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PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI "GESÙ DI NAZARET", 13.04.2007


Alle ore 16 di oggi, nell’Aula del Sinodo presso l’Aula Paolo VI, ha luogo la presentazione pubblica del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: "Gesù di Nazaret" che sarà in vendita nelle librerie da lunedì 16 aprile nelle edizioni italiana (Rizzoli), tedesca (Herder) e polacca (Wydawnictwo M).

Alla presentazione intervengono l’Em.mo Card. Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna, il Prof. Daniele Garrone, Decano della Facoltà Valdese di Teologia di Roma, e il Prof. Massimo Cacciari, Ordinario di Estetica all’Università Vita-Salute San Raffaele (Milano).

Pubblichiamo di seguito l’intervento dell’Em.mo Card. Christoph Schönborn:

● INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. CHRISTOPH SCHÖNBORN

  TESTO IN LINGUA ITALIANA

  TESTO IN LINGUA TEDESCA

  TESTO IN LINGUA ITALIANA  

Il Papa nell'Agorà

Non fa meraviglia che il Papa parli di Gesù. Che il successore dell'apostolo Pietro perpetui nell'oggi la sua confessione a Gesù, è il nucleo del suo compito. "Tu sei il Cristo, (il Messia), il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16): questa solenne confessione circa l'identità di Gesù di Nazareth è il fondamento di roccia su cui sta la Chiesa di Cristo. Che meraviglia è, che il successore di Kephas, di Pietro, dell'uomo-"roccia", su cui Gesù ha promesso di fondare la sua Chiesa, ripeta, rinnovi questa confessione e la annunci nell'oggi della Chiesa. Che il Papa parli di Gesù non è in alcun modo sorprendente. Questo è il primo e il più importante dei suoi compiti. Sorprendente è piuttosto come egli lo faccia. Non c'è, al primo posto, sulla copertina del libro, Benedetto XVI, bensì semplicemente "Joseph Ratzinger". Solo al secondo posto c'è il nome, Benedetto XVI, che egli ha scelto il 19 aprile 2005, dopo l'elezione a Papa. Non parla qui il Papa, e neanche l'allora cardinale, vescovo, professore, sacerdote, ma il semplice credente, il cristiano Joseph Ratzinger. Affinché questo sia chiaro fin dall'inizio, egli conclude la prefazione del suo libro con il semplice avvertimento: "Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del "volto del Signore" (Sal 27,8) (p. 22). Un "libro su Gesù" del tutto personale dunque. Già all'inizio l'autore dice di essere giunto a questo libro "dopo un lungo cammino interiore" (p. 10). Ma l'uomo e il cristiano Joseph Ratzinger è però anche Papa Benedetto XVI. Con questo "nome-doppio", per così dire, egli firma anche la sua prefazione, con esso esce in tutto il mondo questo libro, oggetto di grande attenzione mediatica. Il libro si legge come il libro su Gesù del Papa. E perché poi no? Egli non è il più alto funzionario di una multinazionale attiva in tutto il mondo, ma il successore di colui a cui Gesù ha chiesto: "Simone,…, mi ami?" (Gv 21,15). Perché non dovrebbe essere proprio il Papa, che è chiamato in modo particolare, a parlare del suo Maestro e Signore? Non è lui colui che, più di tutti, deve essere ricolmo dell'amicizia con Cristo? Come vedremo, è proprio qui anche il punto di gravitazione, il centro interiore del suo libro su Gesù. Egli lo chiama: "l' intima amicizia con Gesù" e dice che da essa "tutto dipende" (p. 11). Una testimonianza di un'"intima amicizia" dunque? Un approccio del tutto soggettivo? Una testimonianza personale, come ce ne sono molte di questo tipo, per "chi è all'esterno", una forma di letteratura devozionale, il più delle volte piuttosto indigesta? Questo non sarebbe il tipo di letteratura che di Ratzinger si conosce. Egli è poco incline ad ogni soggettivismo, gli è estranea ogni forma di esibizione della propria interiorità personale. In modo simile a S. Tommaso d'Aquino, il fuoco della sua vita di fede è nascosto, non viene esposto alla curiosità dei biografi. In primo piano sta l'instancabile confronto intellettuale, la fatica del concetto, la forza degli argomenti, la passione della ricerca oggettiva della verità, lo sforzo di dare una risposta, a tutti coloro che chiedono e cercano, del motivo della propria speranza (cf. 1Pt 3,15). Per questo il Papa si reca nell'Agorà, nella piazza del pubblico dibattito. Nell'Areòpago (cf At 17, 22) della pluralità di opinioni dei giorni d'oggi, egli espone la sua visione di Gesù. Il Papa dice ai suoi lettori quello che negli areòpaghi degli odierni dibattiti pubblici dovrebbe essere ovvio, e pone con ciò un alto criterio di qualità. "Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell'anticipo di simpatia senza il quale non c'è alcuna comprensione" (p. 22).

Le contraddizioni non mancano davvero. Su tutte le linee, dall'inizio, Gesù è "un segno di contraddizione" (Lc 2, 34). La sua figura è "coerente"? La roccia della confessione di Pietro a Gesù come il Messia di Israele, come il Figlio del Dio vivente, non è friabile? Si sa davvero qualcosa di sicuro sull'uomo della Galilea? Che amicizia è quella con un fantasma? Essa "minaccia di annaspare nel vuoto" (p. 11). Così la questione circa la credibilità storica è di importanza vitale, in modo particolare per quello che, fra i due miliardi di cristiani, ha l'ònere di essere colui a cui Gesù ha affidato "le chiavi del Regno dei cieli"(Mt 16, 19).

