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CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL VOLUME: "FEDE E MARTIRIO. LE CHIESE ORIENTALI CATTOLICHE NELL’EUROPA DEL NOVECENTO", 23.03.2004


CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL VOLUME: "FEDE E MARTIRIO. LE CHIESE ORIENTALI CATTOLICHE NELL’EUROPA DEL NOVECENTO"

INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. IGNACE MOUSSA I DAOUD

INTERVENTO DEL PROF. ANDREA RICCARDI

INTERVENTO DI S.E. MONS. PAVLO VASYLYK

INTERVENTO DI MONS. TERTULIAN IOAN LANGA

Alle 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si svolge la Conferenza Stampa di presentazione del volume: "Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell’Europa del Novecento", (Atti del Convegno di storia ecclesiastica contemporanea - Città del Vaticano, 22-24 ottobre 1998), edito dalla Libreria Editrice Vaticana 2003.

Partecipano: l’Em.mo Card. Ignace Moussa I Daoud, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali; il Prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio; S.E. Mons. Pavlo Vasylyk, Vescovo dell’Eparchia di Kolomyia-Chernivtsi (Ucraina); e Mons. Tertulian Ioan Langa, dell’Eparchia di Cluj-Gherla (Romania).

Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:

INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. IGNACE MOUSSA I DAOUD

Eminenza,

Eccellenze,

Signore e Signori,

sono lieto di porgere il più cordiale benvenuto a tutti Loro, gentilmente convenuti alla presentazione del volume Fede e martirio. Le Chiese Orientali Cattoliche nell’Europa del Novecento, edito dalla Libreria Editrice Vaticana.

Ai Signori Cardinali, a tutti i Confratelli Vescovi e distinti Ospiti la viva gratitudine per questa presenza che onora la nostra Congregazione e le Chiese Orientali.

La pubblicazione, che da poco ha visto la luce, ci fa scoprire anzitutto un gran numero di martiri. Dice il salmo 62: "La tua grazia vale più della vita". E’ questa l’esperienza vissuta in prima persona da tanti martiri e testimoni della fede così vicini a noi. Domenica 7 maggio 2000, al Colosseo, il Santo Padre nel contesto del Grande Giubileo ha commemorato solennemente il martirio dei cristiani nel Novecento. Questi "nuovi martiri" sono tanto numerosi da non poter passare per i processi canonici usuali della Chiesa al fine di essere riconosciuti per la loro eroicità. Ma sono martiri autentici, che hanno effuso il loro sangue per la fede nel Vangelo, per l’amore di Cristo, per l’obbedienza al Padre. Sono figure di credenti, vescovi, sacerdoti, consacrati e laici che sono rimasti ai loro posti, ritenendo che la grazia del Signore valesse più della vita.

Papa Giovanni Paolo II, nella Tertio millennio adveniente, ha scritto: "Per quanto è possibile non devono andare perdute nella Chiesa le loro testimonianze (...) le Chiese locali facciano di tutto per non lasciar perire la memoria di quanti hanno subito il martirio, raccogliendo la necessaria documentazione".

Sulla base di questo invito del Santo Padre è stato promosso nel 1998 dal mio precedessore, il Cardinale Achille Silvestrini, il Convegno internazionale i cui Atti oggi presentiamo. Alla ricchezza dei contributi offerti e alla varietà degli scenari toccati, abbiamo aggiunto una Appendice di documentazione inedita, che sfiora cronologicamente gli anni Sessanta. E’ commovente leggervi le testimonianze di fede, di coraggio, di altruismo, di figure come il Vescovo Gojdić dell’Eparchia di Prešov, o del Vescovo Redentorista Velyčkovkyj che fu un anello decisivo per la sopravvivenza clandestina della Chiesa orientale cattolica in Ucraina. O, ancora, dell’Arcivescovo degli armeni cattolici di Mardin, il Beato Ignace Maloyan, nella cui ultima lettera appare serenamente consapevole che "le rocher de Saint Pierre, sur lequel notre Seigneur a bâti son éternelle Eglise" ha come fondamento il martirio.

Nel volume troviamo documentate le vicende di soppressione delle varie Chiese orientali cattoliche: Ucraina, Romena, Slovacca e Rutena. Esse, un tempo cancellate dalla storia, sono risorte e oggi si preoccupano di non perdere la memoria della persecuzione. In particolare a L’viv è stato creato sin dal 1992 un benemerito Istituto di Storia della Chiesa, che ha raccolto migliaia di testimonianze e documenti sulla vita religiosa negli anni della persecuzione. Ma altre iniziative, anche a carattere ecumenico, si muovono nella stessa direzione.

La conoscenza della storia è decisiva per l’identità. Alcune Chiese orientali cattoliche sono state così duramente combattute da perdere tanto in personale, in beni, in memoria, mentre i fedeli erano costretti a frequentare le uniche chiese aperte, quelle ortodosse e talora quelle latine. Dopo tante sofferenze, la memoria storica aiuta a ritrovare appieno le radici.

La pubblicazione non tace i responsabili di tante sofferenze. Ma non c’è rancore. Malgrado relazioni storicamente difficili, in molti casi durante il "secolo dei martiri" cattolici orientali e di altre confessioni hanno saputo soffrire insieme nelle carceri, nei gulag, nei campi di lavoro forzato. Per riprendere ancora le parole del Papa, abbiamo ricevuto in dono "l’ecumenismo dei santi, dei martiri, forse il più convincente".

Non c’è rancore - lo ripeto - anche perché la memoria dei martiri è sempre purificante.

Il martire è assimilabile ai miti e misericordiosi delle Beatitudini, perché perdona, perché neppure cerca il martirio, non pensa a chi lo potrebbe uccidere, ma semplicemente sceglie di dare la vita, di vivere misericordiosamente. Offre la vita, non si affanna per preservarla ad ogni costo.

E’ nostra speranza che il presente volume non costituisca un punto di arrivo! Continueremo a raccogliere documenti e a riflettere sui testimoni della fede delle nostre Chiese, che hanno reso ragione di tanti pregiudizi. Su questo punto vorrei citare una sola delle pagine più incisive che ci sono offerte: "I greco-cattolici, considerati dagli ortodossi come dei falsi orientali, e dai latini come dei cattolici non a parte intera, rivelano nella persecuzione comunista un radicamento religioso straordinario e una lealtà a tutta prova verso la Chiesa romana".

