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INCONTRO DEL SANTO PADRE CON IL CLERO DELLA DIOCESI DI ROMA, 03.03.2006


INCONTRO DEL SANTO PADRE CON IL CLERO DELLA DIOCESI DI ROMA

DISCORSO DEL SANTO PADRE

INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL CARD. CAMILLO RUINI

SINTESI DEGLI INTERVENTI DEI SACERDOTI

Alle ore 11 di ieri, 2 marzo 2006, nell’Aula della Benedizione del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato il Clero della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.
Dopo l’indirizzo di omaggio del Cardinale Vicario Camillo Ruini, sono intervenuti 10 sacerdoti. Altri 5 sono intervenuti dopo il discorso del Santo Padre.
Di seguito riportiamo il testo improvvisato - in due tempi - dal Papa in risposta alle considerazioni dei sacerdoti romani intervenuti, nonché l’indirizzo di omaggio del Card. Camillo Ruini e la sintesi degli interventi dei sacerdoti:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Parlo subito, altrimenti il mio monologo diventa troppo lungo, se aspetto che si concludano tutti gli interventi. Vorrei innanzitutto esprimere la mia gioia di essere qui con voi, cari Sacerdoti di Roma. È una gioia reale: quella di vedere tanti buoni pastori a servizio del «Buon Pastore» qui, nella prima Sede della Cristianità, nella Chiesa che «presiede alla carità» e che deve essere modello delle altre Chiese locali. Grazie per il vostro servizio!

Abbiamo il luminoso esempio di Don Andrea, che ci mostra l'«essere» sacerdote sino in fondo: morire per Cristo nel momento della preghiera e così testimoniare, da una parte, l'interiorità della propria vita con Cristo e, dall'altra, la propria testimonianza per gli uomini in un punto realmente «panperiferico» del mondo, circondato dall'odio e dal fanatismo di altri. È una testimonianza che ispira tutti a seguire Cristo, a dare la vita per gli altri e a trovare proprio così la Vita.

Riguardo al primo intervento, rivolgo, innanzitutto un grande grazie per questa meravigliosa poesia! Ci sono anche poeti ed artisti nella Chiesa di Roma, nel presbiterio di Roma, e avrò ancora la possibilità di meditare, di interiorizzare queste belle parole e di tener presente che questa «finestra» è sempre «aperta». Forse è questa l'occasione per ricordare l'eredità fondamentale del grande Papa Giovanni Paolo II, per continuare ad assimilare sempre più questa eredità.

Ieri abbiamo dato inizio alla Quaresima. La Liturgia di oggi ci offre una profonda indicazione del significato essenziale della Quaresima: è un indicatore di strada per la nostra vita. Perciò mi sembra — parlo riferendomi a Papa Giovanni Paolo II — che dobbiamo insistere un po' sulla prima Lettura della giornata di oggi. Il grande discorso di Mosè sulla soglia della Terra Santa, dopo i quarant'anni del pellegrinaggio nel deserto, è un riassunto di tutta la Torah, di tutta la Legge. Troviamo qui l'essenziale non solo per il popolo ebraico ma anche per noi. Questo essenziale è la parola di Dio: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita» (Dt 30,19). Questa parola fondamentale della Quaresima è anche la parola fondamentale dell'eredità del nostro grande Papa Giovanni Paolo II: scegliere la vita. Questa è la nostra vocazione sacerdotale: scegliere noi stessi la vita e aiutare gli altri a scegliere la vita. Si tratta di rinnovare nella Quaresima la nostra, per così dire, «opzione fondamentale», l'opzione per la vita.

Ma, nasce subito la questione: come si sceglie la vita? come si fa? Riflettendo, mi è venuto in mente che la grande defezione dal Cristianesimo realizzatasi nell'Occidente negli ultimi cento anni, è stata attuata proprio in nome dell'opzione per la vita. È stato detto — penso a Nietzsche ma anche a tanti altri — che il Cristianesimo è una opzione contro la vita. Con la Croce, con tutti i Comandamenti, con tutti i «No» che ci propone, ci chiude la porta della vita. Ma noi, vogliamo avere la vita, e scegliamo, optiamo, finalmente, per la vita liberandoci dalla Croce, liberandoci da tutti questi Comandamenti e da tutti questi «No». Vogliamo avere la vita in abbondanza, nient'altro che la vita. Qui subito viene in mente la parola del Vangelo di oggi: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» ( Lc 9, 24). Questo è il paradosso che dobbiamo innanzitutto tener presente nell'opzione per la vita. Non arrogandoci la vita per noi ma solo dando la vita, non avendola e prendendola, ma dandola, possiamo trovarla. Questo è il senso ultimo della Croce: non prendere per sé ma dare la vita.

Così, Nuovo e Vecchio Testamento vanno insieme. Nella prima Lettura del Deuteronomio la risposta di Dio è: «Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva» (30, 16). Questo, a prima vista non ci piace, ma è la strada: l'opzione per la vita e l'opzione per Dio sono identiche. Il Signore lo dice nel Vangelo di San Giovanni: «Questa è la vita eterna: che conoscano te» (Gv 17, 3). La vita umana è una relazione. Solo in relazione, non chiusi in noi stessi, possiamo avere la vita. E la relazione fondamentale è la relazione col Creatore, altrimenti le altre relazioni sono fragili. Scegliere Dio, quindi: questo è essenziale. Un mondo vuoto di Dio, un mondo che ha dimenticato Dio, perde la vita e cade in una cultura di morte. Scegliere la vita, fare l'opzione per la vita, quindi, è, innanzitutto, scegliere l’opzione-relazione con Dio. Ma, subito nasce la questione: con quale Dio? Qui, di nuovo, ci aiuta il Vangelo: con quel Dio che ci ha mostrato il suo volto in Cristo, con quel Dio che ha vinto l'odio sulla Croce, cioè nell'amore sino alla fine. Così, scegliendo questo Dio, scegliamo la vita.

Il Papa Giovanni Paolo II ci ha donato la grande Enciclica Evangelium vitae. In essa — è quasi un ritratto dei problemi della cultura odierna, delle speranze e dei pericoli — diviene visibile che una società che dimentica Dio, che esclude Dio e, proprio per avere la vita, cade in una cultura di morte. Proprio volendo avere la vita si dice «No» al bambino, perché mi toglie qualche parte della mia vita; si dice «No» al futuro, per avere tutto il presente; si dice «No» sia alla vita che nasce sia alla vita sofferente, che va verso la morte. Questa apparente cultura della vita diventa la anti-cultura della morte, dove Dio è assente, dove è assente quel Dio che non ordina l'odio ma vince l'odio. Qui facciamo la vera opzione per la vita. Tutto, allora, è connesso: la più profonda opzione per Cristo Crocifisso con la più completa opzione per la vita, dal primo momento fino all'ultimo momento.

Questo, mi sembra, in qualche modo, anche il nucleo della nostra pastorale: aiutare a fare una vera opzione per la vita, rinnovare la relazione con Dio come la relazione che ci dà vita e ci mostra la strada per la vita. E così amare di nuovo Cristo, che dall'Essere più ignoto, al quale non arrivavamo e che rimaneva enigmatico, si è reso un Dio noto, un Dio dal volto umano, un Dio che è amore. Teniamo presente proprio questo punto fondamentale per la vita e consideriamo che in questo programma è presente tutto il Vangelo, dall'Antico al Nuovo Testamento, che ha come centro Cristo. La Quaresima, per noi stessi, dovrebbe essere il tempo per rinnovare la nostra conoscenza di Dio, la nostra amicizia con Gesù, per essere così capaci di guidare gli altri in modo convincente alla opzione per la vita, che è innanzitutto opzione per Dio. A noi stessi deve risultare chiaro che scegliendo Cristo non abbiamo scelto la negazione della vita, ma abbiamo scelto realmente la vita in abbondanza.

L'opzione cristiana è, in fondo, molto semplice: è l'opzione del «Sì» alla vita. Ma questo «Sì», si realizza solo con un Dio non ignoto, con un Dio dal volto umano. Si realizza seguendo questo Dio nella comunione dell'amore. Quanto ho fin qui detto vuol essere un modo di rinnovare il nostro ricordo nei riguardi del grande Papa Giovanni Paolo II.

