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CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO 2005, 09.12.2004


CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO 2005

INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. STEPHEN FUMIO HAMAO

INTERVENTO DI S.E. MONS. AGOSTINO MARCHETTO

INTERVENTO DEL REV.MO P. MICHAEL A. BLUME, SVD

Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, ha luogo la Conferenza Stampa di presentazione del Messaggio del Santo Padre per la 91ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (16 gennaio 2005) sul tema: "L’integrazione interculturale".

Partecipano alla Conferenza: l’Em.mo Card. Stephen Fumio Hamao, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti; S.E. Mons. Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti; il Rev.mo P. Michael A. Blume, S.V.D., Sotto-Segretario del medesimo Pontificio Consiglio.

Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:

INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. STEPHEN FUMIO HAMAO

È ancora quanto mai attuale il tema del Messaggio di Giovanni Paolo II per la celebrazione della Giornata mondiale della pace 2001. Uno tra i principali detonatori nei conflitti in atto - osservava allora il Santo Padre - è lo scontro tra culture differenti, quando il legittimo "amor di patria" degenera assumendo "toni di autoesaltazione e di esclusione delle diversità, sviluppandosi in forme nazionalistiche, razzistiche e xenofobe" (n. 6).

Implicitamente il Messaggio sottolineava la necessità del dialogo tra le culture: "Analogamente a quanto avviene per la persona, affermava il Papa, che si realizza attraverso l'apertura accogliente all'altro e il generoso dono di sé, anche le culture, elaborate dagli uomini e a servizio degli uomini, vanno modellate coi dinamismi tipici del dialogo e della comunione, sulla base dell'originaria e fondamentale unità della famiglia umana, uscita dalle mani di Dio che "creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini" (At 17, 26)" (n. 10).

Ma perché il dialogo avvenga occorre anzitutto riconoscerne i soggetti e le loro culture, la cui diversità e tipicità è un dato positivo perché "essere uomo significa necessariamente esistere in una determinata cultura" (n. 4). C'è quindi un nesso inscindibile che lega l'uomo al suo humus culturale.

D'altra parte, la diversità delle culture va inserita nell'orizzonte della fondamentale prospettiva dell'unità del genere umano. Solo in una contestuale considerazione delle diversità e dell'unità è possibile cioè una piena comprensione della verità di ogni cultura umana.

Su questa linea di riflessione Giovanni Paolo II accennava alla sfida delle migrazioni in questi termini: "Lo stile e la cultura del dialogo sono particolarmente significativi rispetto alla complessa problematica delle migrazioni, rilevante fenomeno sociale del nostro tempo. L'esodo di grandi masse da una regione all'altra del pianeta, che costituisce sovente una drammatica odissea umana per quanti vi sono coinvolti, ha come conseguenza la mescolanza di tradizioni e di usi differenti con ripercussioni notevoli nei paesi di origine e in quelli di arrivo. L'accoglienza riservata ai migranti da parte dei paesi che li ricevono e la loro capacità di integrarsi nel nuovo ambiente umano rappresentano altrettanti metri di valutazione della qualità del dialogo tra differenti culture" (n. 12).

Il Papa sintetizza, in questo punto, tutta la problematica che riguarda l'incontro, il dialogo, l'integrazione e l'educazione interculturale. Un dialogo visto da molti in forma astratta, separata dalle persone. L'oggettivazione delle culture infatti tende a presentarle come realtà esteriori all'uomo e al suo contesto di vita. E ciò potrebbe portare a credere che le culture esistano oggettivamente e che possano essere conosciute analiticamente, studiandone le componenti, facendo delle estrapolazioni abusive, ideologiche e spesso incoscienti sulle persone. Le culture in se stesse, infatti, non esistono né si possono, quindi, incontrare in astratto: esistono solo attraverso la mediazione delle persone che si incontrano, altrimenti si negherebbe ogni partecipazione dell'individuo alla elaborazione della sua cultura, che egli costruisce invece attraverso le relazioni-incontri con gli altri.

