Alle ore 17.30 di questo pomeriggio, Giovedì Santo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, la concelebrazione della Santa Messa "nella Cena del Signore".
Nel corso della Liturgia il Papa compie il rito della lavanda dei piedi a dodici uomini, rappresentanti delle aggregazioni laicali della Diocesi di Roma.
Al momento della presentazione dei doni viene affidata al Santo Padre un’offerta a sostegno del Dispensario medico di Baidoa in Somalia.
Al termine della Celebrazione ha luogo la traslazione del SS.mo Sacramento alla Cappella della reposizione.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
● OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle,
nella lettura dal Libro dell’Esodo, che abbiamo appena ascoltato, viene descritta la celebrazione della Pasqua di Israele così come nella Legge mosaica aveva trovato la sua forma vincolante. All’origine può esserci stata una festa di primavera dei nomadi. Per Israele, tuttavia, ciò si era trasformato in una festa di commemorazione, di ringraziamento e, allo stesso tempo, di speranza. Al centro della cena pasquale, ordinata secondo determinate regole liturgiche, stava l’agnello come simbolo della liberazione dalla schiavitù in Egitto. Per questo l’haggadah pasquale era parte integrante del pasto a base di agnello: il ricordo narrativo del fatto che era stato Dio stesso a liberare Israele "a mano alzata". Egli, il Dio misterioso e nascosto, si era rivelato più forte del faraone con tutto il potere che aveva a sua disposizione. Israele non doveva dimenticare che Dio aveva personalmente preso in mano la storia del suo popolo e che questa storia era continuamente basata sulla comunione con Dio. Israele non doveva dimenticarsi di Dio.
La parola della commemorazione era circondata da parole di lode e di ringraziamento tratte dai Salmi. Il ringraziare e benedire Dio raggiungeva il suo culmine nella berakha, che in greco è detta eulogia o eucaristia: il benedire Dio diventa benedizione per coloro che benedicono. L’offerta donata a Dio ritorna benedetta all’uomo. Tutto ciò ergeva un ponte dal passato al presente e verso il futuro: ancora non era compiuta la liberazione di Israele. Ancora la nazione soffriva come piccolo popolo nel campo delle tensioni tra le grandi potenze. Il ricordarsi con gratitudine dell’agire di Dio nel passato diventava così al contempo supplica e speranza: Porta a compimento ciò che hai cominciato! Donaci la libertà definitiva!
Questa cena dai molteplici significati Gesù celebrò con i suoi la sera prima della sua Passione. In base a questo contesto dobbiamo comprendere la nuova Pasqua, che Egli ci ha donato nella Santa Eucaristia. Nei racconti degli evangelisti esiste un’apparente contraddizione tra il Vangelo di Giovanni, da una parte, e ciò che, dall’altra, ci comunicano Matteo, Marco e Luca. Secondo Giovanni, Gesù morì sulla croce precisamente nel momento in cui, nel tempio, venivano immolati gli agnelli pasquali. La sua morte e il sacrificio degli agnelli coincisero. Ciò significa, però, che Egli morì alla vigilia della Pasqua e quindi non poté personalmente celebrare la cena pasquale – questo, almeno, è ciò che appare. Secondo i tre Vangeli sinottici, invece, l’Ultima Cena di Gesù fu una cena pasquale, nella cui forma tradizionale Egli inserì la novità del dono del suo corpo e del suo sangue. Questa contraddizione fino a qualche anno fa sembrava insolubile. La maggioranza degli esegeti era dell’avviso che Giovanni non aveva voluto comunicarci la vera data storica della morte di Gesù, ma aveva scelto una data simbolica per rendere così evidente la verità più profonda: Gesù è il nuovo e vero agnello che ha sparso il suo sangue per tutti noi.