Sul pubblico mercato mediatico si mettono in vendita, senza pausa, "scoperte" apparentemente nuove, che dovrebbero rivelare una storia completamente diversa del Gesù di Nazareth. La rappresentazione biblica ed ecclesiale della figura di Gesù sarebbe una truffa da preti e un imbroglio della Chiesa. La "verità" su Gesù verrebbe soffocata da oscuri cospiratori, localizzati con particolare preferenza in Vaticano. Il dubbio sulla credibilità storica dell'immagine di Gesù dei Vangeli proviene però anche "dalle proprie linee". Da più di 200 anni la critica storica della Bibbia ha messo in discussione quasi tutto quello che nella Bibbia si può trovare su Gesù. La sua figura sembrò di volta in volta dileguarsi, come un'ombra nel nebuloso, come un'"icona fattasi sbiadita"(p. 11). La fede della Chiesa in Gesù Cristo appare allora come una "divinizzazione" posteriore di un Gesù di Nazareth, di cui in realtà non si sa quasi nulla di certo. "Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede, perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento" (p. 11).

E se invece si riesce a dimostrare la credibilità storica dei Vangeli e la loro immagine di Gesù? Il nostro autore è convinto che ciò sia possibile. A ciò è preparato nel migliore dei modi dalla propria biografia. Per lui la Bibbia è stata sempre il cuore e il centro della teologia. Nei molti anni in cui ho potuto averlo come professore, vescovo, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, non l'ho mai visto senza il suo "Nestle", l'edizione critica del Nuovo Testamento in greco. Non conosco nessun altro professore di teologia che abbia una tale intima familiarità con la Bibbia. Per 24 anni egli ha presieduto la Pontificia Commissione Biblica che riunisce studiosi biblici cattolici di primo rango. Egli conosce il metodo "storico-critico" di esegesi biblica. E se è critico nei suoi confronti, non lo è per paura, ma per la convinzione fondata, e pienamente argomentata, che esso debba riconoscere i propri limiti. "Io spero però", così egli scrive, "che il lettore comprenda che questo libro non è stato scritto contro la moderna esegesi, ma con grande riconoscenza per il molto che essa ci ha dato e continua a darci" (p. 22). Egli sa di cosa parla. Il suo libro testimonia, in ogni pagina, quanta dimestichezza egli abbia con i lavori delle odierne scienze bibliche.

Proprio questa dimestichezza lo ha rafforzato nella convinzione di potere avere fiducia nei Vangeli. Egli vorrebbe fare il tentativo "di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il 'Gesù storico' in vero e proprio senso. Io sono convinto e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù - quello dei Vangeli - sia una figura storicamente sensata e convincente" (p. 20 segg.). Il nostro autore parte da questo assunto. In vista di esso legge la vita di Gesù, dal Battesimo al Giordano fino alla Trasfigurazione, il lasso di vita pubblica di cui tratta questo primo volume, nell'attesa di un secondo, che dovrebbe trattare dell'inizio e della fine del cammino terreno di Gesù. Sulla base della fiducia nell'attendibilità storica dei Vangeli e della loro immagine di Gesù, si pone ovviamente una questione ancora più radicale che riguarda il centro autentico della discussione attorno a Gesù. Se Gesù era così come lo presentano i Vangeli, egli è allora credibile come figura? La comprensione che egli ha di sé, così come la troviamo in modo attendibile nei Vangeli, non è una smisurata sopravvalutazione di sé, un'arrogante presunzione? Dopo 200 anni di critica storica della Bibbia, possiamo tranquillamente partire dal presupposto, con Joseph Ratzinger/Papa Benedetto, della solida attendibilità storica dei Vangeli. Le innumerevoli immagini fantasiose di Gesù come di un rivoluzionario, un mite riformatore sociale, come l'amante segreto di Maria Maddalena ecc., si possono tranquillamente depositare nell'ossario della storia. Ma il grande quesito permane pur sempre: Gesù è in sé coerente? La comprensione che egli ha di sé, della sua identità, non è un enorme sbaglio che la cristianità segue da 2000 anni? L'ebraismo e l'islam si scandalizzano proprio di questa pretesa. Dare ad essa una risposta è la vera sfida che si pone oggi al successore di Pietro (e di Paolo) nell'areòpago del pubblico odierno. È credibile Gesù stesso? E se sì: "Che cosa ha portato?" (p. 73). Perché egli doveva essere più che un profeta? Questo "più" non è una trovata dei suoi seguaci che lo avrebbero fatto Dio. È la comprensione più autentica che egli abbia di sé. Egli stesso si dichiara "il Figlio" (pp. 386-396), in un senso assoluto, solo a lui peculiare. Perché egli non può, o non vuole, ritirarsi nel ruolo più modesto di fondatore di una religione fra le tante? Qui sta il vero scandalo. Esso è molto più radicale dei molti altri scandali che i suoi discepoli, già dall'inizio, abbiano suscitato.

Gesù, il rabbino e il papa

È, Gesù stesso, coerente, credibile? Secondo la testimonianza personale di Papa Benedetto, uno degli impulsi a scrivere questo libro è stato l'incontro con il libro del "grande erudito ebreo Jacob Neusner"(p. 99) "Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù" (Piemme, Casale Monferrato 1996, originale: A Rabby Talks with Jesus: An Intermillennial Interfaith Exchange, New York 1993). Quello che Papa Benedetto dice a proposito di tale libro, è così essenziale per la comprensione del suo stesso libro su Gesù, che vorrei citare, a questo punto, un po' più per esteso. Jacob Neusner, dice il nostro autore, "si è, per così dire, inserito tra gli ascoltatori del Discorso della montagna e ha poi cercato di avviare un colloquio con Gesù… Questa disputa, condotta con rispetto e franchezza fra un ebreo credente e Gesù, il figlio di Abramo, più della altre interpretazioni del Discorso della montagna a me note, mi ha aperto gli occhi sulla grandezza della Parola di Gesù e sulla scelta di fronte alla quale ci pone il Vangelo. Cosi… desidero entrare anch'io, da cristiano, nella conversazione del rabbino con Gesù, per comprendere meglio, partendo da essa, ciò che è autenticamente ebraico e ciò che costituisce il mistero di Gesù" (p. 99). A questo "trialogo" il cardinale Ratzinger pensava già allorché definì il libro del rabbino Neusner come "il saggio di gran lunga più importante per il dialogo ebraico-cristiano che sia stato pubblicato nell' ultimo decennio". Il suo libro su Gesù, ora pubblicato, adempie a questa promessa.