Veniamo al secondo intervento, così simpatico, a proposito delle mamme. Direi che adesso non posso comunicare grandi programmi, parole che potrete dire alle mamme. Dite semplicemente: il Papa vi ringrazia! Vi ringrazia perché avete donato la vita, perché volete aiutare questa vita che cresce e volete così costruire un mondo umano, contribuendo ad un futuro umano. E lo fate non dando solo la vita biologica, ma comunicando il centro della vita, facendo conoscere Gesù, introducendo i vostri bambini alla conoscenza di Gesù, all'amicizia con Gesù. Questo è il fondamento di ogni catechesi. Quindi bisogna ringraziare le mamme soprattutto perché hanno avuto il coraggio di dare la vita. E bisogna pregare le mamme perché completino questo loro dare la vita dando l'amicizia con Gesù.

Il terzo intervento era del Rettore della chiesa di sant'Anastasia. Qui, forse, posso dire, tra parentesi, che la chiesa di sant'Anastasia mi era già cara prima di averla vista, perché era la chiesa titolare del nostro Cardinale de Faulhaber. Egli ci ha sempre fatto sapere che a Roma aveva una sua chiesa, quella di sant'Anastasia. Con questa comunità ci siamo sempre incontrati in occasione della seconda Messa di Natale, dedicata alla «stazione» di sant'Anastasia. Gli storici dicono che là, il Papa, doveva visitare il Governatore bizantino, che lì aveva la sede. La chiesa ci fa pensare anche a quella santa e così anche all'«Anastasis»: a Natale pensiamo anche alla Risurrezione. Non sapevo, e sono grato di esserne stato informato, che adesso la chiesa è sede dell'«Adorazione perpetua»; è quindi un punto focale della vita di fede a Roma. Questa proposta di creare nei cinque Settori della Diocesi di Roma, cinque luoghi di Adorazione perpetua, la pongo fiduciosamente nelle mani del Cardinale Vicario. Vorrei soltanto dire: grazie a Dio, perché dopo il Concilio, dopo un periodo in cui mancava un po' il senso dell'adorazione eucaristica, è rinata la gioia di questa adorazione dappertutto nella Chiesa, come abbiamo visto e sentito nel Sinodo sull'Eucaristia. Certo, con la Costituzione conciliare sulla Liturgia, è stata riscoperta soprattutto tutta la ricchezza dell'Eucaristia celebrata, dove si realizza il testamento del Signore: Egli si dà a noi e noi rispondiamo dandoci a Lui. Ma, adesso, abbiamo riscoperto che questo centro che ci ha donato il Signore nel poter celebrare il suo sacrificio e così entrare in comunione sacramentale, quasi corporale, con Lui perde la sua profondità e anche la sua ricchezza umana se manca l'Adorazione, come atto conseguente alla comunione ricevuta: l’adorazione è un entrare con la profondità del nostro cuore in comunione con il Signore che si fa presente corporalmente nell'Eucaristia. Nell'Ostensorio si dà sempre nelle nostre mani e ci invita ad unirci alla sua Presenza, al suo Corpo risorto.

Adesso, veniamo alla quarta domanda. Se ho capito bene, ma non ne sono sicuro, era: «come arrivare ad una fede viva, ad una fede realmente cattolica, ad una fede concreta, vivace, efficiente?». La fede, in ultima istanza, è un dono. Quindi la prima condizione è lasciarsi donare qualcosa, non essere autosufficienti, non fare tutto da noi, perché non lo possiamo, ma aprirci nella consapevolezza che il Signore dona realmente. Mi sembra che questo gesto di apertura sia anche il primo gesto della preghiera: essere aperto alla presenza del Signore e al suo dono. È questo anche il primo passo nel ricevere una cosa che noi non facciamo e che non possiamo avere, nell'intento di farla da noi stessi. Questo gesto di apertura, di preghiera — donami la fede, Signore! — deve essere realizzato con tutto il nostro essere. Noi dobbiamo entrare in questa disponibilità di accettare il dono e di lasciarci permeare dal dono nel nostro pensiero, nel nostro affetto, nella nostra volontà. Qui, mi sembra molto importante sottolineare un punto essenziale: nessuno crede solo da se stesso. Noi crediamo sempre in e con la Chiesa. Il credo è sempre un atto condiviso, un lasciarsi inserire in una comunione di cammino, di vita, di parola, di pensiero. Noi non "facciamo" la fede, nel senso che è anzitutto Dio che la dà. Ma, non la "facciamo" anche nel senso che essa non dev’essere inventata da noi. Dobbiamo lasciarci cadere, per così dire, nella comunione della fede, della Chiesa. Credere è un atto cattolico in sé. È partecipazione a questa grande certezza, che è presente nel soggetto vivente della Chiesa. Solo così possiamo anche capire la Sacra Scrittura nella diversità di una lettura che si sviluppa per mille anni. È una Scrittura, perché è elemento, espressione dell'unico soggetto — il Popolo di Dio — che nel suo pellegrinaggio è sempre lo stesso soggetto. Naturalmente, è un soggetto che non parla da sé, ma è un soggetto creato da Dio — l'espressione classica è «ispirato» —, un soggetto che riceve, poi traduce e comunica questa parola. Questa sinergia è molto importante. Sappiamo che il Corano, secondo la fede islamica, è parola verbalmente data da Dio, senza mediazione umana. Il Profeta non c'entra. Egli solo l'ha scritta e comunicata. È pura parola di Dio. Mentre per noi, Dio entra in comunione con noi, ci fa cooperare, crea questo soggetto e in questo soggetto cresce e si sviluppa la sua parola. Questa parte umana è essenziale, e ci dà anche la possibilità di vedere come le singole parole diventano realmente Parola di Dio solo nell'unità di tutta la Scrittura nel soggetto vivente del popolo di Dio. Quindi, il primo elemento è il dono di Dio; il secondo è la compartecipazione nella fede del popolo pellegrinante, la comunicazione nella Santa Chiesa, la quale, da parte sua, riceve il Verbo di Dio, che è il Corpo di Cristo, animato dalla Parola vivente, dal Logos divino. Dobbiamo approfondire, giorno dopo giorno, questa nostra comunione con la Santa Chiesa e così con la Parola di Dio. Non sono due cose opposte, così che io possa dire: sono più per la Chiesa o sono più per la Parola di Dio. Solo unitamente si è nella Chiesa, si fa parte della Chiesa, si diventa membri della Chiesa, si vive della Parola di Dio, che è la forza di vita della Chiesa. E chi vive della Parola di Dio può viverla solo perché è viva e vitale nella Chiesa vivente.

Il quinto intervento era su Pio XII. Grazie per questo intervento. Era il Papa della mia gioventù. Lo abbiamo venerato tutti. Come è stato detto giustamente, egli ha molto amato il popolo tedesco, lo ha difeso anche nella grande catastrofe dopo la guerra. E devo aggiungere che prima di essere Nunzio a Berlino era Nunzio a Monaco, perché inizialmente a Berlino non aveva ancora la Rappresentanza Pontificia. Era proprio anche vicino a noi. Mi sembra, questa, l'occasione per esprimere gratitudine a tutti i grandi Papi del secolo scorso. Si è aperto il secolo con il santo Pio X, poi Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II. Mi sembra che questo sia un dono speciale in un secolo così difficile, con due guerre mondiali, con due ideologie distruttive: fascismo-nazismo e comunismo. Proprio in questo secolo, che si è opposto alla fede della Chiesa, il Signore ci ha dato una catena di grandi Papi, e così un'eredità spirituale che ha confermato, direi, storicamente, la verità del Primato del Successore di Pietro.

Il successivo intervento dedicato alla famiglia, era del parroco di santa Silvia. Qui posso soltanto essere totalmente d'accordo. Anche nelle visite «ad limina» parlo sempre con i Vescovi della famiglia, minacciata, in diversi modi, nel mondo. È minacciata in Africa, perché si trova difficilmente il passaggio dal «mariage coutumier» al «mariage religieux», perché si teme la definitività.

