A mezzanotte, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa della Notte per la Solennità del Natale del Signore 2007.
L’annuncio della nascita storica di Cristo è dato con le parole dell’antico testo della Kalenda. Quindi, il Santo Padre intona il Gloria in excelsis Deo quale inno di glorificazione a Dio per la nascita del Redentore. Durante il canto dell’inno, alcuni bambini presentano un omaggio floreale all’immagine di Gesù Bambino collocata davanti alla Confessione e le campane suonano in segno di festa.
Nel corso della celebrazione eucaristica in Basilica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa tiene la seguente omelia:
● OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle!
"Per Maria si compirono i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo" (cfr Lc 2,6s). Queste frasi, sempre di nuovo ci toccano il cuore. È arrivato il momento che l’Angelo aveva preannunziato a Nazaret: "Darai alla luce un figlio e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo" (cfr Lc 1,31). È arrivato il momento che Israele aveva atteso da tanti secoli, durante tante ore buie – il momento in qualche modo atteso da tutta l’umanità in figure ancora confuse: che Dio si prendesse cura di noi, che uscisse dal suo nascondimento, che il mondo diventasse sano e che Egli rinnovasse tutto. Possiamo immaginare con quanta preparazione interiore, con quanto amore Maria sia andata incontro a quell’ora. Il breve accenno: "Lo avvolse in fasce" ci lascia intravedere qualcosa della santa gioia e dello zelo silenzioso di quella preparazione. Erano pronte le fasce, affinché il bimbo potesse essere accolto bene. Ma nell’albergo non c’è posto. In qualche modo l’umanità attende Dio, la sua vicinanza. Ma quando arriva il momento, non ha posto per Lui. È tanto occupata con se stessa, ha bisogno di tutto lo spazio e di tutto il tempo in modo così esigente per le proprie cose, che non rimane nulla per l’altro – per il prossimo, per il povero, per Dio. E quanto più gli uomini diventano ricchi, tanto più riempiono tutto con se stessi. Tanto meno può entrare l’altro.
Giovanni, nel suo Vangelo, puntando all’essenziale ha approfondito la breve notizia di san Luca sulla situazione in Betlemme: "Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto" (1,11). Ciò riguarda innanzitutto Betlemme: il Figlio di Davide viene nella sua città, ma deve nascere in una stalla, perché nell’albergo non c’è posto per Lui. Riguarda poi Israele: l’inviato viene dai suoi, ma non lo si vuole. Riguarda in realtà l’intera umanità: Colui per il quale è stato fatto il mondo, il primordiale Verbo creatore entra nel mondo, ma non viene ascoltato, non viene accolto.
Queste parole riguardano in definitiva noi, ogni singolo e la società nel suo insieme. Abbiamo tempo per il prossimo che ha bisogno della nostra, della mia parola, del mio affetto? Per il sofferente che ha bisogno di aiuto? Per il profugo o il rifugiato che cerca asilo? Abbiamo tempo e spazio per Dio? Può Egli entrare nella nostra vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agire, della nostra vita per noi stessi?
Grazie a Dio, la notizia negativa non è l’unica, né l’ultima che troviamo nel Vangelo. Come in Luca incontriamo l’amore della madre Maria e la fedeltà di san Giuseppe, la vigilanza dei pastori e la loro grande gioia, come in Matteo incontriamo la visita dei sapienti Magi, venuti da lontano, così anche Giovanni ci dice: "A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio" (Gv 1,12). Esistono quelli che lo accolgono e così, a cominciare dalla stalla, dall’esterno, cresce silenziosamente la nuova casa, la nuova città, il nuovo mondo. Il messaggio di Natale ci fa riconoscere il buio di un mondo chiuso, e con ciò illustra senz’altro una realtà che vediamo quotidianamente. Ma esso ci dice anche, che Dio non si lascia chiudere fuori. Egli trova uno spazio, entrando magari per la stalla; esistono degli uomini che vedono la sua luce e la trasmettono. Mediante la parola del Vangelo, l’Angelo parla anche a noi, e nella sacra liturgia la luce del Redentore entra nella nostra vita. Se siamo pastori o sapienti – la luce e il suo messaggio ci chiamano a metterci in cammino, ad uscire dalla chiusura dei nostri desideri ed interessi per andare incontro al Signore ed adorarlo. Lo adoriamo aprendo il mondo alla verità, al bene, a Cristo, al servizio di quanti sono emarginati e nei quali Egli ci attende.
In alcune rappresentazioni natalizie del tardo Medioevo e dell’inizio del tempo moderno la stalla appare come un palazzo un po’ fatiscente. Se ne può ancora riconoscere la grandezza di una volta, ma ora è andato in rovina, le mura sono diroccate – è diventato, appunto, una stalla. Pur non avendo nessuna base storica, questa interpretazione, nel suo modo metaforico, esprime tuttavia qualcosa della verità che si nasconde nel mistero del Natale. Il trono di Davide, al quale era promessa una durata eterna, è vuoto. Altri dominano sulla Terra santa. Giuseppe, il discendente di Davide, è un semplice artigiano; il palazzo, di fatto, è diventato una capanna. Davide stesso aveva cominciato da pastore. Quando Samuele lo cercò per l’unzione, sembrava impossibile e contraddittorio che un simile pastore-ragazzino potesse diventare il portatore della promessa di Israele. Nella stalla di Betlemme, proprio lì dove era stato il punto di partenza, ricomincia la regalità davidica in modo nuovo – in quel bimbo avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Il nuovo trono dal quale questo Davide attirerà il mondo a sé sarà la Croce. Il nuovo trono – la Croce – corrisponde al nuovo inizio nella stalla. Ma proprio così viene costruito il vero palazzo davidico, la vera regalità. Questo nuovo palazzo è così diverso da come gli uomini immaginano un palazzo e il potere regale. Esso è la comunità di quanti si lasciano attrarre dall’amore di Cristo e con Lui diventano un corpo solo, un’umanità nuova. Il potere che proviene dalla Croce, il potere della bontà che si dona – è questa la vera regalità. La stalla diviene palazzo – proprio a partire da questo inizio, Gesù edifica la grande nuova comunità, la cui parola-chiave cantano gli Angeli nell’ora della sua nascita: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama" – uomini che depongono la loro volontà nella sua, diventando così uomini di Dio, uomini nuovi, mondo nuovo.
Gregorio di Nissa, nelle sue omelie natalizie ha sviluppato la stessa visione partendo dal messaggio di Natale nel Vangelo di Giovanni: "Ha posto la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14). Gregorio applica questa parola della tenda alla tenda del nostro corpo, diventato logoro e debole; esposto dappertutto al dolore ed alla sofferenza. E la applica all’intero cosmo, lacerato e sfigurato dal peccato. Che cosa avrebbe detto, se avesse visto le condizioni, in cui si trova oggi la terra a causa dell’abuso delle energie e del loro egoistico sfruttamento senza alcun riguardo? Anselmo di Aosta, in una maniera quasi profetica, ha una volta descritto in anticipo ciò che noi oggi vediamo in un mondo inquinato e minacciato per il suo futuro: "Tutto era come morto, aveva perso la sua dignità, essendo stato fatto per servire a coloro che lodano Dio. Gli elementi del mondo erano oppressi, avevano perso il loro splendore a causa dell’abuso di quanti li rendevano servi dei loro idoli, per i quali non erano stati creati" (PL 158, 955s). Così, secondo la visione di Gregorio, la stalla nel messaggio di Natale rappresenta la terra maltrattata. Cristo non ricostruisce un qualsiasi palazzo. Egli è venuto per ridare alla creazione, al cosmo la sua bellezza e la sua dignità: è questo che a Natale prende il suo inizio e fa giubilare gli Angeli. La terra viene rimessa in sesto proprio per il fatto che viene aperta a Dio, che ottiene nuovamente la sua vera luce e, nella sintonia tra volere umano e volere divino, nell’unificazione dell’alto col basso, recupera la sua bellezza, la sua dignità. Così Natale è una festa della creazione ricostituita. A partire da questo contesto i Padri interpretano il canto degli Angeli nella Notte santa: esso è l’espressione della gioia per il fatto che l’alto e il basso, cielo e terra si trovano nuovamente uniti; che l’uomo è di nuovo unito a Dio. Secondo i Padri fa parte del canto natalizio degli Angeli che ora Angeli e uomini possano cantare insieme e in questo modo la bellezza del cosmo si esprima nella bellezza del canto di lode. Il canto liturgico – sempre secondo i Padri – possiede una sua dignità particolare per il fatto che è un cantare insieme ai cori celesti. È l’incontro con Gesù Cristo che ci rende capaci di sentire il canto degli Angeli, creando così la vera musica che decade quando perdiamo questo con-cantare e con-sentire.
