là dove gli uomini non vogliono fare in modo autonomo della terra il paradiso, servendosi a tal fine della violenza. Egli è con le persone dal cuore vigilante; con gli umili e con coloro che corrispondono alla sua elevatezza, all’elevatezza dell’umiltà e dell’amore. A questi dona la sua pace, perché per loro mezzo la pace entri in questo mondo.

Il teologo medioevale Guglielmo di S. Thierry ha detto una volta: Dio – a partire da Adamo – ha visto che la sua grandezza provocava nell’uomo resistenza; che l’uomo si sente limitato nel suo essere se stesso e minacciato nella sua libertà. Pertanto Dio ha scelto una via nuova. È diventato un Bambino. Si è reso dipendente e debole, bisognoso del nostro amore. Ora – ci dice quel Dio che si è fatto Bambino – non potete più aver paura di me, ormai potete soltanto amarmi.

Con tali pensieri ci avviciniamo in questa notte al Bambino di Betlemme – a quel Dio che per noi ha voluto farsi bambino. Su ogni bambino c’è il riverbero del bambino di Betlemme. Ogni bambino chiede il nostro amore. Pensiamo pertanto in questa notte in modo particolare anche a quei bambini ai quali è rifiutato l’amore dei genitori. Ai bambini di strada che non hanno il dono di un focolare domestico. Ai bambini che vengono brutalmente usati come soldati e resi strumenti della violenza, invece di poter essere portatori della riconciliazione e della pace. Ai bambini che mediante l’industria della pornografia e di tutte le altre forme abominevoli di abuso vengono feriti fin nel profondo della loro anima. Il Bambino di Betlemme è un nuovo appello rivolto a noi, di fare tutto il possibile affinché finisca la tribolazione di questi bambini; di fare tutto il possibile affinché la luce di Betlemme tocchi i cuori degli uomini. Soltanto attraverso la conversione dei cuori, soltanto attraverso un cambiamento nell’intimo dell’uomo può essere superata la causa di tutto questo male, può essere vinto il potere del maligno. Solo se cambiano gli uomini, cambia il mondo e, per cambiare, gli uomini hanno bisogno della luce proveniente da Dio, di quella luce che in modo così inaspettato è entrata nella nostra notte.

E parlando del Bambino di Betlemme pensiamo anche alla località che risponde al nome di Betlemme; pensiamo a quel Paese in cui Gesù ha vissuto e che Egli ha amato profondamente. E preghiamo affinché lì si crei la pace. Che cessino l’odio e la violenza. Che si desti la comprensione reciproca, si realizzi un’apertura dei cuori che apra le frontiere. Che scenda la pace di cui hanno cantato gli angeli in quella notte.

Nel Salmo 96 [95] Israele, e con esso la Chiesa, lodano la grandezza di Dio che si manifesta nella creazione. Tutte le creature vengono chiamate ad aderire a questo canto di lode, e allora lì si trova anche l’invito: "Si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene" (12s). La Chiesa legge anche questo Salmo come una profezia e, insieme, come un compito. La venuta di Dio a Betlemme fu silenziosa. Soltanto i pastori che vegliavano furono per un momento avvolti nello splendore luminoso del suo arrivo e poterono ascoltare una parte di quel canto nuovo che era nato dalla meraviglia e dalla gioia degli angeli per la venuta di Dio. Questo venire silenzioso della gloria di Dio continua attraverso i secoli. Là dove c’è la fede, dove la sua parola viene annunciata ed ascoltata, Dio raduna gli uomini e si dona loro nel suo Corpo, li trasforma nel suo Corpo. Egli "viene". E così si desta il cuore degli uomini. Il canto nuovo degli angeli diventa canto degli uomini che, attraverso tutti i secoli in modo sempre nuovo, cantano la venuta di Dio come bambino e, a partire dal loro intimo, diventano lieti. E gli alberi della foresta si recano da Lui ed esultano. L’albero in Piazza san Pietro parla di Lui, vuole trasmettere il suo splendore e dire: Sì, Egli è venuto e gli alberi della foresta lo acclamano. Gli alberi nelle città e nelle case dovrebbero essere più di un’usanza festosa: essi indicano Colui che è la ragione della nostra gioia – il Dio che viene, il Dio che per noi si è fatto bambino. Il canto di lode, nel più profondo, parla infine di Colui che è lo stesso albero della vita ritrovato. Nella fede in Lui riceviamo la vita. Nel Sacramento dell’Eucaristia Egli si dona a noi – dona una vita che giunge fin nell’eternità. In quest’ora noi aderiamo al canto di lode della creazione e la nostra lode è allo stesso tempo una preghiera: Sì, Signore, facci vedere qualcosa dello splendore della tua gloria. E dona la pace sulla terra. Rendici uomini e donne della tua pace. Amen.

[01994-01.02] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Chers Frères et Sœurs,

« Qui est semblable au Seigneur notre Dieu ? Lui, il siège là-haut. Mais il abaisse son regard vers le ciel et vers la terre ». Ainsi chante Israël dans un de ses Psaumes (112 [113 ], 5-6), où il exalte à la fois la grandeur de Dieu et sa proximité bienveillante à l’égard des hommes. Dieu demeure dans les hauteurs, mais il se penche vers le bas… Dieu est immensément grand et bien au-dessus de nous. C’est là la première expérience de l’homme. La distance semble infinie. Le Créateur de l’univers, Celui qui conduit tout, est très loin de nous : c’est ce qui paraît tout d’abord. Mais ensuite vient l’expérience surprenante : Celui auquel rien n’est égal, qui « siège là-haut », Celui-ci regarde vers le bas. Il se penche vers le bas. Il nous voit et Il me voit. Ce regard de Dieu vers en bas est plus qu’un regard d’en-haut. Le regard de Dieu est un agir. Le fait qu’Il me voit, qu’il me regarde, me transforme de même que le monde autour de moi. Ainsi le psaume continue-t-il immédiatement : « De la poussière il relève le faible… ». Par son regard vers le bas il me relève, avec bienveillance il me prend par la main et m’aide à m’élever, moi précisément, du bas vers le haut. « Dieu s’abaisse ». Cette parole est une parole prophétique. Dans la nuit de Bethléem, elle a acquis une signification complètement nouvelle. L’abaissement de Dieu a pris un réalisme inouï et inimaginable auparavant. Il s’abaisse – il vient, Lui, comme bébé et dans la misère de l’étable, symbole de toute nécessité et de l’état d’abandon des hommes. Dieu descend réellement. Il devient un enfant et se met dans la condition de dépendance totale qui est celle d’un être humain qui vient de naître. Le Créateur qui tient tout dans ses mains, dont nous dépendons tous, se fait petit et nécessiteux de l’amour humain. Dieu est dans l’étable. Dans l’Ancien Testament, le temple était considéré presque comme le marchepied du trône de Dieu ; l’arche sacrée comme le lieu où, de façon mystérieuse, Celui-ci était présent au milieu des hommes. Ainsi on savait que, au-dessus du temple, secrètement, se tenait la nuée de la gloire de Dieu. Maintenant, elle se tient au-dessus de l’étable. Dieu est dans la nuée de la misère d’un bébé sans toit : quelle nuée impénétrable et néanmoins nuée de la gloire ! De quelle façon, en effet, sa prédilection pour l’homme, sa préoccupation pour lui pourraient apparaître plus grandes et plus pures ? La nuée de la dissimulation, de la pauvreté de l’enfant qui a totalement besoin de l’amour, est en même temps la nuée de la gloire. Parce que rien ne peut être plus sublime, plus grand que l’amour qui de cette manière s’abaisse, descend, se rend dépendant. La gloire du vrai Dieu devient visible quand s’ouvrent les yeux du cœur devant l’étable de Bethléem.

Le récit de Noël selon saint Luc, que nous venons d’entendre dans le passage évangélique, nous raconte que Dieu a soulevé un peu le voile derrière lequel il se cache, d’abord devant des personnes de très basse condition, devant des personnes qui dans la haute société étaient plutôt méprisées : devant les bergers qui dans les champs autour de Bethléem gardaient leurs troupeaux. Luc nous dit que ces personnes « veillaient ». Nous pouvons ainsi nous sentir ramenés à un thème central du message de Jésus dans lequel, à maintes reprises et avec une urgence croissante jusqu’au Jardin des oliviers, revient l’invitation à la vigilance – à rester éveillés pour nous apercevoir de la venue du Seigneur et y être préparés. Par conséquent ici aussi ce mot signifie sans doute plus que le simple fait d’être extérieurement éveillés durant les heures de la nuit. Il s’agissait de personnes vraiment vigilantes, chez lesquelles le sens de Dieu et de sa proximité était vif. Des personnes qui étaient en attente de Dieu et qui ne se résignaient pas à son éloignement apparent dans la vie de chaque jour. À un cœur qui veille peut être adressé le message de la grande joie : en cette nuit est né pour vous le Sauveur. Seul le cœur qui veille est capable de croire à ce message. Seul le cœur qui veille peut donner le courage de se mettre en chemin pour trouver Dieu sous les traits d’un enfant dans une étable. Prions le Seigneur afin qu’il nous aide nous aussi à devenir des personnes qui veillent.