Mentre in Occidente la paura del bambino è motivata dal timore di perdere qualcosa della vita, lì è il contrario: finché non consta che la moglie avrà anche bambini, non si può osare il matrimonio definitivo. Perciò il numero dei matrimoni religiosi rimane relativamente piccolo e molti anche "buoni" cristiani, anche con un'ottima volontà di essere cristiani, non compiono quest'ultimo passo. Il matrimonio è minacciato anche in America Latina, per altri motivi, ed è minacciato fortemente, come sappiamo, in Occidente. Tanto più dobbiamo, noi come Chiesa, aiutare le famiglie che sono la cellula fondamentale di ogni società sana. Solo così nella famiglia può crearsi una comunione delle generazioni, nella quale la memoria del passato vive nel presente e si apre al futuro. Così, realmente, continua e si sviluppa la vita e va avanti. Un vero progresso non è possibile senza questa continuità di vita e, di nuovo, non è possibile senza l'elemento religioso. Senza la fiducia in Dio, senza la fiducia in Cristo che ci dona anche la capacità della fede e della vita, la famiglia non può sopravvivere. Lo vediamo oggi. Solo la fede in Cristo e solo la compartecipazione della fede della Chiesa salva la famiglia e, d'altra parte, solo se viene salvata la famiglia anche la Chiesa può vivere. Io adesso non ho la ricetta di come fare questo. Ma, mi sembra, che dobbiamo sempre tenerlo presente. Perciò dobbiamo fare tutto ciò che favorisce la famiglia: circoli familiari, catechesi familiari, insegnare la preghiera in famiglia. Questo mi sembra molto importante: dove si prega insieme, si rende presente il Signore, si rende presente questa forza che può anche rompere la «sclerocardia», quella durezza del cuore che, secondo il Signore, è il vero motivo del divorzio. Nient'altro, solo la presenza del Signore ci aiuta a vivere realmente quanto era dall'inizio voluto dal Creatore e rinnovato dal Redentore. Insegnare la preghiera familiare e così invitare alla preghiera con la Chiesa. E trovare poi tutti gli altri modi.

Rispondo ora al vice Parroco di san Girolamo — vedo che è anche molto giovane — che ci parla di quanto fanno le donne nella Chiesa, anche proprio per i sacerdoti. Posso solo sottolineare che mi fa sempre grande impressione, nel primo Canone , quello Romano, la speciale preghiera per i sacerdoti: «Nobis quoque peccatoribus». Ecco, in questa umiltà realistica dei sacerdoti noi, proprio come peccatori, preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere suoi servi. In questa preghiera per il sacerdote, proprio solo in questa, appaiono sette donne che circondano il sacerdote. Esse si mostrano proprio come le donne credenti che ci aiutano nel nostro cammino. Ognuno ha certamente questa esperienza. E così la Chiesa ha un grande debito di ringraziamento per le donne. E giustamente Lei ha sottolineato che, a livello carismatico, le donne fanno tanto, oserei dire, per il governo della Chiesa, cominciando dalle suore, dalle sorelle dei grandi Padri della Chiesa, come sant'Ambrogio, fino alle grandi donne del medioevo — santa Ildegarda, santa Caterina da Siena, poi santa Teresa d'Avila — e fino a Madre Teresa. Direi che questo settore carismatico certamente si distingue dal settore ministeriale nel senso stretto della parola, ma è una vera e profonda partecipazione al governo della Chiesa. Come si potrebbe immaginare il governo della Chiesa senza questo contributo, che talvolta diventa molto visibile, come quando santa Ildegarda critica i Vescovi, o come quando santa Brigida e santa Caterina da Siena ammoniscono e ottengono il ritorno dei Papi a Roma? Sempre è un fattore determinante, senza il quale la Chiesa non può vivere. Tuttavia, giustamente Lei dice: vogliamo vedere anche più visibilmente in modo ministeriale le donne nel governo della Chiesa. Diciamo che la questione è questa. Il ministero sacerdotale dal Signore è, come sappiamo, riservato agli uomini, in quanto il ministero sacerdotale è governo nel senso profondo che, in definitiva, è il Sacramento che governa la Chiesa. Questo è il punto decisivo. Non è l'uomo che fa qualcosa, ma il sacerdote fedele alla sua missione governa, nel senso che è il Sacramento, cioè mediante il Sacramento è Cristo stesso che governa, sia tramite l'Eucaristia che negli altri Sacramenti, e così sempre Cristo presiede. Tuttavia, è giusto chiedersi se anche nel servizio ministeriale — nonostante il fatto che qui Sacramento e carisma siano il binario unico nel quale si realizza la Chiesa — non si possa offrire più spazio, più posizioni di responsabilità alle donne.

Non ho del tutto capito le parole dell'ottavo intervento. Sostanzialmente ho capito che oggi l'umanità camminando da Gerusalemme a Gerico incontra sul cammino i ladri. Il Buon Samaritano l'aiuta con la misericordia del Signore. Possiamo solo sottolineare che, alla fine, è l'uomo che è caduto e cade sempre di nuovo tra i ladri, ed è Cristo che ci guarisce. Noi dobbiamo e possiamo aiutarlo, sia nel servizio dell'amore sia nel servizio della fede che è anche un ministero di amore.

Poi i Martiri dell'Uganda. Grazie per questo contributo. Ci fa pensare al Continente africano, che è la grande speranza della Chiesa. Ho ricevuto negli ultimi mesi gran parte dei Vescovi africani in visita «ad limina». E per me è stato molto edificante, ed anche consolante, vedere Vescovi di alto livello teologico e culturale, Vescovi zelanti, che realmente sono animati dalla gioia della fede. Sappiamo che è in buone mani questa Chiesa, ma che tuttavia soffre perché le Nazioni ancora non si sono formate. In Europa era proprio tramite il Cristianesimo che, oltre le etnie che esistevano, si sono formati i grandi corpi delle Nazioni, le grandi lingue, e così comunioni di culture e spazi di pace, benché poi questi grandi spazi di pace opposti tra di loro abbiano creato anche una nuova specie di guerra che prima non esisteva. Tuttavia, in Africa, abbiamo ancora in molte parti questa situazione, dove ci sono soprattutto le etnie dominanti. Il potere coloniale poi ha imposto frontiere nelle quali adesso devono formarsi Nazioni. Ma ancora c'è questa difficoltà di ritrovarsi in un grande insieme e di trovare, oltre le etnie, l'unità del governo democratico e anche la possibilità di opporsi agli abusi coloniali che continuano. Ancora, sempre da parte delle grandi potenze, l'Africa continua ad essere oggetto di abuso e molti conflitti non avrebbero assunto questa forma se non ci fossero dietro gli interessi delle grandi potenze. Così ho visto anche come la Chiesa, in tutta questa confusione, con la sua unità cattolica, è il grande fattore che unisce nella dispersione. In molte situazioni, adesso soprattutto dopo la grande guerra nella Repubblica Democratica del Congo, la Chiesa è rimasta l'unica realtà che funziona e che fa continuare la vita, dà l'assistenza necessaria, garantisce la convivenza e aiuta a trovare la possibilità di realizzare un grande insieme. In tal senso, in queste situazioni, la Chiesa svolge anche un servizio sostitutivo del livello politico, dando la possibilità di vivere insieme, e di ricostruire, dopo le distruzioni, la comunione, così come di ricostruire, dopo lo scoppio dell'odio, lo spirito di riconciliazione. Molti mi hanno detto che proprio in queste situazioni il Sacramento della Penitenza è di grande importanza come forza di riconciliazione e deve essere anche amministrato in questo senso. Volevo, con una parola, dire che l'Africa è un Continente di grande speranza, di grande fede, di realtà ecclesiali commoventi, di sacerdoti e di Vescovi zelanti. Ma è sempre anche un Continente che ha bisogno — dopo le distruzioni che vi abbiamo portato dall'Europa — del nostro fraterno aiuto. Ed esso non può non nascere dalla fede, che crea anche la carità universale oltre le divisioni umane. Questa è la nostra grande responsabilità in questo tempo. L'Europa ha importato le sue ideologie, i suoi interessi, ma ha anche importato con la missione il fattore della guarigione. Ancor più, oggi, abbiamo la responsabilità di avere anche noi una fede zelante, che si comunica, che vuole aiutare gli altri, che è ben consapevole che dare la fede non è introdurre una forza di alienazione ma è dare il vero dono del quale ha bisogno l'uomo proprio per essere anche creatura dell'amore.

Ultimo punto era quello toccato dal vice Parroco carmelitano di santa Teresa d'Avila, che ci ha rivelato giustamente le sue preoccupazioni. Sarebbe certamente sbagliato un semplice e superficiale ottimismo, che non si accorge delle grandi minacce nei confronti della gioventù di oggi, i bambini, le famiglie. Dobbiamo percepire con grande realismo queste minacce, che nascono dove Dio è assente. Dobbiamo sentire sempre più la nostra responsabilità, affinché Dio sia presente, e così la speranza e la capacità di andare con fiducia verso il futuro.