Testimoni e martiri ci ispirano nella preghiera, ci spronano all’apostolato, ci confermano nella fede. E intercedono presso il Signore per lo sviluppo delle loro chiese, che hanno già conosciuto una provvidenziale rinascita. Così la grazia del Signore, dopo averle "vagliate nel fuoco", le colma ora di certa speranza per l’avvenire.

Grazie.

[00431-01.01] [Testo originale: Italiano]

INTERVENTO DEL PROF. ANDREA RICCARDI

Questo volume raccoglie gli Atti di un convegno tenutosi nel 1998 sul martirio nelle Chiese cattoliche orientali lungo il XX secolo. E’ un lavoro notevole che si colloca in quel filone di studi suscitato dalla grande intuizione di Giovanni Paolo II, per cui la Chiesa del Novecento è tornata ad essere una Chiesa di martiri, come ha detto e scritto più volte. E’ una coscienza che, malgrado le tante informazioni che si avevano fino ad allora, stentava ad affermarsi e che ha trovato poco spazio nello stesso Concilio Vaticano II. Per Giovanni Paolo II si tratta anche di un’esperienza personale tra nazismo e comunismo in Polonia. Questo richiama al dovere della memoria.

La memoria – prima di tutto- è coscienza e sentimento della Chiesa. Ha una sua dimensione liturgica e spirituale, come sottolinea il card. Moussa Daud nella presentazione del volume citando Giovanni il Solitario, asceta siriaco del 300: "Medita sulle sofferenze dei martiri, per poter conoscere quanto grande è l’amore di Dio". La memoria dei martiri porta ad una conoscenza rinnovata di Dio e della Chiesa. Getta nuova luce sulla Chiesa. Chi ricorda il clima della commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del XX secolo al Colosseo, alla quale ho avuto l’onore di lavorare, ha chiaro il significato di questa memoria dei martiri. Tale memoria deve ancora entrare nella spiritualità dei singoli e nel costume delle comunità cristiane. Siamo troppo esclusivamente ripiegati sul presente o preoccupati del domani. La memoria dei martiri richiama a quella dimensione fondamentale della fede che è la tradizione di generazione in generazione: diventa rivelatrice di quello che l’esistenza cristiana è. In questa prospettiva, per volontà del Santo Padre, la basilica di San Bartolomeo, affidata alla Comunità di Sant’Egidio, è stata dedicata alla memoria dei testimoni della fede del XX: memoria del martirio e preghiera si intrecciano, insieme si contemplano nella bella icona sull’altare maggiore che raffigura i martiri del Novecento.

Ma –ed è l’aspetto a cui è dedicato questo volume- la memoria ha un suo aspetto storico. L’intuizione del XX secolo come secolo del martirio ha un suo valore di carattere storiografico. Ho tentato di mostrarlo nel 2000 con un libro, Il secolo del martirio, in cui provo a tracciare un affresco delle tante situazioni drammatiche della Chiesa nel Novecento: martirio per la missione, per gli odi religiosi, per la carità o la giustizia, per la persecuzione dello Stato, per quella dei regimi comunisti, per quella nazista e via dicendo. Spesso ricordo come, quando mi sono messo a lavorare sulle testimonianze dei martiri, credevo di conoscere la storia della Chiesa del XX secolo: ma poi ho avuto la sensazione di vedere un’altra storia, quasi scendendo nelle sue catacombe. Questa ricerca va approfondita, soprattutto con la raccolta di documenti e testimonianza, perché spesso il martire è un testimone poco conosciuto, dimenticato, talvolta anonimo. Scrive negli anni Trenta un poeta cinese, Ai Quing, in prigione, mentre leggeva il Vangelo:

"E chi potrà negli strati terrestri

trovare

le lacrime dei sacrificati

che hanno sofferto tutte le pene?

Quelle lacrime

sono chiuse tra migliaia di sbarre di ferro

ma c’è una sola chiave

che possa aprire quelle inferriate

e i coraggioso innumerevoli che hanno voluto impadronirsi della chiave

sono tutti morti

sotto le armi dei guardiani.

Se potessi raccogliere una di quelle lacrime..."

Raccogliere una di quelle lacrime: questo è il compito della memoria storica. E’ compito della memoria storica collocare queste lacrime sul terreno concreto delle diverse "valli" per usare un’espressione della Salve Regina. Ma è anche compito dello storico guardare in faccia l’aggressore e il persecutore, quella coppia strana ma reale tra martire e persecutore: comprendere i suoi motivi, i suoi metodi, i suoi disegni. Bisogna ritrovare la chiave dell’inferriata che imprigiona la memoria di tanta sofferenza. La storia, pazientemente, può ritrovare questa chiave.

Questo libro, promosso dalla Congregazione per le Chiese Orientali, è un lavoro di memoria storica che si colloca bene nella tradizione di cultura di questo dicastero che non è solo di governo e di sostegno, ma anche culturale. Lo si è visto nell’aiuto alle Chiese Orientali a riscoprire la loro tradizione. Lo si è visto nell’opera di uno dei suoi segretari, il grande orientalista card. Tisserant. Lo si vede in questo convegno, promosso dalla sensibilità storica del card. Silvestrini nel 1998. Infine si vede l’impegno culturale della Congregazione dal livello con cui è curato e conservato il suo importante Archivio Storico, in particolare dal dott. Gianpaolo Rigotti (lo dico per averci lavorato). Questo Archivio, come si vede anche da questo volume, rappresenta un bene culturale ed ecclesiale prezioso.

