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UDIENZA AL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO, 29.01.2005


UDIENZA AL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO

DISCORSO DEL SANTO PADRE

INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL DECANO DELLA ROTA ROMANA, S.E. MONS. ANTONI STANKIEWICZ

Alle ore 11 di oggi, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha ricevuto in Udienza i Prelati Uditori, gli Officiali e gli Avvocati del Tribunale della Rota Romana, in occasione della solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha loro rivolto e l’indirizzo di omaggio del Decano del Tribunale della Rota Romana, S.E. Mons. Antoni Stankiewicz:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

1. Questo appuntamento annuale con voi, cari Prelati Uditori del Tribunale Apostolico della Rota Romana, evidenzia l'essenziale legame del vostro prezioso lavoro con l'aspetto giudiziale del ministero petrino. Le parole del Decano del vostro Collegio hanno espresso il comune impegno di piena fedeltà nel vostro servizio ecclesiale.

È in questo orizzonte che vorrei collocare oggi alcune considerazioni circa la dimensione morale dell'attività degli operatori giuridici presso i tribunali ecclesiastici, soprattutto per quel che riguarda il dovere di adeguarsi alla verità sul matrimonio, così come essa è insegnata dalla Chiesa.

2. Da sempre la questione etica si è posta con speciale intensità in qualsiasi genere di processo giudiziario. Gli interessi individuali e collettivi possono, infatti, indurre le parti a ricorrere a vari tipi di falsità e perfino di corruzione allo scopo di raggiungere una sentenza favorevole.

Da questo rischio non sono immuni nemmeno i processi canonici, in cui si cerca di conoscere la verità sull'esistenza o meno di un matrimonio. L'indubbia rilevanza che ciò ha per la coscienza morale delle parti rende meno probabile l’acquiescenza ad interessi alieni dalla ricerca della verità. Ciò nonostante, possono verificarsi dei casi nei quali si manifesta una simile acquiescenza, che compromette la regolarità dell’iter processuale. È nota la ferma reazione della norma canonica a simili comportamenti (cfr CIC, cann. 1389, 1391, 1457, 1488, 1489).

3. Tuttavia, nelle attuali circostanze un altro rischio è pure incombente. In nome di pretese esigenze pastorali, qualche voce s’è levata per proporre di dichiarare nulle le unioni totalmente fallite. Per ottenere tale risultato si suggerisce di ricorrere all'espediente di mantenere le apparenze procedurali e sostanziali, dissimulando l'inesistenza di un vero giudizio processuale. Si è così tentati di provvedere ad un’impostazione dei capi di nullità e ad una loro prova in contrasto con i più elementari principi della normativa e del magistero della Chiesa.

È evidente l'oggettiva gravità giuridica e morale di tali comportamenti, che non costituiscono sicuramente la soluzione pastoralmente valida ai problemi posti dalle crisi matrimoniali. Grazie a Dio, non mancano fedeli la cui coscienza non si lascia ingannare, e tra di essi si trovano anche non pochi che, pur essendo coinvolti in prima persona in una crisi coniugale, non sono disposti a risolverla se non seguendo la via della verità.

4. Nei discorsi annuali alla Rota Romana ho più volte ricordato l’essenziale rapporto che il processo ha con la ricerca della verità oggettiva. Di ciò devono farsi carico innanzitutto i Vescovi, che sono i giudici per diritto divino delle loro comunità. È in loro nome che i tribunali amministrano la giustizia. Essi sono pertanto chiamati ad impegnarsi in prima persona per curare l'idoneità dei membri dei tribunali, diocesani o interdiocesani, di cui essi sono i Moderatori, e per accertare la conformità delle sentenze con la retta dottrina.

I sacri Pastori non possono pensare che l'operato dei loro tribunali sia una questione meramente "tecnica" della quale possono disinteressarsi, affidandola interamente ai loro giudici vicari (cfr CIC, cann. 391, 1419, 1423 § 1).