Nella stalla di Betlemme cielo e terra si toccano. Il cielo è venuto sulla terra. Per questo, da lì emana una luce per tutti i tempi; per questo lì s’accende la gioia; per questo lì nasce il canto. Alla fine della nostra meditazione natalizia vorrei citare una parola straordinaria di sant’Agostino. Interpretando l’invocazione della Preghiera del Signore: "Padre nostro che sei nei cieli", egli domanda: che cosa è questo – il cielo? E dove è il cielo? Segue una risposta sorprendente: "…che sei nei cieli – ciò significa: nei santi e nei giusti. I cieli fisici sono, sì, i corpi più alti dell’universo, ma tuttavia corpi, che non possono essere se non in un luogo. Se, però, si crede che il luogo di Dio sia nei cieli come nelle parti più alte del mondo, allora gli uccelli sarebbero più fortunati di noi, perché vivrebbero più vicini a Dio. Ma non è scritto: ‘Il Signore è vicino a quanti abitano sulle alture o sulle montagne’, ma invece: ‘Il Signore è vicino ai contriti di cuore’ (Sal 34[33],19), espressione che si riferisce all’umiltà. Come il peccatore viene chiamato ‘terra’, così al contrario il giusto può essere chiamato ‘cielo’" (Serm. in monte II 5, 17). Il cielo non appartiene alla geografia dello spazio, ma alla geografia del cuore. E il cuore di Dio, nella Notte santa, si è chinato giù fin nella stalla: l’umiltà di Dio è il cielo. E se andiamo incontro a questa umiltà, allora tocchiamo il cielo. Allora diventa nuova anche la terra. Con l’umiltà dei pastori mettiamoci in cammino, in questa Notte santa, verso il Bimbo nella stalla! Tocchiamo l’umiltà di Dio, il cuore di Dio! Allora la sua gioia toccherà noi e renderà più luminoso il mondo. Amen.
[01860-01.01] [Testo originale: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE
Chers Frères et Sœurs,
« Pour Marie, arrivèrent les jours où elle devait enfanter. Et elle mit au monde son fils premier-né; elle l’emmaillota et le coucha dans une mangeoire, car il n’y avait pas de place pour eux dans la salle commune » (cf. Lc 2, 6ss). De manière toujours nouvelle, ces mots nous touchent le cœur. Il est arrivé le moment annoncé par l’Ange à Nazareth : « Tu vas enfanter un fils ; tu lui donneras le nom de Jésus. Il sera grand, il sera appelé Fils du Très-Haut » (cf. Lc 1, 31). Il est arrivé le moment attendu par Israël depuis tant de siècles, durant tant d’heures sombres – le moment attendu en quelque sorte par toute l’humanité à travers des figures encore confuses : le moment où Dieu prendrait soin de nous, où il ne serait plus caché, où le monde deviendrait sain et où il renouvellerait tout. Nous pouvons imaginer par quelle préparation intérieure, avec quel amour Marie est allée au devant de cette heure. La courte notation « elle l’emmaillota » nous laisse entrevoir une part de la joie sainte et de l’empressement silencieux de cette préparation. Les langes étaient prêts pour que l’enfant puisse être bien accueilli. Mais dans la salle commune, il n’y avait pas de place. D’une certaine façon, l’humanité attend Dieu, elle attend qu’il se fasse proche. Mais quand arrive le moment, il n’y a pas de place pour lui. Elle est si occupée d’elle-même, elle a besoin de tout l’espace et de tout le temps de manière si exigeante pour ses propres affaires qu’il ne reste rien pour l’autre – pour le prochain, pour le pauvre, pour Dieu. Et plus les hommes deviennent riches, plus ils remplissent tout d’eux-mêmes. Et moins l’autre peut y entrer.
Dans son Évangile, saint Jean, allant à l’essentiel, a approfondi la brève allusion de saint Luc sur la situation à Bethléem : « Il est venu chez les siens, et les siens ne l’ont pas reçu » (1, 11). Cela concerne d’abord Bethléem : le Fils de David vient dans sa ville, mais il doit naître dans une étable, parce que, dans la salle commune, il n’y a pas de place pour Lui. Cela concerne ensuite Israël : l’envoyé vient chez les siens, mais on ne le veut pas. Cela concerne en réalité l’humanité tout entière : Celui par lequel le monde a été fait, le Verbe créateur, entre dans le monde, mais il n’est pas écouté, il n’est pas accueilli.
Ces paroles, en définitive, nous concernent nous, chacun en particulier et la société dans son ensemble. Avons-nous du temps pour le prochain qui a besoin de notre parole, de ma parole, de mon affection ? Pour la personne souffrante qui a besoin d’aide ? Pour le déplacé ou le réfugié qui cherche asile ? Avons-nous du temps et de l’espace pour Dieu ? Peut-il entrer dans notre vie ? Trouve-t-il un espace en nous, ou avons-nous occupé pour nous-mêmes tous l’espace de notre réflexion, de notre agir, de notre vie ?
Grâce à Dieu, l’élément négatif n’est pas l’unique ni l’ultime que nous trouvons dans l’Évangile. De même qu’en Luc nous rencontrons l’amour de la Vierge Mère Marie et la fidélité de saint Joseph, la vigilance des bergers ainsi que leur grande joie, de même qu’en Matthieu nous assistons à la visite des Mages, pleins de sagesse, venus de loin, de même aussi Jean nous dit : « Mais à tous ceux qui l’ont reçu, … il leur a donné de pouvoir devenir enfants de Dieu » (1, 12). On trouve des personnes qui l’accueillent et ainsi, à partir de l’étable, de l’extérieur, grandit silencieusement la maison nouvelle, la cité nouvelle, le monde nouveau. Le message de Noël nous fait reconnaître l’obscurité d’un monde clos, et il illustre ainsi, sans aucun doute, une réalité que nous rencontrons quotidiennement. Mais il nous dit aussi que Dieu ne se laisse pas mettre dehors. Il trouve un espace, même s’il faut entrer par une étable; on trouve des personnes qui voient sa lumière et qui la transmettent. A travers la parole de l’Évangile, l’Ange nous parle à nous aussi et, dans la sainte liturgie, la lumière du Rédempteur entre dans notre vie. Que nous soyons bergers ou sages – sa lumière et son message nous appellent à nous mettre en chemin, à sortir de notre enfermement dans nos désirs et dans nos intérêts, pour aller à la rencontre du Seigneur et pour l’adorer. Nous l’adorons en ouvrant le monde à la vérité, au bien, au Christ, au service des personnes marginalisées, dans lesquelles Lui nous attend.