Il convegno utilizza in parte le fonti archivistiche della congregazione e di altre istituzioni, su cui troviamo un’ampia disamina alla fine del volume assieme alla pubblicazione di qualche documento, che ha un sapore struggente, come la lettera dalla Subcarpazia, firmata "orfani di Subcarpazia", sulla morte violenta di mons. Teodor Romza, vescovo di Mugacevo (su cui abbiamo un bel libro di Puskàs pubblicato dalla Casa dalla Matriona). Gli Archivi della congregazione rappresentano una memoria unica per Chiese, come quelle Orientali, che hanno conosciute vicende travagliate con la dispersione dei propri fondi archivistici. Ma sono anche la testimonianza di quella sollecitudine per le Chiese d’Oriente che è propria del papa e della congregazione anche in tempi in cui non erano possibili contatti. E’ il grande cruccio di Pio XII per i cattolici nell’Est e nel gulag, testimoniato da tanti atti. E’ la preoccupazione di Giovanni XXIII, manifestata ad esempio dall’idea di chiedere a Chruscev la liberazione del metropolita degli ucraini Slypyi dal gulag sovietico. C’è una memoria della congregazione e del papa che significa non dimenticare i perseguitati: il che comporta talvolta dire forte il dolore per questa situazione, altre volte cercare di alleviarla, altre volte cercare la comunicazione con i perseguitati. Questo sarebbe tutto un tema da sviluppare: la sollecitudine per le Chiese orientali come non dimenticare i perseguitati...

Il martirio dei cattolici orientali si collega anche alla loro particolare situazione, quella di appartenere a due mondi: il mondo della tradizione orientale e il mondo della Chiesa cattolica. Molto spesso i cattolici orientali sono dei passeur tra mondi differenti con tutti i disagi e le incomprensioni dei ponti, ma anche con una propria funzione. Un grande vescovo orientale, padre conciliare, l’aleppino e melkita, mons. Edelby, affermava in una conferenza (lo diceva lui e io non mi permetterei di dirlo): "soffriamo come figli di divorziati". Per questo il martirio dei cattolici orientali, come gente che sta sulla frontiera tra due mondi, è spesso più duro dei latini o degli ortodossi.

Lo si vede in Romania, a cui sono dedicati tre saggi e, forse, si può scrivere molto di più. Lo si vede nell’Est europeo, dominato dal sistema comunista, che guarda con diffidenza il legame dei cattolici con Roma. Nella politica comunista il modello era quello di comunità cristiane, concentrate sul solo culto e chiuse nei confini nazionali. Era il modello delle Chiese cattoliche controllate dallo Stato e private dei rapporti con Roma. Insomma quel modello che viene realizzato nell’Albania di Enver Hoxha con la Chiesa patriottica (anche se i vescovi albanesi mantengono sempre un legame con Roma). E al piccolo cattolicesimo orientale albanese (ricordo la chiesa di Elbasan, che ho visto dall’esterno quando era stata trasformata dal regime comunista per usi profani) è dedicato un bel saggio che racconta la storia dolorosa di uomini e di fedeltà. Ovunque nell’Est, per orientali e latini, il primo punto da colpire era il legame con Roma. Mi raccontava il metropolita ucraino Sterniuk, nella sua povera stanza in un appartamento in coabitazione a Leopoli e con il suo francese appreso in Belgio e riemerso improvvisamente, quando era ancora clandestino: "L’ufficiale del KGB mi dice: fai pure le tue superstizioni, ma se hai contatto con gli stranieri e con Roma, allora sei finito...".

I cattolici orientali sono una specie che la politica comunista non ammette in nessuna parte dell’impero dell’Est (dalla Cecoslovacchia alla Romania), se non con rare eccezioni come nella piccola e sofferente comunità bulgara e in quella ungherese. Queste pagine illustrano il disegno sovietico di far sparire il cattolicesimo orientale. Ricordo come fondamentale il saggio introduttivo di Roberto Morozzo della Rocca che è un vero sguardo complessivo sulla frontiera delicata tra cattolicesimo vissuto e Europa dell’Est. Un saggio che va completato con la lettura di quello documentato di Iakovenko e Vasilieva.

Il cattolicesimo orientale è un non senso per il potere zarista. Il governatore russo della Galizia durante la guerra dichiara: "Io non ammetto in Europa orientale che tre religioni: l’ortodossa, la cattolica, l’ebraica. Gli uniati sono traditori dell’ortodossia...". C’è un’impressionante continuità sui cattolici orientali tra la politica zarista e quella sovietica, tanto che –si legge nel volume- fin dal febbraio 1945 il segretario comunista dell’Ucraina, Chruscev, scriveva a Stalin a proposito dell’inizio del processo di incorporazione della Chiesa greco-cattolica nell’ortodossia. Siamo prima della fine della guerra mondiale e il sinodo di Leopoli, manovrato dai servizi segreti, è del 1946. E’ una continuità nazionalbolscevica tra zar e Stalin: l’interesse è che si allarghi l’ortodossia specie laddove le frontiere sono incerte con l’idea (smentita dalla storia) che ortodosso vuol dire russo. Mi ricordo come il defunto ambasciatore Karlov, primo rappresentante sovietico in Vaticano, mi dicesse ancora nel 1989 a Mosca nella sede del ministero degli esteri sovietico come la legalizzazione della Chiesa greco-cattolica non era possibile e che i cattolici orientali avrebbero potuto al massimo afferire ad un vescovato latino; ma poi mi spiegava contraddittoriamente come gli Hara Krisna (che in quel momento stavano manifestando davanti al ministero) avrebbero avuto presto una loro sistemazione giuridica nell’URSS.

Il grande problema è quello della libertà religiosa. Negare la vita alle comunità cattoliche orientali vuol dire negare la libertà religiosa e la libertà nel pluralismo. Era quel pluralismo che i regimi comunisti non potevano accettare.Qui la vicenda drammatica della soppressione della Chiesa cattolica ucraina, ma anche della sua sopravvivenza clandestina nell’ethos popolare e con una sua gerarchia. Slipyi nel 1963, di passaggio per Mosca verso Roma, liberato grazie a papa Giovanni, convoca il redentorista Velyckoskyi da Leopoli e lo ordina vescovo nella sua camera da letto nell’hotel moscovita (era presente il card. Willebrands che me lo ha raccontato e che aveva faticato a convincere l’arcivescovo a lasciare l’URSS. Velyckoskyi ordina clandestinamente Sterniuk a Leopoli e la Chiesa continua sino al 1989 in clandestinità. Perché –questo va ricordato- il martirio di alcuni è anche la possibilità di continuare nella clandestinità o di avere punti di riferimenti nella dolorosa diaspora. In questo senso, nell’Est europeo, per cattolici, ortodossi e protestanti, non c’è solo martirio dei gerarchi o dei preti o delle religiose e dei religiosi, ma si deve parlare di un vero martirio di popolo.