De plus, Saint Luc nous raconte que les bergers eux-mêmes étaient « enveloppés » de la gloire de Dieu, de la nuée de lumière, ils se trouvaient au cœur même de la splendeur de cette gloire. Enveloppés de la nuée sainte, ils écoutent le cantique de louange des anges : « Gloire à Dieu au plus haut des cieux, et paix sur la terre aux hommes qu’il aime ». Et qui sont ces hommes qu’il aime sinon les petits, ceux qui veillent, ceux qui sont dans l’attente, qui espèrent dans la bonté de Dieu et le cherchent en regardant vers Lui, de loin ?

Chez les Pères de l’Église, nous trouvons un commentaire surprenant à propos du chant par lequel les anges saluent le Rédempteur. Jusqu’à ce moment – disent les Pères – les anges avaient connu Dieu à travers l’immensité de l’univers, à travers la cohérence et la beauté du cosmos qui proviennent de Lui et en sont le reflet. Ils avaient accueilli, pour ainsi dire, le chant de louange muet de la création et l’avaient transposé en une musique céleste. Mais alors, était survenue une chose nouvelle, véritablement bouleversante pour eux. Celui dont parlait l’univers, le Dieu qui soutient toute chose et porte tout dans sa main – Lui-même était entré dans l’histoire des hommes, il était devenu quelqu’un qui agit et qui souffre dans l’histoire. De ce joyeux bouleversement suscité par cet événement inconcevable, de cette seconde et nouvelle manière par laquelle Dieu s’était manifestée – disent les Pères – était né un chant nouveau, dont l’Évangile de Noël a conservé pour nous une strophe : « Gloire à Dieu au plus haut des cieux et paix sur la terre aux hommes ». Nous pouvons probablement dire que, selon la structure de la poésie juive, ce double verset dans ses deux parties dit au fond la même chose selon un point de vue différent. La gloire de Dieu est au plus haut des cieux, mais cette hauteur de Dieu réside maintenant dans l’étable, ce qui était vil est devenu sublime. Sa gloire est sur la terre, elle est la gloire de l’humilité et de l’amour. Et encore : la gloire de Dieu est la paix. Là où il est, là est la paix. Il est là où les hommes ne veulent pas faire par eux-mêmes de la terre le paradis, en recourant pour cela à la violence. Il est avec les personnes dont le cœur veille, avec les humbles et avec ceux qui sont « en phase » avec sa grandeur, avec la grandeur de l’humilité et de l’amour. À ceux-là, il donne sa paix, afin que, par eux, la paix entre dans ce monde.

Au Moyen âge, le théologien Guillaume de Saint Thierry a affirmé une fois : Dieu – à partir d’Adam – a vu que sa grandeur provoquait chez l’homme une résistance ; que l’homme se sent limité dans son être même et menacé dans sa liberté. C’est pourquoi Dieu a choisi une voie nouvelle. Il est devenu enfant. Il s’est rendu dépendant et faible, nécessiteux de notre amour. Aujourd’hui – nous dit ce Dieu qui s’est fait petit enfant – vous ne pouvez plus avoir peur de moi, désormais vous pouvez seulement m’aimer.

Avec ces pensées, nous nous approchons en cette nuit de l’enfant de Bethléem, de ce Dieu qui, pour nous, a voulu se faire enfant. Sur chaque enfant, il y a le reflet de l’enfant de Bethléem. Tout enfant réclame notre amour. En cette nuit, pensons donc d’une façon particulière à ces enfants auxquels l’amour des parents est refusé. Aux enfants des rues qui n’ont pas de foyer. Aux enfants qui sont utilisés d’une façon brutale comme soldats et dont on fait des instruments de violence, plutôt que de pouvoir être porteurs de réconciliation et de paix. Aux enfants qui, par l’industrie de la pornographie et par toutes les autres formes abominables d’abus, sont blessés au plus profond de leur âme. L’Enfant de Bethléem est un nouvel appel qui nous est adressé pour faire tout ce qui est possible afin que soient mis un terme aux épreuves de ces enfants, de faire tout ce qui est possible afin que la lumière de Bethléem touche le cœur des hommes. Ce n’est qu’à travers la conversion des cœurs, ce n’est qu’à travers un changement au plus intime de l’homme que peut être dépassée la cause de tout ce mal, que peut être vaincu le pouvoir du malin. Ce n’est que si les hommes changent, que change le monde et, pour changer, les hommes ont besoin de la lumière qui vient de Dieu, de cette lumière qui, de façon si inattendue, est entrée dans notre nuit.

En parlant de l’enfant de Bethléem, nous pensons également à la localité qui porte le nom de Bethléem, nous pensons à ce pays dans lequel Jésus a vécu et qu’il a profondément aimé. Et nous prions pour que, là, advienne la paix. Que cessent la haine et la violence. Que s’éveille la compréhension réciproque, que se réalise une ouverture des cœurs qui ouvre les frontières. Que descende la paix que les anges ont chantée au cours de cette nuit.

Dans le psaume 95 [96], Israël, et avec lui l’Église, louent la grandeur de Dieu qui se manifeste dans la création. Toutes les créatures sont appelées à faire leur ce chant de louange, où se trouve aussi cette invitation : « Que les arbres des forêts dansent de joie devant la face du Seigneur, car il vient » (v. 12). L’Église lit également ce psaume comme une prophétie et, à la fois, comme un devoir. La venue de Dieu à Bethléem fut silencieuse. Seuls les bergers qui veillaient furent un instant enveloppés de la splendeur lumineuse de sa venue et purent entendre une partie de ce chant nouveau qui était né de l’émerveillement et de la joie des anges pour l’avènement de Dieu. Cette venue silencieuse de la gloire de Dieu se poursuit à travers les siècles. Là où il y a la foi, là où sa parole est annoncée et écoutée, Dieu rassemble les hommes et se donne à eux dans son Corps, les transforme en son Corps. Il « vient ». Et ainsi, s’éveille le cœur des hommes. Le chant nouveau des anges devient le chant des hommes qui, à travers tous les siècles et d’une façon toujours nouvelle, chantent la venue de Dieu comme enfant et, du fond du cœur, deviennent joyeux. Et les arbres de la forêt se rendent auprès de Lui et exultent. L’arbre de la place Saint-Pierre parle de Lui, et il veut manifester sa splendeur et dire : Oui, il est venu et les arbres de la forêt l’acclament. Les arbres dans les villes et dans les maisons devraient être plus qu’un signe de fête : ils désignent Celui qui est la raison de notre joie – le Dieu qui pour nous s’est fait enfant. Le chant de louange évoque, en son sens le plus profond, Celui qui est l’arbre même de la vie retrouvée. Dans la foi en Lui, nous recevons la vie. Dans le Sacrement de l’Eucharistie, il se donne à nous – il donne une vie qui arrive jusque dans l’éternité. En cette heure, nous entrons dans le chant de louange de la création et notre louange est en même temps une prière : Oui, Seigneur, fais-nous voir un peu de la splendeur de ta gloire. Et donne la paix sur la terre. Fais de nous des hommes et des femmes de paix, de ta paix. Amen

[01994-03.01] [Texte original: Italien]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters,

"Who is like the Lord our God, who is seated on high, who looks far down upon the heavens and the earth?" This is what Israel sings in one of the Psalms (113 [112], 5ff.), praising God’s grandeur as well as his loving closeness to humanity. God dwells on high, yet he stoops down to us… God is infinitely great, and far, far above us. This is our first experience of him. The distance seems infinite. The Creator of the universe, the one who guides all things, is very far from us: or so he seems at the beginning. But then comes the surprising realization: The One who has no equal, who "is seated on high", looks down upon us. He stoops down. He sees us, and he sees me. God’s looking down is much more than simply seeing from above. God’s looking is active. The fact that he sees me, that he looks at me, transforms me and the world around me. The Psalm tells us this in the following verse: "He raises the poor from the dust…" In looking down, he raises me up, he takes me gently by the hand and helps me – me! – to rise from depths towards the heights. "God stoops down". This is a prophetic word. That night in Bethlehem, it took on a completely new meaning. God’s stooping down became real in a way previously inconceivable. He stoops down – he himself comes down as a child to the lowly stable, the symbol of all humanity’s neediness and forsakenness. God truly comes down. He becomes a child and puts himself in the state of complete dependence typical of a newborn child. The Creator who holds all things in his hands, on whom we all depend, makes himself small and in need of human love. God is in the stable. In the Old Testament the Temple was considered almost as God’s footstool; the sacred ark was the place in which he was mysteriously present in the midst of men and women. Above the temple, hidden, stood the cloud of God’s glory. Now it stands above the stable. God is in the cloud of the poverty of a homeless child: an impenetrable cloud, and yet – a cloud of glory! How, indeed, could his love for humanity, his solicitude for us, have appeared greater and more pure? The cloud of hiddenness, the cloud of the poverty of a child totally in need of love, is at the same time the cloud of glory. For nothing can be more sublime, nothing greater than the love which thus stoops down, descends, becomes dependent. The glory of the true God becomes visible when the eyes of our hearts are opened before the stable of Bethlehem.

