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CAPPELLA PAPALE IN OCCASIONE DELL’ 80° GENETLIACO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI, 15.04.2007


CAPPELLA PAPALE IN OCCASIONE DELL’ 80° GENETLIACO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

OMELIA DEL SANTO PADRE

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Alle ore 10.00 di oggi, Domenica II di Pasqua - della Divina Misericordia, il Santo Padre Benedetto XVI ha presieduto, sul sagrato della Basilica Vaticana, la Celebrazione Eucaristica in occasione del Suo 80° genetliaco che ricorre domani, 16 aprile.

Hanno concelebrato con il Papa sessanta Cardinali, gli Arcivescovi e Vescovi Capi Dicastero della Curia Romana, i Vescovi Ausiliari ed una rappresentanza dei Presbiteri della diocesi di Roma.

Era presente una delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, guidata da Sua Eminenza Ioannis (Zizioulas), Metropolita di Pergamo, inviato personalmente dal S.S. Bartolomeo I.

All’inizio della Santa Messa, il Decano del Collegio Cardinalizio, Card. Angelo Sodano, ha rivolto al Santo Padre un indirizzo di omaggio. Dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa ha pronunciato la seguente omelia:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

secondo una vecchia tradizione, l’odierna domenica prende il nome di Domenica "in Albis". In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel Battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio.

Il Santo Padre Giovanni Paolo II volle che questa domenica fosse celebrata come la Festa della Divina Misericordia: nella parola "misericordia", egli trovava riassunto e nuovamente interpretato per il nostro tempo l’intero mistero della Redenzione. Egli visse sotto due regimi dittatoriali e, nel contatto con povertà, necessità e violenza, sperimentò profondamente la potenza delle tenebre, da cui è insidiato il mondo anche in questo nostro tempo. Ma sperimentò pure, e non meno fortemente, la presenza di Dio che si oppone a tutte queste forze con il suo potere totalmente diverso e divino: con il potere della misericordia. È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio – la sua santità, il potere della verità e dell’amore. Due anni orsono, dopo i primi Vespri di questa Festività, Giovanni Paolo II terminava la sua esistenza terrena. Morendo egli è entrato nella luce della Divina Misericordia di cui, al di là della morte e a partire da Dio, ora ci parla in modo nuovo. Abbiate fiducia – egli ci dice – nella Divina Misericordia! Diventate giorno per giorno uomini e donne della misericordia di Dio! La misericordia è la veste di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo. Non dobbiamo lasciare che questa luce si spenga; al contrario essa deve crescere in noi ogni giorno e così portare al mondo il lieto annuncio di Dio.

Proprio in questi giorni particolarmente illuminati dalla luce della divina misericordia, cade una coincidenza per me significativa: posso volgere indietro lo sguardo su 80 anni di vita. Saluto quanti sono qui convenuti per celebrare con me questa ricorrenza. Saluto innanzitutto i Signori Cardinali, con un particolare pensiero di gratitudine al Decano del Collegio cardinalizio, il Signor Cardinale Angelo Sodano, che s’è fatto autorevole interprete dei comuni sentimenti. Saluto gli Arcivescovi e Vescovi, tra i quali gli Ausiliari della Diocesi di Roma, della mia Diocesi; saluto i Prelati e gli altri membri del Clero, i Religiosi e le Religiose e tutti i fedeli presenti. Un pensiero deferente e grato rivolgo inoltre alle Personalità politiche e ai membri del Corpo Diplomatico, che hanno voluto onorarmi con la loro presenza. Saluto infine, con fraterno affetto, l’inviato personale del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, Sua Eminenza Ioannis, Metropolita di Pergamo, esprimendo apprezzamento per il gesto gentile e auspicando che il dialogo teologico cattolico-ortodosso possa proseguire con lena rinnovata.