* * *

Riprendo ora la parola, cominciando con la Pontificia Accademia. Quanto Lei ha detto sul problema degli adolescenti, sulla loro solitudine e sull'incomprensione da parte degli adulti, lo tocchiamo con mano, oggi. È interessante che questa gioventù, che cerca nelle discoteche di essere vicinissima, soffra in realtà di una grande solitudine, e naturalmente anche di incomprensione. Mi sembra questo, in un certo senso, espressione del fatto che i padri, come è stato detto, in gran parte sono assenti dalla formazione della famiglia. Ma anche le madri devono lavorare fuori casa. La comunione tra loro è molto fragile. Ognuno vive il suo mondo: sono isole del pensiero, del sentimento, che non si uniscono. Il grande problema proprio di questo tempo — nel quale ognuno, volendo avere la vita per sé, la perde perché si isola e isola l'altro da sé — è di ritrovare la profonda comunione che alla fine può venire soltanto da un fondo comune a tutte le anime, dalla presenza divina che ci unisce tutti. Mi sembra che la condizione sia di superare la solitudine e anche di superare l'incomprensione, perché anche quest'ultima è il risultato del fatto che il pensiero oggi è frammentato. Ognuno cerca il suo modo di pensare, di vivere, e non c'è una comunicazione in una profonda visione della vita. La gioventù si sente esposta a nuovi orizzonti non partecipati dalla generazione precedente perché manca la continuità della visione del mondo, preso in una sequela sempre più rapida di nuove invenzioni. In dieci anni si sono realizzati cambiamenti che in passato neppure in cento anni si erano verificati. Così si separano realmente mondi. Penso alla mia gioventù e all'ingenuità, se così posso dire, nella quale abbiamo vissuto, in una società del tutto agraria in confronto con la società di oggi. Vediamo come il mondo cambia sempre più rapidamente, cosicché si frammenta anche con questi cambiamenti. Perciò, in un momento di rinnovamento e di cambiamento, l'elemento del permanente diventa più importante. Mi ricordo quando è stata discussa la Costituzione conciliare Gaudium et spes. Da una parte, c'era il riconoscimento del nuovo, della novità, il «Sì» della Chiesa all'epoca nuova con le sue innovazioni, il «No» al romanticismo del passato, un «No» giusto e necessario. Ma poi i Padri — se ne trova la prova anche nel testo — hanno detto anche che nonostante questo, nonostante la necessaria disponibilità ad andare avanti, a lasciar cadere anche altre cose che ci erano care, c'è qualcosa che non cambia, perché è l'umano stesso, la creaturalità. L'uomo non è del tutto storico. L'assolutizzazione dello storicismo, nel senso che l'uomo sarebbe solo e sempre creatura frutto di un certo periodo, non è vera. C'è la creaturalità e proprio essa ci dà la possibilità anche di vivere nel cambiamento e di rimanere identici a noi stessi. Questa non è una risposta immediata a quello che dobbiamo fare, ma, mi sembra, che il primo passo, sia quello di avere la diagnosi. Perché questa solitudine in una società che d'altra parte appare come una società di massa? Perché questa incomprensione in una società nella quale tutti cercano di capirsi, dove la comunicazione è tutto e dove la trasparenza di tutto a tutti è la suprema legge? La risposta sta nel fatto che vediamo il cambiamento nel nostro proprio mondo e non viviamo sufficientemente quell'elemento che ci collega tutti, l'elemento creaturale, che diventa accessibile e diventa realtà in una certa storia: la storia di Cristo, che non sta contro la creaturalità ma restituisce quanto era voluto dal Creatore, come dice il Signore circa il matrimonio. Il cristianesimo, proprio sottolineando la storia e la religione come un dato storico, dato in una storia, a cominciare da Abramo, e quindi come una fede storica, avendo aperto proprio la porta alla modernità con il suo senso del progresso, dell'andare permanentemente avanti, è anche, nello stesso momento, una fede che si basa sul Creatore, che si rivela e si rende presente in una storia alla quale dà la sua continuità, quindi la comunicabilità tra le anime. Penso quindi, anche qui, che una fede vissuta in profondità e con tutta l'apertura verso l'oggi, ma anche con tutta l'apertura verso Dio, unisce le due cose: il rispetto della alterità e della novità, e la continuità del nostro essere, la comunicabilità tra le persone e tra i tempi.

L'altro punto era: come possiamo noi vivere la vita come dono? È una questione che poniamo soprattutto adesso, in Quaresima. Vogliamo rinnovare l'opzione per la vita che è, come ho detto, opzione non per possedere se stessi ma per donare se stessi. Mi sembra che possiamo farlo solo grazie ad un permanente colloquio col Signore e al colloquio tra di noi. Anche con la «correctio fraterna» è necessario maturare sempre più di fronte ad una sempre insufficiente capacità di vivere il dono di se stessi. Ma, mi sembra, che dobbiamo anche qui unire le due cose. Da una parte, dobbiamo accettare la nostra insufficienza con umiltà, accettare questo «Io» che non è mai perfetto ma si protende sempre verso il Signore per arrivare alla comunione col Signore e con tutti.

Questa umiltà di accettare anche i propri limiti è molto importante. Solo così, d'altra parte, possiamo anche crescere, maturare e pregare il Signore perché ci aiuti a non stancarci nel cammino, pur accettando con umiltà che mai saremo perfetti, accettando anche l'imperfezione, soprattutto dell'altro. Accettando la propria possiamo accettare più facilmente quella dell'altro, lasciandoci formare e riformare sempre di nuovo, dal Signore.

Ora gli ospedali. Grazie per il saluto che viene dagli ospedali. Non conoscevo la mentalità secondo la quale un sacerdote si trova a svolgere il suo ministero in ospedale perché ha compiuto qualcosa di male... Ho sempre pensato che è servizio primario del sacerdote quello di servire i malati, i sofferenti, perché il Signore è venuto soprattutto per stare con i malati. È venuto per condividere le nostre sofferenze e per guarirci. In occasione delle visite «ad limina» ai Vescovi africani dico sempre che le due colonne del nostro lavoro sono l'educazione — cioè la formazione dell'uomo, che implica tante dimensioni come l'educazione per imparare, la professionalità, l'educazione nell'intimità della persona — e la guarigione. Il servizio fondamentale, essenziale della Chiesa è dunque quello di guarire. E proprio nei Paesi africani si realizza tutto questo: la Chiesa offre la guarigione. Presenta le persone che aiutano i malati, aiutano a guarire nel corpo e nell'anima. Mi sembra, quindi, che dobbiamo vedere proprio nel Signore il nostro modello di sacerdote per guarire, per aiutare, per assistere, per accompagnare verso la guarigione. Ciò è fondamentale per l'impegno della Chiesa; è forma fondamentale dell'amore e quindi, è espressione fondamentale della fede. Di conseguenza anche nel sacerdozio è il punto centrale.

Poi, rispondo al Vice parroco dei santi Patroni d'Italia che ci ha parlato del dialogo con gli Ortodossi e del dialogo ecumenico in generale. Nella situazione mondiale di oggi, vediamo come il dialogo a tutti i livelli sia fondamentale. Ancor di più è importante che i cristiani non siano chiusi tra di loro ma aperti, e proprio nei rapporti con gli Ortodossi vedo come le relazioni personali siano fondamentali. In dottrina siamo in gran parte uniti su tutte le cose fondamentali, tuttavia in dottrina sembra molto difficile fare dei progressi. Ma avvicinarci nella comunione, nelle comune esperienza della vita della fede, è il modo per riconoscerci reciprocamente come figli di Dio e discepoli di Cristo. E questa è la mia esperienza da almeno quaranta, cinquant' anni quasi: questa esperienza del comune discepolato, che finalmente viviamo nella stessa fede, nella stessa successione apostolica, con gli stessi sacramenti e quindi anche con la grande tradizione di pregare; è bella questa diversità e molteplicità delle culture religiose, della culture di fede. Avere questa esperienza è fondamentale e mi sembra, forse, che la convinzione di alcuni, di una parte dei monaci dell'Athos contro l'ecumenismo, risulti anche dal fatto che manchi questa esperienza nella quale si vede e si tocca che anche l'altro appartiene allo stesso Cristo, appartiene alla stessa comunione con Cristo nell'Eucaristia. Quindi questo è di grande importanza: dobbiamo sopportare la separazione che esiste. San Paolo dice che gli scismi sono necessari per un certo tempo e il Signore sa perché: per provarci, per esercitarci, per farci maturare, per farci più umili. Ma nello stesso tempo siamo obbligati ad andare verso l'unità e già andare verso l'unità è una forma di unità.