Saint Luke’s account of the Christmas story, which we have just heard in the Gospel, tells us that God first raised the veil of his hiddenness to people of very lowly status, people who were looked down upon by society at large – to shepherds looking after their flocks in the fields around Bethlehem. Luke tells us that they were "keeping watch". This phrase reminds us of a central theme of Jesus’s message, which insistently bids us to keep watch, even to the Agony in the Garden – the command to stay awake, to recognize the Lord’s coming, and to be prepared. Here too the expression seems to imply more than simply being physically awake during the night hour. The shepherds were truly "watchful" people, with a lively sense of God and of his closeness. They were waiting for God, and were not resigned to his apparent remoteness from their everyday lives. To a watchful heart, the news of great joy can be proclaimed: for you this night the Saviour is born. Only a watchful heart is able to believe the message. Only a watchful heart can instil the courage to set out to find God in the form of a baby in a stable. Let us ask the Lord to help us, too, to become a "watchful" people.

Saint Luke tells us, moreover, that the shepherds themselves were "surrounded" by the glory of God, by the cloud of light. They found themselves caught up in the glory that shone around them. Enveloped by the holy cloud, they heard the angels’ song of praise: "Glory to God in the highest heavens and peace on earth to people of his good will". And who are these people of his good will if not the poor, the watchful, the expectant, those who hope in God’s goodness and seek him, looking to him from afar?

The Fathers of the Church offer a remarkable commentary on the song that the angels sang to greet the Redeemer. Until that moment – the Fathers say – the angels had known God in the grandeur of the universe, in the reason and the beauty of the cosmos that come from him and are a reflection of him. They had heard, so to speak, creation’s silent song of praise and had transformed it into celestial music. But now something new had happened, something that astounded them. The One of whom the universe speaks, the God who sustains all things and bears them in his hands – he himself had entered into human history, he had become someone who acts and suffers within history. From the joyful amazement that this unimaginable event called forth, from God’s new and further way of making himself known – say the Fathers – a new song was born, one verse of which the Christmas Gospel has preserved for us: "Glory to God in the highest heavens and peace to his people on earth". We might say that, following the structure of Hebrew poetry, the two halves of this double verse say essentially the same thing, but from a different perspective. God’s glory is in the highest heavens, but his high state is now found in the stable – what was lowly has now become sublime. God’s glory is on the earth, it is the glory of humility and love. And even more: the glory of God is peace. Wherever he is, there is peace. He is present wherever human beings do not attempt, apart from him, and even violently, to turn earth into heaven. He is with those of watchful hearts; with the humble and those who meet him at the level of his own "height", the height of humility and love. To these people he gives his peace, so that through them, peace can enter this world.

The medieval theologian William of Saint Thierry once said that God – from the time of Adam – saw that his grandeur provoked resistance in man, that we felt limited in our own being and threatened in our freedom. Therefore God chose a new way. He became a child. He made himself dependent and weak, in need of our love. Now – this God who has become a child says to us – you can no longer fear me, you can only love me.

With these thoughts, we draw near this night to the child of Bethlehem – to the God who for our sake chose to become a child. In every child we see something of the Child of Bethlehem. Every child asks for our love. This night, then, let us think especially of those children who are denied the love of their parents. Let us think of those street children who do not have the blessing of a family home, of those children who are brutally exploited as soldiers and made instruments of violence, instead of messengers of reconciliation and peace. Let us think of those children who are victims of the industry of pornography and every other appalling form of abuse, and thus are traumatized in the depths of their soul. The Child of Bethlehem summons us once again to do everything in our power to put an end to the suffering of these children; to do everything possible to make the light of Bethlehem touch the heart of every man and woman. Only through the conversion of hearts, only through a change in the depths of our hearts can the cause of all this evil be overcome, only thus can the power of the evil one be defeated. Only if people change will the world change; and in order to change, people need the light that comes from God, the light which so unexpectedly entered into our night.

And speaking of the Child of Bethlehem, let us think also of the place named Bethlehem, of the land in which Jesus lived, and which he loved so deeply. And let us pray that peace will be established there, that hatred and violence will cease. Let us pray for mutual understanding, that hearts will be opened, so that borders can be opened. Let us pray that peace will descend there, the peace of which the angels sang that night.

In Psalm 96 [95], Israel, and the Church, praises God’s grandeur manifested in creation. All creatures are called to join in this song of praise, and so the Psalm also contains the invitation: "Let all the trees of the wood sing for joy before the Lord, for he comes" (v. 12ff.). The Church reads this Psalm as a prophecy and also as a task. The coming of God to Bethlehem took place in silence. Only the shepherds keeping watch were, for a moment, surrounded by the light-filled radiance of his presence and could listen to something of that new song, born of the wonder and joy of the angels at God’s coming. This silent coming of God’s glory continues throughout the centuries. Wherever there is faith, wherever his word is proclaimed and heard, there God gathers people together and gives himself to them in his Body; he makes them his Body. God "comes". And in this way our hearts are awakened. The new song of the angels becomes the song of all those who, throughout the centuries, sing ever anew of God’s coming as a child – and rejoice deep in their hearts. And the trees of the wood go out to him and exult. The tree in Saint Peter’s Square speaks of him, it wants to reflect his splendour and to say: Yes, he has come, and the trees of the wood acclaim him. The trees in the cities and in our homes should be something more than a festive custom: they point to the One who is the reason for our joy – the God who for our sake became a child. In the end, this song of praise, at the deepest level, speaks of him who is the very tree of new-found life. Through faith in him we receive life. In the Sacrament of the Eucharist he gives himself to us – he gives us a life that reaches into eternity. At this hour we join in creation’s song of praise, and our praise is at the same time a prayer: Yes, Lord, help us to see something of the splendour of your glory. And grant peace on earth. Make us men and women of your peace. Amen.

[01994-02.01] [Original text: Italian]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Liebe Brüder und Schwestern,

"Wer gleicht dem Herrn, unserm Gott, der in der Höhe thront und sich hinabbeugt, um auf den Himmel und die Erde zu schauen?" So singt Israel in einem seiner Psalmen (vgl. 113 [112], 5f), in dem es zugleich die Größe Gottes und seine gütige Nähe zu uns Menschen rühmt. Gott wohnt in der Höhe, aber er beugt sich nieder…. Gott ist unendlich groß und weit über uns. Das ist die erste Erfahrung des Menschen. Der Abstand scheint unendlich. Der Schöpfer des Alls, der Lenker des Ganzen ist weit von uns entfernt, so scheint es zunächst. Aber dann kommt die überraschende Erfahrung: Der, dem niemand gleicht, „der in der Höhe trohnt", er schaut hernieder. Er beugt sich herunter. Er sieht uns, und er sieht mich. Dieses Herabschauen Gottes ist mehr als ein Blick aus der Höhe. Gottes Sehen ist Tun. Daß er mich sieht, mich ansieht, verändert mich und die Welt um mich herum. So fährt der Psalm dann gleich fort: „Der den Schwachen aus dem Staub emporhebt…" Mit seinem Herabschauen hebt er mich auf, nimmt er mich gütig an die Hand und hilft mir, selbst aus der Tiefe in die Höhe zu kommen. „Gott beugt sich hinab." Dieses Wort ist ein prophetisches Wort. In der Nacht zu Bethlehem hat es eine ganz neue Bedeutung gewonnen. Gottes Sichbeugen hat einen unerhörten und vorher nicht zu ahnenden Realismus angenommen. Er beugt sich – er kommt, ganz er selbst, als Kind herunter bis in die Armseligkeit des Stalls hinein, die für alle Not und Verlassenheit der Menschen steht. Gott steigt wirklich herab. Er wird ein Kind und begibt sich in die völlige Abhängigkeit eines neugeborenen Menschenkindes. Der Schöpfer, der alles in Händen hält, von dem wir alle abhängen, macht sich klein und der menschlichen Liebe bedürftig. Gott ist im Stall. Im Alten Testament hatte man den Tempel gleichsam als den Fußschemel Gottes betrachtet; die Heilige Lade als den Ort, an dem er geheimnisvoll unter den Menschen gegenwärtig war. So wußte man, daß über dem Tempel verborgen die Wolke der Herrlichkeit Gottes steht. Nun steht sie über dem Stall. Gott ist in der Wolke der Armseligkeit eines Kindes ohne Herberge: welch undurchdringliche Wolke und doch – Wolke der Herrlichkeit! Denn wie könnte seine Liebe zum Menschen, seine Sorge um ihn größer und reiner erscheinen? Die Wolke der Verhüllung, der Armseligkeit des ganz der Liebe bedürftigen Kindes ist zugleich Wolke der Herrlichkeit. Denn nichts kann höher, größer sein als die Liebe, die sich so herabbeugt, heruntersteigt, sich abhängig macht. Die Herrlichkeit des wahren Gottes wird sichtbar, wenn uns die Augen des Herzens vor dem Stall von Bethlehem aufgehen.