Siamo qui raccolti per riflettere sul compiersi di un non breve periodo della mia esistenza. Ovviamente, la liturgia non deve servire per parlare del proprio io, di se stesso; tuttavia, la propria vita può servire per annunciare la misericordia di Dio. "Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto", dice un Salmo (65 [66], 16). Ho sempre considerato un grande dono della Misericordia Divina che la nascita e la rinascita siano state a me concesse, per così dire insieme, nello stesso giorno, nel segno dell’inizio della Pasqua. Così, in uno stesso giorno, sono nato membro della mia propria famiglia e della grande famiglia di Dio. Sì, ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza di che cosa significa "famiglia"; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. Davanti a Lui noi portiamo una responsabilità, ma allo stesso tempo Egli ci dona la fiducia, perché nella sua giustizia traspare sempre la misericordia e la bontà con cui accetta anche la nostra debolezza e ci sorregge, così che man mano possiamo imparare a camminare diritti. Ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza profonda di che cosa significa bontà materna, sempre aperta a chi cerca rifugio e proprio così in grado di darmi la libertà. Ringrazio Dio per mia sorella e mio fratello che, con il loro aiuto, mi sono stati fedelmente vicini lungo il corso della vita. Ringrazio Dio per i compagni incontrati nel mio cammino, per i consiglieri e gli amici che Egli mi ha donato. Ringrazio in modo particolare perché, fin dal primo giorno, ho potuto entrare e crescere nella grande comunità dei credenti, nella quale è spalancato il confine tra vita e morte, tra cielo e terra; ringrazio per aver potuto apprendere tante cose attingendo alla sapienza di questa comunità, nella quale sono racchiuse non solo le esperienze umane fin dai tempi più remoti: la sapienza di questa comunità non è soltanto sapienza umana, ma in essa ci raggiunge la sapienza stessa di Dio – la Sapienza eterna.

Nella prima lettura di questa domenica ci viene raccontato che, agli albori della Chiesa nascente, la gente portava i malati nelle piazze, perché, quando Pietro passava, la sua ombra li coprisse: a quest’ombra si attribuiva una forza risanatrice. Quest’ombra, infatti, proveniva dalla luce di Cristo e perciò recava in sé qualcosa del potere della sua bontà divina. L’ombra di Pietro, mediante la comunità della Chiesa cattolica, ha coperto la mia vita fin dall’inizio, e ho appreso che essa è un’ombra buona – un’ombra risanatrice, perché, appunto, proviene in definitiva da Cristo stesso. Pietro era un uomo con tutte le debolezze di un essere umano, ma soprattutto era un uomo pieno di una fede appassionata in Cristo, pieno di amore per Lui. Per il tramite della sua fede e del suo amore la forza risanatrice di Cristo, la sua forza unificante, è giunta agli uomini pur frammista a tutta la debolezza di Pietro. Cerchiamo anche oggi l’ombra di Pietro, per stare nella luce di Cristo!

Nascita e rinascita; famiglia terrena e grande famiglia di Dio – è questo il grande dono delle molteplici misericordie di Dio, il fondamento sul quale ci appoggiamo. Proseguendo nel cammino della vita mi venne incontro poi un dono nuovo ed esigente: la chiamata al ministero sacerdotale. Nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951, quando noi – c’erano oltre quaranta compagni – ci trovammo nella cattedrale di Frisinga prostrati sul pavimento e su di noi furono invocati tutti i santi, la consapevolezza della povertà della mia esistenza di fronte a questo compito mi pesava. Sì, era una consolazione il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo. E quale fiducia infondevano le parole di Gesù, che poi durante la liturgia dell’Ordinazione potemmo ascoltare dalle labbra del Vescovo: "Non vi chiamo più servi, ma amici". Ho potuto farne un’esperienza profonda: Egli, il Signore, non è soltanto Signore, ma anche amico. Egli ha posto la sua mano su di me e non mi lascerà. Queste parole venivano allora pronunciate nel contesto del conferimento della facoltà di amministrare il Sacramento della riconciliazione e così, nel nome di Cristo, di perdonare i peccati. È la stessa cosa che oggi abbiamo ascoltato nel Vangelo: il Signore alita sui suoi discepoli. Egli concede loro il suo Spirito – lo Spirito Santo: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi…". Lo Spirito di Gesù Cristo è potenza di perdono. È potenza della Divina Misericordia. Dà la possibilità di iniziare da capo – sempre di nuovo. L’amicizia di Gesù Cristo è amicizia di Colui che fa di noi persone che perdonano, di Colui che perdona anche a noi, ci risolleva di continuo dalla nostra debolezza e proprio così ci educa, infonde in noi la consapevolezza del dovere interiore dell’amore, del dovere di corrispondere alla sua fiducia con la nostra fedeltà.

Nel brano evangelico di oggi abbiamo anche ascoltato il racconto dell’incontro dell’apostolo Tommaso col Signore risorto: all’apostolo viene concesso di toccare le sue ferite e così egli lo riconosce – lo riconosce, al di là dell’identità umana del Gesù di Nazaret, nella sua vera e più profonda identità: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20,28). Il Signore ha portato con sé le sue ferite nell’eternità. Egli è un Dio ferito; si è lasciato ferire dall’amore verso di noi. Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite – come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! Egli, infatti, si lascia sempre di nuovo ferire per noi. Quale certezza della sua misericordia e quale consolazione esse significano per noi! E quale sicurezza ci danno circa quello che Egli è: "Mio Signore e mio Dio!" E come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!