Dans certaines représentations de la Nativité à la fin du Moyen-Âge et au début de l’époque moderne, l’étable apparaît comme un palais un peu délabré. Si l’on peut encore en reconnaître la grandeur d’autrefois, il est maintenant en ruines, les murs sont effondrés – il est précisément devenu une étable. Bien que n’ayant aucun fondement historique, cette interprétation exprime cependant sur un mode métaphorique quelque chose de la vérité qui se cache dans le mystère de Noël. Le trône de David, auquel était promis une durée éternelle, est vide. D’autres exercent leur domination sur la Terre Sainte. Joseph, le descendant de David, est un simple artisan; le palais est, de fait, devenu une cabane. David lui-même était à l’origine un pasteur. Quand Samuel le chercha en vue de l’onction, il semblait impossible et contradictoire qu’un jeune berger comme lui puisse devenir celui qui porterait la promesse d’Israël. Dans l’étable de Bethléem, de là où précisément tout est parti, la royauté davidique renaît de façon nouvelle – dans cet enfant emmailloté et couché dans une mangeoire. Le nouveau trône d’où ce David attirera le monde à lui est la Croix. Le nouveau trône – la Croix – correspond au nouveau commencement dans l’étable. Mais c’est précisément ainsi qu’est construit le vrai palais de David, la véritable royauté. Ce nouveau palais est tellement différent de la façon dont les hommes imaginent un palais et le pouvoir royal. Il est constitué par la communauté de ceux qui se laissent attirer par l’amour du Christ et, avec Lui, deviennent un seul corps, une humanité nouvelle. Le pouvoir qui vient de la Croix, le pouvoir de la bonté qui se donne – telle est la véritable royauté. L’étable devient palais – à partir de ce commencement, Jésus édifie la grande et nouvelle communauté dont les anges chantent le message central à l’heure de sa naissance : « Gloire à Dieu au plus haut des cieux et paix sur la terre aux hommes, qu’il aiment », aux hommes qui déposent leur volonté dans la sienne, devenant ainsi des hommes de Dieu, des hommes nouveaux, un monde nouveau.
Dans ses homélies de Noël, Grégoire de Nysse a développé la même perspective en partant du message de Noël dans l’Évangile de Jean : « Il a planté sa tente parmi nous » ( 1, 14). Grégoire applique ce mot de tente à la tente de notre corps, devenu usé et faible, toujours exposé à la douleur et à la souffrance. Et il l’applique au cosmos tout entier, lacéré et défiguré par le péché. Qu’aurait-il dit s’il avait vu les conditions dans lesquelles se trouvent aujourd’hui la terre en raison de l’utilisation abusive des ressources et de leur exploitation égoïste et sans aucune précaution ? De manière quasi prophétique, Anselme de Canterbury a un jour décrit par avance ce que nous voyons aujourd’hui dans un monde pollué et menacé dans son avenir : « Tout ce qui avait été fait pour servir à ceux qui louent Dieu était comme mort, avait perdu sa dignité. Les éléments du monde étaient oppressés, avaient perdu leur splendeur à cause de l’excès de ceux qui les asservissaient à leurs idoles, pour lesquelles ils n’avaient pas été créés » (PL 158, 955 ss). Ainsi, selon la vision de Grégoire, dans le message de Noël, l’étable représente la terre maltraitée. Le Christ ne reconstruit pas un palais quelconque. Il est venu pour redonner à la création, au cosmos, sa beauté et sa dignité : c’est ce qui est engagé à Noël et qui fait jubiler les anges. La terre est restaurée précisément par le fait qu’elle est ouverte à Dieu, qu’elle retrouve sa vraie lumière; et, dans l’harmonie entre vouloir humain et vouloir divin, dans l’union entre le haut et le bas, elle retrouve sa beauté, sa dignité. Aussi, la fête de Noël est-elle une fête de la création restaurée. À partir de ce contexte, les Pères interprètent le chant des anges dans la Nuit très sainte : il est l’expression de la joie née du fait que le haut et le bas, le ciel et la terre se trouvent de nouveau unis ; que l’homme est de nouveau uni à Dieu. Selon les Pères, le chant que désormais les anges et les hommes peuvent chanter ensemble fait partie du chant de Noël des anges; c’est ainsi que la beauté du cosmos s’exprime par la beauté du chant de louange. Le chant liturgique – toujours selon les Pères – possède une dignité particulière parce qu’il unit le chant de la terre aux chœurs célestes. C’est la rencontre avec Jésus Christ qui nous rend capables d’entendre le chant des anges, créant ainsi la véritable musique qui disparaît quand nous perdons la possibilité de chanter ensemble et d’écouter ensemble.
Dans l’étable de Bethléem, le ciel et la terre se rejoignent. Le ciel est venu sur la terre. C’est pourquoi, de là émane une lumière pour tous les temps; c’est pourquoi, là s’allume la joie; c’est pourquoi, là naît le chant. Au terme de notre méditation de Noël, je voudrais citer une parole extraordinaire de saint Augustin. Interprétant l’invocation de la Prière du Seigneur : « Notre Père qui est aux cieux », il se demande : quel est ce ciel ? Où est-il ce ciel ? Et suit une réponse étonnante : « … qui est aux cieux – cela signifie : dans les saints et dans les justes. En effet, les cieux sont les corps les plus élevés de l’univers, mais, étant cependant des corps, qui ne peuvent exister sinon en un lieu. Si toutefois on croit que le lieu de Dieu est dans les cieux comme dans les parties les plus hautes du monde, alors les oiseaux seraient plus heureux que nous, parce qu’ils vivraient plus près de Dieu. Mais il n’est pas écrit : ‘Le Seigneur est proche de ceux qui habitent sur les hauteurs ou sur les montagnes, mais plutôt : ‘Le Seigneur est proche du cœur brisé’ (Ps 34 [33], 19), expression qui se réfère à l’humilité. Comme le pécheur est appelé ‘terre’, ainsi, à l’inverse, le juste peut être appelé ‘ciel’ » (Serm. in monte II 5, 17). Le ciel n’appartient pas à la géographie de l’espace, mais à la géographie du cœur. Et le cœur de Dieu, dans cette Nuit très sainte, s’est penché jusque dans l’étable : l’humilité de Dieu est le ciel. Et si nous entrons dans cette humilité, alors, nous toucherons le ciel. Alors, la terre deviendra aussi nouvelle. Avec l’humilité des bergers, mettons-nous en route, en cette Nuit très sainte, vers l’Enfant dans l’étable ! Touchons l’humilité de Dieu, le cœur de Dieu ! Alors, sa joie nous touchera et elle rendra le monde plus lumineux. Amen.
[01860-03.02] [Texte original: Italien]
● TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
Dear Brothers and Sisters,
"The time came for Mary to be delivered. And she gave birth to her first-born son and wrapped him in swaddling clothes, and laid him in a manger, because there was no room for them in the inn" (Lk 2:6f.). These words touch our hearts every time we hear them. This was the moment that the angel had foretold at Nazareth: "you will bear a son, and you shall call his name Jesus. He will be great, and will be called the Son of the Most High" (Lk 1:31). This was the moment that Israel had been awaiting for centuries, through many dark hours – the moment that all mankind was somehow awaiting, in terms as yet ill-defined: when God would take care of us, when he would step outside his concealment, when the world would be saved and God would renew all things. We can imagine the kind of interior preparation, the kind of love with which Mary approached that hour. The brief phrase: "She wrapped him in swaddling clothes" allows us to glimpse something of the holy joy and the silent zeal of that preparation. The swaddling clothes were ready, so that the child could be given a fitting welcome. Yet there is no room at the inn. In some way, mankind is awaiting God, waiting for him to draw near. But when the moment comes, there is no room for him. Man is so preoccupied with himself, he has such urgent need of all the space and all the time for his own things, that nothing remains for others – for his neighbour, for the poor, for God. And the richer men become, the more they fill up all the space by themselves. And the less room there is for others.
Saint John, in his Gospel, went to the heart of the matter, giving added depth to Saint Luke’s brief account of the situation in Bethlehem: "He came to his own home, and his own people received him not" (Jn 1:11). This refers first and foremost to Bethlehem: the Son of David comes to his own city, but has to be born in a stable, because there is no room for him at the inn. Then it refers to Israel: the one who is sent comes among his own, but they do not want him. And truly, it refers to all mankind: he through whom the world was made, the primordial Creator-Word, enters into the world, but he is not listened to, he is not received.