Veniamo ora al Padre spirituale del Seminario. Il primo problema era la difficoltà della carità pastorale. La viviamo da una parte, ma dall'altra parte vorrei anche dire: coraggio. La Chiesa fa tanto grazie a Dio, in Africa ma anche a Roma e in Europa! Fa tanto e tanti le sono grati, sia nel settore della pastorale degli ammalati, sia nella pastorale dei poveri e degli abbandonati. Continuiamo con coraggio e cerchiamo di trovare insieme le strade migliori.

L'altro punto era incentrato sul fatto che la formazione sacerdotale tra generazioni, anche vicine, sembra essere per molti un po' diversa, e questo complica il comune impegno per la trasmissione della fede. Ho notato questo quando ero Arcivescovo di Monaco. Quando noi siamo entrati in seminario, abbiamo avuto tutti una comune spiritualità cattolica, più o meno matura. Diciamo che il fondamento spirituale era comune. Adesso vengono da esperienze spirituali molto diverse. Ho constatato nel mio seminario che vivevano in diverse «isole» di spiritualità che comunicavano difficilmente. Tanto più ringraziamo il Signore perché ha dato tanti nuovi impulsi alla Chiesa e tante nuove forme anche di vita spirituale, di scoperta della ricchezza della fede. Bisogna soprattutto non trascurare la comune spiritualità cattolica, che si esprime nella Liturgia e nella grande Tradizione della fede. Questo mi sembra molto importante. Questo punto è importante anche riguardo al Concilio. Non bisogna vivere — come ho detto prima di Natale alla Curia Romana — l'ermeneutica della discontinuità, ma vivere l'ermeneutica del rinnovamento, che è spiritualità della continuità, dell'andare avanti in continuità. Questo mi sembra molto importante anche riguardo alla Liturgia. Prendo un esempio concreto che mi è venuto proprio oggi con la breve meditazione di questo giorno. La «Statio» di questo giorno, giovedì dopo il Mercoledì delle Ceneri, è san Giorgio. Corrispondenti a questo santo soldato, una volta vi erano due letture su due santi soldati. La prima parla del re Ezechia, che, malato, è condannato a morte e prega il Signore piangendo: dammi ancora un po' di vita! E il Signore è buono e gli concede ancora 17 anni di vita. Quindi una bella guarigione e un soldato che può riprendere di nuovo in mano la sua attività. La seconda è il Vangelo che narra dell'ufficiale di Cafarnao con il suo servo malato. Abbiamo così due motivi: quello della guarigione e quello della «milizia» di Cristo, della grande lotta. Adesso, nella Liturgia attuale, abbiamo due letture totalmente diverse. Abbiamo quella del Deuteronomio: «Scegli la vita», e il Vangelo: «Seguire Cristo e prendere la croce su di sé», che vuol dire non cercare la propria vita ma donare la vita, ed è una interpretazione di cosa vuol dire «scegli la vita». Devo dire che io ho sempre molto amato la Liturgia. Ero proprio innamorato del cammino quaresimale della Chiesa, con queste «chiese stazionali» e le letture collegate a queste chiese: una geografia di fede che diventa una geografia spirituale del pellegrinaggio col Signore. Ed ero rimasto un po' male per il fatto che ci avessero tolto questo nesso tra la «stazione» e le letture. Oggi vedo che proprio queste letture sono molto belle ed esprimono il programma della Quaresima: scegliere la vita, cioè rinnovare il «Sì» del Battesimo, che è proprio scelta della vita. In questo senso, c'è un'intima continuità e mi sembra che dobbiamo impararlo da questo che è solo un piccolissimo esempio tra discontinuità e continuità. Dobbiamo accettare le novità ma anche amare la continuità e vedere il Concilio in questa ottica della continuità. Questo ci aiuterà anche nel mediare tra le generazioni nel loro modo di comunicare la fede.

Infine, il sacerdote del Vicariato di Roma, ha concluso con una parola della quale mi approprio perfettamente così che con essa possiamo anche concludere: divenire più semplici. Mi sembra questo un programma bellissimo. Cerchiamo di metterlo in pratica e così saremo più aperti al Signore e alla gente.

Grazie!

[00336-01.01] [Testo originale: Italiano]

INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL CARD. CAMILLO RUINI

Padre Santo,

i sacerdoti e i diaconi della Chiesa di Roma Le sono profondamente grati per il dono di questa Udienza che ha luogo, secondo una felice consuetudine seguita costantemente dal Suo venerato Predecessore, all’inizio della Quaresima, nel giovedì dopo le Ceneri.

Vostra Santità aveva già incontrato il Clero romano lo scorso 13 maggio, poco dopo la Sua elezione alla Sede di Pietro, nella Basilica Cattedrale di San Giovanni in Laterano, e tutti noi conserviamo vivissima memoria di quell’incontro, nel quale Vostra Santità diede il lieto annuncio dell’apertura del Processo di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II, e del discorso di Vostra Santità, che ci ha ricondotto all’autentica natura del nostro sacerdozio e della nostra comune missione, cioè al nostro rapporto con Cristo e con la Chiesa, alla necessità di stare presso il Signore per potersi spendere per i fratelli nel suo nome, e anche al legame sacramentale e personale che unisce ciascuno di noi, sacerdoti e diaconi romani, a Vostra Santità, Vescovo di Roma.

Padre Santo, nel nostro servizio quotidiano cerchiamo di mettere in pratica le Sue parole, dedichiamo speciale attenzione alla pastorale della famiglia, alla formazione delle persone e alla trasmissione della fede, secondo gli indirizzi della pastorale diocesana, ma, naturalmente, siamo anche impegnati a far fronte alle diverse e molteplici esigenze e imprevisti quotidiani della cura delle anime, secondo la varietà dei compiti affidati a ciascuno. Proprio per questo avvertiamo forte il bisogno di silenzio interiore, di ascolto e di preghiera: questo incontro con Vostra Santità, all’inizio della Quaresima, è per noi un aiuto prezioso anche a questo scopo.

Padre Santo, desideriamo essere infatti quei sacerdoti "preparati e coraggiosi che, senza ambizioni e timori, ma convinti della verità evangelica", si preoccupano anzitutto di annunciare Cristo e, in suo nome, sono pronti a chinarsi sulle sofferenze umane, dei quali Vostra Santità ha parlato il 20 gennaio, ricevendo in Udienza i seminaristi del Collegio Capranica.

Padre Santo, meno di un mese fa, la domenica 5 febbraio, siamo stati tutti intimamente colpiti dalla morte violenta che ha raggiunto un nostro fratello, Don Andrea Santoro, mentre era raccolto in preghiera nella chiesa di Trabzon, in Turchia, dove era andato come "fidei donum" della Chiesa di Roma. Vostra Santità, con animo di Padre, si è fatto interprete del nostro comune dolore, ma anche della nostra preghiera e della nostra fiducia che il sacrificio di Don Andrea sia per tutti sorgente di grazia. Anche per questo, Padre Santo, di cuore La ringraziamo.

Nell’incontro del 13 maggio in San Giovanni in Laterano Vostra Santità ascoltò molte domande di preti romani e alla fine rispose a ciascuno, con parole che sono state per noi tutti un autentico dono. Le chiediamo di ascoltare anche oggi i Suoi preti, che Le vogliono un grande bene, che ripongono in Lei una profonda fiducia e che faranno di nuovo tesoro delle Sue parole.

Padre Santo, grazie ancora.

