DICHIARAZIONE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI ○ Testo in lingua italiana
○ Testo in lingua inglese
○ Testo in lingua francese
○ Testo in lingua tedesca
○ Testo in lingua spagnola
○ Testo in lingua portoghese
○ Testo in lingua italiana
Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che: «Non siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (can. 915). Negli ultimi anni alcuni autori hanno sostenuto, sulla base di diverse argomentazioni, che questo canone non sarebbe applicabile ai fedeli divorziati risposati. Viene riconosciuto che l’Esortazione Apostolica Familiaris consortio del 1981 aveva ribadito, al n. 84, tale divieto in termini inequivocabili, e che esso è stato più volte riaffermato in maniera espressa, specialmente nel 1992 dal Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650, e nel 1994 dalla Lettera Annus internationalis Familiae della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò nonostante, i predetti autori offrono varie interpretazioni del citato canone che concordano nell’escludere da esso in pratica la situazione dei divorziati risposati. Ad esempio, poiché il testo parla di «peccato grave» ci sarebbe bisogno di tutte le condizioni, anche soggettive, richieste per l’esistenza di un peccato mortale, per cui il ministro della Comunione non potrebbe emettere ab externo un giudizio del genere; inoltre, perché si parli di perseverare «ostinatamente» in quel peccato, occorrerebbe riscontrare un atteggiamento di sfida del fedele, dopo una legittima ammonizione del Pastore.
Davanti a questo preteso contrasto tra la disciplina del Codice del 1983 e gli insegnamenti costanti della Chiesa in materia, questo Pontificio Consiglio, d’accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede e con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, dichiara quanto segue:
1. La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa. Il testo scritturistico cui si rifà sempre la tradizione ecclesiale è quello di San Paolo: «Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1 Cor 11, 27-29).
Questo testo concerne anzitutto lo stesso fedele e la sua coscienza morale, e ciò è formulato dal Codice al successivo canone 916. Ma l’essere indegno perché si è in stato di peccato pone anche un grave problema giuridico nella Chiesa: appunto al termine «indegno» si rifà il canone del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali che è parallelo al can. 915 latino: «Devono essere allontanati dal ricevere la Divina Eucaristia coloro che sono pubblicamente indegni» (can. 712). In effetti, ricevere il corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale; è un comportamento che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra Comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’Eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli.
2. Qualunque interpretazione del can. 915 che si opponga al suo contenuto sostanziale, dichiarato ininterrottamente dal Magistero e dalla disciplina della Chiesa nei secoli, è chiaramente fuorviante. Non si può confondere il rispetto delle parole della legge (cfr. can. 17) con l’uso improprio delle stesse parole come strumenti per relativizzare o svuotare la sostanza dei precetti.
La formula «e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» è chiara e va compresa in un modo che non deformi il suo senso, rendendo la norma inapplicabile. Le tre condizioni richieste sono:
a) il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare;
b) l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale;
c) il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale.
Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi -quali, ad esempio, l’educazione dei figli- «soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, n. 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza. Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo.
3. Naturalmente la prudenza pastorale consiglia vivamente di evitare che si debba arrivare a casi di pubblico diniego della sacra Comunione. I Pastori devono adoperarsi per spiegare ai fedeli interessati il vero senso ecclesiale della norma, in modo che essi possano comprenderla o almeno rispettarla. Quando però si presentino situazioni in cui quelle precauzioni non abbiano avuto effetto o non siano state possibili, il ministro della distribuzione della Comunione deve rifiutarsi di darla a chi sia pubblicamente indegno. Lo farà con estrema carità, e cercherà di spiegare al momento opportuno le ragioni che a ciò l’hanno obbligato. Deve però farlo anche con fermezza, consapevole del valore che tali segni di fortezza hanno per il bene della Chiesa e delle anime.
Il discernimento dei casi di esclusione dalla Comunione eucaristica dei fedeli, che si trovino nella descritta condizione, spetta al Sacerdote responsabile della comunità. Questi darà precise istruzioni al diacono o all’eventuale ministro straordinario circa il modo di comportarsi nelle situazioni concrete.
4. Tenuto conto della natura della succitata norma (cfr. n. 1), nessuna autorità ecclesiastica può dispensare in alcun caso da quest’obbligo del ministro della sacra Comunione, né emanare direttive che lo contraddicano.