These words refer ultimately to us, to each individual and to society as a whole. Do we have time for our neighbour who is in need of a word from us, from me, or in need of my affection? For the sufferer who is in need of help? For the fugitive or the refugee who is seeking asylum? Do we have time and space for God? Can he enter into our lives? Does he find room in us, or have we occupied all the available space in our thoughts, our actions, our lives for ourselves?
Thank God, this negative detail is not the only one, nor the last one that we find in the Gospel. Just as in Luke we encounter the maternal love of Mary and the fidelity of Saint Joseph, the vigilance of the shepherds and their great joy, just as in Matthew we encounter the visit of the wise men, come from afar, so too John says to us: "To all who received him, he gave power to become children of God" (Jn 1:12). There are those who receive him, and thus, beginning with the stable, with the outside, there grows silently the new house, the new city, the new world. The message of Christmas makes us recognize the darkness of a closed world, and thereby no doubt illustrates a reality that we see daily. Yet it also tells us that God does not allow himself to be shut out. He finds a space, even if it means entering through the stable; there are people who see his light and pass it on. Through the word of the Gospel, the angel also speaks to us, and in the sacred liturgy the light of the Redeemer enters our lives. Whether we are shepherds or "wise men" – the light and its message call us to set out, to leave the narrow circle of our desires and interests, to go out to meet the Lord and worship him. We worship him by opening the world to truth, to good, to Christ, to the service of those who are marginalized and in whom he awaits us.
In some Christmas scenes from the late Middle Ages and the early modern period, the stable is depicted as a crumbling palace. It is still possible to recognize its former splendour, but now it has become a ruin, the walls are falling down – in fact, it has become a stable. Although it lacks any historical basis, this metaphorical interpretation nevertheless expresses something of the truth that is hidden in the mystery of Christmas. David’s throne, which had been promised to last for ever, stands empty. Others rule over the Holy Land. Joseph, the descendant of David, is a simple artisan; the palace, in fact, has become a hovel. David himself had begun life as a shepherd. When Samuel sought him out in order to anoint him, it seemed impossible and absurd that a shepherd-boy such as he could become the bearer of the promise of Israel. In the stable of Bethlehem, the very town where it had all begun, the Davidic kingship started again in a new way – in that child wrapped in swaddling clothes and laid in a manger. The new throne from which this David will draw the world to himself is the Cross. The new throne – the Cross – corresponds to the new beginning in the stable. Yet this is exactly how the true Davidic palace, the true kingship is being built. This new palace is so different from what people imagine a palace and royal power ought to be like. It is the community of those who allow themselves to be drawn by Christ’s love and so become one body with him, a new humanity. The power that comes from the Cross, the power of self-giving goodness – this is the true kingship. The stable becomes a palace – and setting out from this starting-point, Jesus builds the great new community, whose key-word the angels sing at the hour of his birth: "Glory to God in the highest, and peace on earth to those whom he loves" – those who place their will in his, in this way becoming men of God, new men, a new world.
Gregory of Nyssa, in his Christmas homilies, developed the same vision setting out from the Christmas message in the Gospel of John: "He pitched his tent among us" (Jn 1:14). Gregory applies this passage about the tent to the tent of our body, which has become worn out and weak, exposed everywhere to pain and suffering. And he applies it to the whole universe, torn and disfigured by sin. What would he say if he could see the state of the world today, through the abuse of energy and its selfish and reckless exploitation? Anselm of Canterbury, in an almost prophetic way, once described a vision of what we witness today in a polluted world whose future is at risk: "Everything was as if dead, and had lost its dignity, having been made for the service of those who praise God. The elements of the world were oppressed, they had lost their splendour because of the abuse of those who enslaved them for their idols, for whom they had not been created" (PL 158, 955f.). Thus, according to Gregory’s vision, the stable in the Christmas message represents the ill-treated world. What Christ rebuilds is no ordinary palace. He came to restore beauty and dignity to creation, to the universe: this is what began at Christmas and makes the angels rejoice. The Earth is restored to good order by virtue of the fact that it is opened up to God, it obtains its true light anew, and in the harmony between human will and divine will, in the unification of height and depth, it regains its beauty and dignity. Thus Christmas is a feast of restored creation. It is in this context that the Fathers interpret the song of the angels on that holy night: it is an expression of joy over the fact that the height and the depth, Heaven and Earth, are once more united; that man is again united to God. According to the Fathers, part of the angels’ Christmas song is the fact that now angels and men can sing together and in this way the beauty of the universe is expressed in the beauty of the song of praise. Liturgical song – still according to the Fathers – possesses its own peculiar dignity through the fact that it is sung together with the celestial choirs. It is the encounter with Jesus Christ that makes us capable of hearing the song of the angels, thus creating the real music that fades away when we lose this singing-with and hearing-with.
In the stable at Bethlehem, Heaven and Earth meet. Heaven has come down to Earth. For this reason, a light shines from the stable for all times; for this reason joy is enkindled there; for this reason song is born there. At the end of our Christmas meditation I should like to quote a remarkable passage from Saint Augustine. Interpreting the invocation in the Lord’s Prayer: "Our Father who art in Heaven", he asks: what is this – Heaven? And where is Heaven? Then comes a surprising response: "… who art in Heaven – that means: in the saints and in the just. Yes, the heavens are the highest bodies in the universe, but they are still bodies, which cannot exist except in a given location. Yet if we believe that God is located in the heavens, meaning in the highest parts of the world, then the birds would be more fortunate than we, since they would live closer to God. Yet it is not written: ‘The Lord is close to those who dwell on the heights or on the mountains’, but rather: ‘the Lord is close to the brokenhearted’ (Ps 34:18[33:19]), an expression which refers to humility. Just as the sinner is called ‘Earth’, so by contrast the just man can be called ‘Heaven’" (Sermo in monte II 5, 17). Heaven does not belong to the geography of space, but to the geography of the heart. And the heart of God, during the Holy Night, stooped down to the stable: the humility of God is Heaven. And if we approach this humility, then we touch Heaven. Then the Earth too is made new. With the humility of the shepherds, let us set out, during this Holy Night, towards the Child in the stable! Let us touch God’s humility, God’s heart! Then his joy will touch us and will make the world more radiant. Amen.
[01860-02.01[Original text: Italian]
● TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA
„Für Maria kam die Zeit ihrer Niederkunft. Sie gebar ihren Sohn, den Erstgeborenen. Sie wickelte ihn in Windeln und legte ihn in eine Krippe, weil in der Herberge kein Platz für sie war" (Lk 2, 6f). Diese Sätze treffen uns immer wieder ins Herz. Der Augenblick ist da, den der Engel in Nazareth angekündigt hatte: „Du wirst einen Sohn gebären: dem sollst du den Namen Jesus geben. Er wird groß sein und Sohn des Höchsten genannt werden" (Lk 1, 31). Es ist der Augenblick da, auf den Israel seit so vielen Jahrhunderten, in so vielen dunklen Stunden gewartet hat – der Augenblick, auf den in verworrenen Gestalten irgendwie die Menschheit als ganze wartete: daß Gott sich unser annehme, aus seiner Verborgenheit heraustrete, die Welt heil werde und Er alles erneuere. Wir können uns vorstellen, mit wieviel innerer Bereitung und Liebe Maria auf diese Stunde zugegangen ist. Das kleine Wort: „Sie wickelte ihn in Windeln" läßt uns etwas von der heiligen Freude und dem stillen Eifer dieser Vorbereitung ahnen. Die Windeln sind bereit, damit das Kind recht empfangen werde. Aber in der Herberge gibt es keinen Platz. Irgendwie wartet die Menschheit auf Gott, auf seine Nähe. Aber wenn es so weit ist, hat sie keinen Platz für ihn. Sie ist so sehr mit sich selbst beschäftigt, sie braucht allen Raum und alle Zeit so dringend für das Eigene, daß nichts für den anderen bleibt – für den Nächsten, für den Armen, für Gott. Und je reicher die Menschen werden, desto mehr füllen sie alles mit sich selber aus. Desto weniger kann der andere hereintreten.