[00338-01.01] [Testo originale: Italiano]

SINTESI DEGLI INTERVENTI DEI SACERDOTI

Per primo ha parlato Padre Lucio Maria Zappatore, carmelitano, parroco di Santa Maria «Regina Mundi», a Torre Spaccata (Settore Est, XVI Prefettura). «Beatissimo Padre — ha detto — è la prima volta che ci incontriamo con Lei per quest'appuntamento quaresimale. Vorrei ricordare l'amato servo di Dio Giovanni Paolo II. L'ultima volta che lo abbiamo incontrato nella Quaresima 2004 egli ci ha salutati con le tre frasi ormai diventate famose damose da fa', volemose bene e semo romani, che hanno fatto il giro del mondo». «Per noi, parroci di Roma — ha aggiunto —, restano custodite gelosamente nei nostri cuori, come suo testamento spirituale. Ma ora dobbiamo guardare avanti. Oggi è il nuovo Papa che incontriamo. Io ho voluto individuare un segno di continuità tra Lei e il suo amato predecessore nella frase da Lei pronunciata durante il funerale di Wojtyla. Una frase che ha interrotto per un momento la tristezza dei nostri cuori ed ha fatto esplodere Piazza San Pietro in uno scrosciante ed interminabile applauso, quando Lei ha detto: "Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice". In quel momento — ha precisato — tutti abbiamo percepito che ci trovavamo davanti al nuovo Papa». Su questa frase il religioso carmelitano ha scritto un sonetto in dialetto romanesco dedicato a Benedetto XVI, intitolato «Na finestra su ner cielo».

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P. Flavio Allegro, dei giuseppini, parroco di san Leonardo Murialdo (Settore Sud, XXIII Prefettura) ha preso spunto dal suo incontro — avvenuto nel pomeriggio di una decina di anni fa dinanzi al presepe di Piazza San Pietro — con l'allora Cardinale Joseph Ratzinger. «Le venni incontro per salutarLa — ha detto — e la gente numerosa che stava alle nostre spalle, riconoscendoLa, ha incominciato a battere le mani. Lei, con molta affabilità, indicando un'anziana ed esile signora che era giunta con Lei, disse: non battete le mani a me, battete le mani a questa donna. È una mamma». P. Allegro ha voluto ricordare l'episodio, per chiedere, come parroco, una parola di conforto e di gioia:«Ricordando le nostre mamme — ha spiegato —, la loro fede, l'incidenza e la forza spirituale che hanno avuto nella nostra formazione umana e cristiana, ci aiuti Santità a parlare alle mamme di tutti i bambini, dei ragazzi che frequentano il catechismo, spesso distratti e facilmente assenti. Ci dica una parola Santità, che possiamo portare a casa alle mamme e dire loro: è questo che vi dice il Papa».

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Don Alberto Pacini è il Rettore di sant'Anastasia al Palatino, che dal 1959 al 1999 era affidata ai benedettini olivetani e che durante il Giubileo del 2000 è stata riaperta dopo 32 anni di chiusura per lavori di restauro. Da cinque anni la chiesa è luogo dell'adorazione eucaristica perpetua, giorno e notte; aperta 24 ore al giorno, con il Santissimo Sacramento, esposto alla venerazione dei fedeli che vengono a turno. Ha generato altre 14 iniziative simili, di cui una a Roma e le altre in varie parti d'Italia; ed è anche sede di un attivo movimento di evangelizzazione eucaristica. «La mia proposta, il mio suggerimento, il mio desiderio, la mia aspirazione — ha detto il Rettore — sarebbe che in ciascuno dei cinque settori di Roma ci possa essere un'adorazione eucaristica perpetua, considerando che ce ne sono già sei tenute da istituti religiosi prevalentemente nel Settore Ovest. Nello stesso c'è anche la parrocchia della Madre della Divina Provvidenza. Visto che Roma dovrebbe presiedere nella "Carità eucaristica" — ha aggiunto — sarebbero auspicabili tanti luoghi dove dall'incontro con l'Eucaristia si possa rigenerare la Chiesa: vocazioni, evangelizzazione, confessioni, perché dove c'è Gesù esposto, dove c'è la preghiera incessante il Signore attira a sé i suoi figli».

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Nel suo breve intervento, Don Andrea Lonardo, parroco di Santa Melania Juniore (Settore Sud, XXVII Prefettura), ha definito Benedetto XVI «Maestro» nell'orientare il pensiero in una fede «pienamente umana». «Siamo sempre toccati dai suoi interventi — ha detto — dall'armonia in cui ogni punto ritrova il suo centro, i suoi rapporti, i suoi nessi. E questo tanto più in un tempo in cui tutto è frammentato e spezzettato. E questa sua capacità ci aiuta perché è una sintesi viva, non astratta, che si incontra con l'uomo nel passato e nell'oggi; con i non credenti e con i tanti altri modi di pensare. Ci può aiutare — ha chiesto al Santo Padre —, dicendoci qualcosa di come lei ha maturato, ha capito sin da seminarista, da sacerdote, in tanti incontri, l'importanza di tutto questo. Come noi possiamo capire di più? come possiamo crescere nella nostra realtà di presbiteri romani? come possiamo aiutare i laici a comprendere questa sintesi armonica, questa cattolicità della fede, che proprio per questo poi va a incontrare, a toccare, a illuminare quella che è vita del nostro tempo?».

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Don Gennaro Perucatti, salesiano, vice-parroco di san Giovanni Bosco (Settore Est, XX Prefettura) ha parlato di Papa Pio XII: «Il 2 marzo 1876 nasceva a Roma Eugenio Pacelli e il 2 marzo 1939 veniva eletto Pontefice. Su questo grande Papa forse è calata una lieve tenda di silenzio. Eugenio Pacelli è stato consacrato Vescovo da Benedetto XV nella Cappella Sistina il 13 maggio 1917, mentre Maria appariva a Fatima e mentre Maria di Cleova, in Russia, veniva assalita dai cavalli Bolscevici, che assassinarono bambini del catechismo. Pio XII amava la Madonna: è stato il Papa del dogma dell'Assunzione; il Papa dell'Anno Mariano. Egli amava i Papi ed è stato l'ultimo a canonizzare un Pontefice, san Pio X. Egli amava i giovani e canonizzò Maria Goretti e Domenico Savio». Quindi rivolgendosi a Benedetto XVI il sacerdote salesiano ha detto: Dobbiamo veramente molto a questo Pontefice; eppure mi pare che scendendo nelle Grotte Vaticane non si riesca più a trovare la sua tomba; perché il percorso lo impedisce. Non c'è un fiore. Santità, ci ridoni questo grande Pontefice Pastor Angelicus, che amava la Germania. Del resto anche i tedeschi amavano Pio XII, Nunzio Apostolico a Berlino». «Santità — ha concluso — veramente ci auguriamo tutti, che insieme ai servi di Dio Giovanni Paolo II, Paolo VI e Giovanni Paolo I e al beato Giovanni XXIII, di vedere sull'altare anche Eugenio Pacelli, Pio XII».