Più che le discussioni sui metodi esegetici, a lui sta a cuore il colloquio con il rabbino. Le prime appartengono, in un certo modo, ai preamboli, ai preliminari. Joseph Ratzinger/Benedetto XVI li chiarisce, rapidamente e sinteticamente, nella prefazione, indicando i meriti e i limiti degli approcci storico-critici a Gesù. Ma già dall'introduzione, da "un primo sguardo sul mistero di Gesù", egli è là, al centro, dove è posta la Persona stessa di Gesù. Qui, nel cuore della sua meditazione su Gesù, il rabbino gli è di decisiva importanza.

"Cerchiamo ora di riprendere l'essenziale di questo colloquio per conoscere meglio Gesù e comprendere più a fondo i nostri fratelli ebrei" (p. 136). Il rabbino Neusner, "nel suo dialogo interiore, aveva seguito Gesù per tutto il giorno e ora si ritira per la preghiera e lo studio della Torah con gli ebrei di una cittadina, per poi discutere le cose sentite - sempre nell'idea della contemporaneità attraverso i millenni - con il rabbino del luogo" (p. 136). Essi ora paragonano gli insegnamenti di Gesù con quelli della tradizione ebraica. Il rabbino chiede a Neusner "se Gesù insegni le stesse cose di costoro". Neusner: "non precisamente, ma quasi". "Che cosa ha tralasciato?" "Nulla". "Che cosa ha aggiunto allora?" "Se stesso". Questo il dialogo immaginario. Proprio questo è il punto, di fronte al quale Neusner, nel suo incontro così pieno di rispetto con Gesù, indietreggia spaventato. Egli esprime il suo spavento nella frase che Gesù dice al giovane ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che hai e dallo ai poveri; vieni e seguimi" (cf. Mt 19,20). Tutto dipende, dice Neusner "da chi si intenda con questo mi " (Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, p. 114). E il nostro autore completa: "questo è il motivo centrale per cui (il rabbino Neusner) non vuole seguire Gesù e rimane fedele all''Israele eterno' " (p. 137). "La centralità dell'Io di Gesù nel suo annuncio" è dunque il motivo per cui, come scrive il rabbino Neusner nella prefazione al suo libro, egli non si sarebbe unito alla "cerchia degli apostoli di Gesù", se fosse vissuto "nel primo secolo in terra d'Israele" (op. cit., p.7). Ed egli avrebbe preso questa decisione, "per motivi buoni ed importanti", l'avrebbe ragionevolmente motivata "con argomenti e con fatti", così dice il rabbino Neusner, già nelle prime righe del suo libro (ibidem, p. 7). Questo suo No a seguire Gesù, formulato in maniera così rispettosa e comprensiva, ma tuttavia ben chiara, è motivato in Neusner, primariamente, da motivi di fede o da motivi di ragione? Tutte e due le cose sembrano essere vere. Il no all'equiparazione di Gesù con Dio è per lui un'evidenza di fede, la cui ragionevolezza è spiegabile anche "con argomenti e con fatti". Sono sia motivi religiosi che sociali a giustificare il cortese no di Neusner. Quello che Gesù richiede dai suoi seguaci "può richiederlo solo Dio da me" (Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, p. 70). E quello che egli esige, porta infine a mettere in pericolo la forma sociale di Israele, così come la prescrive la Torah: "Sul Discorso della montagna non si può costruire nessuno Stato e nessun ordine sociale" (p. 146). Il rabbino Neusner è così importante per il libro di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, proprio perché egli oppone un netto rifiuto a tutti i tentativi di scindere il Gesù storico dal Gesù del dogma della Chiesa. Non è stata la Chiesa, e neanche l'apostolo Paolo ad innalzare un predicatore ambulante della Galilea, mite, liberale, profetico, apocalittico o come altro sia, al rango di Figlio di Dio, ma egli stesso accampa una pretesa, in tutto il suo fare e dire, che spetta solo a Dio. È questa la tematica centrale del libro. Si tratta della domanda di Gesù a Cesarea di Filippo: "Ma voi, chi dite che io sia?" (Mt 16, 15).

Che cosa ha portato (Gesù)?

Un nuovo ordine sociale? Il suo Regno non è di questo mondo, egli spiega. Egli avrebbe già detto il suo "no" ad un'attesa di salvezza puramente immanente e terrena, già nel rifiuto delle tentazioni, e cioè del tentatore. Ciò ha qualcosa a che fare con la critica, spesso fraintesa, del prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, alle cosiddette "teologie della liberazione". Nel pregevole capitolo sulle tentazioni di Gesù leggiamo: "nessun regno di questo mondo è il Regno di Dio, la condizione di salvezza dell'umanità in assoluto… e chi sostiene di poter edificare il mondo salvato asseconda l'inganno di Satana, fa cadere il mondo nelle sue mani" (p. 73). Ma che cosa allora? Che cosa ha portato Gesù se non un mondo migliore? "Qui sorge però la grande domanda che ci accompagnerà per tutto questo libro: ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio" (p. 73). Questo è tutto? "Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco"(p. 73). "Il comandamento fondamentale di Israele è anche il comandamento fondamentale dei cristiani: si deve adorare solo Dio" (p. 74). È questo il presupposto per i comandamenti dell'amore del prossimo. Senza il primato di Dio, la dignità dell'uomo non regge a lungo. "Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza" (p. 73).

Che cosa ha da dirci però tutto questo su Gesù?