5. La deontologia del giudice ha il suo criterio ispiratore nell’amore per la verità. Egli dunque deve essere innanzitutto convinto che la verità esiste. Occorre perciò cercarla con desiderio autentico di conoscerla, malgrado tutti gli inconvenienti che da tale conoscenza possano derivare. Bisogna resistere alla paura della verità, che a volte può nascere dal timore di urtare le persone. La verità, che è Cristo stesso (cfr Gv 8, 32 e 36), ci libera da ogni forma di compromesso con le menzogne interessate.

Il giudice che veramente agisce da giudice, cioè con giustizia, non si lascia condizionare né da sentimenti di falsa compassione per le persone, né da falsi modelli di pensiero, anche se diffusi nell’ambiente. Egli sa che le sentenze ingiuste non costituiscono mai una vera soluzione pastorale, e che il giudizio di Dio sul proprio agire è ciò che conta per l'eternità.

6. Il giudice deve poi attenersi alle leggi canoniche, rettamente interpretate. Egli perciò non deve mai perdere di vista l’intrinseca connessione delle norme giuridiche con la dottrina della Chiesa. Qualche volta, infatti, si pretende di separare le leggi della Chiesa dagli insegnamenti magisteriali, come se appartenessero a due sfere distinte, di cui la prima sarebbe l'unica ad avere forza giuridicamente vincolante, mentre la seconda avrebbe un valore meramente orientativo od esortativo.

Una simile impostazione rivela in fondo una mentalità positivistica, che è in contrasto con la migliore tradizione giuridica classica e cristiana sul diritto. In realtà, l'interpretazione autentica della parola di Dio, operata dal magistero della Chiesa (cfr Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 10 § 2), ha valore giuridico nella misura in cui riguarda l'ambito del diritto, senza aver bisogno di nessun ulteriore passaggio formale per diventare giuridicamente e moralmente vincolante.

Per una sana ermeneutica giuridica è poi indispensabile cogliere l'insieme degli insegnamenti della Chiesa, collocando organicamente ogni affermazione nell'alveo della tradizione. In questo modo si potrà rifuggire sia da interpretazioni selettive e distorte, sia da critiche sterili a singoli passi.

Infine, un momento importante della ricerca della verità è quello dell’istruttoria della causa. Essa è minacciata nella sua stessa ragion d'essere, e degenera in puro formalismo, quando l'esito del processo si dà per scontato. È vero che anche il dovere di una giustizia tempestiva fa parte del servizio concreto della verità, e costituisce un diritto delle persone. Tuttavia, una falsa celerità, che sia a scapito della verità, è ancor più gravemente ingiusta.

7. Vorrei concludere questo incontro con un ringraziamento di vero cuore a voi, Prelati Uditori, agli Officiali, agli Avvocati e a tutti coloro che operano in codesto Tribunale Apostolico, come pure ai membri dello Studio Rotale.

Voi sapete di poter contare sulla preghiera del Papa e di moltissime persone di buona volontà che riconoscono il valore del vostro operato al servizio della verità. Il Signore ripagherà i vostri sforzi quotidiani, oltre che nella vita futura, già in questa con la pace e la gioia della coscienza e con la stima e il sostegno di coloro che amano la giustizia.

Nell’esprimere l’augurio che la verità della giustizia risplenda sempre più nella Chiesa e nella vostra vita, a tutti imparto di cuore la mia Benedizione.

[00149-01.01] [Testo originale: Italiano]

INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL DECANO DELLA ROTA ROMANA, S.E. MONS. ANTONI STANKIEWICZ

Beatissimo Padre,

La solenne Inaugurazione dell'Anno Giudiziario 2005 del Vostro Tribunale Apostolico della Rota Romana in questo Palazzo Apostolico, dopo la celebrazione dell'Eucaristia con l'invocazione dello Spirito Santo e il rinnovo annuale del giuramento de munere fideliter adimplendo ci permette di radunarci attorno a Voi, Santo Padre, Supremo Pastore e Giudice, per sentire da vicino la Vostra sollecitudo omnium Ecclesiarum ed ascoltare le auguste parole riguardo alle nostre responsabilità nell'esercizio del munus iudicandi, al quale, a beneficio della comunità ecclesiale, per Vostro mandato e nel Vostro Nome siamo stati chiamati, da diverse nazioni del popolo di Dio, per esercitarlo e per adempierlo fedelmente.