Johannes hat in seinem Evangelium die kurze Notiz des heiligen Lukas über die Situation in Bethlehem ins Grundsätzliche vertieft: „Er kam in sein Eigentum, und die Seinigen nahmen ihn nicht auf" (Joh 1, 11). Das betrifft zunächst Bethlehem: Der Davidssohn kommt in seine Stadt, aber er muß im Stall geboren werden, weil in der Herberge kein Platz ist für ihn. Es gilt für Israel: Der Gesandte kommt zu den Seinigen, aber man will ihn nicht. Es gilt für die Menschheit: Der, durch den die Welt geworden ist, das schöpferische Urwort tritt in die Welt herein, aber es wird nicht gehört, wird nicht angenommen.
Diese Worte gehen uns an, jeden einzelnen und die Gesellschaft als ganze. Haben wir Zeit für den Nächsten, der mein Wort, meine Zuwendung braucht? Für den Leidenden, der Hilfe nötig hat? Für den Vertriebenen oder Heimatlosen, der Herberge sucht? Haben wir Zeit und Raum für Gott? Kann er hereintreten in unser Leben? Findet er Raum bei uns, oder haben wir alle Räume unseres Denkens, Handelns, Lebens für uns selbst besetzt?
Gott sei Dank ist die negative Nachricht nicht das einzige und letzte, das wir im Evangelium finden. So wie wir bei Lukas der Liebe der Mutter Maria und der Treue des heiligen Josef, der Wachheit der Hirten und ihrer großen Freude begegnen, bei Matthäus dem Besuch der Weisen, die von weither gekommen sind, so sagt uns auch Johannes: Denen aber, die ihn aufnahmen, gab er die Vollmacht, Kinder Gottes zu werden (1, 12). Es gibt diejenigen, die ihn aufnehmen, und so wächst leise vom Stall, von außen her das neue Haus, die neue Stadt, die neue Welt. Die Weihnachtsbotschaft läßt uns das Dunkel einer verschlossenen Welt erkennen, und sie schildert damit durchaus Wirklichkeit, die wir täglich erleben. Aber sie sagt uns auch, daß Gott sich nicht aussperren läßt. Daß er einen Raum findet und wenn er durch den Stall hereintritt; daß es Menschen gibt, die sein Licht sehen und es weitertragen. Durch das Wort des Evangeliums spricht der Engel auch zu uns, und in der heiligen Liturgie fällt das Licht des Erlösers in unser Leben herein. Ob wir nun Hirten oder Weise sind – das Licht und seine Botschaft rufen uns aufzubrechen, herauszugehen aus der Verschlossenheit in unsere eigenen Wünsche und Interessen auf den Herrn zu und ihn anzubeten. Wir beten ihn an, indem wir die Welt öffnen für die Wahrheit, für das Gute, für Christus, für den Dienst an denen, die am Rande stehen und in denen er auf uns wartet.
In manchen Weihnachtsbildern des späten Mittelalters und der beginnenden Neuzeit erscheint der Stall wie ein etwas heruntergekommener Palast. Man kann noch seine ehemalige Größe erkennen, er ist verfallen, die Wände stehen offen – er ist eben zum Stall geworden. Diese Legende hat zwar keinen historischen Gehalt, aber sie drückt in ihrer bildhaften Weise doch etwas von der Wahrheit aus, die sich im Weihnachtsgeheimnis verbirgt. Der Thron Davids, dem Ewigkeit verheißen war, steht leer. Andere herrschen über das heilige Land. Josef, der Nachfahre Davids, ist ein einfacher Handwerker; der Palast ist in der Tat zur Hütte geworden. David selbst hatte als Hirte begonnen. Als Samuel ihn für die Salbung suchte, schien es unmöglich und widersprüchlich, daß ein solcher Hirtenbub Träger der Verheißung Israels werden konnte. Im Stall zu Bethlehem, gerade da, wo der Ausgangspunkt gewesen war, beginnt das davidische Königtum neu – in dem Kind, das in die Krippe und in Windeln gelegt wird. Der neue Thron, von dem aus dieser David die Welt an sich ziehen wird, ist das Kreuz. Der neue Thron – das Kreuz – entspricht dem neuen Beginn im Stall. Aber gerade so wird der wahre Davidspalast, das wahre Königtum gebaut. Dieser neue Palast ist so ganz anders, als Menschen sich Palast und Königsmacht ausdenken. Es ist die Gemeinschaft derer, die sich von der Liebe Christi anziehen lassen und mit ihm ein Leib, eine neue Menschheit werden. Die Macht, die vom Kreuz ausgeht, die Macht der schenkenden Güte, die ist das wahre Königtum. Der Stall wird zum Palast – Jesus baut gerade von diesem Anfang her die große neue Gemeinschaft auf, deren Grundwort die Engel in der Stunde seiner Geburt singen: „Ehre sei Gott in der Höhe und Friede den Menschen auf Erden, die ihm gefallen" – die ihren Willen in den seinigen hineinlegen und so Gottesmenschen, neue Menschen, neue Welt werden.
Gregor von Nyssa hat in seinen Weihnachtspredigten dieselbe Vision vom Weihnachtswort des Johannes-Evangeliums aus entwickelt: „Er hat sein Zelt unter uns aufgeschlagen" (Joh 1, 14). Gregor bezieht dieses Wort vom Zelt auf das Zelt unseres Leibes, das schlissig und schwach geworden ist; überall dem Schmerz und dem Leiden ausgesetzt. Und er bezieht es auf den ganzen Kosmos, der von der Sünde zerrissen und entstellt ist. Was würde er gesagt haben, wenn er den Zustand gesehen hätte, in dem durch den Mißbrauch der Energien und durch deren schonungslose Ausbeutung für unsere Interessen die Erde sich heute befindet? Anselm von Canterbury hat einmal in einer geradezu prophetisch zu nennenden Weise im voraus beschrieben, was wir heute in einer verschmutzten, in ihrer Zukunft bedrohten Erde erleben: „Alles war wie tot, es hatte seine Würde verloren, da es doch gemacht worden war, denen zu dienen, die Gott loben. Die Elemente der Erde waren unterdrückt und glanzlos geworden durch den Mißbrauch derer, die sie ihren Idolen dienstbar machten, für die sie nicht geschaffen waren" (PL 158, 955f). So steht der Stall in der Weihnachtsbotschaft in der Sicht von Gregor von Nyssa für die geschundene Erde. Christus stellt nicht irgendeinen Palast wieder her. Er ist gekommen, der Schöpfung, dem Kosmos seine Schönheit und seine Würde wiederzugeben: Das ist es, was an Weihnachten beginnt und was die Engel jubeln läßt. Die Erde wird gerade dadurch wiederhergestellt, daß sie auf Gott hin geöffnet wird, daß sie ihr eigentliches Licht wieder erhält und daß sie im Zusammenklingen zwischen menschlichem Wollen und göttlichem Wollen, im Einswerden von oben und unten ihre Schönheit, ihre Würde zurückerhält. So ist Weihnachten ein Fest der wiederhergestellten Schöpfung. Von diesem Zusammenhang her deuten die Väter den Gesang der Engel in der heiligen Nacht: Er ist Ausdruck der Freude darüber, daß oben und unten, Himmel und Erde wieder zusammenkommen. Daß der Mensch wieder mit Gott vereint wird. Zum Engelgesang der Weihnacht gehört es nach den Vätern, daß nun Engel und Menschheit mitsammen singen können und so die Schönheit des Kosmos sich in der Schönheit der gesungenen Lobpreisung ausdrückt. Der liturgische Gesang hat nach den Vätern seine besondere Würde dadurch, daß er Mitsingen mit den himmlischen Chören ist. Die Begegnung mit Jesus Christus ist es, die uns hörfähig macht für das Singen der Engel und so die wahre Musik erschafft, die verfällt, wo uns dieses Mitsingen und Mithören abhanden kommt.