Orbene il tema è ripreso con approfondita e saggia determinazione nel Messaggio della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato per il prossimo anno, che qui presentiamo oggi ed ha per tema appunto l'integrazione interculturale.

Colui che chiamiamo "straniero", in realtà, tale non è, poiché vive comunque nella nuova realtà, operando nei suoi diversi settori e intrattenendovi rapporti a vari livelli. Si tratta dunque di una identità costretta ad attraversare un continuo processo di trasformazione e di ricomposizione della propria identità, integrandosi culturalmente. D'altra parte il processo di inculturazione del migrante nella nuova società non è certo privo di ripercussioni proprio sulla società di arrivo che è, a sua volta, portata a ridefinire i propri meccanismi, e quindi a porre in atto cambiamenti strutturali, non solo materiali ma anche socioculturali. Con la sua sola presenza, il non autoctono, attraversando i confini di una nazione, avvicina quindi quelli culturali.

Quando si parla di intercultura, si privilegia spesso il discorso sulle differenze culturali e si dimentica la condizione degli immigrati che è di disuguaglianza sociale. Orbene la differenza culturale non può sostituire e coprire, come spesso accade, le disuguaglianze sociali che caratterizzato la vita degli immigrati (cfr. Messaggio, N. 2: inclusione sociale). Gli interventi interculturali, per essere tali, devono cioè poter incidere anche sulla condizione sociale vissuta dagli immigrati, che oggi in genere è di non uguaglianza, perché l'intercultura per sé richiede relazioni paritarie tra soggetti. È necessario perciò operare per rimuovere gli ostacoli alla parità sociale degli immigrati, valorizzando le soggettività delle persone provenienti da diversi contesti culturali.

Società multiculturale, integrazione interculturale, rispetto delle altre culture: sono formule che rappresentano il tentativo di varcare confini e frontiere culturali, di attraversare luoghi ed esperienze dove "l'altro", da straniero e forse ostile, può trasformarsi in amico e familiare. Il cammino ce lo indica il Messaggio del Santo Padre, specialmente al N. 3. Intercultura è soprattutto scambio tra persone di diversa estrazione culturale e di differenti legittime visioni della società. La "mondialità", che è la meta verso cui siamo chiamati a camminare, dal momento che la diversità è diventata ormai una delle dimensioni della nostra vita quotidiana, non è né una omologazione delle differenze, né giustapposizione di culture e individui, ma incontro, ospitalità, ascolto, solidarietà, assunzione e valorizzazione delle differenze. È soprattutto qualcosa che si realizza tra individui, gruppi, mondi diversi. Non esiste interculturalità senza pluralismo. L'interculturalità è un movimento di reciprocità, un cammino con l'altro e verso l'altro.

L'integrazione interculturale dunque è apertura e predisposizione al rapporto tra identità e alterità (v. N. 2 del Messaggio). L'identità è la risposta che ogni persona elabora nel rapporto con gli altri; l'alterità è vissuta e sperimentata come il superamento di ogni differenza che ci separa dagli altri. In questa prospettiva l'educazione interculturale è soprattutto educazione alla accettazione della diversità: si tratta di prendere coscienza della crescente interdipendenza tra popoli, classi sociali e individui, e di saper coniugare, nella solidarietà, i valori della libertà e dell'uguaglianza.

L'interculturalità è anche, e soprattutto, relazione, cioè rapporto reciproco con uomini e fatti appartenenti a una cultura diversa. È necessario pertanto evitare atteggiamenti di esclusione reciproca. Il dialogo interculturale non si prefigge soltanto di educare alla cultura e al sapere dell'altro, ma soprattutto di educare a come gli altri hanno imparato a sapere, ai metodi che hanno adottato per concepire il mondo, Dio, la vita, l'amore, la sofferenza.