La scoperta degli scritti di Qumran ci ha nel frattempo condotto ad una possibile soluzione convincente che, pur non essendo ancora accettata da tutti, possiede tuttavia un alto grado di probabilità. Siamo ora in grado di dire che quanto Giovanni ha riferito è storicamente preciso. Gesù ha realmente sparso il suo sangue alla vigilia della Pasqua nell’ora dell’immolazione degli agnelli. Egli però ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran, quindi almeno un giorno prima – l’ha celebrata senza agnello, come la comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del nuovo tempio. Gesù dunque ha celebrato la Pasqua senza agnello – no, non senza agnello: in luogo dell’agnello ha donato se stesso, il suo corpo e il suo sangue. Così ha anticipato la sua morte in modo coerente con la sua parola: "Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso" (Gv 10,18). Nel momento in cui porgeva ai discepoli il suo corpo e il suo sangue, Egli dava reale compimento a questa affermazione. Ha offerto Egli stesso la sua vita. Solo così l’antica Pasqua otteneva il suo vero senso.
San Giovanni Crisostomo, nelle sue catechesi eucaristiche ha scritto una volta: Che cosa stai dicendo, Mosè? Il sangue di un agnello purifica gli uomini? Li salva dalla morte? Come può il sangue di un animale purificare gli uomini, salvare gli uomini, avere potere contro la morte? Di fatto – continua il Crisostomo – l’agnello poteva costituire solo un gesto simbolico e quindi l’espressione dell’attesa e della speranza in Qualcuno che sarebbe stato in grado di compiere ciò di cui il sacrificio di un animale non era capace. Gesù celebrò la Pasqua senza agnello e senza tempio e, tuttavia, non senza agnello e senza tempio. Egli stesso era l’Agnello atteso, quello vero, come aveva preannunciato Giovanni Battista all’inizio del ministero pubblico di Gesù: "Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" (Gv 1,29). Ed è Egli stesso il vero tempio, il tempio vivente, nel quale abita Dio e nel quale noi possiamo incontrare Dio ed adorarlo. Il suo sangue, l’amore di Colui che è insieme Figlio di Dio e vero uomo, uno di noi, quel sangue può salvare. Il suo amore, quell’amore in cui Egli si dona liberamente per noi, è ciò che ci salva. Il gesto nostalgico, in qualche modo privo di efficacia, che era l’immolazione dell’innocente ed immacolato agnello, ha trovato risposta in Colui che per noi è diventato insieme Agnello e Tempio.
Così al centro della Pasqua nuova di Gesù stava la Croce. Da essa veniva il dono nuovo portato da Lui. E così essa rimane sempre nella Santa Eucaristia, nella quale possiamo celebrare con gli Apostoli lungo il corso dei tempi la nuova Pasqua. Dalla croce di Cristo viene il dono. "Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso". Ora Egli la offre a noi. L’haggadah pasquale, la commemorazione dell’agire salvifico di Dio, è diventata memoria della croce e risurrezione di Cristo – una memoria che non ricorda semplicemente il passato, ma ci attira entro la presenza dell’amore di Cristo. E così la berakha, la preghiera di benedizione e ringraziamento di Israele, è diventata la nostra celebrazione eucaristica, in cui il Signore benedice i nostri doni – pane e vino – per donare in essi se stesso. Preghiamo il Signore di aiutarci a comprendere sempre più profondamente questo mistero meraviglioso, ad amarlo sempre di più e in esso amare sempre di più Lui stesso. Preghiamolo di attirarci con la santa comunione sempre di più in se stesso. Preghiamolo di aiutarci a non trattenere la nostra vita per noi stessi, ma a donarla a Lui e così ad operare insieme con Lui, affinché gli uomini trovino la vita – la vita vera che può venire solo da Colui che è Egli stesso la Via, la Verità e la Vita. Amen.