Le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno. Basta che abbiamo il cuore vigilante per poterle percepire. Siamo troppo inclini ad avvertire solo la fatica quotidiana che a noi, come figli di Adamo, è stata imposta. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente anche quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi. Con il peso accresciuto della responsabilità, il Signore ha portato anche nuovo aiuto nella mia vita. Ripetutamente vedo con gioia riconoscente quanto è grande la schiera di coloro che mi sostengono con la loro preghiera; che con la loro fede e con il loro amore mi aiutano a svolgere il mio ministero; che sono indulgenti con la mia debolezza, riconoscendo anche nell’ombra di Pietro la luce benefica di Gesù Cristo. Per questo vorrei in quest’ora ringraziare di cuore il Signore e tutti voi. Vorrei concludere questa omelia con la preghiera del santo Papa Leone Magno, quella preghiera che, proprio trent’anni fa, scrissi sull’immagine-ricordo della mia consacrazione episcopale: "Pregate il nostro buon Dio, affinché voglia nei nostri giorni rafforzare la fede, moltiplicare l’amore e aumentare la pace. Egli renda me, suo misero servo, sufficiente per il suo compito e utile per la vostra edificazione e mi conceda uno svolgimento del servizio tale che, insieme con il tempo donato, cresca la mia dedizione. Amen".

[00535-01.03] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Der heutige Sonntag heißt nach alter Überlieferung „Weißer Sonntag": Noch einmal trugen an diesem Tag die Neugetauften der Osternacht ihr weißes Kleid, Sinnbild des Lichts, das der Herr ihnen in der Taufe geschenkt hatte. Das weiße Kleid werden sie dann ablegen, aber die neue Helligkeit, die ihnen mitgeteilt wurde, die sollen sie in den Alltag hineinnehmen; die leise Flamme der Wahrheit und des Guten, die der Herr in ihnen angezündet hatte, die sollten sie sorgsam hüten und so etwas von Gottes Helligkeit und Güte in diese unsere Welt tragen.

Der Heilige Vater Papst Johannes Paul II. hat gewollt, daß dieser Sonntag als Fest der göttlichen Barmherzigkeit begangen werde: In dem Wort Barmherzigkeit fand er das ganze Erlösungsgeheimnis zusammengefaßt und für unsere Zeit neu ausgelegt. Er hat in zwei Diktaturen, in der Begegnung mit Armut, Not und Gewalt die Macht der Finsternis tief erfahren, von der die Welt gerade auch in dieser Stunde bedrängt ist. Aber er hat nicht weniger tief erfahren, daß Gott mit seiner ganz anderen, göttlichen Macht all diesen Gewalten entgegentritt: mit der Macht seines Erbarmens. Sie ist es, die dem Bösen eine Schranke setzt. In ihr drückt sich das ganz eigene Wesen Gottes aus – seine Heiligkeit, die Macht der Wahrheit und der Liebe. Nach der ersten Vesper dieses Sonntags ist er vor zwei Jahren heimgegangen, hineingestorben in die göttliche Barmherzigkeit, von der er so über den Tod hinaus und von Gott her neu zu uns spricht: Vertraut dem göttlichen Erbarmen! Werdet Menschen seines Erbarmens Tag um Tag! Das Erbarmen ist das Lichtgewand, das der Herr uns in der Taufe geschenkt hat. Dieses Licht dürfen wir nicht verlöschen lassen; es soll im Gegenteil Tag um Tag wachsen in uns und so der Welt von Gott Kunde bringen.

Es fügt sich, daß ich gerade in diesen vom Licht der göttlichen Barmherzigkeit besonders durchleuchteten Tagen auf 80 Jahre Leben zurückblicken darf. Ich begrüße alle, die gekommen sind, um mit mir diesen Jahrestag zu feiern. Vor allem grüße ich die Herren Kardinäle, mit einem besonderen Dank an den Dekan des Kardinalskollegiums, Kardinal Angelo Sodano, der im Namen aller das Wort an mich gerichtet hat. Ich begrüße die Erzbischöfe und Bischöfe, darunter die Weihbischöfe der Diözese Rom, meiner Diözese; ferner begrüße ich die Prälaten und die anderen Mitglieder des Klerus, die Ordensleute und alle Gläubigen, die hier zugegen sind. Einen dankbaren Willkommensgruß richte ich auch an die Persönlichkeiten aus der Politik und an die Mitglieder des diplomatischen Korps, die mich durch ihre Anwesenheit ehren. Schließlich begrüße ich mit brüderlicher Zuneigung den persönlichen Gesandten des ökumenischen Patriarchen Bartholomäus I., Seine Eminenz Ioannis, den Metropoliten von Pergamon. Mit dem Ausdruck meiner Wertschätzung für die freundliche Geste verbinde ich den Wunsch, daß der theologische katholisch-orthodoxe Dialog mit neuer Kraft fortgeführt werde.