Siamo tutti consapevoli, oggi, di vivere in un mondo che se, da una parte, è sempre più globalizzato, dall'altra, appare anche diviso dalla diversità culturale, sociale, economica, politica, religiosa e presenta alla nostra coscienza cristiana nuove sfide alla formazione, la principale delle quali sembra essere l'educazione alla interculturalità. Questa appare, sempre più, come la chiave di soluzione al difficile problema di riuscire ad armonizzare l'unità della umanità nella diversità dei popoli che la compongono. Ciò implica una pedagogia per l'accoglienza delle differenze, per la cultura del dialogo e della reciprocità, della solidarietà, della pace.

Tutto questo sarà possibile nella misura in cui scopriremo che ci sono valori transculturali, validi ovunque e che dovrebbero aiutare i cristiani a diventare uomini e donne di comunione. Giovanni Paolo II, nel suo Messaggio 2005, ci ricorda che le comunità multiculturali e internazionali si rivelano, in molte parti, testimonianze significative e ambiti di educazione al senso della comunione tra i popoli, le razze e le culture.

[01932-01.01] [Testo originale: Italiano]

INTERVENTO DI S.E. MONS. AGOSTINO MARCHETTO

L’integrazione interculturale
nell'Istruzione Erga Migrantes caritas Christi

Nell'Istruzione Erga Migrantes caritas Christi, (citata nel Messaggio Pontificio in parola, al n. 1 con richiamo a vari passi dell'Istruzione), sono numerosi i punti che si riferiscono a tale concetto, implicitamente o esplicitamente. Se, inoltre, lo inseriamo nel contesto teologico e pastorale dell'Istruzione, lo vediamo tradotto e trasferito in molti termini, analoghi o speculari, quali universalismo, pluralismo culturale, comunione, ecc. In questo senso si può giungere ad affermare che il concetto di interculturalità non solo pervade tutta l'Istruzione, ma ne forma una delle strutture portanti.

L'attuale fenomeno migratorio, che è entrato, in questi ultimi tempi così prepotentemente nelle nostre comunità, richiede dunque non solo di essere "riconosciuto" ma ci impone, in effetti, precisi impegni di discernimento e di educazione. Se è vero, come ha ricordato Giovanni Paolo II, che "nella Chiesa nessuno è straniero e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e a nessun luogo", diventa perciò indispensabile avviare percorsi di fraternità ecclesiale che riconoscano il valore dei non autoctoni, i quali fanno parte stabilmente, ormai, delle nostre comunità (cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 1996, N. 5).

Sono vari comunque i percorsi che si potrebbero così esaminare, ma qui desideriamo solo fare anzitutto cenno ai riferimenti dell'Istruzione all'interculturalità in relazione alle diverse etnie. Questo tema, infatti, costituisce la parte centrale della Erga migrantes caritas Christi, se intendiamo considerare tale processo come l'inserzione del Vangelo in un concreto "spazio" culturale, così da aprirne le espressioni di vita a nuovi orizzonti e da permettere alla fede di svilupparsi secondo le risorse e il genio proprio dei migranti, che appartengono a una determinata cultura. La fede non è certo solo cultura, ma storia e vita. Questa stessa fede, tuttavia, non può esistere che inculturata, espressa cioè nelle forme proprie di una cultura.

L'unità e la pluralità delle culture dicono entrambe che essa appartiene al concreto esistere umano. La loro dignità scaturisce da quella delle persone, mentre la loro multiformità è condizione per il dialogo tra linguaggi culturali diversi. In questo contesto, la scoperta dell'altro, diverso da noi, è la scoperta di una alterità che deve rimanere se stessa senza assimilazione con nessun'altra cultura.