Im Stall zu Bethlehem berühren sich Himmel und Erde. Der Himmel ist auf die Erde gekommen. Deswegen kommt von dort Licht über alle Zeiten hin; deswegen entzündet sich dort Freude; deshalb wird dort Gesang geboren. Ich möchte am Schluß unserer Weihnachtsbetrachtung ein erstaunliches Wort des heiligen Augustinus zitieren. Bei der Auslegung des Vater-unser-Anrufs: „Vater unser in den Himmeln" fragt er: Was ist das – der Himmel? Und wo ist der Himmel? Darauf folgt eine überraschende Antwort: „… der du bist im Himmel, das heißt: in den Heiligen und Gerechten. Wohl ist der Himmel der erhabenste Körper des Weltalls, aber ein Körper, der nur im Raum sein kann. Glaubt man aber, daß Gott im Himmel, also im obersten Teil des Weltalls wohnt, dann sind die Vögel besser daran als wir, da sie dann in unmittelbarerer Nähe zu Gott leben würden als wir. Aber es steht nicht geschrieben: ‚Der Herr ist nahe denen, die auf Höhen oder Bergen wohnen’, sondern: ‚Der Herr ist nahe denen, die zerbrochenen Herzens sind’ (Ps 34 [33], 19), was sich auf die Demut bezieht. Wie der Sünder ‚Erde’ genannt wird, so kann man im Gegensatz dazu den Gerechten ‚Himmel’ nennen" (Serm. in monte II 5, 17). Der Himmel gehört nicht der Geographie des Raums, sondern der Geographie des Herzens zu. Und das Herz Gottes hat sich in der Heiligen Nacht in den Stall herabgebeugt: Die Demut Gottes ist der Himmel. Und wenn wir auf diese Demut zugehen, dann berühren wir den Himmel. Dann wird auch die Erde neu. Brechen wir mit der Demut der Hirten in dieser Heiligen Nacht auf zu dem Kindlein im Stall. Berühren wir die Demut Gottes, das Herz Gottes. Dann wird seine Freude uns berühren und die Welt heller machen. Amen.
[01860-05.01] [Originalsprache:Italienisch]
● TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA
Queridos hermanos y hermanas:
«A María le llegó el tiempo del parto y dio a luz a su hijo primogénito, lo envolvió en pañales y lo acostó en un pesebre, porque no tenían sitio en la posada» (cf. Lc 2,6s). Estas frases, nos llegan al corazón siempre de nuevo. Llegó el momento anunciado por el Ángel en Nazaret: «Darás a luz un hijo, y le pondrás por nombre Jesús. Será grande, se llamará Hijo del Altísimo» (Lc 1,31). Llegó el momento que Israel esperaba desde hacía muchos siglos, durante tantas horas oscuras, el momento en cierto modo esperado por toda la humanidad con figuras todavía confusas: que Dios se preocupase por nosotros, que saliera de su ocultamiento, que el mundo alcanzara la salvación y que Él renovase todo. Podemos imaginar con cuánta preparación interior, con cuánto amor, esperó María aquella hora. El breve inciso, «lo envolvió en pañales», nos permite vislumbrar algo de la santa alegría y del callado celo de aquella preparación. Los pañales estaban dispuestos, para que el niño se encontrara bien atendido. Pero en la posada no había sitio. En cierto modo, la humanidad espera a Dios, su cercanía. Pero cuando llega el momento, no tiene sitio para Él. Está tan ocupada consigo misma de forma tan exigente, que necesita todo el espacio y todo el tiempo para sus cosas y ya no queda nada para el otro, para el prójimo, para el pobre, para Dios. Y cuanto más se enriquecen los hombres, tanto más llenan todo de sí mismos y menos puede entrar el otro.
Juan, en su Evangelio, fijándose en lo esencial, ha profundizado en la breve referencia de san Lucas sobre la situación de Belén: "Vino a su casa, y los suyos no lo recibieron" (1,11). Esto se refiere sobre todo a Belén: el Hijo de David fue a su ciudad, pero tuvo que nacer en un establo, porque en la posada no había sitio para él. Se refiere también a Israel: el enviado vino a los suyos, pero no lo quisieron. En realidad, se refiere a toda la humanidad: Aquel por el que el mundo fue hecho, el Verbo creador primordial entra en el mundo, pero no se le escucha, no se le acoge.
En definitiva, estas palabras se refieren a nosotros, a cada persona y a la sociedad en su conjunto. ¿Tenemos tiempo para el prójimo que tiene necesidad de nuestra palabra, de mi palabra, de mi afecto? ¿Para aquel que sufre y necesita ayuda? ¿Para el prófugo o el refugiado que busca asilo? ¿Tenemos tiempo y espacio para Dios? ¿Puede entrar Él en nuestra vida? ¿Encuentra un lugar en nosotros o tenemos ocupado todo nuestro pensamiento, nuestro quehacer, nuestra vida, con nosotros mismos?
Gracias a Dios, la noticia negativa no es la única ni la última que hallamos en el Evangelio. De la misma manera que en Lucas encontramos el amor de su madre María y la fidelidad de san José, la vigilancia de los pastores y su gran alegría, y en Mateo encontramos la visita de los sabios Magos, llegados de lejos, así también nos dice Juan: «Pero a cuantos lo recibieron, les da poder para ser hijos de Dios» (Jn 1,12). Hay quienes lo acogen y, de este modo, desde fuera, crece silenciosamente, comenzando por el establo, la nueva casa, la nueva ciudad, el mundo nuevo. El mensaje de Navidad nos hace reconocer la oscuridad de un mundo cerrado y, con ello, se nos muestra sin duda una realidad que vemos cotidianamente. Pero nos dice también que Dios no se deja encerrar fuera. Él encuentra un espacio, entrando tal vez por el establo; hay hombres que ven su luz y la transmiten. Mediante la palabra del Evangelio, el Ángel nos habla también a nosotros y, en la sagrada liturgia, la luz del Redentor entra en nuestra vida. Si somos pastores o sabios, la luz y su mensaje nos llaman a ponernos en camino, a salir de la cerrazón de nuestros deseos e intereses para ir al encuentro del Señor y adorarlo. Lo adoramos abriendo el mundo a la verdad, al bien, a Cristo, al servicio de cuantos están marginados y en los cuales Él nos espera.
En algunas representaciones navideñas de la Baja Edad media y de comienzo de la Edad Moderna, el pesebre se representa como edificio más bien desvencijado. Se puede reconocer todavía su pasado esplendor, pero ahora está deteriorado, sus muros en ruinas; se ha convertido justamente en un establo. Aunque no tiene un fundamento histórico, esta interpretación metafórica expresa sin embargo algo de la verdad que se esconde en el misterio de la Navidad. El trono de David, al que se había prometido una duración eterna, está vacío. Son otros los que dominan en Tierra Santa. José, el descendiente de David, es un simple artesano; de hecho, el palacio se ha convertido en una choza. David mismo había comenzado como pastor. Cuando Samuel lo buscó para ungirlo, parecía imposible y contradictorio que un joven pastor pudiera convertirse en el portador de la promesa de Israel. En el establo de Belén, precisamente donde estuvo el punto de partida, vuelve a comenzar la realeza davídica de un modo nuevo: en aquel niño envuelto en pañales y acostado en un pesebre. El nuevo trono desde el cual este David atraerá hacia sí el mundo es la Cruz. El nuevo trono –la Cruz- corresponde al nuevo inicio en el establo. Pero justamente así se construye el verdadero palacio davídico, la verdadera realeza. Así, pues, este nuevo palacio no es como los hombres se imaginan un palacio y el poder real. Este nuevo palacio es la comunidad de cuantos se dejan atraer por el amor de Cristo y con Él llegan a ser un solo cuerpo, una humanidad nueva. El poder que proviene de la Cruz, el poder de la bondad que se entrega, ésta es la verdadera realeza. El establo se transforma en palacio; precisamente a partir de este inicio, Jesús edifica la nueva gran comunidad, cuya palabra clave cantan los ángeles en el momento de su nacimiento: «Gloria a Dios en el cielo y en la tierra paz a los hombres que Dios ama», hombres que ponen su voluntad en la suya, transformándose en hombres de Dios, hombres nuevos, mundo nuevo.