[00495-01.01]
● TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA
In der Lesung aus dem Buch Exodus, die wir eben gehört haben, wird uns die Pascha-Feier Israels geschildert, so wie sie in der mosaischen Gesetzgebung verbindliche Gestalt gefunden hatte. Am Anfang mag ein Frühlingsfest der Nomaden gestanden haben. Aber für Israel war daraus ein Fest des Gedenkens, des Dankens und zugleich der Hoffnung geworden. Im Mittelpunkt des nach festen liturgischen Regeln geordneten Pascha-Mahles steht das Lamm als Symbol der Befreiung aus der Knechtschaft Ägyptens. Daher gehört zum Lamm-Essen die Pascha-Haggada: das erzählende Erinnern daran, daß es Gott selber war, der mit „erhobener Hand" Israel befreite. Er, der Geheimnisvolle und Verborgene, hatte sich mächtiger erwiesen als der Pharao mit all seiner Gewalt, die ihm zur Verfügung stand. Israel sollte nicht vergessen, daß Gott seine Geschichte selbst in die Hand genommen hatte und daß seine Geschichte immerfort auf der Gemeinschaft mit Gott aufruhte. Es sollte Gottes nicht vergessen. Das Wort des Gedenkens ist umrahmt von Worten der Lobpreisung und des Dankens aus den Psalmen. Das Danken und Preisen fand seinen Mittelpunkt in der Berakha, die griechisch Eulogia oder Eucharistia heißt: Die Preisung Gottes wird Segen für die Preisenden. Die Gott übereignete Gabe kehrt gesegnet zum Menschen zurück. All dies spannte die Brücke vom Vergangenen in die Gegenwart und in die Zukunft hinein: Noch immer war die Befreiung Israels nicht vollendet. Noch immer litt es als kleines Volk im Spannungsfeld der großen Mächte. Das dankende Erinnern an das vergangene Tun Gottes wird so zugleich Bitte und Hoffnung: Vollende, was du begonnen hast. Schenke uns die endgültige Freiheit.
Dieses Mahl Israels mit seinen vielfältigen Bedeutungen hat Jesus mit den Seinen am Abend vor seinem Leiden gefeiert. Von diesem Kontext her müssen wir sein neues Pascha verstehen, das er uns in der heiligen Eucharistie geschenkt hat. In den Berichten der Evangelisten darüber gibt es einen scheinbaren Widerspruch zwischen dem Evangelium des heiligen Johannes einerseits und dem, was uns Matthäus, Markus und Lukas mitteilen auf der anderen Seite. Nach Johannes ist Jesus genau in dem Augenblick am Kreuz gestorben, in dem im Tempel die Pascha-Lämmer geopfert wurden. Sein Tod und das Lamm-Opfer im Heiligtum fielen zusammen. Das bedeutet aber, daß er am Vorabend des Pascha gestorben ist und selbst kein Pascha-Mahl gehalten haben kann – so scheint es jedenfalls. Nach den drei synoptischen Evangelien hingegen war Jesu letztes Mahl ein Pascha-Mahl, in dessen überlieferten Rahmen hinein er das Neue der Gabe seines Leibes und Blutes einsenkte. Dieser Widerspruch erschien bis vor kurzem unlösbar: Die Mehrheit der Ausleger war der Meinung, Johannes habe uns nicht das wirkliche historische Datum des Todes Jesu mitteilen wollen, sondern ein symbolisches Datum gewählt, um so die tiefere Wahrheit deutlich zu machen: Jesus ist das neue, das wahre Lamm, das sein Blut für uns alle vergossen hat.