Queste affermazioni fanno da supporto ad alcune importanti acquisizioni - diciamo così - della Istruzione, quando vi si parla, ad esempio, della struttura pasquale e pentecostale del vangelo dell'amore. È infatti lo Spirito che raduna la Chiesa di Dio collocandola nel mistero della riconciliazione universale operata da Gesù. "Le peculiarità dei migranti - recita la Erga Migrantes caritas Christi - diventano richiamo alla fraternità pentecostale, dove le differenze sono armonizzate dallo Spirito e la carità si fa autentica nella accettazione dell'altro. La vicenda migratoria può essere l'annuncio, quindi, del mistero pasquale, per il quale morte e resurrezione tendono alla creazione dell'umanità nuova nella quale non vi è più né schiavo né straniero (cfr. Gal. 3,28)" (n. 18).

In questa prospettiva, le diversità culturali odierne rappresentano una sfida senza precedenti, un kairòs che interpella tutto il popolo di Dio. La stessa dinamica dei rapporti tra Chiesa universale e Chiese particolari, non può certo essere indifferente a queste "logiche" culturali, anzi essa rivive nel suo seno, per contraccolpo, le contrapposizioni che esistono tra culture e nazioni diverse.

Un cenno particolare merita il riferimento dell'Istruzione alle Parrocchie interculturali, di cui potremmo vedere un implicito cenno nel CIC, al canone 517, §§1.Si tratta di promuovere una Chiesa che sappia essere spazio affinché i cristiani possano "ridire la fede di un Battesimo inscritto nell'universo culturale del loro Paese di origine" e ugualmente di "donare loro i mezzi per vivere la loro fede in un nuovo contesto culturale". La parrocchia interculturale o interetnica può costituire allora una possibilità ricca, da individuare nelle sue potenzialità e da sviluppare secondo le variabili che la mobilità umana porta con sé.

Ci riferiamo ora brevemente ad alcuni percorsi dell'interculturalità accennati nella Istruzione, sottolineandone alcuni titoli indicativi. Essi sono:

Pluralismo culturale

L'Istruzione attesta "un pluralismo culturale e religioso forse mai sperimentato così coscientemente finora. Da una parte, si procede a larghi passi verso una apertura mondiale, facilitata dalla tecnologia e dai mezzi di comunicazione sociale - che arriva a porre a contatto o addirittura a rendere interni l'uno all'altro universi culturali e religiosi tradizionalmente diversi ed estranei tra loro -, dall'altra rinascono esigenze di identità locale, che colgono nella specificità culturale di ciascuno lo strumento della propria realizzazione" (35).

Interculturalità e comunione ecclesiale

L'Erga Migrantes caritas Christi proclama: "Nella società contemporanea, che le migrazioni contribuiscono a configurare sempre più come multietnica, interculturale, e multireligiosa, i cristiani sono chiamati ad affrontare un capitolo sostanzialmente inedito e fondamentale del compito missionario: quello di esercitarlo nelle terre di antica tradizione cristiana. Con molto rispetto e attenzione per le tradizioni e le culture dei migranti, siamo cioè chiamati, noi cristiani, a testimoniare il Vangelo della carità e della pace anche a loro" (100).

L'Istruzione a questo riguardo attesta: "Il passaggio da società monoculturali a società multiculturali può rivelarsi segno di viva presenza di Dio nella storia e nella comunità degli uomini, poiché offre una opportunità provvidenziale per realizzare il piano di Dio di una comunione universale" (9).

Pastorale d'insieme e parrocchie interculturali

"Pastorale d'insieme significa, qui, soprattutto comunione che sa valorizzare l'appartenenza a culture e popoli diversi, in risposta al piano d'amore del Padre, che costruisce il suo Regno di pace - per Cristo, con Cristo e in Cristo - in potenza dello Spirito, nell'intreccio delle vicende storiche, complesse e spesso apparentemente contraddittorie, dell'umanità. In questo senso si possono prevedere la Parrocchia interculturale o interetnica o interrituale, dove si cura, allo stesso tempo, l'assistenza pastorale degli autoctoni e degli stranieri residenti sullo stesso territorio. La Parrocchia tradizionale territoriale diventerebbe così un luogo privilegiato e stabile di esperienze interetniche o interculturali, pur conservando, i singoli gruppi, una certa autonomia" (93).