Non hanno portato, tutti i fondatori di religione, il sapere e la sapienza dall'alto? Nel suo "primo sguardo" introduttivo "sul mistero di Gesù", il nostro autore affronta il problema di come Gesù "porti Dio" (pp. 26-33). Nell'Antico Testamento Mosè è il mediatore della conoscenza di Dio, della volontà di Dio. Egli non era un indovino di un oscuro futuro, ma un amico e un confidente di Dio, "lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia" (Dt 34, 10). Solo così egli era potuto diventare il mediatore della Torah, della volontà di Dio. Mosè annuncia "un profeta come me…", uno, che "parlerà faccia a faccia, come un amico tratta con l'amico" (p. 29). Essere in rapporto immediato con Dio, questo è il segno di riconoscimento del promesso, del Messia. Gesù è il nuovo Mosè promesso. "Egli vive al cospetto di Dio, non solo come un amico ma come Figlio; vive in una profonda unità con il Padre" (p. 31). "Se si lascia da parte questo centro autentico, non si coglie lo specifico della figura di Gesù che diventa allora contraddittoria e in definitiva incomprensibile"(p. 31). È dimostrabile questo rapporto immediato di Gesù con il Padre? Il suo essere-Figlio-di-Dio è, per così dire, "accertato"? In fondo tutto il libro di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI è un unico tentativo "sinfonico" di comprovare la "coerenza" della figura di Gesù, come dell'Unico che sia in assoluto rapporto immediato con Dio.

Per tener dietro a questa dimostrazione, bisogna capire, meditare il libro stesso, passo dopo passo. Solo la pienezza delle singole impressioni può configurarsi in una visione d'insieme. In ciò sperimento sempre, come lettore, che l'evidenza di Gesù risplende. Questa mia impressione è solo soggettiva? Oppure proviene dal mio a priori di fede che mi fa interpretare tutto, in Gesù, già dapprincipio, nel senso del dogma cristologico? Una cosa è certa: "che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio" (p. 21).

Dall'inizio sono stati i semplici ad avvertire: qui parla uno che non proferisce erudizioni scolastiche: "Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!" la gente semplice diceva agli eruditi di Israele (cf. Gv 7, 46). "L'insegnamento di Gesù non proviene da un apprendistato umano, qualunque possa essere. Viene dall'immediato contatto con il Padre, dal dialogo 'faccia a faccia' … È la parola del Figlio. Senza questo fondamento interiore sarebbe temerarietà" (p. 31 segg.).

Dall'Agorà alla sequela

"Il discepolo che cammina con Gesù viene in questo modo attratto con lui nella comunione con Dio" (p. 33). L'autore di questo libro su Gesù è senza dubbio uno che Gesù ha attratto all'interno di questa comunione con Dio. Dotato di una brillante intelligenza, di una "ragione ampiamente dispiegata" (p. 214), egli porta qui il raccolto del suo lungo cammino con Gesù Cristo. Può sembrare tragico che un tale teologo, da annoverare senza dubbio fra i più importanti degli ultimi decenni, abbia ricevuto l'onere dell'ufficio ecclesiastico (il 28 maggio ricorreranno i trenta anni della consacrazione episcopale del professor Ratzinger). Tuttavia, le vie del Signore non sono le nostre vie. Chi cerca di abbracciare con lo sguardo le opere del cardinale Ratzinger, constaterà con profonda ammirazione, quanto fecondi e copiosi siano stati questi anni del suo servizio pastorale, proprio anche da un punto di vista teologico. Quello che ha entusiasmato gli ascoltatori e i lettori dell'"Introduzione al cristianesimo" dal 1968, quel misto inconfondibile di compenetrazione di fede -ragione e di apertura esistenziale, ha acquistato un più profondo spessore attraverso il suo servizio pastorale. Lo sguardo sulla società, sulle sfide intellettuali, sociali, politiche del nostro tempo, è diventato così universale, come lo richiede l'universalità del suo attuale servizio pastorale. Ma al di là dello splendore delle analisi, di tutte le ricchezze di intuizioni e di prospettive di cui questo libro è straricco, tutto è mosso dalla passione trattenuta per Colui che egli ora ha l'incarico di rappresentare sulla terra. Il suo libro è ora sull'Agorà del "mercato pubblico", si offre al dibattito negli areopaghi della nostra società. Il semplice desiderio del suo autore non è, in primo luogo, di suscitare dibattiti, anche se egli sa che le contraddizioni non mancheranno. Egli vuole solo una cosa: "che possa crescere una relazione vitale con Lui, con Gesù di Nazareth" (p. 23).

[00526-01.01] [Testo originale: Tedesco]

  TESTO IN LINGUA TEDESCA

Der Papst auf der Agora

Dass der Papst über Jesus spricht, ist nicht verwunderlich. Dass der Nachfolger des Apostels Petrus dessen Bekenntnis zu Jesus im Heute fortsetzt, ist Kern seiner Aufgabe. "Du bist der Christus (Messias), der Sohn des lebendigen Gottes" (Mt 16,16): Dieses feierliche Bekenntnis über die Identität Jesu von Nazareth ist der Felsengrund, auf dem die Kirche Christi steht. Was Wunder, dass der Nachfolger des Kephas, des Petros, des "Felsen"- Mannes, auf den Jesus seine Kirche zu bauen verheißen hat, dieses Bekenntnis wiederholt, erneuert und im Heute der Kirche verkündet. Dass der Papst von Jesus spricht, ist in keinster Weise überraschend. Es ist die erste und wichtigste aller seiner Aufgaben.

Überraschend ist vielmehr, wie er es tut. Nicht Benedikt XVI. steht an erster Stelle auf dem "Cover" des neuen Buches, sondern schlicht "Joseph Ratzinger". Erst an zweiter Stelle steht der Name, den er am 19. April 2005 nach der Wahl zum Papst gewählt hat: Benedikt XVI. Nicht der Papst, auch nicht der vormalige Kardinal, der Bischof, der Professor, der Priester, sondern der einfache Gläubige, der Christ Joseph Ratzinger, spricht hier. Damit das von Anfang an klar ist, beschließt er das Vorwort seines Buches mit dem schlichten Hinweis: "Gewiss brauche ich nicht eigens zu sagen, dass dieses Buch in keiner Weise ein lehramtlicher Akt ist, sondern einzig Ausdruck meines persönlichen Suchens ‚nach dem Angesicht des Herrn' (vgl. Ps 27,8)" (S. 22). Ein ganz persönliches "Jesus-Buch" also. Gleich zu Beginn sagt der Autor, er sei zu diesem Buch "lange innerlich unterwegs gewesen" (S. 10).

