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CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO IN OCCASIONE DELL’APERTURA DELL’ANNO PAOLINO, 28.06.2008


Alle ore 18 di questo pomeriggio, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Basilica di San Paolo fuori le Mura la Celebrazione dei primi Vespri della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, in occasione dell’apertura dell’Anno Paolino, con la partecipazione del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e dei Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità Cristiane.
Il Santo Padre, il Patriarca Ecumenico, i Delegati fraterni delle altre Confessioni cristiane, i Monaci dell’Abbazia, raggiungono in processione il quadriportico della Basilica dove - davanti alla statua dell’Apostolo Paolo - il Papa accende il primo cero del braciere che arderà per tutto il corso dell’Anno Paolino. Dopo di Lui anche il Patriarca Ecumenico e il Rappresentante del Primate Anglicano accendono un cero. Quindi la processione varca la "Porta Paolina" ed entra in Basilica.
Giunto in presbiterio, il Santo Padre scende alla Confessione per venerare il sepolcro dell’Apostolo.
Inizia quindi la Celebrazione dei Vespri, nel corso della quale il Santo Padre tiene l’omelia. Prima della Benedizione finale, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I rivolge la Sua parola ai presenti.
Di seguito pubblichiamo il testo delle omelie del Santo Padre Benedetto XVI e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Testo in lingua italiana

Testo in lingua tedesca

Testo in lingua italiana

Santità e Delegati fraterni,
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle,

siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque, duemila anni fa, a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio…» (At 22,3). Alla fine del suo cammino dirà di sé: «Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità» (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. «Maestro delle genti» – questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi.

Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi – oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale "Anno Paolino": per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, «la fede e la verità», in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo. In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’Apostolo, una speciale "Fiamma Paolina", che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della Basilica. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta "Porta Paolina", attraverso la quale sono entrato nella Basilica accompagnato dal Patriarca di Costantinopoli, dal Cardinale Arciprete e da altre Autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’"Anno Paolino" assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. Saluto in primo luogo Sua Santità il Patriarca Bartolomeo I e i membri della Delegazione che lo accompagna, come pure il folto gruppo di laici che da varie parti del mondo sono venuti a Roma per vivere con Lui e con tutti noi questi momenti di preghiera e di riflessione. Saluto i Delegati Fraterni delle Chiese che hanno un vincolo particolare con l’apostolo Paolo - Gerusalemme, Antiochia, Cipro, Grecia - e che formano l’ambiente geografico della vita dell’Apostolo prima del suo arrivo a Roma. Saluto cordialmente i Fratelli delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente ed Occidente, insieme a tutti voi che avete voluto prendere parte a questo solenne inizio dell’"Anno" dedicato all’Apostolo delle Genti.

Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande Apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: Chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: Chi è Paolo? Che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’"Anno Paolino" che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.

Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue Lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: «Abbiamo avuto il coraggio … di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte … Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete» (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana – quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la «legge» della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: Dilige et quod vis fac (Tract. in 1Jo 7 ,7-8) – ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.

Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Alla domanda: «Chi sei, o Signore?» vien data la risposta: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. «Tu perseguiti me». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti «la sua causa». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto «carne». Egli ha «carne e ossa» (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, «Capo e Corpo» formano un unico soggetto, dirà Agostino. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?», scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà: C'è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. «Perché mi perseguiti?» Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.

Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. «Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo», dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re. «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza – senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi.

In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.

[01028-01.01] [Testo originale: Italiano]

Testo in lingua tedesca

Eure Heiligkeit und sehr geehrte Mitglieder der brüderlichen Delegation,
meine Herren Kardinäle,
verehrte Mitbrüder im bischöflichen und im priesterlichen Dienst,
liebe Schwestern und Brüder!