Die Weihnachtsgeschichte des heiligen Lukas, die wir eben im Evangelium gehört haben, erzählt uns, daß Gott den Schleier seiner Verborgenheit als erstes vor den ganz Geringen, vor Menschen ein wenig gelüftet hat, die in der großen Gesellschaft eher verachtet waren: den Hirten, die bei den Tieren auf den Feldern um Bethlehem Wache hielten. Lukas sagt uns, daß diese Menschen „wachten". So können wir uns hier an ein zentrales Motiv der Botschaft Jesu erinnert fühlen, wo es immer wieder mit steigender Dringlichkeit bis zum Ölberg hin darum geht, die Menschen zur Wachsamkeit einzuladen – wachend zu sein, um der Ankunft des Herrn gewahr zu werden und für sie bereitet zu sein. So bedeutet das Wort wohl auch hier mehr als das bloß äußere Wachsein in der nächtlichen Stunde. Es waren wirklich wache Menschen, in denen der Sinn für Gott und seine Nähe lebendig war. Menschen, die auf Gott warteten und sich nicht damit zufrieden gaben, daß er uns im Alltag so fern scheint. An das wachende Herz kann sich die Botschaft der großen Freude richten: Heute nacht ist euch der Erlöser geboren. Und nur das wachende Herz ist fähig, die Botschaft zu glauben. Nur das wachende Herz gibt den Mut aufzubrechen, um Gott als Kind im Stall zu finden. Bitten wir den Herrn, daß er auch uns helfe, wachende Menschen zu werden.

Der heilige Lukas erzählt uns des weiteren, daß die Hirten selbst von der Herrlichkeit Gottes, von seiner Wolke aus Licht „eingehüllt" waren, im inneren Glanz dieser Herrlichkeit standen. Eingehüllt in die heilige Wolke hören sie den Lobgesang der Engel: „Herrlichkeit Gott in der Höhe und auf Erden Friede den Menschen seines Wohlgefallens." Und wer sind diese Menschen seines Wohlgefallens, wenn nicht die Kleinen, die Wachenden, die Wartenden, die auf Gottes Güte hoffen und nach ihm Ausschau halten?

Bei den Kirchenvätern kann man einen überraschenden Kommentar zum Gesang der Engel finden, der den Erlöser begrüßt. Bisher – so sagen die Väter – hatten die Engel Gott gekannt in der Größe des Alls, in der Logik und Schönheit des Kosmos, die von ihm kommt und ihn spiegelt. Sie hatten gleichsam den stummen Lobgesang der Schöpfung aufgenommen und ihn zur Musik des Himmels gemacht. Aber nun war da etwas Neues, für sie förmlich Erschütterndes geschehen. Der Gott, von dem das All kündet, der alles trägt und in Händen hält – er war selber in die Geschichte der Menschen eingetreten, ein Handelnder und Leidender in der Geschichte geworden. Aus der freudigen Erschütterung über dieses Unfaßliche, diese zweite und neue Weise, in der Gott sich zeigt, sei ein neuer Gesang geboren worden, von dem uns das Weihnachtsevangelium ein Stück aufbewahrt hat: „Herrlichkeit Gott in der Höhe und Friede den Menschen auf Erden". Wir dürfen wohl sagen, daß dieser Doppelvers gemäß der Weise der hebräischen Poesie in seinen zwei Abschnitten im letzten dasselbe sagt, nur von einem je anderen Blickfeld her. Die Herrlichkeit Gottes ist in der Höhe, aber seine Höhe ist nun im Stall, das Niedrige ist das Hohe geworden. Seine Herrlichkeit ist mitten auf Erden, die Herrlichkeit der Demut und der Liebe. Und wiederum: Die Herrlichkeit Gottes ist Friede. Wo er ist, da ist Friede. Er ist da, wo die Menschen nicht die Erde selber zum Paradies machen wollen und dann zur Gewalt greifen. Er ist bei denen, die wachen Herzens sind; bei den Demütigen und bei denen, die seiner Höhe, der Höhe der Demut und der Liebe entsprechen. Ihnen schenkt er seinen Frieden, damit durch sie Friede hineintrete in diese Welt.

Der mittelalterliche Theologe Wilhelm von St. Thierry hat einmal gesagt: Gott hat gesehen – von Adam an – daß seine Größe den Menschen zum Widerstand reizte; daß er sich in seinem Selbersein beengt und in seiner Freiheit bedroht fühlt. So wählte Gott einen neuen Weg. Er wurde ein Kind. Er wurde abhängig und schwach, unserer Liebe bedürftig. Nun könnt ihr nicht mehr Angst haben vor mir, nun könnt ihr mich nur noch lieben – so sagt uns der Gott, der ein Kind wurde.

Mit diesen Gedanken treten wir in dieser Nacht vor das Kind von Bethlehem hin – vor den Gott, der unseretwegen ein Kind werden wollte. Über jedem Kind liegt der Abglanz des Kindes von Bethlehem. Jedes Kind bittet um unsere Liebe. In dieser Nacht denken wir daher besonders auch an die Kinder, denen die Liebe der Eltern versagt ist. An die Straßenkinder, denen kein Zuhause geschenkt ist. An die Kinder, die als Soldaten mißbraucht und zu Werkzeugen der Gewalt gemacht werden, anstatt Träger der Versöhnung und des Friedens sein zu dürfen. An die Kinder, die durch die Porno-Industrie und durch all die schändlichen Formen des Mißbrauchs bis in die Tiefe ihrer Seele hinein verwundet werden. Das Kind von Bethlehem ist ein neuer Anruf an uns, alles zu tun, damit die Not dieser Kinder ende; alles zu tun, damit das Licht von Bethlehem die Herzen der Menschen anrührt. Denn nur durch die Bekehrung des Herzens, nur durch eine Änderung im Innersten des Menschen kann die Ursache all dieses Bösen überwunden, kann die Macht des Bösen besiegt werden. Nur wenn die Menschen sich ändern, ändert sich die Welt, und damit die Menschen sich ändern, brauchen sie das Licht von Gott her, das Licht, das auf so unerwartete Weise in unsere Nacht eingetreten ist.

Und wenn wir vom Kind von Bethlehem sprechen, denken wir auch an diesen Ort Bethlehem und denken an das Land, in dem Jesus gelebt und das er zutiefst geliebt hat. Und wir beten darum, daß dort Friede werde. Daß der Haß und die Gewalt enden. Daß Verstehen erwache, eine Offenheit der Herzen, die die Grenzen öffnet. Daß der Friede einkehre, von dem die Engel in jener Nacht gesungen haben.