Der Mensch und Christ Joseph Ratzinger ist nun aber doch auch Papst Benedikt XVI. Mit diesem sozusagen "Doppelnamen" signiert er auch sein Vorwort, unter ihm erscheint das Buch, weltweit, unter großer medialer Aufmerksamkeit. Gelesen wird das Buch als das Jesus-Buch des Papstes. Und warum auch nicht? Er ist ja nicht der oberste Funktionär einer weltweit agierenden Multinationalen, sondern der Nachfolger dessen, den Jesus gefragt hat: "Simon, ..., liebst du mich?" (Joh 21,15). Warum sollte es nicht gerade der Papst sein, der besonders berufen ist, über seinen Meister, Lehrer und Herrn zu sprechen? Ist nicht er, mehr als alle, der, den die Freundschaft mit Christus erfüllen soll? Wie wir sehen werden ist hier wohl auch der Gravitationspunkt, die innere Mitte seines Jesus-Buches. Er nennt es "die innere Freundschaft mit Jesus" und sagt, dass "doch alles (auf sie) ankommt" (S. 11).

Zeugnis einer "inneren Freundschaft" also? Ein ganz subjektiver Ansatz? Ein persönliches Zeugnis, wie es viele dieser Art gibt, für "Außenstehende" eine meist eher unverdauliche Art von Frömmigkeitsliteratur? Das wäre nicht die Sorte Literatur, die man von Joseph Ratzinger kennt. Er ist allem Subjektivismus abhold, jede Art von Selbstdarstellung seiner persönlichen Innerlichkeit ist ihm fremd. Ähnlich dem großen Thomas von Aquin ist das Feuer seines Glaubenslebens verborgen, es wird nicht der biographischen Neugier ausgesetzt. Im Vordergrund steht die nie ermüdende geistige Auseinandersetzung, die Mühe des Begriffs, die Kraft der Argumente, die Leidenschaft des objektiven Suchens nach der Wahrheit, das Bemühen, allen Fragenden und Suchenden Rechenschaft zu geben über den Grund der eigenen Hoffnung (vgl. 1 Petrus 3,15).

Deshalb begibt sich der Papst auf die Agora, den Platz der öffentlichen Debatte. Auf dem Areopag (vgl. Apg 17,22) der heutigen Meinungsvielfalt trägt er seine Sicht von Jesus vor. Was auf den Areopagen heutiger öffentlicher Debatte selbstverständlich sein sollte, sagt der Papst seinen Lesern und setzt damit einen hohen Qualitätsmaßstab: "Es steht daher jedermann frei, mir zu widersprechen. Ich bitte die Leserinnen und Leser nur um jenen Vorschuss an Sympathie, ohne den es kein Verstehen gibt" (S. 22).

An Widerspruch fehlt es wirklich nicht. Auf allen Linien, von Anfang an, ist Jesus "ein Zeichen, dem widersprochen wird" (Lk 2,34). "Stimmt" seine Gestalt? Ist der Fels des Petrus- Bekenntnisses zu Jesus als dem Messias Israels, dem Sohn des lebendigen Gottes, nicht brüchig? Weiß man wirklich Sicheres über den Mann aus Galiläa? Was soll eine Freundschaft mit einem Phantom? Sie "droht ins Leere zu greifen" (S. 11). So ist die Frage nach der historischen Glaubwürdigkeit von vitaler Bedeutung, gerade für den unter den zwei Milliarden Christen, der in besonderer Weise unter dem Anspruch steht, der zu sein, dem Jesus "die Schlüssel des Himmelreiches" (Mt 16,19) anvertraut hat.

Auf dem Marktplatz der medialen Öffentlichkeit werden pausenlos angeblich neue "Enthüllungen" feilgeboten, die eine ganz andere Geschichte des Jesus von Nazareth offenbaren sollen: Die biblische und kirchliche Darstellung der Gestalt Jesu sei Pfaffenbetrug und Kirchenschwindel. Die "Wahrheit" über Jesus werde von finsteren Verschwörern, die man besonders gern im Vatikan lokalisiert, niedergehalten.

Zweifel an der historischen Glaubwürdigkeit des Jesusbildes der Evangelien kommt aber auch "aus den eigenen Reihen". Seit über 200 Jahren hat die historische Bibelkritik so ziemlich alles in Frage gestellt, was in der Bibel über Jesus zu finden ist. Seine Gestalt schien sich immer wieder wie ein Schemen im Diffusen aufzulösen, wie eine "undeutlich gewordene Ikone" (S. 11). Der kirchliche Glaube an Jesus Christus erscheint dann als eine nachträgliche "Vergöttlichung" eines Jesus von Nazareth, von dem man eigentlich kaum etwas Sicheres weiß. "Dieser Eindruck ist inzwischen weit ins allgemeine Bewusstsein der Christenheit vorgedrungen. Eine solche Situation ist dramatisch für den Glauben, weil sein eigentlicher Bezugspunkt unsicher wird" (S. 11).