Questa responsabilità di coscienza viene sentita in modo particolare nelle pronunce riguardanti le cause matrimoniali di nullità in cui non si tratta soltanto di rendere alle parti in causa quello che è vero e giusto, ma anche di riaffermare, attraverso ciò, l'identità e la dignità naturale e sacramentale del matrimonio, messe in luce dalla sublime delineazione teologico-pastorale del Concilio Vaticano II e ripresentata armonicamente dal linguaggio canonico-giuridico dei due Codici, Latino e Orientale, da Voi, Supremo Legislatore, promulgati.

1. La determinazione dell'identità del matrimonio, inteso come l'intima comunità di vita e di amore coniugale (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 48; AAS 66 [1966], p. 1067), ossia la comunità di tutta la vita tra l'uomo e la donna, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla generazione e educazione della prole (can. 1055, § 1 CIC; can. 776, § 1 CCEO), non viene proposta all'usus scholae et fori, ma a tutto il popolo di Dio come il vero lume dello splendore della verità dell'ordine naturale (Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Veritatis splendor, n. 43; AAS 85 [1993], p. 1167) per distinguere l'istituto matrimoniale di cui Dio stesso è l'autore (Cost. past. Gaudium et spes, 48; p. 1067), da tutte le altre unioni interpersonali, di creazione meramente umana a immagine e figura dell'«uomo corruttibile» (Rom 1,23), al servizio del «corpo del peccato» (Rom 6,6).

Infatti, non possono arrogarsi l'identità e la dignità di un vero matrimonio, su quale viene fondata la famiglia, né le «unioni di fatto» eterosessuali, in cui l'amore non si traduce in impegno stabile e rigorosamente giuridico, dovuto in giustizia (Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia, matrimonio e «unioni di fatto», Città del Vaticano 2000, p. 40), né ancor di meno lo possono rivendicare le unioni omosessuali che costituiscono "una distorsione di ciò che dovrebbe essere una comunione di amore e di vita tra un uomo e una donna, in una donazione reciproca aperta alla vita" (Ibid., p. 43). Una vera coniugalità in cui i contraenti si costituiscono in coniugi, può attuarsi soltanto mediante il "dono di sé in tutta la dimensione complementare della donna e dell'uomo, con volontà di doversi l'uno all'altro in giustizia" (Ibid., p. 41).

L'equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, come avviene in alcuni ordinamenti statali, non per questo le «rende giuste». Esse, nonostante la loro eventuale legalizzazione, già ex ipsa rei natura si pongono in contraddizione sia all'ordine oggettivo, cioè all'esigenza della natura umana su cui, perfino, la giurisprudenza antica non-cristiana fondava l'istituto matrimoniale come «coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae» (D.23.2.1: Modest. l.1 reg.), sia alla norma personalistica, poiché in tali unioni "la persona è posta nella situazione di un oggetto di godimento, a servizio di un'altra persona" (K. Wojtyla, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, tr. it., Torino 1980, p. 198).

2. Le pronunce giudiziali nelle cause matrimoniali di nullità, accanto alla proclamazione della verità sull'identità dell'unione matrimoniale, tendono anche a promuovere e ristabilire la comunione ecclesiale dei fedeli che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. Esiste, infatti, l'intimo rapporto tra la realtà invisibile di "comunione di ogni uomo con il Padre per Cristo nello Spirito Santo, e con gli altri uomini compartecipi nella natura divina", e la realtà visibile implicante la comunione "nella dottrina degli Apostoli, nei Sacramenti e nell'ordine gerarchico" (Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett. Communionis notio [28 maggio 1992], n. 4: AAS 85 [1993], pp. 839-840; cf. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Ecclesia de Eucharistia [17 aprile 2003], n. 35: AAS 95 [2003], p. 457). È proprio nel sacramento del matrimonio che si verifica il rapporto del vincolo di comunione nella dimensione di giustizia nei confronti delle persone dell'uomo e della donna, unite dal patto coniugale, ossia dall'irrevocabile consenso personale, elevato da Cristo Signore alla dignità del sacramento (can. 1055, § 1; cf. Cost. past. Gaudium et spes, n. 48: p. 1067).