5. La Chiesa riafferma la sua sollecitudine materna per i fedeli che si trovano in questa situazione o in altre analoghe, che impediscano di essere ammessi alla mensa eucaristica. Quanto esposto in questa Dichiarazione non è in contraddizione con il grande desiderio di favorire la partecipazione di quei figli alla vita ecclesiale, che si può già esprimere in molte forme compatibili con la loro situazione. Anzi, il dovere di ribadire questa non possibilità di ammettere all’Eucaristia è condizione di vera pastoralità, di autentica preoccupazione per il bene di questi fedeli e di tutta la Chiesa, poiché indica le condizioni necessarie per la pienezza di quella conversione, cui tutti sono sempre invitati dal Signore, in modo particolare durante quest’Anno Santo del Grande Giubileo.
Dal Vaticano, 24 giugno 2000.
Solennità della Natività di San Giovanni Battista
Julián Herranz
Arcivescovo tit. di Vertara
Presidente
Bruno Bertagna
Vescovo tit. di Drivasto
Segretario
[01520-01.01] [Testo originale: Italiano]
○ Testo in lingua inglese
The Code of Canon Law establishes that "Those upon whom the penalty of excommunication or interdict has been imposed or declared, and others who obstinately persist in manifest grave sin, are not to be admitted to Holy Communion" (can. 915). In recent years some authors have sustained, using a variety of arguments, that this canon would not be applicable to faithful who are divorced and remarried. It is acknowledged that paragraph 84 of the Apostolic Exhortation Familiaris consortio, issued in 1981, had reiterated that prohibition in unequivocal terms and that it has been expressly reaffirmed many times, especially in paragraph 1650 of the Catechism of the Catholic Church, published in 1992, and in the Letter written in 1994 by the Congregation for the Doctrine of the Faith, Annus internationalis Familiae. That notwithstanding, the aforementioned authors offer various interpretations of the above-cited canon that exclude from its application the situation of those who are divorced and remarried. For example, since the text speaks of "grave sin", it would be necessary to establish the presence of all the conditions required for the existence of mortal sin, including those which are subjective, necessitating a judgment of a type that a minister of Communion could not make ab externo; moreover, given that the text speaks of those who "obstinately" persist in that sin, it would be necessary to verify an attitude of defiance on the part of an individual who had received a legitimate warning from the Pastor. Given this alleged contrast between the discipline of the 1983 Code and the constant teachings of the Church in this area, this Pontifical Council, in agreement with the Congregation for the Doctrine of the Faith and with the Congregation for Divine Worship and the Discipline of the Sacraments declares the following:
1. The prohibition found in the cited canon, by its nature, is derived from divine law and transcends the domain of positive ecclesiastical laws: the latter cannot introduce legislative changes which would oppose the doctrine of the Church. The scriptural text on which the ecclesial tradition has always relied is that of St. Paul: "This means that whoever eats the bread or drinks the cup of the Lord unworthily sins against the body and blood of the Lord. A man should examine himself first only then should he eat of the bread and drink of the cup. He who eats and drinks without recognizing the body eats and drinks a judgment on himself."
This text concerns in the first place the individual faithful and their moral conscience, a reality that is expressed as well by the Code in can. 916. But the unworthiness that comes from being in a state of sin also poses a serious juridical problem in the Church: indeed the canon of the Code of Canons of the Eastern Churches that is parallel to can. 915 CIC of the Latin Church makes reference to the term "unworthy": "Those who are publicly unworthy are forbidden from receiving the Divine Eucharist" (can. 712). In effect, the reception of the Body of Christ when one is publicly unworthy constitutes an objective harm to the ecclesial communion: it is a behavior that affects the rights of the Church and of all the faithful to live in accord with the exigencies of that communion. In the concrete case of the admission to Holy Communion of faithful who are divorced and remarried, the scandal, understood as an action that prompts others towards wrongdoing, affects at the same time both the sacrament of the Eucharist and the indissolubility of marriage. That scandal exists even if such behavior, unfortunately, no longer arouses surprise: in fact it is precisely with respect to the deformation of the conscience that it becomes more necessary for Pastors to act, with as much patience as firmness, as a protection to the sanctity of the Sacraments and a defense of Christian morality, and for the correct formation of the faithful.