Und wenn es doch gelingt, die historische Glaubwürdigkeit der Evangelien und ihres Jesus- Bildes nachzuweisen? Dass dies möglich ist, davon ist unser Autor überzeugt. Dazu ist er nun auch von seiner Biographie her bestens vorbereitet. Für ihn war die Bibel immer Herz und Mitte der Theologie. In den vielen Jahren, in denen ich ihn als Professor, als Bischof, als Präfekt der Glaubenskongregation erleben durfte, habe ich ihn nie ohne seinen "Nestle" erlebt, die kritische Ausgabe des griechischen Neuen Testaments. Ich kenne keinen Theologieprofessor, der so wie er mit der Bibel innerlich vertraut ist. Durch 24 Jahre präsidierte er die Päpstliche Bibelkommission, die erstklassige katholische Bibelwissenschaftler versammelt. Er kennt die "historisch-kritische" Methode der Bibelauslegung. Und wenn er ihr gegenüber kritisch ist, so nicht aus Angst, sondern aus der begründeten und durchargumentierten Überzeugung, dass sie ihre Grenzen anerkennen muss: "Ich hoffe", so schreibt er, "dass den Lesern deutlich wird, dass dieses Buch nicht gegen die moderne Exegese geschrieben ist, sondern in großer Dankbarkeit für das viele, das sie uns geschenkt hat und schenkt" (S. 22). Er weiß, wovon er spricht. Sein Buch bezeugt auf jeder Seite, wie sehr er mit den Arbeiten heutiger Bibelwissenschafter vertraut ist.

Gerade diese Vertrautheit hat ihn in der Überzeugung bestärkt, dass er den Evangelien trauen kann. Er wolle den Versuch machen, "einmal den Jesus der Evangelien als den wirklichen Jesus, als den ‚historischen Jesus' im eigentlichen Sinn darzustellen. Ich bin überzeugt und hoffe, auch die Leser können sehen, dass diese Gestalt viel logischer und auch historisch betrachtet viel verständlicher ist als die Rekonstruktionen, mit denen wir in den letzten Jahrzehnten konfrontiert wurden. Ich denke, dass gerade dieser Jesus - der der Evangelien - eine historisch sinnvolle und stimmige Figur ist" (S. 20f).

Von dieser Annahme geht unser Autor aus. Auf sie hin liest er das Leben Jesu, von der Taufe im Jordan bis zur Verklärung, die Spanne im öffentlichen Leben Jesu, die dieser erste Band behandelt, in Erwartung eines zweiten, der Anfang und Ende des irdischen Weges Jesu behandeln sollte.

Auf der Basis des Vertrauens in die historische Zuverlässigkeit der Evangelien und ihres Jesusbildes stellt sich freilich eine viel radikalere Frage, die die eigentliche Mitte der Diskussion um Jesus betrifft. Wenn Jesus so war, wie ihn die Evangelien darstellen, ist er dann als Gestalt glaubwürdig? Ist sein Selbstverständnis, wie es uns zuverlässig in den Evangelien begegnet, nicht eine maßlose Selbstüberschätzung, eine anmaßende Überhebung?

Nach 200 Jahren historischer Bibelkritik kann getrost mit Joseph Ratzinger/Papst Benedikt von der soliden historischen Zuverlässigkeit der Evangelien ausgegangen werden. Die zahlreichen Phantasiebilder von Jesus als Revolutionär, als sanfter Sozialreformer, als heimlicher Liebhaber der Maria Magdalena, etc. können getrost im Beinhaus der Geschichte abgelagert werden. Aber die eine große Frage bleibt nach wie vor bestehen: Ist Jesus in sich stimmig? Ist sein Selbstanspruch nicht ein riesen Fehlgriff, dem die Christenheit seit 2000 Jahren nachhängt? Judentum und Islam stoßen sich gerade an diesem Anspruch. Auf ihn zu antworten ist die eigentliche Herausforderung, der sich der Nachfolger des Petrus (und des Paulus!) auf dem Areopag der heutigen Öffentlichkeit stellt.

Stimmt Jesus selber? Und wenn ja: "Was hat er gebracht?" (S. 73). Warum soll er mehr sein als ein Prophet? Dieses "Mehr" ist nicht Erfindung seiner Anhänger, die ihn zu Gott gemacht hätten. Es ist sein eigenstes Selbstverständnis. Er selber nennt sich "der Sohn" (S. 386-396), in einem absoluten, nur ihm eigenen Sinn. Warum kann oder will er sich nicht zurücknehmen in die bescheidenere Rolle eines Religionsstifters unter anderen? Hier liegt das eigentliche Ärgernis. Es ist radikaler als all die vielen Ärgernisse, die seine Jünger von Anfang an gegeben haben.

Jesus, der Rabbi und der Papst

Ist Jesus selber stimmig, glaubwürdig? Nach dem persönlichen Zeugnis von Papst Benedikt war einer der Anstöße, dieses Buch zu schreiben, die Begegnung mit dem Buch des "großen jüdischen Gelehrten Jacob Neusner" (S. 99) "Ein Rabbi spricht mit Jesus" (München 1997; Original: A Rabbi Talks with Jesus: An Intermillennial Interfaith Exchange, New York 1993). Was Papst Benedikt über dieses Buch sagt, ist so wesentlich für das Verständnis seines eigenen Jesus-Buches, dass ich hier etwas ausführlicher zitieren muss. Jacob Neusner, sagt unser Autor, habe sich "sozusagen unter die Hörer der Bergpredigt eingereiht und im Anschluss daran ein Gespräch mit Jesus versucht … Dieser ehrfürchtig und freimütig geführte Disput des gläubigen Juden mit Jesus, dem Sohn Abrahams, hat mir mehr als andere Auslegungen, die ich kenne, die Augen geöffnet für die Größe von Jesu Wort und für die Entscheidung, vor die uns das Evangelium stellt. So möchte ich ...als Christ in das Gespräch des Rabbi mit Jesus mit eintreten, um von ihm klar das authentisch Jüdische und das Geheimnis Jesu besser zu verstehen" (S. 99).

An diesen Trialog hatte Kardinal Ratzinger bereits damals gedacht, als er Rabbi Neusners Buch als "das bei weitem wichtigste Buch für den jüdisch- christlichen Dialog, das in den letzten … Jahren veröffentlicht worden ist" bezeichnete. Sein jetzt veröffentlichtes Jesus- Buch löst dieses Versprechen ein.