Ma il martire cristiano, nella coscienza dei cristiani, ha una sua funzione specifica: non chiama alla vendetta e nemmeno alla rivendicazione. Oggi martire è parola abusata nel nostro linguaggio. Si parla di martirio in senso laico. Si parla di martirio per i kamikaze islamisti. Ma lo sahid, il "martire" suicida, è ben diverso dal martire cristiano. Il martire cristiano non si uccide per uccidere altri. Il martire cristiano dà la propria vita perché altri non siano uccisi, per non abbandonare la propria fede, per sostenere gli altri credenti, per amore. Non cerca la morte, ma non rinuncia alla propria fede o a un comportamento umano a prezzo di salvare la propria vita. Questa è una storia che scorre in queste pagine.

Nel concludere queste mie osservazioni vorrei dire che il convegno e il volume rappresentano un inizio per non dimenticare e per promuovere nuove ricerche. Non dimenticare non è un appello all’odio contro i persecutori o contro i loro eredi. Ma la memoria fa parte della coscienza e della storia della Chiesa. Sono pericolose le amnesie nella vita della Chiesa. Per questo è necessario continuare a lavorare anche nel settore dell’Est europeo. Ci sono in particolare gli archivi degli organi di polizia e delle istituzioni comuniste che, con la loro meticolosità, hanno conservato la memoria di tanti cristiani caduti e delle loro sofferenze. Leggevo una tesi, molto bella, sulla Chiesa di Kiev: il materiale archivistico sovietico fa emergere un vero martirologio dei cristiani tra il 1917. Tuttavia bisogne tener conto che il martire cristiano del XX secolo spesso non è accusato solo per la sua fede: è diffamato, incolpato di fare politica, di nazionalismo, di sovversivismo, di tanti e diversi reati... In un certo senso chi lo colpisce vuole occultare le motivazioni cristiane dell’odio, banalizzare e infamare.

C’è però un settore, proprio per le Chiese Orientali, dove molto resta da fare: ed è il Medio Oriente. Qui i cattolici orientali, anche nel Novecento, hanno molto sofferto, anzi hanno una loro storia di martirio. Boghos Levon Zekiayn dedica un saggio agli armeni cattolici dalle origini al Novecento. Ed è l’unico contributo sul cattolicesimo del Medio Oriente che non trova altro spazio in questo volume. Ma invece ci sono storie che debbono emergere e su cui ci sono archivi molto ricchi. Non si tratta solo di storie antiche, come la faticosa conquista della libertà religiosa per i cattolici orientali nell’impero ottomano che avviene solo, a prezzo piuttosto duro, nel cuore dell’Ottocento. Non si tratta delle vicende ottocentesche dei massacri in Libano o di quelli di Damasco nel 1860, che scossero l’Europa e che videro l’emiro Abd El Kader, un sufi (algerino sconfitto dai francesi) prendere le difese dei cristiani damasceni dal popolino musulmano che li voleva sterminare.

Si tratta invece di storia e di martirio nel Novecento. Per la prima guerra mondiale basta pensare alle vicende dei siriaci, che avevano il loro patriarcato a Mardin (una città nel cuore delle stragi dei cristiani, su cui Marco Impagliazzo ha pubblicato importanti documenti) o a quelle dolorose dei caldei. Direi che, nella complessa vicenda mediorientale, i cattolici orientali delle diverse tradizioni hanno sempre pagato un tributo di sangue. Basterebbe ricordare la triste vicenda della guerra civile in Libano dove, accanto a motivazioni politiche o considerate tali, c’è stato anche un martirio di cristiani proprio per la loro fede. Questo è però lo spazio per nuove indagini e per un nuovo convegno, anche a partire dagli archivi della congregazione.

La realtà dei cattolici orientali è spesso connessa a situazioni di difficoltà, di sofferenza e di martirio. Se si eccettua l’India che è un caso particolare, i cattolici orientali si trovano in due grandi aree di confine tra mondi: nell’Est europeo tra il mondo ortodosso e quello cattolico-latino, in Medio Oriente tra i cristiani minoritari immersi nel mondo musulmano. Le loro sono collocazioni geografiche, religiose e culturali che ne fanno passeur, gente di connessione al di là delle frontiere, gente che accetta a fatica il rigore dei confini e delle semplificazioni e delle obbedienze che i politici e talvolta le Chiese perseguono. Le loro sono collocazioni storiche e religiose che parlano di connessione o di unità tra mondi, ma spesso sono percepite come elementi di divisione. Vorrei concludere dicendo che la difficoltà e la sofferenza hanno spesso accompagnato la sorte dei cattolici orientali. Ma, in tempi difficili, come nel Novecento, secolo della democrazia ma anche dei totalitarismi, la loro condizione è stata anche quella del martirio e di un martirio di popolo. Non si tratta di un lamento. Né di retorica. Ma, come si vede da questo volume, questa è storia. E, per la Chiesa, è memoria di fede.

[00432-01.01] [Testo originale: Italiano]

INTERVENTO DI S.E. MONS. PAVLO VASYLYK

Sono il vescovo dell’Eparchia di Kolomyia – Chernivtsi, Pavlo Vasylyk.

Sono nato l’8 agosto 1926 nel villaggio di Borislavci (che ora si trova in Polonia), in una famiglia profondamente religiosa. I miei genitori hanno avuto 11 figli.

Essendo ancora giovane, volevo già diventare sacerdote e pregavo molto il Signore per la mia vocazione.

Un ruolo molto importante per la crescita della mia consapevolezza religiosa ebbe l’atmosfera della famiglia e l’educazione dei genitori, insieme con i quali ogni domenica andavamo in chiesa. Tutto questo rafforzava la mia vocazione sacerdotale.

Dopo aver finito la scuola elementare nel villaggio di Ribotici, proseguii i miei studi nella città di Peremyshl’.

Nel 1945 fummo costretti ad abbandonare la terra natale e a trasferirci nella Ucraina sovietica, nella provincia di Ternopil’.

Il 1° aprile 1947 fui arrestato nella città di Leopoli e condannato a dieci anni per aver portato medicine ai feriti ribelli, i quali combattevano conto i comunisti. Nei campi sovietici di concentramento, dove dovetti scontare la condanna, c’erano molti sacerdoti con i quali ebbi sempre contatto e i quali influenzarono molto la mia educazione spirituale e teologica.