Wir sind am Grab des heiligen Paulus versammelt, der vor 2.000 Jahren in Tarsus in Kilikien, in der heutigen Türkei geboren wurde. Wer war Paulus? Vor der aufgeregten Menschenmenge im Tempel zu Jerusalem, die ihn hatte töten wollen, stellt er sich selber mit diesen Worten vor: „Ich bin ein Jude, geboren in Tarsus in Kilikien, hier in dieser Stadt (Jerusalem) erzogen, zu Füßen Gamaliëls genau nach dem Gesetz der Väter ausgebildet, ein Eiferer für Gott…" (Apg 22, 3). Am Ende seiner Wege sagt er über sich: „Ich wurde eingesetzt… als Lehrer der Völker im Glauben und in der Wahrheit" (1 Tim 2, 7; vgl. 2 Tim 1, 11). Lehrer der Völker – Apostel und Verkünder Jesu Christi nennt er sich im Rückblick auf seinen Lebensweg. Aber der Blick geht dabei nicht nur in die Vergangenheit. Lehrer der Völker – dieses Wort öffnet sich in die Zukunft hinein auf alle Völker und Generationen hin. Paulus ist für uns nicht eine Gestalt der Vergangenheit, derer wir achtungsvoll gedenken. Er ist auch unser Lehrer, auch für uns Apostel und Verkünder Jesu Christi.

Wir sind also versammelt, nicht um über vergangene Geschichte nachzudenken, die unwiderruflich vorbei ist. Paulus will mit uns reden – heute. Dazu habe ich dieses besondere „Paulusjahr" ausgerufen: damit wir ihm zuhören und von ihm als unserem Lehrer jetzt „den Glauben und die Wahrheit" erlernen, in denen die Gründe für die Einheit unter den Jüngern Christi verwurzelt sind. Unter diesem Gesichtspunkt habe ich anläßlich des 2000-Jahr-Jubiläums der Geburt des Apostels eine besondere „Paulus-Flamme" entzündet, die während des ganzen Jahres in einem speziellen Kohlenbecken im Atrium der Basilika brennen wird. Zur Feier dieses Gedenktages habe ich auch die sogenannte „Paulus-Tür" eingeweiht, durch die ich in Begleitung des Patriarchen von Konstantinopel, des Kardinal-Erzpriesters und anderer kirchlicher Autoritäten eingezogen bin. Es ist mir eine tief empfundene Freude, daß die Eröffnung des „Paulusjahres" durch die Anwesenheit zahlreicher Delegierter und Vertreter anderer Kirchen und kirchlicher Gemeinschaften, die ich mit offenem Herzen empfange, auch einen besonderen ökumenischen Charakter trägt. An erster Stelle begrüße ich Seine Heiligkeit, den Patriarchen Bartholomäus I. und die Mitglieder der ihn begleitenden Delegation sowie die große Gruppe von Laien, die aus verschiedenen Teilen der Erde nach Rom gekommen sind, um mit ihm und mit uns allen diese Momente des Gebetes und der Reflexion zu erleben. Ich begrüße die brüderlichen Delegierten der Kirchen, die eine besondere Verbindung zum Apostel Paulus haben – Jerusalem, Antiochien, Zypern, Griechenland – und die das geographische Umfeld des Lebens des Apostels vor seinem Eintreffen in Rom bilden. Herzlich begrüße ich auch die Brüder der verschiedenen Kirchen und kirchlichen Gemeinschaften aus Ost und West, zusammen mit Ihnen allen, die Sie gekommen sind, um an dieser feierlichen Eröffnung des „Jahres" teilzunehmen, das dem Völkerapostel gewidmet ist.