Viel bedeutender als die Diskussionen um die exegetischen Methoden ist ihm das Gespräch mit dem Rabbi. Erstere gehören gewissermaßen zum Vorfeld, zu den Präliminarien. Joseph Ratzinger/Benedikt XVI. klärt sie zügig und knapp im Vorwort, zeigt Verdienst und Grenzen der historisch- kritischen Zugänge zu Jesus. Doch schon von der Einführung an, vom "ersten Blick auf das Geheimnis Jesus" (26-33) ist er dort, wo die Person Jesu selber in den Mittelpunkt gerückt ist. Hier, im Herzen seiner Meditation über Jesus, ist ihm der Rabbi entscheidend wichtig.

"Versuchen wir, das Wesentliche dieses Gesprächs aufzunehmen, um Jesus zu erkennen und um unsere jüdischen Brüder besser zu verstehen" (S. 136). Rabbi Neusner war - in seinem inneren Dialog - Jesus den ganzen Tag über gefolgt und zieht sich nun zu Gebet und Tora-Studium mit den Juden einer kleinen Stadt zurück, um das Gehörte mit dem dortigen Rabbi - immer im Gedanken der Gleichzeitigkeit über Jahrtausende hin - zu besprechen" (S. 136). Sie vergleichen nun Jesu Lehren mit denen der jüdischen Tradition. Der Rabbi fragt Neusner, ob Jesus dasselbe lehre wie diese. Neusner: "Nicht genau, aber ungefähr." "Was hat er weggelassen?" "Nichts." "Was hat er dann hinzugefügt?" "Sich selbst." So der gedachte Dialog. Genau das ist der Punkt, vor dem Neusner in seiner so respektvollen Begegnung mit Jesus zurückschreckt. Er fasst sein Erschrecken in das Wort, das Jesus zum reichen jungen Mann sagt: "Wenn du vollkommen sein willst, geh, verkauf deinen Besitz; komm und folge mir" (vgl. Mt 19,20). Alles hängt davon ab, sagt Neusner, "wer mit 'mir' gemeint ist" (Ein Rabbi spricht mit Jesus, S. 114). Und unser Autor ergänzt: "Dies ist der zentrale Grund, warum er (Rabbi Neusner) Jesus nicht folgen will, sondern beim 'ewigen Israel' bleibt" (S. 137).

"Die Zentralität des Ich Jesu in seiner Botschaft" ist also der Grund, warum, wie Rabbi Neusner im Vorwort zu seinem Buch schreibt, er sich "dem Kreis der Jünger Jesu nicht angeschlossen hätte, wenn ich im ersten Jahrhundert im Lande Israel gelebt hätte" (op. cit., S. 7). Und diese Entscheidung hätte er "aus guten und wichtigen Gründen" getroffen, "mit Argumenten und Fakten vernünftig begründet", so sagt Rabbi Neusner gleich in den ersten Zeilen seines Buches (ebd., S. 7).

Ist sein so respektvoll und einfühlsam formuliertes, aber dann doch klares Nein zu einer Nachfolge Jesu bei Neusner nun primär aus Glaubensgründen oder aus Vernunftgründen motiviert? Beides scheint zuzutreffen. Das Nein zur Gleichsetzung Jesu mit Gott ist für ihn eine Glaubensevidenz, deren Vernünftigkeit sich auch "mit Argumenten und Fakten" begründen lässt. Es sind sowohl religiöse als auch gesellschaftliche Gründe, die Neusners höfliches Nein tragen. Was Jesus von seinen Anhängern fordert, kann "allein Gott von mir verlangen" (Ein Rabbi spricht mit Jesus, S. 70). Und was er fordert, führt letztlich zu einer Gefährdung der Sozialgestalt Israels, wie sie die Tora ordnet. "Auf die Bergpredigt könne man keinen Staat und keine Sozialordnung bauen" (S. 146).

Rabbi Neusner ist wohl deshalb für das Buch von Joseph Ratzinger/Benedikt XVI. so wichtig, weil er allen Versuchen, den historischen Jesus vom Christus des Kirchendogmas zu trennen, eine klare Absage erteilt. Nicht die Kirche, auch nicht der Apostel Paulus haben einen sanften, liberalen, prophetischen, apokalyptischen oder wie sonst immer gearteten Wanderprediger aus Galiläa zum Gottessohn hochstilisiert, sondern er selber stellt in seinem ganzen Tun und Reden einen Anspruch, der Gott allein zusteht. Das ist die zentrale Thematik dieses Buches. Es ist die Frage Jesu von Cäsarea Philippi: "Für wen haltet ihr mich?" (Mt 16,15).

Was hat er gebracht?

Eine neue Sozialordnung? Sein Reich ist nicht von dieser Welt, erklärt er. Einer rein innerweltlichen Heilserwartung habe Jesus schon in der Abweisung der Versuchungen bzw. des Versuchers sein Nein gesagt. Die oft missverstandene Kritik des Präfekten der Glaubenskongregation an der so genannten "Befreiungstheologie" hat damit zu tun. Im denkwürdigen Kapitel über die Versuchungen Jesu heißt es: "Kein Reich dieser Welt (ist) das Reich Gottes, der Heilszustand der Menschheit schlechthin … Wer behauptet, er könne die heile Welt errichten, der stimmt dem Betrug Satans zu, der spielt ihm diese Welt in die Hände" (S. 73).

Was aber sonst? Was, wenn nicht die Verbesserung der Welt? "Da steht nun freilich die große Frage auf, die uns durch dieses ganze Buch hindurch begleiten wird: Aber was hat Jesus dann eigentlich gebracht, wenn er nicht den Weltfrieden, nicht den Wohlstand für alle, nicht die bessere Welt gebracht hat? Was hat er gebracht? Die Antwort lautet ganz einfach: Gott. Er hat Gott gebracht" (S. 73).