2. Any interpretation of can. 915 that would set itself against the canon's substantial content, as declared uninterruptedly by the Magisterium and by the discipline of the Church throughout the centuries, is clearly misleading. One cannot confuse respect for the wording of the law (cfr. can. 17) with the improper use of the very same wording as an instrument for relativizing the precepts or emptying them of their substance.
The phrase "and others who obstinately persist in manifest grave sin" is clear and must be understood in a manner that does not distort its sense so as to render the norm inapplicable. The three required conditions are:
a) grave sin, understood objectively, being that the minister of Communion would not be able to judge from subjective imputability;
b) obstinate persistence, which means the existence of an objective situation of sin that endures in time and which the will of the individual member of the faithful does not bring to an end, no other requirements (attitude of defiance, prior warning, etc.) being necessary to establish the fundamental gravity of the situation in the Church.
c) the manifest character of the situation of grave habitual sin.
Those faithful who are divorced and remarried would not be considered to be within the situation of serious habitual sin who would not be able, for serious motives -such as, for example, the upbringing of the children-"to satisfy the obligation of separation, assuming the task of living in full continence, that is, abstaining from the acts proper to spouses" (Familiaris consortio, n. 84), and who on the basis of that intention have received the sacrament of Penance. Given that the fact that these faithful are not living more uxorio is per se occult, while their condition as persons who are divorced and remarried is per se manifest, they will be able to receive Eucharistic Communion only remoto scandalo.
3. Naturally, pastoral prudence would strongly suggest the avoidance of instances of public denial of Holy Communion. Pastors must strive to explain to the concerned faithful the true ecclesial sense of the norm, in such a way that they would be able to understand it or at least respect it. In those situations, however, in which these precautionary measures have not had their effect or in which they were not possible, the minister of Communion must refuse to distribute it to those who are publicly unworthy. They are to do this with extreme charity, and are to look for the opportune moment to explain the reasons that required the refusal. They must, however, do this with firmness, conscious of the value that such signs of strength have for the good of the Church and of souls.
The discernment of cases in which the faithful who find themselves in the described condition are to be excluded from Eucharistic Communion is the responsibility of the Priest who is responsible for the community. They are to give precise instructions to the deacon or to any extraordinary minister regarding the mode of acting in concrete situations.
4. Bearing in mind the nature of the above-cited norm (cfr. n. 1), no ecclesiastical authority may dispense the minister of Holy Communion from this obligation in any case, nor may he emanate directives that contradict it.
5. The Church reaffirms her maternal solicitude for the faithful who find themselves in this or other analogous situations that impede them from being admitted to the Eucharistic table. What is presented in this Declaration is not in contradiction with the great desire to encourage the participation of these children in the life of the Church, in the many forms compatible with their situation that are already possible for them. Moreover, the obligation of reiterating this impossibility of admission to the Eucharist is required for genuine pastoral care and for an authentic concern for the well-being of these faithful and of the whole Church, being that it indicates the conditions necessary for the fullness of that conversion to which all are always invited by the Lord, particularly during this Holy Year of the Great Jubilee.
Vatican City, June 24, 2000.
Solemnity of the Nativity of Saint John the Baptist
Julián Herranz
Titular Archbishop of Vertara
President
Bruno Bertagna
Titular Bishop of Drivasto
Secretary
[01520-02.01] [Original text: Italian]
○ Testo in lingua francese
Le Code de Droit canonique établit que «Les excommuniés et les interdits, après l’infliction ou la déclaration de la peine, et ceux qui persistent avec obstination dans un péché grave et manifeste, ne seront pas admis à la sainte communion» (can. 915). Ces dernières années, quelques auteurs ont soutenu, s’appuyant sur divers raisonnements, que ce canon ne concernait pas les divorcés remariés. On sait que l’Exhortation Apostolique Familiaris consortio de 1981 avait rappelé cet interdit en des termes sans équivoque, au n. 84, et qu’il a été plusieurs fois réaffirmé de manière expresse, spécialement en 1992 par le Catéchisme de l’Eglise catholique n. 1650, et en 1994 par la Lettre Annus internationalis Familiae de la Congrégation pour la Doctrine de la Foi. Malgré cela, ces auteurs présentent différentes interprétations de ce canon qui concordent dans le fait d’en exclure en pratique la situation des divorcés remariés. Par exemple, puisque le texte parle de «péché grave», il faudrait réunir toutes les conditions, y compris subjectives, nécessaires pour qu’il y ait péché mortel, ce qui fait que le ministre de la Communion ne pourrait pas proférer ab externo un tel jugement; de plus, puisqu’on parle de persévérer «avec obstination» en ce péché, il faudrait se trouver face à une attitude de défi de la part du fidèle, après une monition légitime faite par le pasteur.