Identità e alterità

A tale proposito la Erga Migrantes caritas Christi conferma che "in quanto comunione (la Chiesa) dà valore alle legittime particolarità delle comunità cattoliche, coniugandole con l'universalità. L'unità della Pentecoste non abolisce infatti le diverse lingue e culture, ma le riconosce nella loro identità, pur aprendole all'alterità attraverso l'amore universale operante in esse" (37).

Migrazioni, universalità e missionarietà della Chiesa

A questo riguardo l'Istruzione afferma: "Nella comunità cristiana nata dalla Pentecoste, le migrazioni fanno parte integrante della vita della Chiesa, ne esprimono bene l'universalità, ne favoriscono la comunione, ne influenzano la crescita … se c'è. Appare chiaro che non è soltanto la lontananza geografica che determina la missionarietà, quanto l'estraneità culturale e religiosa. Missione è perciò andare verso ogni uomo per annunciargli Gesù Cristo e, in Lui e nella Chiesa, metterlo in comunione con tutta l'umanità" (97).

Migrazioni, pluralismo etnico-culturale e unità della Chiesa

Come attesta Giovanni Paolo II, in espressione ripresa dalla Erga Migrantes caritas Christi: "Le migrazioni offrono alle singole Chiese locali l'occasione di verificare la loro cattolicità, che consiste non solo nell'accogliere le diverse etnie, ma soprattutto nel realizzare la comunione di tali etnie. Il pluralismo etnico e culturale nella Chiesa non costituisce una situazione da tollerarsi in quanto transitoria, ma una sua dimensione strutturale. L'unità della Chiesa non è data dall'origine e lingua comuni, ma dallo Spirito di Pentecoste che, raccogliendo in un solo Popolo genti di lingue e nazioni diverse, conferisce a tutte la fede nello stesso Signore e la chiamata alla stessa speranza" (103).

Conclusione

Una delle sfide più difficili del terzo millennio è dunque quella di imparare a vivere uniti nella diversità e nella molteplicità delle culture, delle etnie, delle religioni. Il rispetto e il riconoscimento delle diverse identità culturali non deve fare cioè ostacolo, ma essere condizione essenziale per la costruzione di una umanità unita nella pluralità, pur con base in quanto ci è comune: la nostra comune umanità.

[01931-01.01] [Testo originale: Italiano]

INTERVENTO DEL REV.MO P. MICHAEL A. BLUME, SVD

Integrazione: visione generale

1. È abbastanza noto che circa 175 milioni di persone si trovano, in qualità di migranti, in un paese diverso da quello natio. Di questi, si stima che circa 56 milioni si trovino in Europa, mentre circa 50 milioni sono in Asia, 41 milioni nell’America del Nord, 16 milioni in Africa, 6 milioni nei paesi dell’America Latina e dei Caraibi, e altrettanti in Oceania. Tra i paesi che hanno ospitato il maggior numero di immigrati figurano gli Stati Uniti (un primato assoluto, con circa 35 milioni), la Federazione Russa (13 milioni), la Germania (7 milioni), l’India (6 milioni, come la Francia), il Canada (6 milioni circa), l’Arabia Saudita (5 milioni), il Pakistan (più di 4 milioni) e l’Italia (al ventesimo posto con due milioni e mezzo).

Sarebbe interessante esaminare la composizione della popolazione immigrata in ognuno di questi paesi, ma per motivi di brevità e per la difficoltà di ottenere dati statistici sicuri, come per esempio per la Federazione Russa, mi limito solo ad alcuni. Negli Stati Uniti si possono individuare almeno 40 paesi di provenienza dei migranti, tra cui il Messico (9 milioni), la Cina/Hong Kong/Taiwan (un milione e mezzo circa), le Filippine (1,4 milioni), il Vietnam (986 mila), la Polonia (480 mila), il Giappone (346 mila circa) e anche la Germania (712 mila) e l’Italia (474 mila circa). Per quanto riguarda questi ultimi due Paesi però gli emigrati stanno diminuendo.