Fragen wir also nicht nur: Wer war Paulus? Fragen wir vor allem: Wer ist Paulus? Was sagt er mir? Ich möchte in dieser Stunde, am Anfang des „Paulusjahres", das wir hier eröffnen, drei Texte aus dem reichen Zeugnis des Neuen Testaments herausgreifen, in denen seine innere Physiognomie, das Eigentliche seines Wesens erscheint. Im Brief an die Galater hat er uns ein ganz persönliches Glaubensbekenntnis geschenkt, in dem er vor den Lesern aller Zeiten sein Herz auftut – sagt, was die innerste Triebkraft seines Lebens ist. „… Ich lebe im Glauben an den Sohn Gottes, der mich geliebt und sich für mich hingegeben hat" (2, 20). Alles, was Paulus tut, geschieht von dieser Mitte her. Sein Glaube ist die Erfahrung des ganz persönlichen Geliebtseins von Jesus Christus; er ist Wissen darum, daß Christus nicht irgendwie ins Allgemeine hinein gestorben ist, sondern ihn – Paulus – geliebt hat und als Auferstandener ihn heute liebt; daß er für ihn sich gegeben hat. Sein Glaube ist das Getroffensein von der Liebe Jesu Christi, die ihn bis ins Innerste erschüttert und umwandelt. Sein Glaube ist nicht eine Theorie, nicht eine Meinung über Gott und die Welt. Sein Glaube ist das Auftreffen der Liebe Gottes in seinem Herzen. Und so ist dieser Glaube selbst Liebe zu Jesus Christus.

Paulus wird von vielen vor allem als streitbarer Mann hingestellt, der das Schwert des Wortes zu führen weiß. In der Tat, an Auseinandersetzungen hat es auf seinem Weg als Apostel nicht gefehlt. Er hat nicht nach oberflächlicher Harmonie gesucht. In dem ersten seiner Briefe, der an die Thessalonicher ging, sagt er selber: „Wir haben… das Evangelium Gottes trotz harter Kämpfe freimütig und furchtlos bei euch verkündet… Nie haben wir mit unseren Worten zu schmeicheln versucht, das wißt ihr" (1 Thess 2, 2. 5). Die Wahrheit war ihm zu groß, als daß er bereit gewesen wäre, sie für den äußeren Erfolg zu opfern. Die Wahrheit, die er in der Begegnung mit dem Auferstandenen erfahren hatte, war ihm des Streites, der Verfolgung, des Leidens wert. Aber was ihn zuinnerst trieb, war das Geliebtsein von Jesus Christus und das Weitergeben dieser Liebe. Paulus war ein Liebender, und all sein Wirken und Leiden erklärt sich nur von dieser Mitte her. Die tragenden Grundbegriffe seiner Verkündigung sind einzig von da aus zu verstehen. Nehmen wir uns nur eines seiner Herzworte vor: die Freiheit. Die Erfahrung des radikalen Geliebtseins von Christus hatte ihm die Wahrheit und den Weg der menschlichen Existenz sichtbar gemacht – alles war darin enthalten. Paulus war frei als ein von Gott Geliebter und von ihm her Mitliebender. Diese Liebe ist nun das „Gesetz" seines Lebens und eben so die Freiheit seines Lebens. Er spricht und handelt aus der Verantwortung der Liebe heraus. Freiheit und Verantwortung sind hier untrennbar eins. Weil er in der Verantwortung der Liebe steht, ist er frei; weil er ein Liebender ist, lebt er ganz in der Verantwortung dieser Liebe und nimmt Freiheit nicht als Deckmantel für Willkür und Egoismus. Aus dem gleichen Geist heraus hat der heilige Augustinus das berühmt gewordene Wort formuliert: Dilige et quod vis fac (Tract 1 Joa 7, 7 - 8) – liebe und tue, was du willst. Wer Christus wie Paulus liebt, kann in der Tat tun, was er will, weil seine Liebe dem Willen Christi und so dem Willen Gottes geeint ist – weil sein Wille festgemacht ist in der Wahrheit und weil sein Wille nicht mehr der bloße Eigenwille, die Willkür des autonomen Ich ist, sondern hineingenommen ist in die Freiheit Gottes und von ihr her den Weg empfängt.