Im Psalm 96 (95) preist Israel und mit ihm die Kirche die Größe Gottes, die in der Schöpfung erscheint. Alle Geschöpfe werden da aufgerufen, in diesen Lobpreis einzustimmen, und so steht da auch das Wort: „Jubeln sollen alle Bäume des Waldes vor dem Herrn, wenn er kommt" (v. 12f). Diesen Psalm liest die Kirche wiederum als eine Prophetie und als einen Auftrag zugleich. Das Kommen Gottes in Bethlehem war leise. Nur die wachenden Hirten waren für einen Augenblick in den Lichtglanz dieses Kommens eingehüllt und durften ein Stück aus dem neuen Lied hören, das aus dem Staunen und der Freude der Engel über das Kommen Gottes geboren wurde. Dieses leise Kommen von Gottes Herrlichkeit setzt sich durch die Jahrhunderte hindurch fort. Wo Glaube ist, wo sein Wort verkündet und gehört wird, versammelt er die Menschen und schenkt sich ihnen in seinem Leib, macht sie zu seinem Leib. Er „kommt". Und so wacht das Herz der Menschen auf. Das neue Lied der Engel wird zum Lied der Menschen, die alle Jahrhunderte hindurch in immer neuer Weise die Ankunft Gottes als Kind besingen und von innen her froh werden. Und die Bäume des Waldes kommen zu ihm und jubeln. Der Baum auf dem Petersplatz spricht von ihm, will sein Leuchten weitergeben und will sagen: Ja, er ist gekommen, und die Bäume des Waldes jubeln ihm zu. Die Bäume in den Städten und in den Häusern sollten mehr als ein festliches Brauchtum sein: Sie zeigen auf den hin, der Grund unserer Freude ist – auf den Gott, der für uns ein Kind wurde. Der Lobgesang spricht zutiefst schließlich von dem, der selbst der wiedergefundene Baum des Lebens ist. Im Glauben an ihn empfangen wir Leben. Im Sakrament der Eucharistie schenkt er sich uns – schenkt er Leben, das in die Ewigkeit hineinreicht. In dieser Stunde stimmen wir ein in den Lobpreis der Schöpfung, und unser Lob ist zugleich Bitte: Ja, Herr, laß uns etwas vom Lichtglanz deiner Herrlichkeit sehen. Und gib Frieden auf Erden. Mache uns zu Menschen deines Friedens. Amen.

[01994-05.01] [Originalsprache: Italienisch]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos y hermanas

«¿Quién como el Señor, Dios nuestro, que se eleva en su trono y se abaja para mirar al cielo y a la tierra?». Así canta Israel en uno de sus Salmos (113 [112],5s), en el que exalta al mismo tiempo la grandeza de Dios y su benévola cercanía a los hombres. Dios reside en lo alto, pero se inclina hacia abajo... Dios es inmensamente grande e inconmensurablemente por encima de nosotros. Esta es la primera experiencia del hombre. La distancia parece infinita. El Creador del universo, el que guía todo, está muy lejos de nosotros: así parece inicialmente. Pero luego viene la experiencia sorprendente: Aquél que no tiene igual, que «se eleva en su trono», mira hacia abajo, se inclina hacia abajo. Él nos ve y me ve. Este mirar hacia abajo es más que una mirada desde lo alto. El mirar de Dios es un obrar. El hecho que Él me ve, me mira, me transforma a mí y al mundo que me rodea. Así, el Salmo prosigue inmediatamente: «Levanta del polvo al desvalido...». Con su mirar hacia abajo, Él me levanta, me toma benévolamente de la mano y me ayuda a subir, precisamente yo, de abajo hacia arriba. «Dios se inclina». Esta es una palabra profética. En la noche de Belén, esta palabra ha adquirido un sentido completamente nuevo. El inclinarse de Dios ha asumido un realismo inaudito y antes inimaginable. Él se inclina: viene abajo, precisamente Él, como un niño, incluso hasta la miseria del establo, símbolo toda necesidad y estado de abandono de los hombres. Dios baja realmente. Se hace un niño y pone en la condición de dependencia total propia de un ser humano recién nacido. El Creador que tiene todo en sus manos, del que todos nosotros dependemos, se hace pequeño y necesitado del amor humano. Dios está en el establo. En el antiguo Testamento el templo fue considerado algo así como el escabel de Dios; el arca sagrada como el lugar en que Él, de modo misterioso, estaba presente entre los hombres. Así se sabía que sobre el templo, ocultamente, estaba la nube de la gloria de Dios. Ahora, está sobre el establo. Dios está en la nube de la miseria de un niño sin posada: qué nube impenetrable y, no obstante, nube de la gloria. En efecto, ¿de qué otro modo podría aparecer más grande y más pura su predilección por el hombre, su preocupación por él? La nube del ocultación, de la pobreza del niño totalmente necesitado de amor, es al mismo tiempo la nube de la gloria. Porque nada puede ser más sublime, más grande, que el amor que se inclina de este modo, que desciende, que se hace dependiente. La gloria del verdadero Dios se hace visible cuando se abren los ojos del corazón ante del establo de Belén.

El relato de la Natividad según San Lucas, que acabamos de escuchar en el pasaje evangélico, nos dice que Dios, en primer lugar, ha levantado un poco el velo que lo ocultaba ante personas de muy baja condición, ante personas que en la gran sociedad eran más bien despreciadas: ante los pastores que velaban sus rebaños en los campos de las cercanías de Belén. Lucas nos dice que estas personas «velaban». Podemos sentirnos así atraídos de nuevo por un motivo central del mensaje de Jesús, en el que, repetidamente y con urgencia creciente hasta el Huerto de los Olivos, aparece la invitación a la vigilancia, a permanecer despiertos para percibir llegada de Dios y estar preparados para ella. Por tanto, también aquí la palabra significa quizás algo más que el simple estar materialmente despiertos durante la noche. Fueron realmente personas en alerta, en las que estaba vivo el sentido de Dios y de su cercanía. Personas que estaban a la espera de Dios y que no se resignaban a su aparente lejanía de su vida cotidiana. A un corazón vigilante se le puede dirigir el mensaje de la gran alegría: en esta noche os ha nacido el Salvador. Sólo el corazón vigilante es capaz de creer en el mensaje. Sólo el corazón vigilante puede infundir el ánimo de encaminarse para encontrar a Dios en las condiciones de un niño en el establo. Roguemos al Señor que nos ayude también a nosotros a convertirnos en personas vigilantes.

San Lucas nos cuenta, además, que los pastores mismos estaban «envueltos» en la gloria de Dios, en la nube de luz, que se encontraron en el íntimo resplandor de esta gloria. Envueltos por la nube santa escucharon el canto de alabanza de los ángeles: «Gloria a Dios en el cielo, y en la tierra paz a los hombres que Dios ama». Y, ¿quiénes son estos hombres de su benevolencia sino los pequeños, los vigilantes, los que están a la espera, que esperan en la bondad de Dios y lo buscan mirando hacia Él desde lejos?

En los Padres de la Iglesia se puede encontrar un comentario sorprendente sobre el canto con el que los ángeles saludan al Redentor. Hasta aquel momento –dicen los Padres– los ángeles conocían a Dios en la grandeza del universo, en la lógica y la belleza del cosmos que provienen de Él y que lo reflejan. Habían escuchado, por decirlo así, el canto de alabanza callado de la creación y lo habían transformado en música del cielo. Pero ahora había ocurrido algo nuevo, incluso sobrecogedor para ellos. Aquél de quien habla el universo, el Dios que sustenta todo y lo tiene en su mano, Él mismo había entrado en la historia de los hombres, se había hecho uno que actúa y que sufre en la historia. De la gozosa turbación suscitada por este acontecimiento inconcebible, de esta segunda y nueva manera en que Dios ha manifestado –dicen los Padres–surgió un canto nuevo, una estrofa que el Evangelio de Navidad ha conservado para nosotros: «Gloria a Dios en el cielo, y en la tierra paz a los hombres que Dios ama». Tal vez podemos decir que, según la estructura de la poesía judía, este doble versículo, en sus dos partes, dice en el fondo lo mismo, pero desde un punto de vista diferente. La gloria de Dios está en lo alto de los cielos, pero esta altura de Dios se encuentra ahora en el establo: lo que era bajo se ha hecho sublime. Su gloria está en la tierra, es la gloria de la humildad y del amor. Y también: la gloria de Dios es la paz. Donde está Él, allí hay paz. Él está donde los hombres no pretenden hacer autónomamente de la tierra el paraíso, sirviéndose para ello de la violencia. Él está con las personas del corazón vigilante; con los humildes y con los que corresponden a su elevación, a la elevación de la humildad y el amor. A estos da su paz, porque por medio de ellos entre la paz en este mundo.

El teólogo medieval Guillermo de S. Thierry dijo una vez: Dios ha visto que su grandeza –a partir de Adán– provocaba resistencia; que el hombre se siente limitado en su ser él mismo y amenazado en su libertad. Por lo tanto, Dios ha elegido una nueva vía. Se ha hecho un niño. Se ha hecho dependiente y débil, necesitado de nuestro amor. Ahora –dice ese Dios que se ha hecho niño– ya no podéis tener miedo de mí, ya sólo podéis amarme.