La Germania, invece, ha una popolazione straniera proveniente da 18 nazioni, fra cui la Turchia (circa 2 milioni), l’ex Iugoslavia (662 mila circa), la Polonia (più di 301 mila), la Russia, 116 mila circa), l’Iran (108 mila circa), l’Afghanistan (72 mila), lo Sri Lanka (51 mila circa) il Libano (più di 51 mila) e la Cina (51 mila circa).

Il Giappone, invece, riceve immigrati da almeno dieci Paesi. I gruppi più numerosi, nel 2001, provenivano dalla Cina (86 mila circa), e dalle Filippine (intorno a 85 mila). Le altre nazioni di provenienza erano il Brasile, la Corea, persino gli Stati Uniti, l’Indonesia, la Tailandia, il Regno Unito, la Federazione Russa e il Vietnam.

Degli immigrati in Australia, Canada, Nuova Zelanda e negli Stati Uniti circa il 38% provengono dall’America Latina e dai Caraibi, mentre il 24% circa sono di origine asiatica o vengono dall’Oceania, e circa il 21%, invece, sono europei.

2. Cosa ci dicono queste statistiche? Chiaramente mostrano che ormai le società di oggi sono composte da persone di varia provenienza, e dunque, di diverse culture, tradizioni, lingue, costumi, religioni, valori ecc., come del resto attesta il Messaggio Pontificio per la Giornata del Migrante e del Rifugiato 2005. Il paese ospitante non può dunque ignorare il fatto che non ha più una popolazione omogenea. Ormai parte integrante di essa sono anche coloro che, venuti da fuori, offrono il lavoro che gli autoctoni, in genere, non sono più in grado o disposti a fare (ad es., quando alla popolazione locale mancano sia le risorse di personale per far fronte ai bisogni attuali del paese, che la volontà). Pensiamo ai migranti, spesso molto apprezzati, che curano i malati, le persone anziane o i bambini di madri lavoratrici, oppure ai professionisti provenienti dai Paesi più poveri, reclutati da quelli industrialmente sviluppati per i propri progetti. Ci sono, poi, coloro che hanno trovato un rifugio in un paese straniero dopo essere fuggiti dalla persecuzione o da altri pericoli per la loro vita e la loro dignità umana.

A questo punto ci si pone una domanda: Qual è o quale dev’essere il rapporto tra gli stranieri e la società dove arrivano? Tutti noi abbiamo qualche risposta e qualche esperienza al riguardo. Sappiamo pure che la risposta può essere riassunta nella parola "integrazione" e che nel pensiero di tante persone tale concetto spesso vuol dire "assimilazione". In quel senso l’immigrato si "integra" , cioè, si adatta al modello di vita locale, diventando come tutti gli altri, e a volte quasi trascurando le proprie radici culturali. I giovani immigrati sono generalmente più attratti da questo tipo di "inserimento". Il problema è che l’assimilazione in questo senso rappresenta un impoverimento della società d’accoglienza, perché il contributo culturale e umano dell’immigrato viene minimizzato. Senz’altro i migranti devono fare i passi necessari all’inclusione sociale indicati dal Messaggio, "quali l’apprendimento della lingua nazionale e l’adeguamento alle leggi e alle esigenze del lavoro, così da evitare il crearsi di una differenziazione esasperata" (n. 1). Ciò però va fatto sviluppando l’eredità culturale che ognuno porta con sé, non scartandola.