Il 1° gennaio 1950, come studente di teologia fui ordinato diacono dal vescovo della Chiesa delle catacombe. Da quel momento, scontando la condanna nei campi di concentramento, iniziai la mia attività pastorale, secondo il mio stato. Ho cominciato subito a predicare, a celebrare i vespri, ad organizzare corsi di catechesi per i detenuti. Non so da dove veniva la forza per fare tutto questo, ma quello che è impossibile per la persona umana è, invece, possibile per il Signore. E questo è veramente così. Le condizioni in cui ci trovammo nei campi di concentramento furono spietate, peggiori di quelle dei campi di concentramento tedeschi. La gente moriva a causa del freddo, delle diverse malattie, delle costanti umiliazioni della dignità umana. In quel momento l’unica preoccupazione fu di non perdere la consapevolezza di essere delle persone umane, di non ridurre la vita allo stato dell’esistenza degli animali. Perciò il Vangelo diventò per noi quella sorgente d’acqua viva, grazie alla quale eravamo rimasti non soltanto persone umane, ma anche cristiani. Nei campi di concentramento alle nostre celebrazioni liturgiche partecipavano ucraini, russi, tedeschi, kazachi. Le condizioni disperate riunivano persone di diverse nazioni, ma io direi che fu proprio il Signore a mostrarci come potevamo restare uniti, indipendentemente dalle nostre nazionalità.

La prima condanna durò dal 1947 fino al 1956.

Dopo esser stato liberato, tornai a casa, nella provincia di Ternopil’, dove vivevano i miei parenti. Il 18 novembre 1956 nella mia vita successe un evento straordinario, cioè nella città di Leopoli ricevetti la consacrazione sacerdotale dalle mani del beato vescovo martire, Mykola Cernec’kyj.

Cominciai subito a svolgere la mia attività pastorale che mi portò nelle diverse città e villaggi sia della provincia di Leopoli sia della provincia di Ternopil’ ed anche nelle zone di Transkarpazia, dove c’erano i fedeli greco-cattolici. Non fui lasciato mai in pace dagli agenti del Kgb che in pratica volevano distruggermi. Spesso essendo costretto a scappare, passavo le notti nei boschi, nei campi dei contadini oppure nelle loro stalle. A dire la verità, non avevo posto fisso dove alloggiare e qualche volta neanche il tempo di riposarmi, a causa della costante pressione da parte degli agenti del Kgb. Ma nonostante tutto continuavo a portare la parola di Cristo a molti fedeli della Chiesa greco-cattolica ucraina.

Il 22 gennaio 1959 fui di nuovo arrestato nella città di Stanislav (attuale Ivano-Frankivsk) e condannato a cinque anni di prigione e cinque anni d’esilio.

Dopo due settimane dal momento del mio arresto, vennero a trovarmi i rappresentanti del governo e del Kgb chiedendomi di passare alla Chiesa ortodossa oppure di rimanere nella prigione. Senza esitazione scelsi di trascorrere cinque anni nella prigione.

La seconda condanna la scontai nella Mordovyia dal 1959 al 1964. In quel luogo ebbi la possibilità d’incontrare il Metropolita Josyf Slipyj, testimone della fede, che scontava la sua condanna. Fu veramente una persona straordinaria e santa che cercò in ogni momento d’incoraggiarci e insegnò molte cose a noi sacerdoti, perché mancavano diversi libri teologici. E poi le sue parole mi aiutavano per l'attività pastorale.

Dopo esser stato rilasciato nell’anno 1964, dovevo scontare ancora cinque anni d’esilio, perciò mi fu proibito d’abitare nelle province dell’Ucraina occidentale. Nonostante la chiara proibizione continuavo di predicare nella parte occidentale dell’Ucraina, svolgendo contemporaneamente l’attività pastorale nelle zone dell’Ucraina orientale ed anche in Crimea.

Il 1° maggio 1974, come sacerdote della Chiesa greco-cattolica ucraina, ricevetti la consacrazione episcopale nel villaggio di Vilchivci, vicino alla città di Žydaciv, provincia di Ternopil’, dal vescovo della Chiesa delle catacombe, Josafat Fedoryk, ex detenuto dei campi di concentramento sovietici. Venuti a conoscenza della mia consacrazione episcopale, gli organi del Kgb mi chiamavano molto spesso, minacciando di arrestarmi. Ma con me era presente sempre il Signore: anche se avevo molta paura come ogni persona normale, ero convinto che contro la sua volontà non mi sarebbe successo niente, perciò in ogni preghiera rimettevo la mia vita nelle mani del Signore.

Nonostante le minacce, continuai a svolgere il mio dovere episcopale, celebrando le liturgie e predicando praticamente in tutta l’Ucraina sia occidentale sia orientale ed oltre i suoi confini, ossia a Mosca, a San Pietroburgo, nei Paesi baltici. La situazione era veramente difficile, ma in molte città e villaggi fondai le comunità ecclesiali. Spesso dagli agenti del Kgb con le minacce mi furono tolti i miei libri liturgici, i miei paramenti. A tutto questo rispondevo senza esitazione: "Se mi toglierete i miei paramenti la gente me ne comprerà altri. Non ci date le chiese, ma noi ne abbiamo centinaia, perché le case delle famiglie cristiane ormai da anni sono diventate per noi le chiese dove svolgiamo le celebrazioni liturgiche".

Il 4 agosto 1987, insieme con un gruppo di sacerdoti, di monaci, di suore e molti fedeli e con partecipazione del presidente del comitato per la difesa dei diritti di fedeli della Chiesa greco-cattolica ucraina in Unione Sovietica, Josyf Terelya, avevamo annunciato al mondo intero l’uscita della nostra Chiesa dalle catacombe alla piena e normale vita religiosa. Tale dichiarazione fu inviata a Sua Santità Giovanni Paolo II; inoltre, una copia fu mandata al Segretario Generale dell’Unione Sovietica, Michele Gorbaciov. Purtroppo sono stato l’unico vescovo ad aver firmato tale dichiarazione.

Il 17 luglio 1987 nella Zarvanycia celebrai con molti sacerdoti la solenne liturgia a cui presero parte più di 30 mila fedeli (gli agenti del Kgb avevano rilevato una presenza di 40 mila persone).