Wir sind hier versammelt im Gedanken an die Vollendung eines langen Abschnittes meines Lebens. Natürlich darf die Liturgie nicht dazu dienen, vom eigenen Ich, von sich selber zu reden. Aber das eigene Leben darf dazu dienen, Gottes Barmherzigkeit zu verkünden. „Alle, die ihr Gott fürchtet, kommt und hört, was Gott meiner Seele getan hat", sagt ein Psalm (65 [66], 16). Ich habe es immer als ein großes Geschenk der göttlichen Barmherzigkeit betrachtet, daß mir Geburt und Wiedergeburt am selben Tag, im Zeichen des anfangenden Osterfestes geschenkt worden sind. So wurde ich zugleich in meine eigene Familie und in die große Familie Gottes hineingeboren. Ja, ich danke Gott, daß ich erleben durfte, was Familie bedeutet. Daß ich erfahren durfte, was Vaterschaft heißt und daß so das Wort von Gott dem Vater von innen her verständlich wurde, von der menschlichen Erfahrung her mir sich der Zugang öffnete zu dem großen und gütigen Vater im Himmel. Vor ihm tragen wir Verantwortung, aber er schenkt uns zugleich Vertrauen, weil in seiner Gerechtigkeit die Barmherzigkeit immer durchleuchtet und die Güte, mit der er auch unsere Schwachheit annimmt und uns aufhilft, um langsam den aufrechten Gang zu lernen. Ich danke Gott, daß ich tief erfahren durfte, was mütterliche Güte bedeutet, zu der die Zuflucht immer offensteht und die mir gerade so Freiheit gibt. Ich danke Gott für meine Geschwister, die mir ein Leben lang treu und helfend zur Seite standen und stehen. Ich danke Gott für die Weggefährten, Freunde und Helfer, die er mir geschenkt hat. Ich danke ganz besonders auch dafür, daß ich vom ersten Tag an in die große Gemeinschaft der Glaubenden hineinwachsen durfte, in der die Grenze zwischen Leben und Tod, zwischen Himmel und Erde aufgerissen ist; daß ich aus der Weisheit dieser Gemeinschaft lernen durfte, in der nicht nur die Erfahrungen der Menschheit von ihren frühesten Zeiten eingeborgen sind: Ihre Weisheit ist nicht bloß Menschenweisheit, sondern in ihr rührt uns die Weisheit Gottes selber an – die ewige Weisheit.

In der ersten Lesung dieses Sonntags wird uns erzählt, daß die Menschen in der Morgenstunde der werdenden Kirche die Leidenden an eine Stelle trugen, auf die der Schatten Petri fiel: Diesem Schatten wurde heilende Kraft zugeschrieben. Denn dieser Schatten kam vom Licht Christi und trug daher etwas von der Macht seiner göttlichen Güte in sich. Der Schatten Petri ist durch die Gemeinschaft der katholischen Kirche von Anfang an auf mein Leben gefallen, und ich habe gelernt, daß es ein guter Schatten ist – ein heilender Schatten, eben weil er letztlich von Christus selber kommt. Petrus war ein Mensch mit allen Schwächen eines Menschen, aber er war vor allem ein Mensch voll leidenschaftlichen Glaubens an Christus und voller Liebe zu ihm. Von seinem Glauben und seiner Liebe her kam mitten in all seiner Schwachheit die heilende Kraft Christi zu den Menschen, seine vereinigende Kraft. Suchen wir auch heute den Schatten Petri, um im Licht Christi zu sein.