Con estos pensamientos nos acercamos en esta noche al Niño de Belén, a ese Dios que ha querido hacerse niño por nosotros. En cada niño hay un reverbero del niño de Belén. Cada niño reclama nuestro amor. Pensemos por tanto en esta noche de modo particular también en aquellos niños a los que se les niega el amor de los padres. A los niños de la calle que no tienen el don de un hogar doméstico. A los niños que son utilizados brutalmente como soldados y convertidos en instrumentos de violencia, en lugar de poder ser portadores de reconciliación y de paz. A los niños heridos en lo más profundo del alma por medio de la industria de la pornografía y todas las otras formas abominables de abuso. El Niño de Belén es un nuevo llamamiento que se nos dirige a hacer todo lo posible con el fin de que termine la tribulación de estos niños; a hacer todo lo posible para que la luz de Belén toque el corazón de los hombres. Solamente a través de la conversión de los corazones, solamente por un cambio en lo íntimo del hombre se puede superar la causa de todo este mal, se puede vencer el poder del maligno. Sólo si los hombres cambian, cambia el mundo y, para cambiar, los hombres necesitan la luz que viene de Dios, de esa luz que de modo tan inesperado ha entrado en nuestra noche.

Y hablando del Niño de Belén pensemos también en el pueblo que lleva el nombre de Belén; pensemos en aquel país en el que Jesús ha vivido y que tanto ha amado. Y roguemos para que allí se haga la paz. Que cesen el odio y la violencia. Que se abra el camino de la comprensión recíproca, se produzca una apertura de los corazones que abra las fronteras. Qué venga la paz que cantaron los ángeles en aquella noche.

En el Salmo 96 [95] Israel, y con él la Iglesia, alaban la grandeza de Dios que se manifiesta en la creación. Todas las criaturas están llamadas a unirse a este canto de alabanza, y en él se encuentra también una invitación: «Aclamen los árboles del bosque delante del Señor, que ya llega», (12s.). La Iglesia lee también este Salmo como una profecía y, a la vez, como una tarea. La venida de Dios en Belén fue silenciosa. Solamente los pastores que velaban fueron envueltos por unos momentos en el esplendor luminoso de su llegada y pudieron escuchar una parte de aquel canto nuevo nacido de la maravilla y de la alegría de los ángeles por la llegada de Dios. Este venir silencioso de la gloria de Dios continúa a través de los siglos. Donde hay fe, donde su palabra se anuncia y se escucha, Dios reúne a los hombres y se entrega a ellos en su Cuerpo, los transforma en su Cuerpo. Él «viene». Y, así, el corazón de los hombres se despierta. El canto nuevo de los ángeles se convierte en canto de los hombres que, a lo largo de los siglos y de manera siempre nueva, cantan la llegada de Dios como niño y, se alegran desde lo más profundo de su ser. Y los árboles del bosque van hacia Él y exultan. El árbol en Plaza de san Pedro habla de Él, quiere transmitir su esplendor y decir: Sí, Él ha venido y los árboles del bosque lo aclaman. Los árboles en las ciudades y en las casas deberían ser algo más que una costumbre festiva: ellos señalan a Aquél que es la razón de nuestra alegría, al Dios que por nosotros se ha hecho niño. El canto de alabanza, en lo más profundo, habla en fin de Aquél que es el árbol de la vida mismo reencontrado. En la fe en Él recibimos la vida. En el sacramento de la Eucaristía Él se nos da, da una vida que llega hasta la eternidad. En estos momentos nosotros nos sumamos al canto de alabanza de la creación, y nuestra alabanza es al mismo tiempo una plegaria: Sí, Señor, haz vernos algo del esplendor de tu gloria. Y da la paz en la tierra. Haznos hombres y mujeres de tu paz. Amén.

[01994-04.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

«Quem se compara ao Senhor, nosso Deus, que tem o seu trono nas alturas e Se inclina lá do alto a olhar os céus e a terra?» Assim canta Israel num dos seus Salmos (113/112, 5s.), onde exalta simultaneamente a grandeza de Deus e sua benigna proximidade dos homens. Deus habita nas alturas, mas inclina-Se para baixo… Deus é imensamente grande e está incomparavelmente acima de nós. Esta é a primeira experiência do homem. A distância parece infinita. O Criador do universo, Aquele que tudo guia, está muito longe de nós: assim parece ao início. Mas depois vem a experiência surpreendente: Aquele que não é comparável a ninguém, que «está sentado nas alturas», Ele olha para baixo. Inclina-se para baixo. Ele vê-nos a nós, e vê-me a mim. Este olhar de Deus para baixo é mais do que um olhar lá das alturas. O olhar de Deus é um agir. O facto de Ele me ver, me olhar, transforma-me a mim e o mundo ao meu redor. Por isso logo a seguir diz o Salmo: «Levanta o pobre da miséria…» Com o seu olhar para baixo, Ele levanta-me, toma-me benignamente pela mão e ajuda-me, a mim próprio, a subir de baixo para as alturas. «Deus inclina-Se». Esta é uma palavra profética; e, na noite de Belém, adquiriu um significado completamente novo. O inclinar-Se de Deus assumiu um realismo inaudito, antes inimaginável. Ele inclina-Se: desce, Ele mesmo, como criança na miséria do curral, símbolo de toda a necessidade e estado de abandono dos homens. Deus desce realmente. Torna-Se criança, colocando-Se na condição de dependência total, própria de um ser humano recém-nascido. O Criador que tudo sustenta nas suas mãos, de Quem todos nós dependemos, faz-Se pequeno e necessitado do amor humano. Deus está no curral. No Antigo Testamento, o templo era considerado quase como o estrado dos pés de Deus; a arca santa, como o lugar onde Ele estava misteriosamente presente no meio dos homens. Deste modo sabia-se que sobre o templo, escondida, estava a nuvem da glória de Deus. Agora, está sobre o curral. Deus está na nuvem da miséria de uma criança sem lugar na hospedaria: que nuvem impenetrável e, no entanto, nuvem da glória! De facto, de que modo poderia aparecer maior e mais pura a sua predilecção pelo homem, a sua solicitude por ele? A nuvem do encobrimento, da pobreza da criança totalmente necessitada do amor, é ao mesmo tempo a nuvem da glória. É que nada pode ser mais sublime e maior do que o amor que assim se inclina, desce, se torna dependente. A glória do verdadeiro Deus torna-se visível quando se abrem os nossos olhos do coração diante do curral de Belém.

A narração do Natal feita por São Lucas, que acabámos de ouvir no texto evangélico, conta-nos que Deus levantou um pouco o véu do seu encobrimento primeiro diante de pessoas de condição muito humilde, diante de pessoas que habitualmente eram desprezadas na grande sociedade: diante dos pastores que, nos campos ao redor de Belém, guardavam os animais. Lucas diz-nos que estas pessoas «velavam». Nisto podemos ouvir ressoar um motivo central da mensagem de Jesus, na qual volta, repetidamente e com crescente urgência até ao Jardim das Oliveiras, o convite à vigilância, a permanecer acordados para nos darmos conta da vinda do Senhor e estarmos preparados para ela. Por isso, também aqui talvez a palavra signifique algo mais do que o simples estar externamente acordados durante as horas nocturnas. Eram pessoas verdadeiramente vigilantes, nas quais estava vivo o sentido de Deus e da sua proximidade; pessoas que estavam à espera de Deus e não se resignavam com o aparente afastamento d’Ele na vida de cada dia. A um coração vigilante pode ser dirigida a mensagem da grande alegria: esta noite nasceu para vós o Salvador. Só o coração vigilante é capaz de crer na mensagem. Só o coração vigilante pode incutir a coragem de pôr-se a caminho para encontrar Deus nas condições de uma criança no curral. Peçamos ao Senhor para que nos ajude, a nós também, a tornarmo-nos pessoas vigilantes.

São Lucas narra-nos ainda que os próprios pastores ficaram «envolvidos» pela glória de Deus, pela nuvem de luz, encontravam-se dentro do resplendor desta glória. Envolvidos pela nuvem santa ouvem o cântico de louvor dos anjos: «Glória a Deus no mais alto dos céus e paz na terra aos homens por Ele amados». E quem são estes homens por Ele amados senão os pequenos, os vigilantes, aqueles que estão à espera, esperam na bondade de Deus e procuram-No olhando para Ele de longe?