Può invece accadere il contrario all’assimilazione, cioè, che il contatto con il nuovo ambiente renda l’immigrato più che mai consapevole di ciò che dava senso alla sua vita in seno alla propria società d’origine, alla propria famiglia, cioè della propria identità. Una tale esperienza può spingerlo a cercare compagnia e sicurezza tra coloro che provengono dalla medesima nazione e cultura. E se egli non riesce pian piano ad aprirsi alla realtà più vasta della società dove è entrato, corre il pericolo di formare un ghetto con conseguente emarginazione.

L’integrazione, infatti, non è una strada a senso unico, non è responsabilità solo dell’immigrato, ma anche della società di arrivo, che a contatto con lui –– come scrive il Santo Padre –– ne scopre il "segreto", cogliendo i valori della sua cultura.

L’integrazione dipende anche dal paese d’arrivo. Alcuni Paesi hanno una politica di apertura verso le altre culture e riconoscono il contributo che esse hanno dato al proprio sviluppo nel passato e nel presente. Altri invece sono pronti a ricevere gli immigrati in quanto manodopera, senza interessarsi molto al loro contributo culturale e anzi limitando la durata della loro permanenza. Ci sono poi quelli che accolgono soltanto gli immigrati altamente qualificati escludendo gli stranieri che a loro meno "convengono", come, per esempio, i rifugiati. Tali restrizioni possono anche favorire movimenti irregolari di immigrati, forse utili per l’economia locale, ma con scarsa possibilità per loro di integrazione nel Paese.

3. La vera integrazione ha luogo là dove l’interazione tra gli immigrati e la popolazione autoctona non si verifica soltanto dal punto di vista economico ma anche culturale. Ambedue le parti devono essere disposte a farlo, giacché motore dell’integrazione è il dialogo. Qui entra in gioco la missione della comunità cristiana, chiamata a dare il proprio contributo affinché i rapporti tra autoctoni e stranieri siano caratterizzati da quel "dialogo fra uomini di culture diverse in un contesto di pluralismo che vada oltre la semplice tolleranza e giunga alla simpatia" (n. 3). Ecco il contesto in cui nasce l’atteggiamento cattolico cristiano verso l’integrazione, nel vero senso della parola. Esso implica mutua stima e simpatia, reciproco apprezzamento con conseguente fecondazione delle culture, in un ambiente di "autentica comprensione e benevolenza" (n. 3). Mira a formare, con il contributo di tutti, "società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini" (n. 1). Ovviamente, qui si va al di là dell’assimilazione.

L’integrazione è dunque un progetto a lungo termine, che coinvolge tanto i migranti quanto gli autoctoni in un "clima di ‘ragionevolezza civica’ che consente una convivenza amichevole e serena" (n. 3). Quando si riconosce il benefico contributo che la presenza dell’immigrato –– con la sua cultura e i suoi talenti –– può donare alla società ospitante, egli stesso viene motivato a cercare un alto grado di interazione con tale società. È allora che si verifica una sana integrazione. L’immigrato può dunque sviluppare la propria identità socioculturale, senza timore di perderla, adattandola alla società di arrivo. Ha luogo così un arricchimento reciproco e la società si trasforma in un caleidoscopio, dove ogni cultura ha il suo posto nel comporre un unico disegno sempre più bello nella molteplicità.

E qui non vogliamo dimenticare l’aspetto missionario dell’integrazione, sia da parte del Paese ospitante che da parte degli immigrati cristiani: "I cristiani non possono poi rinunziare a predicare il Vangelo di Cristo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15). Lo devono fare, ovviamente, nel rispetto della coscienza altrui, praticando sempre il metodo della carità, come già san Paolo raccomandava ai primi cristiani (cfr. Ef 4,15)" (n. 3).

Tutti i credenti sono dunque chiamati ad essere quelle "sentinelle del mattino" a cui spetta di scorgere, nella storia, la presenza di Dio "che intende radunare intorno a sé tutti i popoli e tutte le lingue" (cfr. Messaggio, n. 4).

[01934-01.01] [Testo originale: Italiano]

[B0595-XX.01]