Durante la visita dei senatori degli Stati Uniti a Mosca, il 17 settembre 1988, fui invitato da loro ad un incontro, nel quale furono trattate le questioni religiose alla presenza dei rappresentanti del Consiglio Generale dell’Unione Sovietica. Raccontai ai senatori la situazione difficile nella quale si trovava la nostra Chiesa e la sua persecuzione.

Il 7 febbraio 1989 fui a capo della delegazione che a Mosca esigeva il riconoscimento della Chiesa greco-cattolica ucraina.

Il 16 maggio 1989, prima della riunione dei deputati del Consiglio Generale statale, giunse di nuovo a Mosca la delegazione della nostra Chiesa, alla quale presi parte anch’io. Furono presenti anche i vescovi S. Dmyterco, F. Kurchaba; i sacerdoti V. Vijtyshyn, I. Voznjak, entrambi adesso vescovi della Chiesa di Cristo; i sacerdoti Simcajlo e Senkiv ed anche numerosi fedeli. La nostra intenzione era di incontrare il Presidente dell’URSS, M. Gorbaciov. Dopo aver ricevuto un rifiuto abbiamo dichiarato lo sciopero della fame. Dopo tre giorni ci permisero di incontrarci con il deputato del Consiglio Generale statale, Sig. Juryi Xrystoradnyi, il quale ci diede la speranza che la nostra Chiesa sarebbe stata legalizzata.

Dal 12 al 16 gennaio 1990 a Mosca nel monastero di Daniliv si svolsero le trattative riguardanti la nostra Chiesa nelle quali presero parte i rappresentanti della Santa Sede e del Patriarcato di Mosca. Io fui uno dei rappresentanti della Chiesa greco-cattolica ucraina.

Dopo la solenne celebrazione della liturgia che si svolse l’8 gennaio 1998, sulla piazza davanti alla chiesa cattedrale di Ivano-Frankivsk, il governatore della provincia di Ivano-Frankivsk mi consegnò il decreto nel quale fu dichiarato che da quel giorno la chiesa cattedrale apparteneva alla Chiesa greco-cattolica ucraina.

Nel 1993 con la benedizione del Santo Padre fui nominato vescovo della nuova eparchia di Kolomyia-Chernivtsi. L’intronizzazione si svolse il 31 ottobre 1993 alla presenza di Sua Beatitudine Muroslav Ljubachivs’kyj, Arcivescovo Maggiore, del Nunzio Apostolico S. E. Mons. Antonio Franco, dei vescovi Sofron Dmyterco, Irynej Bilyk ed altri.

Nel 2000 abbiamo cominciato la costruzione della chiesa cattedrale della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo nella città di Kolomyia, come centro della vita spirituale e religiosa della nostra eparchia. Nell’antica città la chiesa cattedrale già oggi riunisce intorno a sé sia la gente colta sia gli studenti, anche se la costruzione non è finita ancora completamente. Speriamo di poterla consacrare presto, e ringraziamo Sua Santità Giovanni Paolo II che ci ha aiutato molto nella costruzione della nostra chiesa cattedrale.

Il 24 ottobre 2000 il rettore dell’Università di Seton negli Stati Uniti mi ha consegnato il titolo di dottorato honoris causa in scienze umanitarie.

Continuo a svolgere il mio ministero episcopale nella vigna del Signore per il bene della nostra Chiesa. Per tutto questo lodo il Signore e ringrazio profondamente Sua Santità Giovanni Paolo II.

[00430-01.01] [Testo originale: Italiano]

INTERVENTO DI MONS. TERTULIAN IOAN LANGA

Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste …

Avendo come formatore spirituale, già dalla prima adolescenza, colui che sarebbe stato il Vescovo martire Ioan Suciu, e poi come guide intellettuali altri tre martiri - Monsignor Vladimir Ghika, il Vescovo Vasilie Aftenie e il Vescovo Tit-Liviu Chinezu, tutti vittime del comunismo ateo - era normale che tutta la mia vita portasse l’impronta della loro spiritualità. Attraverso loro ho scoperto cosa sia il comunismo, cosa significhi eliminare Cristo dalla vita sociale e quanto mutilata possa diventare l’anima umana, l’intera società e la famiglia senza Chiesa, senza la Santissima Eucaristia e senza il culto della Santissima Vergine. In più, come uomo con il senso della realtà storica e sociale, non ho potuto ignorare la massiccia e minacciosa presenza sovietica atea alle frontiere della Romania e della nostra spiritualità. A questi fattori devo tutto l’orientamento spirituale e storico della mia vita. A me spetta soltanto la recettività.

La presenza violenta ed atroce del comunismo ateo non ha costituito per gli occidentali una realtà immediata e concreta, ma meramente libresca. Ciò spiega la differenza flagrante di percezione e di reazione di fronte al comunismo che manifestano i cristiani e gli intellettuali di Occidente, paragonata a coloro, nell’Est europeo, che hanno vissuto e subìto il mondo comunista.

A 24 anni, nel 1946, ero un neo assistente alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Bucarest. La presenza brutale e umiliante delle truppe sovietiche, che avevano occupato quasi un terzo del territorio nazionale, l’ho subìta, a livello personale, col fatto che mi era stato intimato, come membro del Corpo didattico universitario, di iscrivermi di urgenza nel Sindacato manipolato dal Partito comunista e imposto al potere dai blindati sovietici.

Già d’allora ero pienamente edificato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa Cattolica aveva adottato contro il comunismo dichiarato avente un male intrinseco. Con questa informazione di principio radicale non trovavano posto nella mia coscienza pretesti per un compromesso. Ho rinunciato alla carriera universitaria, presentando spontaneamente le dimissioni e ritirandomi in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla Facoltà, come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico anche un dossier penale; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il Codice Penale non incriminava fino a quell’epoca (rapporti stretti con il nostro Episcopato, con la Nunziatura, e anche l’apostolato laico), il mio Dossier fu affiancato a quello della grande industria. Dopo atroci trattamenti durante gli interrogatori, il Procuratore, in istanza, dichiarò che "Al dossier dell’accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui" – in una perfetta logica atea. Replicai: "Non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!" "Non è possibile ? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la Giustizia del popolo. Questa è la sentenza definitiva ed irrevocabile". Quindi è stato possibile …

Considero che sia un esempio edificante, per chiunque, su che cosa significhi una giustizia comunista, come quella che noi abbiamo sopportato e subìto e ancora subiamo, ora che stiamo per rientrare in Europa. Ciò avveniva quando la Chiesa Greco-Cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge, quando si dava per scontato che il mio arresto e le torture inflittemi sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione dei Vescovi nostri, della Chiesa Greco-Cattolica, e della Nunziatura.