Nos Padres da Igreja, é possível encontrar um comentário surpreendente ao cântico com que os anjos saúdam o Redentor. Até àquele momento – dizem os Padres – os anjos tinham conhecido Deus na grandeza do universo, na lógica e na beleza do cosmos que provêm d’Ele e O reflectem. Tinham acolhido por assim dizer o cântico de louvor mudo da criação e tinham-no transformado em música do céu. Mas agora acontecera um facto novo, até mesmo assombroso para eles. Aquele de quem fala o universo, o próprio Deus que tudo sustenta e traz na sua mão, Ele mesmo entrara na história dos homens, tornara-Se um que age e sofre na história. Do jubiloso assombro suscitado por este facto inconcebível, por esta segunda e nova maneira em que Deus Se manifestara – dizem os Padres – nasceu um cântico novo, tendo o Evangelho de Natal conservado uma estrofe para nós: «Glória a Deus no mais alto dos céus e paz na terra aos homens». Talvez se possa dizer, segundo a estrutura da poesia hebraica, que este versículo nas suas duas frases diz fundamentalmente a mesma coisa, mas duma perspectiva diversa. A glória de Deus está no alto dos céus, mas esta sublimidade de Deus encontra-se agora no curral, aquilo que era humilde tornou-se sublime. A sua glória está sobre a terra, é a glória da humildade e do amor. Mais ainda: a glória de Deus é a paz. Onde está Ele, lá está a paz. Ele está lá onde os homens não querem fazer, de modo autónomo, da terra o paraíso, servindo-se para tal fim da violência. Ele está com as pessoas de coração vigilante; com os humildes e com aqueles que correspondem à sua elevação, à elevação da humildade e do amor. A estes dá a sua paz, para que, por meio deles, entre a paz neste mundo.

O teólogo medieval Guilherme de S. Thierry disse uma vez: Deus viu, a partir de Adão, que a sua grandeza suscitava no homem resistência; que o homem se sente limitado no ser ele próprio e ameaçado na sua liberdade. Portanto Deus escolheu um caminho novo. Tornou-Se um Menino. Tornou-Se dependente e frágil, necessitado do nosso amor. Agora – diz-nos aquele Deus que Se fez Menino – já não podeis ter medo de Mim, agora podeis apenas amar-Me.

É com tais pensamentos que, esta noite, nos aproximamos do Menino de Belém, daquele Deus que por nós quis fazer-Se criança. Em cada criança, há o revérbero do Menino de Belém. Cada criança pede o nosso amor. Pensemos, pois, nesta noite de modo particular também naquelas crianças às quais é recusado o amor dos pais; nos meninos da rua que não têm o dom de um lar doméstico; nas crianças que são brutalmente usadas como soldados e feitas instrumentos da violência, em vez de poderem ser portadores da reconciliação e da paz; nas crianças que, através da indústria da pornografia e de todas as outras formas abomináveis de abuso, são feridas até ao fundo da sua alma. O Menino de Belém é um renovado apelo que nos é dirigido para fazermos tudo o que for possível a fim de que acabe a tribulação destas crianças; para fazermos tudo o que for possível a fim de que a luz de Belém toque os corações dos homens. Somente através da conversão dos corações, somente através de uma mudança no íntimo do homem se pode superar a causa de todo este mal, pode ser vencido o poder do maligno. Somente se mudarem os homens é que muda o mundo e, para os homens mudarem, precisam da luz que vem de Deus, daquela luz que de modo tão inesperado entrou na nossa noite.

E falando do Menino de Belém, pensemos também na localidade que responde ao nome de Belém; pensemos naquela terra onde Jesus viveu e que Ele amou profundamente. E peçamos para que lá se crie a paz. Que cessem o ódio e a violência. Que desperte a compreensão recíproca, se realize uma abertura dos corações que abra as fronteiras. Que desça a paz que os anjos cantaram naquela noite.

No Salmo 96/95, Israel e, com ele, a Igreja louvam a grandeza de Deus que se manifesta na criação. Todas as criatura são chamadas a aderir a este cântico de louvor, encontrando-se lá também este convite: «Alegrem-se as árvores da floresta, diante do Senhor que vem» (12s.). A Igreja lê este Salmo também como um profecia e simultaneamente uma missão. A vinda de Deus a Belém foi silenciosa. Somente os pastores que velavam foram por uns momentos envolvidos no esplendor luminoso da sua chegada e puderam ouvir uma parte daquele cântico novo que brotara da maravilha e da alegria dos anjos pela vinda de Deus. Esta vinda silenciosa da glória de Deus continua através dos séculos. Onde há fé, onde a sua palavra é anunciada e escutada, Deus reúne os homens e dá-Se-lhes no seu Corpo, transforma-os no seu Corpo. Ele «vem». E assim desperta o coração dos homens. O cântico novo dos anjos torna-se cântico dos homens que, ao longo de todos os séculos, de forma sempre nova cantam a vinda de Deus como Menino e, a partir do seu íntimo, tornam-se felizes. E as árvores da floresta vão até Ele e exultam. A árvore na Praça de São Pedro fala d’Ele, quer transmitir o seu esplendor e dizer: Sim, Ele veio e as árvores da floresta aclamam-No. As árvores nas cidades e nas casas deveriam ser algo mais do que um costume natalício: indicam Aquele que é a razão da nossa alegria – o próprio Deus que por nós Se fez menino. O cântico de louvor, no mais fundo, fala enfim d’Aquele que é a própria árvore da vida reencontrada. Pela fé n’Ele, recebemos a vida. No sacramento da Eucaristia, dá-Se a nós: dá uma vida que chega até à eternidade. Nesta hora, juntamo-nos ao cântico de louvor da criação e o nosso louvor é ao mesmo tempo uma oração: Sim, Senhor, fazei-nos ver algo do esplendor da vossa glória. E dai a paz à terra. Tornai-nos homens e mulheres da vossa paz. Amen.

[01994-06.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA POLACCA

Drodzy bracia i siostry!

„Kto jest jak nasz Pan Bóg, który mieszka w górze i w dół spogląda na niebo i na ziemię?". Tak śpiewa Izrael w jednym ze swych Psalmów (113 [112], 5 n), w którym sławi zarazem wielkość Boga i Jego życzliwą bliskość ludziom. Bóg mieszka w górze, ale spogląda na dół… Jest nieskończenie wielki i niezmiernie nas przewyższa. To jest pierwsze doświadczenie człowieka. Odległość wydaje się nieskończona. Stworzyciel wszechświata, Ten, który wszystkim kieruje, jest bardzo daleko od nas. Tak się początkowo wydaje. Potem jednak przychodzi zaskakujące doświadczenie: Ten, który nie ma równego sobie, który „mieszka w górze", Ten sam spogląda w dół. Pochyla się. Widzi nas i widzi mnie. To Boże spoglądanie w dół jest czymś więcej, niż spojrzeniem z wysoka. Spoglądanie Boga jest działaniem. To, że On mnie widzi, że na mnie patrzy, przemienia mnie i świat wokół mnie. Tak więc w Psalmie mówi się zaraz potem: „Podnosi z prochu nędzarza…". Swoim spoglądaniem w dół On mnie podnosi, życzliwie bierze mnie za rękę i pomaga mi wychodzić – właśnie mnie – z dołu ku górze. Bóg się pochyla. To słowo jest słowem proroczym. W betlejemską noc przyjęło znaczenie całkiem nowe. Pochylanie się Boga nabrało niesłychanego i wcześniej niewyobrażalnego realizmu. Pochyla się – schodzi, właśnie On, jako dziecko aż do nędzy stajni, symbolu wszelkiego ludzkiego niedostatku i opuszczenia. Bóg rzeczywiście schodzi. Staje się dzieckiem i wchodzi w sytuację zupełnej zależności od drugich, która jest właściwa istocie ludzkiej dopiero co narodzonej. Stwórca, który ma wszystko w swoich rękach, od którego my wszyscy zależymy, staje się małym i potrzebującym ludzkiej miłości. Bóg jest w stajni. W Starym Testamencie świątynia uważana była niemal za podnóżek stóp Boga, zaś święta arka za miejsce, na którym On – w tajemniczy sposób – był obecny wśród ludzi. Wiedziano więc, że ponad świątynią wznosił się niewidoczny obłok Bożej chwały. Teraz wznosi się on nad stajenką. Bóg jest w obłoku nędzy dziecka bez schronienia. Jakiż to obłok nieprzenikniony, ale jednak – obłok chwały! W jaki bowiem inny sposób jego ogromna miłość do człowieka, jego zatroskanie o niego mogłyby się ujawnić jako większe i czystsze? Obłok ukrycia, ubóstwa dziecka całkowicie potrzebującego miłości jest równocześnie obłokiem chwały. Bo nic nie może być wznioślejsze, większe od miłości, która w ten sposób pochyla się, schodzi, staje się zależna. Chwała prawdziwego Boga staje się widzialna, kiedy otwierają się oczy naszego serca przed betlejemską stajnią.