Ist das alles? "Nur unserer Herzenshärte wegen meinen wir, das sei wenig" (S. 73). "Das Grundgebot Israels ist auch das Grundgebot für die Christen: Gott allein ist anzubeten" (S. 74). Das ist die Voraussetzung für die Gebote der Nächstenliebe. Ohne den Primat Gottes hält die Menschenwürde nicht lange. "Jesus hat Gott gebracht und damit die Wahrheit über unser Wohin und Woher" (S. 73).

Was hat das aber über Jesus zu sagen? Haben nicht alle Religionsstifter Wissen und Weisheit von oben gebracht? In seinem einführenden "ersten Blick auf das Geheimnis Jesu" geht unser Autor auf die Frage ein, wie denn Jesus "Gott bringt" (S. 26-33). Mose ist im Alten Bund der Mittler der Gotteskenntnis, des Gotteswillens. Er war kein Wahrsager einer verschlossenen Zukunft, sondern der Freund und Vertraute Gottes, "mit dem der Herr von Angesicht zu Angesicht verkehrt hatte" (Dtn 34,10). Nur so konnte er zum Mittler der Tora, des Gotteswillens werden.

"Einen Propheten wie mich …" verheißt Mose, einen, der "von Gesicht zu Gesicht wie ein Freund mit dem Freund verkehren wird" (S. 29). Unmittelbar zu Gott zu sein, das ist das Kennzeichen des Verheißenen, des Messias. Jesus ist der verheißene neue Mose. "Er lebt vor dem Angesicht Gottes, nicht nur als Freund, sondern als Sohn; er lebt in innerster Einheit mit dem Vater" (S. 31).

"Wenn man diese eigentliche Mitte auslässt, geht man am Eigentlichen der Gestalt Jesu vorbei; dann wird sie widersprüchlich und letzten Endes unverständlich" (S. 31).

Lässt sich diese Unmittelbarkeit Jesu beweisen? Ist sein Sohn-Gottes-Sein sozusagen "gesichert"? Im Grunde ist das ganze Buch von Joseph Ratzinger/Benedikt XVI. ein einziger, "symphonischer" Versuch, die "Stimmigkeit" der Gestalt Jesu als des Einzigen, der unbeschränkt Gott unmittelbar ist, zu erweisen.

Um diesem Aufweis nachzugehen, muss das Buch selber Schritt für Schritt nachvollzogen, meditiert werden. Erst die Fülle der Einzeleindrücke kann sich zum Gesamtbild fügen. Dabei geht es mir als Leser immer wieder so, dass die Evidenz der Gestalt Jesu aufleuchtet. Ist dieser mein Eindruck nur subjektiv? Oder stammt er aus meinem Glaubens-Apriori, das mich von vornherein alles an Jesus im Sinn des Christusdogmas deuten lässt? Eines ist sicher: "Dass die Gestalt Jesu in der Tat alle verfügbaren Kategorien sprengte und sich nur vom Geheimnis her verstehen ließ" (S. 21).

Von Anfang an, waren es "die Einfachen", die spürten: Hier spricht einer, der keine Schulweisheiten von sich gibt. "Noch nie hat ein Mensch so gesprochen wie dieser", sagen sie den Gelehrten in Jerusalem (vgl. Joh 7,46). "Die Lehre Jesu kommt nicht aus menschlichem Lernen, welcher Art auch immer. Sie kommt aus der unmittelbaren Berührung mit dem Vater, aus dem Dialog von 'Gesicht zu Gesicht' … Sie ist Sohneswort. Ohne diesen inneren Grund wäre sie Vermessenheit" (S. 31 f.).

Von der Agora zur Nachfolge

"Der Jünger, der mit Jesus mitgeht, wird so mit ihm in die Gottesgemeinschaft hineingezogen" (S. 33). Der Autor dieses Jesus- Buches ist ohne Zweifel einer, den Jesus in seine Gottesgemeinschaft hineingezogen hat. Mit einer strahlenden Intelligenz begabt, einer "weit aufgetanen Vernunft" (S. 214), bringt er hier die Ernte eines langen Weges mit Jesus Christus ein.

Es mag als Tragik gesehen werden, dass diesem zweifellos zu den bedeutendsten Theologen der letzten Jahrzehnte Zählenden die Last des kirchlichen Amtes auferlegt wurde (am 28. Mai werden es 30 Jahre sein, dass Professor Ratzinger zum Bischof geweiht wurde). Doch Gottes Wege sind nicht unsere Wege. Wer das Oeuvre Kardinal Ratzingers zu überblicken versucht, wird voll tiefer Bewunderung feststellen, wie immens fruchtbar diese Jahre seines Hirtenamtes gerade auch in theologischer Hinsicht waren.

Was die Hörer und Leser der "Einführung ins Christentum" seit 1968 begeistert hat, die unverwechselbare Mischung von gläubig-denkerischer Durchdringung und existenzieller Erschließung, das hat durch seinen Hirtendienst noch gewonnen. Der Blick auf die Gesellschaft, auf die denkerischen, sozialen, politischen Herausforderungen unserer Zeit ist so universal geworden, wie es die Universalität seines jetzigen Hirtendienstes erfordert. Aber über alle Brillanz der Analysen, allen Reichtum an Intuitionen und Perspektiven hinaus, von denen dieses Buch übervoll ist, wird alles von der verhaltenen Leidenschaft für den bewegt, dessen "Stellvertreter auf Erden" zu sein nun seine Aufgabe geworden ist.

Sein Buch ist nun auf der Agora des "öffentlichen Marktes", es stellt sich den Debatten auf den Areopagen unserer Gesellschaft.

Sein schlichter Wunsch gilt nicht primär den Debatten, auch wenn er weiß, dass Widerspruch nicht ausbleiben wird. Er will nur eines: "dass lebendige Beziehung zu ihm wachsen kann", zu Jesus von Nazareth (S. 23).

[00526-05.02] [Originalsprache: Deutsch]

[B0193-XX.01]