Riferisco soltanto alcuni momenti più significativi, tra le centinaia che ho vissuto, durante gli interrogatori e la detenzione nelle prigioni e nei campi di sterminio comunisti.

Sono stato arrestato a Blaj, nell’ufficio del Vescovo Ioan Suciu, allora Amministratore Apostolico della Metropolia Greco-Cattolica di Romania. Mi ero presentato al Capo della nostra Chiesa per chiedere un consiglio alla Santa Provvidenza, giacché il mio padre spirituale, mons. Vladimir Ghika, era all’epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l’estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la Provvidenza. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita, a tempo indeterminato, nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza …

Descriverò un particolare momento. Era il Giovedì Santo dell’anno 1948. Fino allora, per due settimane, ogni giorno ero percosso con un ferro, sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei veri fulmini sembrava che mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda: mi preparavano col ferro, per arrivare più morbido all’interrogatorio. Legato dalle mani e dai piedi e appeso con la testa verso il suolo, i miei carcerieri mi avevano infilato in bocca un calzino, usato a lungo negli scarponi e in bocca da altri beneficiari dell’umanismo socialista. Il calzino era diventato il nuovo metodo antifonico attraverso il quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell’interrogatorio. D’altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psichicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi. I miei torturatori hanno interpretato questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. Continuarono più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte e giorno dopo giorno. Non chiedevano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l’annichilamento della personalità, fatto che tardava ad avverarsi. E allungando sempre lo sforzo di annichilire la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi sfracellati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo.

Nella notte, nei paraggi, in una chiesa sperduta, si celebrava un ufficio liturgico, come pianto dai suoni spenti di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito tutto per intero il mio grido muto, quando, in qualche modo, ho urlato. E come se ho urlato! Come dall’inferno: GESÙ! GESÙ! ... Evaso attraverso il calzino, il mio grido non è stato compreso. Ma, trattandosi del primo suono che sentivano, gli aguzzini si dichiararono contenti, considerando che mi avevano piegato. Poi, mi trascinarono con la coperta, fino alla cella dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l’inquirente, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati e i parenti, i compagni e i conoscenti, i Vescovi, i Sacerdoti, i religiosi e le religiosi e su politici, i Professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta. Ma non scrissi nulla; non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza.

Dopo circa quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?" Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso!" Certo, perché di nuovo non avevo scritto nulla. Non soltanto il corpo, ma sembra che anche la mente era svuotata. Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda, sul pavimento di mosaico: conforto specifico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò, dopo un po’ di tempo, davanti alla porta. "Vediamo, cosa c’è allora sulla carta? ... Nulla, non hai nulla ? Sempre ostinato! Abbiamo anche altri metodi." Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane-lupo immenso, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? E’ Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne1. Lei ti insegnerà cosa devi fare. Comincia a correre!". "Come a correre in una stanza di soli 3 metri?". Nella stanza c’era poi una lampadina di 300 watt: enorme per una stanza larga solo 2 metri e lunga solo 3; lampadina fissata non in alto, ma sul muro, a livello del viso. "Comincia a correre!" La lupa, ringhiando in modo truce, stava pronta ad attaccare. Corsi per circa sei – sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l’alba, vedendo la luce facendosi strada nella cella e sentendo movimenti nell’edificio. Ogni tanto faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso … Quando cominciai a perdere l’equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come al comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio …

Ho corso, sotto i suoi occhi e le sue zanne, per ben 39 ore, senza interruzione! Ma alla fine, crollai. Non ho adesso il tempo a disposizione per descrivervi la psicologia di una corsa sotto la minaccia di una lupa. Quando mi fermai, si lanciò su di me. Mi azzannò il collo, senza strozzarmi però la gola. Come stavo così, sdraiato, vedevo solo una forma indefinita scura. Non riuscivo a distinguere bene. Soltanto quando, sulla fronte e sulle palpebre, sentii scorrere qualcosa caldo e bruciante, capii che la bestia, schifata, mi orinò sul viso. Dalle parole dei miei carnefici, ho capito che avevo corso per 39 ore. "Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!" Vedendo che nemmeno la Maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui Vescovi, sulla Nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare ad un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia.

Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono, mani e piedi, su una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Non riuscivo a decifrare il decoro. Dietro si è impalato un aguzzino: muto, come un intero paese imbavagliato. Ad una scrivania nell’angolo, un individuo calvo con un pizzetto di caprone, che si voleva rassomigliante a Lenin. Muto anche lui, fece un segno muovendo solo la testa. Il mio boia capì il comando. Prese in mano il sacchetto e me lo scaraventò in testa, non molto violento, ma ritmico, accompagnando ogni colpo dalla parola: PARLA! e di nuovo: PARLA! decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: PARLA! Solo che nessuno mi chiedeva qualcosa. Soltanto una voce di caverna, monotona, mi ficcava nel cervello l’idea imperativa e irreprensibile di dire, di rispondere ad ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall’organo inquisitore. Non mi fu difficile di decifrare la satanica idea di voler eliminare e subordinare la mia volontà. Dopo circa 20 colpi, cominciai ad applicare, anche lì, il principio morale: Agere contra, dicendomi in coscienza: NON PARLO ! ad ogni colpo: NON PARLO ! decine di volte, centinaia di volte. Con l’auto-suggestione mi ero impiantato lo stereotipo NON PARLO ! - l’unica maniera per non essere manovrabile, col rischio di diventare schiavo di quest’unico modo di esprimermi. Il fatto si confermò d’altronde quando, d’allora in poi, automaticamente, irreprensibilmente, ad ogni domanda rivoltami, non importa su quale argomento, io rispondevo con NON PARLO ! Mi rendevo conto del blocco intellettuale e addirittura intravedevo un farsi permanente di questo stato. Tentai, per un anno intero, di combatterlo, e con molta difficoltà riuscii a liberarmi di questo sinistro riflesso automatico.

Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, profonda, a 8 metri sotto terra, che era stata costruita un tempo come fortezza di difesa della Capitale, ma allora completamente inutilizzabile, a causa delle forti infiltrazioni di acqua che penetravano il beton. Nulla e nessuno vi resisteva. Solo l’uomo, il più alto tesoro del materialismo storico! Nelle stanze di Jilava, i poveri uomini facevano l’esperienza delle sardine: però non nell’olio, ma nel succo proprio, di sudori, orine e acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sulle mura. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: lungo due metri e largo ventotto centimetri, per una persona stesa per terra, sul fianco. Alcuni, più anziani, stavano stesi su delle tavole di legno, senza lenzuola o coperta. Il contatto col legno avveniva mediante l’osso omerale, la protuberanza più rilevante dell’articolazione cogito-femorale, e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull’anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezzora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l’altro, ci voltavamo sull’altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, improvvisandosi in un letto a castello. Al di sotto di questi due, c’era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento i vapori di condensa dal respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all’orina che non entrava più nelle latrine improvvisate, costituivano una miscela viscosa in cui serpeggiavano i malcapitati di quest’ultimo livello. Al centro della stanza-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa 70-80 (settanta-ottanta) litri, per l’orina e le feci di 70 uomini. Non aveva coperchio, perciò l’odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, si supponeva che eri già passato per il "filtro", vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva verificato l’intero organismo ed ogni orificio.

Con una o bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui i banditi avessero nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l’ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno dell’egualitarismo che assicurava la stessa norma per tutti. Le finestre di Jilava non erano per offrire la luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano attentamente inchiodate con tavole di legno. La carenza d’aria era così grande che per respirare, tre per volta, ci susseguivamo, a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo rigorosamente 60 respiri, affinché anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dall’ipossiemia2 .

Contribuivamo, a nostro modo, all’edificazione del più umano sistema del mondo …

Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilivano che noi Rumeni fossimo dei destini macinati dalle fauci del moloc3 Orientale rosso, che facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità ? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa?

Da Jilava, saltando dei lunghi anni di profanazioni umane, siamo stati trasferiti, catene a piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka4, padiglione di terrore della prigione di Aiud. L’accoglienza ricevuta si è svolta secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell’uomo creato dall’amore di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conservazione in orine, sudori, condensa e ipossiemia, ma siamo stati sottomessi ad una intensa cura di ossigenazione. A pelle nuda, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) e il sottoscritto, che non rappresentavo nulla, tranne che un NON PARLO ! gigante, una ferma e umile fiducia nella grazia che mi avrebbe fatto superare la prova. Tutti dovevamo scomparire come nemici del popolo. Altrimenti, non poteva più farsi avanti il tanto proclamato Uomo nuovo sovietico, uomo che ancora si perpetua sulla nostra sofferenza. La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo o cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio, ed io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo.

Era verso la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono buttati un pantalone usato, una camicia di maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi del tutto consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa. E’arrivata in cambio una specie di latrina, un oggetto misero di circa quattro litri. Mi sono vestito come un razzo; congelato, il quarto giorno ci hanno contati. Al posto del nome, mi hanno dato un numero: K-1700 – l’anno in cui la Chiesa della Transilvania si ri-univa con Roma. Anagraficamente, ero già ucciso. Sopravvivevo solo statisticamente. Arrivò poi il "brodo", servito col mestolo da 125 (centoventicinque) grammi: uno lungo fluido risultato dalla bollitura della farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale ho potuto contare all’incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono un tè di crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale ho scoperto quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto riceve una gallina. Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno di qualche secondo, giacché il freddo era tagliente. Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall’altra parte del muro: "Qui Professor Tomescu (ex Ministro della Sanità). Chi sei ?" Sentendo il mio nome, disse: "Ho sentito parlare di te. Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non si muove, muore e diventa quindi collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi non si muove, muore! Passeggiare senza sosta! Chi si ferma, muore!" Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dall’enigmatica volontà del popolo di rimanere nella storia e della vocazione della Chiesa di rimanere viva. Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezzora quando il sole si fermava avaro per noi nell’angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, come privo di ragione, avanzando sillabando: NON VOGLIO MORIRE ! NON VOGLIO MORIRE ! e non sono morto ! Con ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, rimembravo Salmi.

Continuammo a passeggiare, così, inciampando verso la morte, 17 (diciassette) settimane. Chi non ebbe la forza o la determinazione di muoversi, si fermava nella morte. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo.

Ero convinto, credevo fortemente che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora lunga strada da percorrere. Arrivato poi in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa Greco-Cattolica e la Gerarchia della Chiesa Sorella non si lasciava sciogliere ancora; le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre, ucciso dalle promesse. Ma anche il Signore Cristo ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l’ultimo respiro: Consummatum est ! ... (Tutto è compiuto! )

Umilmente chiedo perdono a tutti coloro che "non ci sono più", per aver accettato che le centinaia di anni di prigione dei martiri dell’Unione li comprimessi in appena qualche pagina.

Non ho scritto molto di queste drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi della biologia possono essere superate dalla volontà ? E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto ? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questo che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l’hanno visto … Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui (Gv 6,66).

Nulla è per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia – impazienza benevola di Dio – e della nostra chance di rispondergli o temerarietà di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi di non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile. E’ invece un momento per capire che la grazia accolta non frena l’uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze e "le porte degli inferi non prevarranno contro di essa" (cfr. Mt 16,18); e che con questo incontro il Signore aspetta da ciascuno un agire personale e professionale. Questa testimonianza, cosa serve a me che racconto, come aiuta voi qui presenti, aprirà essa o chiuderà la porta di chi, tramite voi, la conoscerà ? Spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è di più il cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi.

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1 Le Montagne Făgăras famose come luogo di resistenza dei partigiani anticomunisti.

2 Carenza di ossigeno nei tessuti.

3 Dio semitico cui si sacrificavano vittime umane; (fig.) essere o entità di mostruosa e malefica potenza.

4 Significherebbe un carcere chiuso, gattabuia, di dimensioni ridotte, al buio.

[00433-01.02] [Testo originale: Italiano]

[B0143-XX.01]