Geburt und Wiedergeburt; irdische Familie und die große Familie Gottes – dies ist das große Geschenk der Erbarmungen Gottes, auf dessen Grund wir stehen. In meinem Weg ins Leben hinein kam ein neues forderndes Geschenk auf mich zu: die Berufung zum priesterlichen Dienst. Als wir – mehr als 40 Weggefährten – am Peter- und Paultag 1951 im Freisinger Dom am Boden hingestreckt lagen und über uns alle Heiligen angerufen wurden, kam mir die Armseligkeit meiner eigenen Existenz angesichts dieses Auftrags bedrängend zum Bewußtsein. Ja, es war tröstlich, daß der Schutz der Heiligen Gottes, der Lebenden und der Toten auf uns herabgerufen wurde. Daß ich nicht allein sein würde. Und welche Zuversicht ging von den Worten Jesu aus, die wir dann in der Weiheliturgie aus dem Mund des Bischofs hören durften: „Nicht mehr Knechte nenne ich euch, sondern Freunde." Ich habe es tief erfahren dürfen: Er, der Herr, ist nicht nur Herr, sondern Freund. Er hat seine Hand auf mich gelegt und wird mich nicht verlassen. Diese Worte wurden damals gesprochen im Zusammenhang der Zuteilung der Vollmacht, das Bußsakrament zu spenden und so im Namen Christi Sünden zu vergeben. Es ist das Gleiche, was wir heute im Evangelium hören: Der Herr haucht seine Jünger an. Er gibt ihnen seinen Geist – den Heiligen Geist: „Welchen ihr die Sünden nachlassen werdet, denen sind sie nachgelassen…" Der Geist Jesu Christi ist Macht der Vergebung. Er ist Macht der göttlichen Barmherzigkeit. Er ermöglicht einen neuen Anfang – immer wieder. Die Freundschaft mit Jesus Christus ist Freundschaft mit dem, der uns zu Menschen des Vergebens macht und der uns auch selbst vergibt, uns immer wieder aufhebt aus unserer Schwachheit und uns gerade so erzieht, uns die innere Verpflichtung der Liebe einsenkt, seinem Vertrauen mit unserer Treue zu antworten.

Im heutigen Evangelium erfahren wir auch von der Begegnung des Apostels Thomas mit dem auferstandenen Herrn: Der Apostel darf seine Wundmale berühren, und so erkennt er ihn – erkennt ihn über die menschliche Identität dieses Jesus von Nazareth hinaus in seiner wahren und tiefsten Identität: „Mein Herr und mein Gott" (Joh 20, 28). Der Herr hat seine Wundmale in die Ewigkeit mitgenommen. Er ist ein verwundeter Gott; von der Liebe zu uns hat er sich verwunden lassen. Die Wundmale sind uns Zeichen, daß er uns versteht und daß er sich von der Liebe zu uns verwunden läßt. Diese seine Wundmale – wie können wir sie in der Geschichte unserer Zeit anrühren, da er sich immer wieder für uns verwunden läßt. Wie sind sie uns Gewißheit und Trost seines Erbarmens! Und wie sehr sind sie auch für uns Gewißheit dessen, wer er ist: „Mein Herr und mein Gott." Und wie sehr sind sie uns Verpflichtung, uns für ihn verwunden zu lassen.

Gottes Erbarmungen begleiten uns Tag um Tag. Wenn wir nur wachen Herzens sind, können wir sie wahrnehmen. Allzusehr sind wir geneigt, bloß die tägliche Mühsal zu empfinden, die uns als Kindern Adams auferlegt ist. Aber wenn wir unser Herz öffnen, dann können wir mitten darin auch immer wieder sehen, wie gut Gott mit uns ist; wie er gerade im Kleinen unser gedenkt und uns so zum Großen hilft. Mit der größer gewordenen Last der Verantwortung hat der Herr auch neue Hilfe in mein Leben gebracht: Immer wieder erfahre ich mit dankbarer Freude, wie groß die Schar derer ist, die mich mit ihrem Gebet mittragen; die mir mit ihrem Glauben und ihrer Liebe helfen, meinen Dienst zu tun; die mit meiner Schwachheit Nachsicht haben und auch im Schatten Petri das gütige Licht Jesu Christi erkennen. Dafür möchte ich in dieser Stunde dem Herrn und Euch allen von ganzem Herzen danken. An den Schluß dieser Predigt möchte ich das Gebet des heiligen Papstes Leo des Großen stellen, das ich vor genau 30 Jahren auf das Gedenkbild meiner Bischofsweihe geschrieben habe: „Betet zu unserem gütigen Gott, daß er in unseren Tagen den Glauben festigen, die Liebe vervielfältigen und den Frieden mehren wolle. Mich, seinen armseligen Knecht, möge er zulänglich machen für seine Aufgabe sowie nützlich für eure Auferbauung und die Spanne meines Dienstes so gewähren, daß mit der geschenkten Zeit die Hingabe wächst. Amen."

[00535-05.02] [Originalsprache: Italienisch]

[B0195-XX.03]