Il problema pastorale del recupero della comunione da parte dei fedeli divorziati e risposati, infranta da loro per la violazione del segno dell'Alleanza e della fedeltà coniugale, in modo più sentito, si ripropone in questo Anno dedicato all'Eucaristia, la quale è "culmine di tutti i Sacramenti nel portare a perfezione la comunione con Dio Padre mediante l'identificazione col Figlio Unigenito per opera dello Spirito Santo" (Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Ecclesia de Eucharistia, 34, p. 456), è l'«epifania di comunione» e l'«ideale di comunione» (Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Mane nobiscum Domine [7 ottobre 2004], n. 21: Typis Vaticanis 2004, p. 17).

"La celebrazione dell'Eucaristia", però, come afferma l'enciclica Ecclesia de Eucharistia, "non può essere il punto di avvio della comunione, che presuppone come esistente, per consolidarla e portarla a perfezione (35, p. 457). In realtà, esiste "un'esigenza intrinseca all'Eucaristia che essa sia celebrata nella comunione, e concretamente nell'integrità dei suoi vincoli" (l.c.). Invero, "ricevere la Comunione eucaristica in contrasto con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa in sé contraddittoria. La comunione sacramentale con Cristo include e presuppone l'osservanza, anche se talvolta difficile, dell'ordinamento della comunione ecclesiale" (Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati [14 settembre 1994], 9: Città del Vaticano 1994, p. 12).

Anche se "il giudizio sullo stato di grazia", spetta soltanto agli interessati stessi, "trattandosi di una valutazione di coscienza" (Enc. Ecclesia de Eucharistia, 37, p. 458), in conformità con l'ammonizione dell'Apostolo: "Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice" (1Cor 11,28), il giudizio sulla validità del vincolo di comunione matrimoniale precedente dei fedeli divorziati e risposati iure proprio spetta al giudice ecclesiastico (can. 1671). Egli, infatti, deve valutare nella sua coscienza l'efficacia delle prove presentate dalle parti interessate nel processo sull'esistenza dei fatti invalidanti il matrimonio, previsti esplicitamente dalle norme canoniche, ferme restando le disposizioni della legge sull'efficacia di talune prove (can. 1608, § 3).

Tuttavia, i protagonisti del processo matrimoniale canonico, sotto il pretesto della salus animarum (cf. can. 1752), non possono avvalersi non solo di asserzioni su fatti costruiti artificialmente per ottenere la sentenza favorevole alla nullità del matrimonio, ma neanche di interpretazioni delle norme sostanziali riguardo alla causa petendi di nullità che svuotano il principio dell'indissolubilità del matrimonio, travisando "la genuinità del concetto cristiano del matrimonio" e trasformando così l'attività dei Tribunali Ecclesiastici "in una facile via per soluzione dei matrimoni falliti e delle situazioni irregolari tra gli sposi" (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana [5 febbraio 1987], n. 9: AAS 79 [1987], pp. 1458-1459).

Per adempiere questo compito di discernimento giudiziale nell'esercizio del munus iudicandi, specialmente nelle cause matrimoniali di nullità, chiediamo, Padre Santo, le sapienti illuminanti parole del Vostro Magistero "al quale spetta l'interpretazione autentica della parola di Dio su questa realtà (cf. Dei verbum, n. 10), compresi i loro aspetti giuridici" (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana [27 gennaio 1997], n. 3: AAS 89 [1997], p. 487), e imploriamo la Benedizione Apostolica su tutti noi qui presenti, sulle nostre famiglie e sulla nostra quotidiana attività giudiziale. Benediteci Padre Santo.

[00152-01.01] [Testo originale: Italiano]