Z opowiadania o Bożym Narodzeniu w Ewangelii według św. Łukasza, które dopiero co usłyszeliśmy, dowiadujemy się, że Bóg odkrył nieco osłonę swego ukrycia najpierw wobec ludzi bardzo niskiego stanu, którzy w wielkim społeczeństwie byli raczej pogardzani: wobec pasterzy, którzy na polach wokół Betlejem pilnowali zwierząt. Łukasz mówi nam, że ci ludzie „trzymali straż nocną". W ten sposób usłyszeć możemy przypomnienie centralnego motywu orędzia Jezusa, w którym stale i coraz bardziej przynaglająco, aż do Ogrójca, powraca wezwanie do czujności – by czuwając dostrzec przyjście Pana i być do niego przygotowani. Dlatego również tutaj słowo to znaczy może coś więcej, niż tylko zewnętrznie nie spać w nocną porę. Byli to ludzie naprawdę czuwający, w których żywe było poczucie Boga i Jego bliskości. Ludzie, którzy trwali w oczekiwaniu na Boga i nie godzili się z tym, że wydaje się On daleki od codziennego życia. Do serca czuwającego można skierować orędzie wielkiej radości: tej nocy narodził się wam Zbawiciel. Tylko serce czuwające zdolne jest uwierzyć w orędzie. Tylko serce czuwające może napełnić odwagą do wyruszenia w drogę, by znaleźć Boga w sytuacji dziecka w stajni. Prośmy Pana, by pomógł również nam stać się ludźmi czuwającymi.

Św. Łukasz mówi nam ponadto, że pasterze zostali zewsząd „oświeceni" chwałą Bożą, obłokiem światła. Znajdowali się wewnątrz blasku tej chwały. Objęci świętym obłokiem słuchają anielskiego śpiewu uwielbienia: „Chwała Bogu na wysokościach, a na ziemi pokój ludziom, w których ma upodobanie". A kim są ci ludzie, w których ma upodobanie, jeśli nie maluczcy, czuwający, ci, którzy oczekują, pokładają nadzieję w dobroci Boga i szukają Go, spoglądając ku Niemu z daleka?

U Ojców Kościoła znaleźć można zaskakujący komentarz na temat śpiewu, którym aniołowie pozdrawiają Odkupiciela. Aż do tego czasu – mówią Ojcowie – aniołowie znali Boga w wielkości wszechświata, w logice i pięknie kosmosu, które pochodzą od Niego i są Jego odbiciem. Przyjmowali, by tak rzec, niemy śpiew pochwalny stworzenia i przemieniali go w muzykę nieba. Teraz jednak stało się coś nowego, wprost wstrząsającego dla nich. Ten, o którym mówi wszechświat, Bóg, który wszystko podtrzymuje i nosi w ręku – On sam wszedł w dzieje ludzi, stał się kimś, kto działa i cierpi w historii. Z radosnego niepokoju wywołanego tym niepojętym wydarzeniem, z tego drugiego, nowego sposobu, w jaki Bóg się objawił – mówią Ojcowie – zrodził się nowy śpiew, którego jedną strofę Ewangelia o Bożym Narodzeniu dla nas zachowała: „Chwała Bogu na wysokościach, a na ziemi pokój ludziom, w których ma upodobanie". Można być może powiedzieć, że zgodnie ze strukturą poezji hebrajskiej ten dwuwiersz w swoich dwóch częściach mówi w gruncie rzeczy to samo, ale z innego punktu widzenia. Chwała Boga jest na wysokościach niebios, ale ta Boża wysokość znajduje się teraz w stajni – to, co było niskie, stało się wzniosłe. Chwała Boga jest na ziemi, jest chwałą pokory i miłości. I jeszcze: chwała Boga jest pokojem. Tam, gdzie jest On, tam jest pokój. On jest tam, gdzie ludzie nie chcą czynić w sposób autonomiczny z ziemi raju, posługując się w tym celu przemocą. Jest On z ludźmi o sercu czuwającym, z pokornymi i z tymi, którzy odpowiadają na Jego wzniosłość, na wzniosłość pokory i miłości. Daje im swój pokój, aby przez nich pokój wszedł na ten świat.

Średniowieczny teolog Wilhelm z klasztoru św. Teodoryka powiedział kiedyś: Bóg – począwszy od Adama – widział, że Jego wielkość budziła w człowieku opór, że człowiek czuje się ograniczony w byciu samym sobą i zagrożony w swej wolności. Bóg zatem wybrał nową drogę. Stał się Dzieckiem. Stał się zależnym i słabym, potrzebującym naszej miłości. Teraz – mówi nam ten Bóg, który stał się Dzieckiem – nie możecie już bać się Mnie, teraz już możecie mnie tylko kochać.

Z takimi myślami zbliżamy się tej nocy do Dziecięcia z Betlejem – do tego Boga, który dla nas chciał się stać dzieckiem. W każdym dziecku jest odblask dziecięcia z Betlejem. Każde dziecko domaga się naszej miłości. Pomyślmy zatem tej nocy szczególnie również o tych dzieciach, którym odmówiono miłości rodziców. O dzieciach ulicy, które nie otrzymały daru domowego ogniska. O dzieciach, które brutalnie użyto jako żołnierzy i uczyniono narzędziami przemocy, podczas gdy mogłyby być nosicielami pojednania i pokoju. O dzieciach, które poprzez pornografię i wszystkie inne haniebne formy nadużyć są ranione aż do głębi duszy. Dziecię z Betlejem jest nowym apelem skierowanym do nas o uczynienie wszystkiego, co możliwe, aby położyć kres udręce tych dzieci; o uczynienie wszystkiego, co możliwe, aby światło z Betlejem dotknęło ludzkich serc. Tylko przez nawrócenie serc, tylko przez wewnętrzną przemianę człowieka można przezwyciężyć przyczynę tego wszystkiego zła, można pokonać moc złego ducha. Tylko wtedy, gdy zmieniają się ludzie, zmienia się świat. A żeby się zmienić, ludzie potrzebują światła pochodzącego od Boga, tego światła, które w sposób tak nieoczekiwany weszło w naszą noc.

A mówiąc o Dziecięciu z Betlejem myślimy również o miejscowości, która nosi nazwę Betlejem. Myślimy również o tym kraju, w którym Jezus żył i który głęboko umiłował. I modlimy się, aby tam nastał pokój. Aby ustały nienawiść i przemoc. Aby wzbudziło się wzajemne zrozumienie, aby dokonało się otwarcie serc, które otwiera granice. Aby zstąpił pokój, o którym śpiewali aniołowie owej nocy.

W Psalmie 96 [95] Izrael i z nim Kościół wyśpiewują wielkość Boga, która objawia się w stworzeniu. Wszystkie stworzenia są wezwane, by włączyć się w ten śpiew pochwalny, i jest tam też zachęta: „Niech wszystkie drzewa w lasach wykrzykują z radości przed obliczem Pana, który już się zbliża" (Ps 96 [95], 12 n). Kościół odczytuje ten Psalm jako proroctwo i zarazem jako zadanie. Przyjście Boga do Betlejem dokonało się w ciszy. Tylko pasterze, którzy czuwali, byli przez chwilę ogarnięci świetlistym blaskiem Jego przyjścia i mogli usłyszeć część tego nowego śpiewu, który narodził się z podziwu i radości aniołów na przyjście Boga. To nadejście w ciszy chwały Boga kontynuowane jest przez wieki. Tam, gdzie jest wiara, gdzie Jego słowo jest głoszone i słuchane, Bóg gromadzi ludzi i daje im siebie w swoim Ciele, przemienia ich w swoje Ciało. On „przychodzi". I w ten sposób budzi się ludzkie serce. Nowy śpiew aniołów staje się śpiewem ludzi, którzy poprzez wszystkie wieki na sposób wciąż nowy wyśpiewują przyjście Boga jako dziecka i, poczynając od swego wnętrza, stają się radośni. A drzewa leśne udają się do Niego i radują się. Choinka na placu św. Piotra mówi o Nim, chce przekazać Jego blask i powiedzieć: Tak, On przyszedł i drzewa leśne Go sławią. Choinki w miastach i domach winny być czymś więcej, niż tylko świątecznym zwyczajem. Wskazują na Tego, który jest racją naszej radości – na Boga, który dla nas stał się dzieckiem. Śpiew pochwalny w samej swej głębi mówi w końcu o Tym, który jest sam drzewem życia na nowo odnalezionym. W wierze w Niego otrzymujemy życie. W Sakramencie Eucharystii On daje się nam – daje życie, które sięga aż do wieczności. W tej godzinie przyłączamy się do śpiewu pochwalnego stworzenia, a nasze uwielbienie jest równocześnie modlitwą: Tak, Panie, daj nam ujrzeć coś z blasku Twojej chwały. I daj pokój na ziemi. Uczyń nas ludźmi Twojego pokoju. Amen.

[01994-09.01] [Testo originale: Italiano]

[B0809-XX.02]