Auf der Suche nach der inneren Physiognomie des heiligen Paulus möchte ich an zweiter Stelle an das Wort erinnern, das der auferstandene Christus auf dem Weg nach Damaskus an ihn gerichtet hat. Der Herr ruft ihm zuerst zu: „Saulus, Saulus, warum verfolgst du mich?" Auf die Frage hin: „Wer bist du, Herr?" erfolgt die Antwort: „Ich bin Jesus, den du verfolgst" (Apg 9, 4f). Indem Saulus die Kirche verfolgt, verfolgt er Jesus selbst. „Du verfolgst mich." Jesus identifiziert sich mit der Kirche in einem einzigen Subjekt. In diesem Ruf des Auferstandenen, der das Leben des Saulus umwandelte, ist im Grund schon die ganze Lehre von der Kirche als Leib Christi enthalten. Christus hat sich nicht in den Himmel zurückgezogen und auf Erden eine Schar von Anhängern zurückgelassen, die „seine Sache" weiter betreiben. Die Kirche ist nicht ein Verein, der eine bestimmte Sache voranbringen will. In ihr geht es nicht um eine Sache. In ihr geht es um die Person Jesu Christi, der auch als Auferstandener Fleisch geblieben ist. Er hat „Fleisch und Knochen" (Lk 24, 39), so sagt es der Auferstandene bei Lukas zu den Jüngern, die ihn für einen Geist gehalten hatten. Er hat Leib. Er ist selbst da in seiner Kirche, „Haupt und Leib" ein einziges Subjekt, wird Augustinus sagen. „Wißt ihr nicht, daß eure Leiber Glieder Christi sind?" schreibt Paulus an die Korinther (1 Kor 6, 15). Er fügt hinzu: Wie Mann und Frau nach der Genesis miteinander ein Fleisch werden, so wird Christus mit den Seinen ein Geist, das heißt ein einziges Subjekt in der neuen Welt der Auferstehung (1 Kor 6, 16ff). In alledem scheint das eucharistische Geheimnis durch, in dem Christus immerfort seinen Leib schenkt und uns zu seinem Leib macht: „Ist das Brot, das wir brechen, nicht Teilhabe am Leib Christi? Ein Brot ist es. Darum sind wir viele ein Leib; denn wir alle haben teil an dem einen Brot" (1 Kor 10, 16f). Mit diesem Wort redet uns in dieser Stunde nicht nur Paulus, sondern der Herr selber an: Wie konntet ihr meinen Leib zerreißen? Vor dem Angesicht Christi wird dieses Wort zugleich zur dringlichen Bitte: Führe uns zusammen aus allen Trennungen. Laß es heute neu Wirklichkeit werden: Ein Brot ist es. Darum sind wir viele ein Leib. Das Wort von der Kirche als Leib Christi ist für Paulus nicht irgendein beliebiger Vergleich. Es geht weit über einen Vergleich hinaus. „Warum verfolgst du mich?" Immerfort zieht uns Christus in seinen Leib hinein, baut seinen Leib von der eucharistischen Mitte her auf, die für Paulus Zentrum christlicher Existenz ist, von der aus alle und jeder einzelne ganz persönlich erfahren darf: Er hat mich geliebt und sich für mich dahingegeben.