Gregorio de Nisa ha desarrollado en sus homilías navideñas la misma temática partiendo del mensaje de Navidad en el Evangelio de Juan: «Y puso su morada entre nosotros» (Jn 1,14). Gregorio aplica esta palabra de la morada a nuestro cuerpo, deteriorado y débil; expuesto por todas partes al dolor y al sufrimiento. Y la aplica a todo el cosmos, herido y desfigurado por el pecado. ¿Qué habría dicho si hubiese visto las condiciones en las que hoy se encuentra la tierra a causa del abuso de las fuentes de energía y de su explotación egoísta y sin ningún reparo? Anselmo de Canterbury, casi de manera profética, describió con antelación lo que nosotros vemos hoy en un mundo contaminado y con un futuro incierto: «Todas las cosas se encontraban como muertas, al haber perdido su innata dignidad de servir al dominio y al uso de aquellos que alaban a Dios, para lo que habían sido creadas; se encontraban aplastadas por la opresión y como descoloridas por el abuso que de ellas hacían los servidores de los ídolos, para los que no habían sido creadas» (PL 158, 955s). Así, según la visión de Gregorio, el establo del mensaje de Navidad representa la tierra maltratada. Cristo no reconstruye un palacio cualquiera. Él vino para volver a dar a la creación, al cosmos, su belleza y su dignidad: esto es lo que comienza con la Navidad y hace saltar de gozo a los ángeles. La tierra queda restablecida precisamente por el hecho de que se abre a Dios, que recibe nuevamente su verdadera luz y, en la sintonía entre voluntad humana y voluntad divina, en la unificación de lo alto con lo bajo, recupera su belleza, su dignidad. Así, pues, Navidad es la fiesta de la creación renovada. Los Padres interpretan el canto de los ángeles en la Noche santa a partir de este contexto: se trata de la expresión de la alegría porque lo alto y lo bajo, cielo y tierra, se encuentran nuevamente unidos; porque el hombre se ha unido nuevamente a Dios. Para los Padres, forma parte del canto navideño de los ángeles el que ahora ángeles y hombres canten juntos y, de este modo, la belleza del cosmos se exprese en la belleza del canto de alabanza. El canto litúrgico –siempre según los Padres- tiene una dignidad particular porque es un cantar junto con los coros celestiales. El encuentro con Jesucristo es lo que nos hace capaces de escuchar el canto de los ángeles, creando así la verdadera música, que acaba cuando perdemos este cantar juntos y este sentir juntos.
En el establo de Belén el cielo y la tierra se tocan. El cielo vino a la tierra. Por eso, de allí se difunde una luz para todos los tiempos; por eso, de allí brota la alegría y nace el canto. Al final de nuestra meditación navideña quisiera citar una palabra extraordinaria de san Agustín. Interpretando la invocación de la oración del Señor: "Padre nuestro que estás en los cielos", él se pregunta: ¿qué es esto del cielo? Y ¿dónde está el cielo? Sigue una respuesta sorprendente: Que estás en los cielos significa: en los santos y en los justos. «En verdad, Dios no se encierra en lugar alguno. Los cielos son ciertamente los cuerpos más excelentes del mundo, pero, no obstante, son cuerpos, y no pueden ellos existir sino en algún espacio; mas, si uno se imagina que el lugar de Dios está en los cielos, como en regiones superiores del mundo, podrá decirse que las aves son de mejor condición que nosotros, porque viven más próximas a Dios. Por otra parte, no está escrito que Dios está cerca de los hombres elevados, o sea de aquellos que habitan en los montes, sino que fue escrito en el Salmo: "El Señor está cerca de los que tienen el corazón atribulado" (Sal 34 [33], 19), y la tribulación propiamente pertenece a la humildad. Mas así como el pecador fue llamado "tierra", así, por el contrario, el justo puede llamarse "cielo"» (Serm. in monte II 5,17). El cielo no pertenece a la geografía del espacio, sino a la geografía del corazón. Y el corazón de Dios, en la Noche santa, ha descendido hasta un establo: la humildad de Dios es el cielo. Y si salimos al encuentro de esta humildad, entonces tocamos el cielo. Entonces, se renueva también la tierra. Con la humildad de los pastores, pongámonos en camino, en esta Noche santa, hacia el Niño en el establo. Toquemos la humildad de Dios, el corazón de Dios. Entonces su alegría nos alcanzará y hará más luminoso el mundo. Amén.
[01860-04.01] [Texto original: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE
Amados irmãos e irmãs,
«Chegou o dia de Maria dar à luz, e teve o seu filho primogénito. Envolveu-O em panos e recostou-O numa manjedoura, por não terem lugar na hospedaria» (cf. Lc 2, 6-7). Estas frases não cessam de tocar os nossos corações. Chegou o momento que o Anjo tinha preanunciado em Nazaré: «Hás-de dar à luz um filho, ao qual porás o nome de Jesus. Ele será grande e chamar-Se-á Filho do Altíssimo» (cf. Lc 1, 31-32). Chegou o momento que Israel aguardava há muitos séculos, durante tantas horas sombrias – o momento de algum modo esperado por toda a humanidade, ainda que sob figuras confusas: que Deus viesse cuidar de nós, que saísse do seu esconderijo, que o mundo fosse salvo e tudo se renovasse. Podemos imaginar com quanto cuidado interior, com quanto amor Se preparou Maria para aquela hora. A breve anotação «envolveu-O em panos» deixa-nos intuir algo da santa alegria e do zelo silencioso de tal preparação. Estavam prontos os panos, para que o Menino pudesse ser bem acolhido. Na hospedaria, porém, não havia lugar. De algum modo a humanidade espera Deus, a sua proximidade. Mas quando chega o momento, não tem lugar para Ele. Está tão ocupada consigo mesma, sente necessidade tão imperiosa de todo o espaço e de todo o tempo para as próprias coisas, que não resta nada para o outro: para o próximo, para o pobre, para Deus. E quanto mais ricos se tornam os homens, tanto mais preenchem tudo de si mesmos. Tanto menos pode entrar o outro.
João, no seu Evangelho, fixando-se no essencial, aprofundou a breve notícia de São Lucas sobre a situação de Belém: «Veio para o que era Seu, e os Seus não O acolheram» (1, 11). Isto aplica-se antes de mais a Belém: o Filho de David vem à sua cidade, mas tem de nascer num curral, porque, na hospedaria, não há lugar para Ele. Aplica-se depois a Israel: o enviado chega junto dos Seus, mas não O querem. Na realidade aplica-se à humanidade inteira: Aquele por Quem o mundo foi feito, o Verbo criador primordial entra no mundo, mas não é ouvido, não é acolhido.
Em última análise, estas palavras aplicam-se a nós, a cada individuo e à sociedade no seu todo. Temos nós tempo para o próximo que necessita da nossa, da minha palavra, do meu afecto? Para o doente que precisa de ajuda? Para o prófugo ou o refugiado que procura asilo? Temos nós tempo e espaço para Deus? Pode Ele entrar na nossa vida? Encontra um espaço em nós, ou temos todos os espaços do nosso pensamento, da nossa acção, da nossa vida ocupados para nós mesmos?