Die Schriftfunde von Qumran haben inzwischen zu einer überzeugenden Lösungsmöglichkeit geführt, die zwar noch nicht allgemein angenommen ist, aber doch eine hohe Wahrscheinlichkeit für sich hat. Johannes hat historisch genau berichtet, so dürfen wir nun sagen. Jesus hat tatsächlich am Vorabend des Pascha-Festes zur Stunde des Lamm-Opfers sein Blut vergossen. Er hat aber wahrscheinlich mit den Jüngern Pascha nach dem Qumran-Kalender, also wenigstens einen Tag früher gefeiert – ohne Lamm gefeiert, wie Qumran, das den Tempel des Herodes ablehnte und auf den neuen Tempel wartete. Jesus hat Pascha gefeiert: ohne Lamm, nein, nicht ohne Lamm: An der Stelle des Lamms hat er sich selbst geschenkt, seinen Leib und sein Blut. Er hat so seinen Tod vorweggenommen gemäß seinem Wort: „Niemand entreißt mir mein Leben, sondern ich gebe es von mir aus hin" (Joh 10, 18). In dem Augenblick, als er den Jüngern seinen Leib und sein Blut reichte, hat er diesen Satz wirklich vollzogen. Er hat sein Leben selbst gegeben. So erst erhielt das uralte Pascha seinen wahren Sinn. Der heilige Johannes Chrysostomus hat in seinen eucharistischen Katechesen einmal geschrieben: Was sagst du da, Mose? Das Blut eines Lammes reinigt Menschen? Rettet sie vor dem Tod? Wie soll das Blut eines Tieres Menschen reinigen, Menschen retten, Macht gegen den Tod sein? In der Tat – so sagt er weiter – das Lamm konnte nur eine symbolische Gebärde sein und so Ausdruck der Erwartung und der Hoffnung auf jemanden, der vermochte, was das Opfer eines Tieres nicht vermag. Jesus feierte Pascha ohne Lamm und ohne Tempel und doch nicht ohne Lamm und ohne Tempel. Er selbst ist das erwartete, das wirkliche Lamm, wie es Johannes der Täufer am Anfang der Wege Jesu angekündigt hatte: „Seht, das Lamm Gottes, das die Sünde der Welt hinwegnimmt" (Joh 1, 29). Und er ist selbst der wahre Tempel, der lebendige Tempel, in dem Gott wohnt und in dem wir Gott begegnen und ihn anbeten können. Sein Blut, die Liebe dessen, der der Sohn Gottes ist und der zugleich Mensch, einer von uns ist, kann retten. Seine Liebe rettet, in der er sich frei hingibt für uns. Die irgendwie hilflose Gebärde der Sehnsucht, die das geschlachtete, fehlerfreie, unschuldige Lamm gewesen war, hat Antwort gefunden in dem, der für uns Lamm und Tempel zugleich geworden ist.
So stand im Mittelpunkt von Jesu neuem Pascha das Kreuz. Von ihm her kam die neue Gabe, die er schenkte. Immer bleibt es so in der heiligen Eucharistie, in der wir mit den Aposteln die Zeiten hindurch das neue Pascha feiern dürfen. Vom Kreuz Christi her kommt die Gabe. „Niemand entreißt mir mein Leben. Ich gebe es selber hin." Er gibt es uns jetzt. Die Pascha-Haggada, das Gedenken an die rettende Tat Gottes, ist zum Gedächtnis (Memoria) von Kreuz und Auferstehung Christi geworden – zu einem Gedächtnis, das nicht Vergangenes erinnert, sondern uns in die Gegenwart von Christi Liebe hineinzieht. Und so ist die Berakha, das Segens- und Dankesgebet Israels zu unserer Eucharistiefeier geworden, in der der Herr unsere Gaben – Brot und Wein – segnet, um in ihnen sich selber zu schenken. Bitten wir den Herrn, daß er uns hilft, dieses wunderbare Geheimnis immer tiefer zu verstehen, es immer mehr zu lieben und darin ihn selber immer mehr zu lieben. Bitten wir ihn, daß er uns in der heiligen Kommunion immer mehr hineinzieht in sich selbst. Bitten wir ihn, daß er uns hilft, unser Leben nicht für uns selber zu behalten, sondern es ihm zu schenken und so mit ihm dahin zu wirken, daß die Menschen das Leben finden – das wahre Leben, das nur von dem kommen kann, der selbst der Weg, die Wahrheit und das Leben ist. Amen.
[00495-05.01] [Originalsprache: Italienisch]
[B0179-XX.02]