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Don Paolo Ricciardi, parroco di santa Silvia (Settore Ovest, XXIX Prefettura), è partito dal presupposto che la Diocesi di Roma in questi anni si sta interrogando su come corrispondere maggiormente alle richieste e alle esigenze delle famiglie di oggi. «Occorre — ha detto — ridare vitalità alla famiglia, rendere le famiglie non l'oggetto, ma il soggetto di pastorale, facendo delle nostre comunità un ambiente famigliare, dove nessuno si senta escluso. La famiglia è minacciata dal relativismo e dall'indifferenza dei nostri tempi; i bambini del catechismo manifestano non troppo velatamente un forte desiderio di famiglia. Spesso i papà sono assenti; i nonni sono sempre impegnati; ci sono famiglie che non sono più tali e anche nell'educazione i genitori sembrano rassegnati, soprattutto quando i figli arrivano allo stadio adolescenziale. Non è facile oggi sostenere ed aiutare le famiglie: nei programmi pastorali stiamo cercando oltre alle vie tradizionali anche nuove strade: la catechesi famigliare, gli incontri con i genitori prima e dopo il battesimo, i gruppi famigliari. Credo tuttavia che le famiglie di oggi abbiano sete di rapporti umani, di riscoperta di relazioni; un bisogno di accoglienza e di apertura. Hanno bisogno di sacerdoti esperti in umanità, per riconoscere quel Dio che per amore si è fatto uomo, condividendo le gioie e le fatiche di ogni uomo e che a ciascuno continuamente si dona proprio nella famiglia». Il parroco di santa Silvia individua come campo di azione molto arricchente l'accompagnamento dei fidanzati al matrimonio. «Vengono da situazioni diversificate, molti non mettono piede in parrocchia dalla Cresima o addirittura dalla Prima Comunione. Arrivano un po' prevenuti, ma poi sentendosi accolti, amati e mai giudicati, scoprono nella comunità una sorgente che riaccende in molti la fede. I corsi prematrimoniali diventano allora percorsi alla riscoperta di Dio e della Chiesa; percorsi dove è la Parola di Dio a dover essere annunciata e condivisa. Ai fidanzati occorre un annuncio credibile ed entusiasta dell'amore di Dio, che saranno chiamati a manifestare grazie al Sacramento nuziale; hanno bisogno come tutte le famiglie che incontriamo di qualcuno che non solo parli loro di Dio, ma parli con loro a Dio e ascolti con loro Dio. Tante coppie chiedono poi di continuare il cammino di fede anche dopo il matrimonio e questa sta diventando una via preziosa da reinventare e da percorrere anche se impegnativa». Don Ricciardi reputa necessario accompagnare da subito gli sposi novelli. «Occorre farli sentire importanti; aiutarli a ravvivare la grazia del Sacramento; entrare nelle loro case con amicizia anche per pregare insieme, magari facendoli conoscere con altre famiglie già in cammino da più tempo. Farci vicini alle coppie è una grazia anche per il nostro sacerdozio: entrambe le vocazioni non solo si completano, ma non possono fare a meno l'una dell'altra». Infine un ringraziamento a Benedetto XVI anche a nome delle famiglie per aver dedicato all'amore la sua prima Enciclica, quindi ha concluso citando l'opera teatrale di Giovanni Paolo II «la Bottega dell'Orefice» in cui descriveva il cammino sereno o tortuoso di tre coppie di sposi che avevano in comune l'artefice delle loro fedi nuziali. «Ci aiuti Santità — ha detto don Ricciardi —, ad aiutare le famiglie a fissare lo sguardo su quell'orefice che pesa la fede degli sposi con la bilancia del suo amore».

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Don Marco Valentini, vicario parrocchiale di san Girolamo a Corviale (Settore Ovest, XXXI Prefettura), ha pronunciato un intervento ispirato alla conoscenza avuta di una madre di famiglia e di alcune suore impegnate nel recupero di sacerdoti in crisi. «Tale esperienza mi ha fatto pensare — ha detto —: perché non affiancare anche la donna al governo della Chiesa? Del resto il suo punto di vista nelle decisioni da prendere è diverso da quello maschile. La donna spesso lavora a livello carismatico con la preghiera o a livello pratico, come ha fatto santa Caterina da Siena che ha riportato il Papa a Roma. Perciò, occorrerebbe rilanciarne il ruolo anche a livello istituzionale e vedere il punto di vista della donna che è diverso da quello maschile, per aiutare non solo i sacerdoti in difficoltà, ma tutti i presbiteri quando devono prendere decisioni impegnative».

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Mons. Lorenzo Minuti, direttore della sezione romana del GRIS (Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa sulle sette), al quale la CEI ha affidato la missione del recupero delle vittime delle sette religiose, ha voluto ringraziare Benedetto XVI a nome di queste vittime. «La ringrazio — ha detto — delle sue molteplici denunce circa i danni provocati da tali sette e non indugio su fatti che Lei ben conosce come: i guasti irreversibili alla fede; il naufragio di tante famiglie, lacerate dall'adesione di parte dei loro membri; i danni alla vita per i tantissimi suicidi provocati dal clima di terrore e dallo smarrimento indotto ad arte; le sottrazioni di beni. Il tutto provocato non con elaborate dottrine, ma con piccole sottili astuzie, le quali alterando storia, Bibbia e citazioni autorevoli, restano ben nascoste e insospettabili; latenti ma efficaci, ideate proprio per fare dubitare e per impressionare e così ottenere una mal riposta fiducia. Tante persone semplici — ha aggiunto —, incapaci di scoprire da sole quei trucchi, sono come dei malcapitati sulla celebre strada da Gerusalemme a Gerico: occorre loro l'aiuto di Samaritani sperimentati e ricchi di informazione. Santo Padre — ha domandato —, tale preparazione di validi Samaritani non è di urgente attualità? Stonerebbe nei seminari e in corsi specifici delle nostre università e nella formazione permanente del clero già in cura di anime?». Infine Mons. Minuti ha citato un ex antipapa, Ippolito Romano, il quale scrisse che allora a Roma su temi religiosi si insegnava di tutto ma «in complice ombra»; per questo i membri del GRIS chiedono benedizioni a Pietro per rendere validamente ragione della loro speranza.

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Don Alfio d'Agostino, parroco dei Santi Martiri dell'Uganda, al Laurentino (Settore Sud, XXII Prefettura) ha voluto portare un'esperienza personale. Anzitutto ha ricordato il 3 giugno 1999 quando il Cardinale Ruini lo chiamò all'attuale incarico. «Oggi ringrazio Dio per l'arricchimento venutomi da questa esperienza pastorale. Poi ho pensato che il 3 giugno è festa dei patroni della parrocchia, alla quale collaborano due sacerdoti vicari, un diacono che sarà ordinato presbitero il 7 maggio ed un sacerdote che viene ad aiutare. Cerchiamo — ha concluso — di fare presbiterio e di pregare insieme».

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Padre Damiano La Manna, dei Carmelitani Scalzi, è vice parroco di santa Teresa d'Avila e animatore del Movimento Carmelitano a Roma: questi tre servizi, queste tre obbedienze — ha spiegato — «mi fanno contento della mia vocazione alla vita religiosa, alla Chiesa diocesana ed a un movimento ecclesiale, mi fanno anche guardare alla realtà di Roma con preoccupazione. Penso di seguire il Signore nell'obbedienza alle cose normali di una parrocchia; agli incontri, all'animazione della catechesi con i bambini; alle giovani famiglie e in particolare ho una preoccupazione per gli adolescenti. Ho sentito dire poco tempo fa che i giovani sono definiti "periferia dell'umano". Quando mi confronto con altri frati e altri laici che si occupano di gioventù mi sono trovato a dire che qui a Roma la "periferia dell'umano" si tocca con mano forte e alle volte anche le famiglie sembrano essere alla "periferia dell'umano", anche per quanto riguarda i bambini che sono "periferia delle famiglie". Quando è morto don Andrea Santoro mi son detto che sarebbe bello morire così; ma poi ho pensato che è bello morire anche come un viceparroco che si consuma nel non poter vedere tanti giovani che vengono alla Santa Messa. Questa "periferia" va combattuta anche nel cammino che la Chiesa sta facendo. Lei, Santo Padre, nell'Enciclica ha concluso con un'esortazione a guardare gli esempi della santità cristiana. Giovanni Paolo II ha dedicato alcuni passaggi della Novo millennio ineunte alla necessità di una pastorale che sia una pastorale mistica, dove il cuore dell'uomo dev'essere portato all'"invaghimento dell'amore per il Signore"». Da qui le conclusioni: «Credo che dobbiamo riavvicinare i nostri fedeli, specialmente i più giovani al centro della Chiesa. Roma ha questa contraddizione: tutto sembra vicino, ma appena tre chilometri fuori, sembra estrema periferia. Credo che dobbiamo imparare a mettere in gioco i nostri carismi — sacerdoti, laici, religiosi — al servizio della catechesi. Forse dobbiamo ricominciare a guardare ai santi: a contemplarli, ad amarli e a farci guidare da loro».