Ans Ende möchte ich ein spätes Wort des heiligen Paulus stellen, einen Zuruf an Timotheus vom Gefängnis her im Angesicht des Todes. „Leide mit mir für das Evangelium", sagt der Apostel zu seinem Schüler (2 Tim 1, 8). Dieses Wort, das wie ein Testament am Ende der Wege des Apostels steht, weist zurück auf den Anfang seiner Sendung. Während Saulus nach der Begegnung mit dem Auferstandenen blind in seiner Wohnung in Damaskus weilte, erhielt Hananias den Auftrag, zu dem gefürchteten Verfolger zu gehen und ihm die Hände aufzulegen, damit er wieder sehe. Auf den Einwand des Hananias hin, daß dieser Saulus ein gefährlicher Christenverfolger sei, ergeht die Antwort: „Dieser Mann... soll meinen Namen vor Völker und Könige... tragen. Ich werde ihm auch zeigen, wieviel er für meinen Namen leiden muß..." (Apg 9, 15f). Der Auftrag zur Verkündigung und die Berufung zum Leiden für Christus gehören untrennbar zusammen. Die Berufung zum Lehrer der Völker ist zugleich und in sich selbst eine Berufung zum Leiden in der Gemeinschaft mit Christus, der uns durch sein Leiden erlöst hat. Die Wahrheit kostet Leiden in einer Welt, in der die Lüge Macht hat. Wer dem Leiden ausweichen, es von sich fernhalten will, der weicht dem Leben und seiner Größe selber aus; er kann nicht Diener der Wahrheit und so des Glaubens sein. Liebe gibt es nicht ohne Leid – ohne das Leid des Verzichts auf sich selbst, der Umwandlung und Reinigung des Ich in die wahre Freiheit hinein. Wo nichts ist, das des Leidens wert wäre, da verliert auch das Leben selbst seinen Wert. Die Eucharistie – die Mitte unseres Christseins – beruht auf der Hingabe Jesu Christi für uns, sie ist aus der Passion der Liebe geboren, die im Kreuz ihren Höhepunkt fand. Von dieser sich schenkenden Liebe leben wir. Sie gibt uns den Mut und die Kraft, mit Christus und für ihn in dieser Welt zu leiden, wissend, daß gerade so unser Leben groß und reif und wahr wird. Aus allen Briefen des heiligen Paulus sehen wir, wie sich in seinem Weg als Lehrer der Völker die Vorhersage erfüllt hat, die in der Stunde seiner Berufung an Hananias ergangen war: „Ich werde ihm zeigen, wieviel er für meinen Namen leiden muß." Sein Leiden beglaubigt ihn als Lehrer der Wahrheit, der nicht seinen Gewinn, seinen Ruhm, seine eigene Erfüllung sucht, sondern für den einsteht, der uns alle geliebt und sich für uns hingegeben hat.

In dieser Stunde danken wir dem Herrn dafür, daß er Paulus gerufen und ihn zum Licht für die Völker, zum Lehrer für uns alle gemacht hat und bitten ihn: Schenke uns auch heute Zeugen der Auferstehung, die von deiner Liebe getroffen sind und das Licht des Evangeliums in unsere Zeit hineinzutragen vermögen. Heiliger Paulus, bitte für uns. Amen.

[01028-05.02] [Originalsprache: Deutsch]

OMELIA DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I

Santità, amato Fratello in Cristo,
e voi tutti, fedeli nel Signore,

Animati da una gioia colma di solennità, ci troviamo, per la preghiera dei Vespri, in questo antico e splendido tempio di San Paolo fuori le Mura, in presenza di numerosi e devoti pellegrini venuti da tutto il mondo, per la lieta inaugurazione formale dell’Anno di San Paolo, Apostolo dei Gentili.

La radicale conversione ed il kerygma apostolico di Saulo di Tarso hanno "scosso" la storia nel senso letterale del termine ed hanno scolpito l’identità stessa della cristianità. Questo grande uomo ha esercitato un influsso profondo sui Padri classici della Chiesa, come San Giovanni Crisostomo, in Oriente, e Sant’Agostino di Ippona, in Occidente. Sebbene non avesse mai incontrato Gesù di Nazaret, San Paolo ricevette direttamente il Vangelo «per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 1112).

Questo sacro luogo fuori le Mura è senza dubbio quanto mai appropriato per commemorare e celebrare un uomo che stabilì un connubio tra lingua greca e mentalità romana del suo tempo, spogliando la cristianità, una volta per tutte, da ogni ristrettezza mentale, e forgiando per sempre il fondamento cattolico della Chiesa ecumenica.

Auspichiamo che la vita e le Lettere di San Paolo continuino ad essere per noi fonte di ispirazione «affinché tutte le genti obbediscano alla fede in Cristo» (cfr. Rom 16,27).

[01029-01.01] [Testo originale: Italiano]

[B0439-XX.02]