Graças a Deus, a notícia negativa não é a única, nem a última que encontramos no Evangelho. Tal como encontramos em Lucas o amor de Maria, a mãe, e a fidelidade de São José, a vigilância dos pastores e a sua grande alegria, tal como encontramos em Mateus a visita dos doutos Magos, vindos de longe, assim também João nos diz: «Mas, a quantos O receberam, deu-lhes poder de se tornarem filhos de Deus» (Jo 1, 12). Existem aqueles que O acolhem e deste modo, a começar do curral, do exterior, cresce silenciosamente a nova casa, a nova cidade, o novo mundo. A mensagem de Natal leva-nos a reconhecer a escuridão dum mundo fechado, e deste modo clarifica sem dúvida uma realidade que vemos diariamente. Mas isto diz-nos também que Deus não Se deixa fechar fora. Ele encontra um espaço, entrando nem que seja para o curral; existem homens que vêem a sua luz e a transmitem. Através da palavra do Evangelho, o Anjo fala-nos também a nós, e, na liturgia sagrada, a luz do Redentor entra na nossa vida. Quer sejamos pastores quer sejamos sábios, a luz e a sua mensagem convida-nos para nos pormos a caminho, sairmos da mesquinhez dos nossos desejos e interesses a fim de irmos ao encontro do Senhor e adorá-Lo. Adoramo-Lo abrindo o mundo à verdade, ao bem, a Cristo, ao serviço de quantos vivem marginalizados e nos quais Ele nos espera.
Nalgumas representações natalícias da Baixa Idade Média e princípios da Idade Moderna, o curral aparece como um palácio arruinado. Ainda se pode reconhecer a grandeza de outrora, mas agora foi à ruína, as paredes caíram: tornou-se, isso mesmo, um curral. Embora não tendo qualquer base histórica, esta interpretação, no seu aspecto metafórico, exprime contudo algo da verdade que se encerra no mistério do Natal. O trono de David, para o qual estava prometida uma duração eterna, encontra-se vazio. Outros dominam sobre a Terra Santa. José, o descendente de David, é um simples artesão; na realidade, o palácio tornou-se uma cabana. O próprio David começara por ser pastor. Quando Samuel o procurou para a unção, parecia impossível e absurdo que semelhante jovem-pastor pudesse tornar-se o portador da promessa de Israel. No curral de Belém, lá precisamente onde se verificara o ponto de partida, recomeça a realeza davídica de maneira nova: naquele Menino envolvido em panos e recostado numa manjedoura. O novo trono, donde este David atrairá a Si o mundo, é a Cruz. O novo trono – a Cruz – é o termo correlativo ao novo início no curral. Mas é assim mesmo que se constrói o verdadeiro palácio davídico, a verdadeira realeza. Este novo palácio é muito diverso do modo como os homens imaginam um palácio e o poder real: é a comunidade daqueles que se deixam atrair pelo amor de Cristo e, com Ele, se tornam um só corpo, uma humanidade nova. O poder que provém da Cruz, o poder da bondade que se dá: tal é a verdadeira realeza. O curral torna-se palácio: é precisamente a partir deste início que Jesus edifica a grande comunidade nova, cuja palavra-chave os Anjos cantam na hora do seu nascimento: «Glória a Deus nas alturas, e paz na terra aos homens que Ele ama», ou seja, homens que depõem a sua vontade na d’Ele, tornando-se assim homens de Deus, homens novos, mundo novo.
Gregório de Nissa, nas suas homilias natalícias, desenvolveu a mesma ideia a partir da mensagem de Natal do Evangelho de João: «Levantou a sua tenda no meio de nós» (Jo 1, 14). Gregório aplica esta imagem da tenda ao nosso corpo, que ficou como tenda consumida e frágil; exposto por todo o lado à dor e ao sofrimento. E aplica-a ao universo inteiro lacerado e desfigurado pelo pecado. E que diria ele, se tivesse visto as condições em que hoje se encontra a terra por causa do abuso das energias e da sua exploração egoísta e sem respeito algum? Uma vez, de maneira quase profética, Anselmo de Cantuária descreveu antecipadamente aquilo que vemos hoje num mundo inquinado e ameaçado no seu futuro: «Tudo estava como que morto, tinha perdido a dignidade para que tinha sido feito, ou seja, para servir aqueles que louvam a Deus. Os elementos do mundo estavam oprimidos, tinham perdido o seu esplendor por causa do abuso de quantos os tornavam servos dos seus ídolos, para o quais não tinham sido criados» (PL 158, 955s). Assim, retomando a perspectiva de Gregório, o curral na mensagem de Natal representa a terra maltratada. Cristo não reconstrói um palácio qualquer. Veio para restituir à criação, ao universo a sua beleza e dignidade: é isto que tem início no Natal e faz rejubilar os Anjos. A terra é posta de novo em ordem pelo facto de ser aberta a Deus, de obter novamente a sua verdadeira luz, e, na sintonia entre querer humano e querer divino, na unificação das alturas com a realidade cá de baixo, recupera a sua beleza, a sua dignidade. Deste modo, o Natal é uma festa da criação reconstruída. É a partir deste contexto que os Padres interpretam o canto dos Anjos na Noite santa: é a expressão da alegria pelo facto de as alturas e a realidade cá de baixo, céu e terra se encontrarem novamente unidos; de o homem estar de novo unido a Deus. Segundo os Padres, faz parte do canto natalício dos Anjos que, agora, Anjos e homens possam cantar juntos e que, deste modo, a beleza do universo se exprima na beleza do canto de louvor. O canto litúrgico – sempre segundo os Padres – possui uma dignidade própria particular pelo facto de ser um cantar juntamente com os coros celestes. É o encontro com Jesus Cristo que nos torna capazes de ouvir o canto dos Anjos, criando assim a verdadeira música que decai quando perdemos este "cantar-com" e "ouvir-com".
No curral de Belém, tocam-se céu e terra. O céu veio à terra. Por isso, de lá emana uma luz para todos os tempos; por isso lá se acende a alegria; por isso lá nasce o canto. Quero, no termo da nossa meditação natalícia, citar uma singular afirmação de Santo Agostinho. Ao interpretar a invocação da Oração do Senhor «Pai Nosso que estais nos céus», ele interroga-se: O que é isto, o céu? E onde é o céu? Segue-se uma resposta surpreendente: «…que estais nos céus – isto significa: nos santos e nos justos. Temos, é verdade, os céus, os corpos mais elevados do universo, mas sempre corpos são, os quais não podem estar senão num lugar. Na realidade, se se acreditasse que o lugar de Deus seria nos céus enquanto as partes mais altas do mundo, então as aves seriam mais felizardas do que nós, porque viveriam mais perto de Deus. Ora não está escrito: "O Senhor está perto de quantos habitam nas alturas ou nas montanhas", mas sim "O Senhor está perto dos contritos de coração" (Sal 34/33, 19), expressão esta que se refere à humildade. Do mesmo modo que o pecador é chamado "terra", por contraposição também o justo pode ser chamado "céu"» (Serm. in monte II 5, 17). O céu não pertence à geografia do espaço, mas à geografia do coração. E o coração de Deus, na Noite santa, inclinou-Se até ao curral: a humildade de Deus é o céu. E se formos ao encontro desta humildade, então tocamos o céu. Então a própria terra se torna nova. Com a humildade dos pastores, ponhamo-nos a caminho, nesta Noite santa, até junto do Menino no curral! Toquemos a humildade de Deus, o coração de Deus! Então a sua alegria tocar-nos-á a nós e tornará mais luminoso o mundo. Amen.
[01860-06.01] [Texto original: Italiano]
[B0692-XX.02]