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Dopo le risposte di Benedetto XVI ai primi dieci interventi, ha parlato Don Giacomo Martinelli, Delegato pastorale della Pontificia Accademia dell'Immacolata. Ha ricordato come il giovedì — nel quadro della presentazione dell'Enciclica Deus Caritas est a san Giovanni in Laterano — il prof. Andreoli, psichiatra e psicologo, avesse sostenuto che le vittime dell'odierno «deserto d'amore» sono gli adolescenti, perché soffrono terribilmente della mancanza di amore che c'è nel mondo. Chiamando i giovani «dissociati interiormente» e «adolescenti rotti», egli sottolineava la loro duplice sofferenza: sia per la paura di essere soli, sia per l'oppressione di essere incompresi. Queste due parole solitudine e incomprensione — ha ricordato Don Martinelli — «le avevo sentite anche nell'incontro che Benedetto XVI aveva avuto quest'estate con i sacerdoti della Valle d'Aosta. Essi avevano manifestato questa solitudine e questa incomprensione della loro identità e della loro funzione ecclesiale. Ciò — ha proseguito — mi ha fatto venire in mente che forse anche noi sacerdoti abbiamo difficoltà a passare "dall'amore di sé al dono di sé". Perciò come esistono le "coppie rotte" forse esistono anche i "sacerdoti rotti", che soffrono di questa incapacità. Perché è vero che soffriamo, siamo esposti, noi che dovremmo essere i "professionisti" dell'agape. Allora chiediamo a Lei, Santità: come possiamo stare stabilmente nella pienezza d'amore necessaria per poter stare stabilmente nel dono totale di noi stessi»? Riferendosi poi all'omelia di Benedetto XVI dello scorso 8 dicembre — definita «quasi un'Enciclica» —, don Martinelli ha ricordato l'immagine della «goccia di veleno che c'è nel cuore degli uomini e da cui è stata esentata Maria». «Per me — ha commentato — è stata una novità scoprire che nel principio petrino e in quello mariano (che fondano la Chiesa, come accennato parlando di "istituzione" e "carisma") in realtà uno soggiace all'altro; bisogna vivere l'istituzionalità dentro a quell'aspetto, dentro la positività in cui la Vergine plasma ecclesialmente coloro che rivestono l'istituzionalità. E perciò — è stata la conclusione — si può esercitare il carisma ministeriale soltanto all'interno di questa comunione, che si impara dalla Vergine».

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Successivamente ha parlato P. Carmelo Vitrugno, religioso carmelitano, cappellano dell'Ospedale «Sandro Pertini», che nel 2000 è stato affidato alla protezione del profeta Elia, crocevia tra le religioni monoteistiche. Un ospedale laico, dove non ci sono suore, ma c'è un'esperienza di volontariato laico cristiano. Il sacerdote ha rivolto al Santo Padre il saluto dei confratelli che lavorano nel campo ospedaliero, degli ammalati, degli operatori sanitari e degli assistenti spirituali. Successivamente Padre Vitrugno, pur professandosi poco esperto di comunicazioni sociali, ha denunciato i gravi danni provocati dalla «madre-televisione» divenuta «matrigna pericolosissima». «La Chiesa deve svegliarsi dal suo torpore — ha detto — ed impegnare le migliori energie: laici, uomini , donne, sacerdoti e Vescovi che siano disponibili ad essere sale, luce e lievito in questo ambito. Occorre umanizzare ed evangelizzare i mass media; e dai mass media continuare ad evangelizzare». Il secondo tema di intervento è più attinente alla pastorale sanitaria. «Ci dica una parola di incoraggiamento — ha invocato —, la dica ai seminaristi, a coloro che si stanno formando; perché la Chiesa oggi ha da giocarsi la carta da sempre vincente: che Gesù è venuto per guarire radicalmente l'uomo». Infine il cappellano ha invitato il Santo Padre a visitare l'ospedale «Sandro Pertini».

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Don Egidio Motta, parroco dei santi Francesco e Caterina Patroni d'Italia (Settore Ovest, XXX Prefettura) lo scorso mese di settembre ha avuto la gioia di partecipare con l'allora Vescovo ausiliare Apicella e con il Vescovo eletto Mons. Tuzia ed altri sacerdoti romani, ad un incontro ecumenico ospitato dal Patriarcato Ortodosso di Atene su iniziativa del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani. «Ringrazio il Signore di avermi permesso questa preziosa esperienza di dialogo per me molto arricchente — ha detto —, anche per le ricaduta che essa ha sulla pastorale ordinaria della vita parrocchiale. Non soltanto perché nelle nostre parrocchie c'è una presenza ortodossa da parte di immigrati, soprattutto badanti, e di persone appartenenti ad altre confessioni; ma anche per la varietà di convinzioni che incontriamo ogni giorno nelle persone che ci avvicinano. Io credo — ha aggiunto — che il nostro essere presbiteri richieda di essere capaci di fuggire ogni tentazione di arroccamento, di contrapposizione, e di instaurare un dialogo franco e sereno con tutti». Don Motta ha poi espresso gratitudine a Benedetto XVI per l'incontro. «Le chiedo — ha concluso — di aiutarci con iniziative analoghe e con la sua parola; per essere persone capaci di dialogare con tutti».

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Don Paolo Augusto Lojudice, già parroco, è da pochi mesi Direttore Spirituale al Pontificio Seminario Romano Maggiore. Si è soffermato su due fatiche: anzitutto quella «della carità pastorale», tema desunto dall'Enciclica Deus caritas est, soprattutto nella seconda parte. «È illuminante — ha detto —: mi sono ritrovato in tantissimi aspetti, perché ci invita a una carità diretta, non da attendere, ma da ricercare: il povero non devi accoglierlo quando ti capita, ma lo devi andare a cercare, devi fare qualcosa di concreto per lui. Le nostre parrocchie a Roma sono tutte presenze significative; una potenza non indifferente nel tessuto sociale e allora mi chiedo, e Le chiedo: è opportuno, è necessario mettere anche a disposizione i nostri ambienti, i nostri spazi per farli diventare luoghi di accoglienza, alla luce del primato della carità?».

La seconda è la «fatica educativa». Oggi — ha spiegato — «i sacerdoti stentano a trasmettere la fede, particolarmente alle nuove generazioni, a tutti i livelli: dai ragazzi della sacramentaria a quelli più grandi; perfino ai giovani che frequentano i gruppi parrocchiali, quando ci accorgiamo di quanto soffrano nel condurre una doppia vita, in parrocchia in un modo e fuori in un altro, con tante doppiezze. Allora mi chiedo — alla luce del mio attuale impegno nella Diocesi — perché ogni parroco si aspetta sempre un bravo giovane viceparroco quando c'è una sostituzione? Anch'io ho vissuto quest'esperienza. Poi qualche volta le attese rimangono deluse. Perché? Eppure siamo usciti dallo stesso Seminario, a volte con pochi anni di differenza. Sono forse sproporzionate le nostre attese nei confronti dei giovani sacerdoti? o forse c'è qualcosa di inadeguato nella formazione; o, ancora, dimentichiamo che la formazione non si può limitare a quei pochi anni di Seminario, ma deve continuare e il responsabile della formazione del giovane sacerdote è proprio il parroco?». Da qui la richiesta circa cosa può servire al Seminario diocesano per essere veramente formativo, per essere capace cioè di «dare una forma» al presbitero, secondo il cuore di Dio. La conclusione di don Lojudice è un augurio: «Santità — ha detto —, Lei sta facendo lottare tutta la Chiesa per la Verità. E questo porta rischi, malumori, critiche. Per questo chiedo a Dio che ci faccia essere tutti uniti in questa lotta per la Verità, senza sprecare energie, senza perderci in chiacchiere in un momento storico particolare in cui essere uniti è veramente indispensabile.

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Infine Don Marco Gnavi, Segretario della Commissione diocesana per l'ecumenismo e il dialogo, ha parlato «del grande deficit di speranza» che c'è oggi nel mondo: «Santità — ha detto — Lei ha evocato diversi scenari di cultura di morte, continenti che attendono di risorgere. Pensando a Don Andrea Santoro e a tanti altri cristiani, vorrei dire che credere nella Chiesa e con la Chiesa cattolica significa rispondere a questo "deficit di speranza" ritrovando l'unico necessario che Lei ci ha indicato nella Deus Caritas est». Il sacerdote ha raccontato di un suo recente incontro con alcuni giovani pakistani «che vivono in un contesto di minoranza felicemente amando i poveri e centrati nella liturgia della Chiesa, che sono persuasivi e attrattivi». Contro la tentazione a ripetere che «trasmettere la fede oggi è più difficile», il sacerdote ha invitato a «ricentrarsi sull'amore persuasivo di cui il Papa ha parlato diffusamente nella Deus Caritas est». In particolare per i presbiteri non ci sono solo motivi esterni. A volte c'è un secolarismo dei cristiani, Lei stesso Santità l'ha richiamato. Per i sacerdoti solo nella contemplazione è possibile comprendere intimamente l'altro. «Quest'indicazione — ha concluso don Gnavi — vale anche per noi presbiterio di Roma, per essere più credenti; è una via semplice per essere più cristiani, con Lei, e così penetrare in una comprensione della realtà che viene da questa contemplazione».

[00337-01.01] [Testo originale: Italiano]

[B0112-XX.01]