Face à ce prétendu contraste entre la discipline du Code de 1983 et les enseignements constants de l’Église en la matière, ce Conseil Pontifical, d’accord avec la Congrégation pour la Doctrine de la Foi et avec la Congrégation pour le Culte Divin et la Discipline des Sacrements, déclare ce qui suit:
1. La prohibition que fait ledit canon, par nature, dérive de la loi divine et transcende le contexte des lois ecclésiastiques positives: celles-ci ne peuvent introduire de changements législatifs qui s’opposent à la doctrine de l’Église. Le texte de l’Écriture auquel se réfère sans cesse la tradition ecclésiale est celui de Saint Paul: «C’est pourquoi quiconque mange le pain ou boit le calice du Seigneur indignement, se rend coupable envers le corps et le sang du Seigneur. Que chacun s’examine donc soi-même et mange ensuite de ce pain et boive de ce calice; car celui qui mange et boit sans reconnaître le corps du Seigneur, mange et boit sa propre condamnation » (1 Cor 11, 27-29).
Ce texte concerne avant tout le fidèle lui-même et sa conscience morale, et c’est ce que formule le Code au canon suivant, le can. 916. Mais être indigne parce que l’on est en état de péché pose aussi un grave problème juridique dans l’Église: c’est précisément la parole «indigne » que cite le canon du Code des Canons des Églises Orientales parallèle au canon 915 latin: «les personnes publiquement indignes doivent être écartées de la réception de la divine eucharistie » (canon 712). En effet, recevoir le corps du Christ en étant publiquement indigne constitue un dommage objectif pour la communion ecclésiale; c’est un comportement qui attente aux droits de l’Église et de tous les fidèles à vivre en cohérence avec les exigences de cette communion. Dans le cas concret de l’admission à la sainte communion des fidèles divorcés remariés, le scandale, entendu comme une action qui pousse les autres vers le mal, concerne à la fois le sacrement de l’eucharistie et l’indissolubilité du mariage. Ce scandale subsiste même si, malheureusement, un tel comportement n’étonne plus: au contraire c’est précisément face à la déformation des consciences, qu’il est davantage nécessaire que les pasteurs aient une action patiente autant que ferme, pour protéger la sainteté des sacrements, pour défendre la moralité chrétienne et pour former droitement les fidèles.
2. Toute interprétation du canon 915 qui s’oppose à son contenu substantiel, déclaré sans interruption par le Magistère et par la discipline de l’Église au cours des siècles, est clairement déviante. On ne peut confondre le respect des mots de la loi (cf. canon 17) avec l’usage impropre de ces mêmes mots comme des instruments pour relativiser ou vider les préceptes de leur substance.
La formule «et ceux qui persistent avec obstination dans un péché grave et manifeste» est claire et doit être comprise d’une façon qui n’en déforme pas le sens, en rendant la norme inapplicable. Les trois conditions suivantes sont requises:
a) le péché grave, compris objectivement, parce que de l’imputabilité subjective le ministre de la communion ne peut juger;
b) la persistance obstinée, ce qui signifie qu’il existe une situation objective de péché qui perdure au cours du temps, et à laquelle la volonté des fidèles ne met pas fin, tandis que d’autres conditions ne sont pas requises (attitude de défi, monition préalable, etc.) pour que la situation soit fondamentalement grave du point de vue ecclésial ;
c) le caractère manifeste de la situation de péché grave habituel.
Par contre ne sont pas en situation de péché grave habituel les fidèles divorcés remariés qui, pour des raisons sérieuses, comme par exemple l’éducation des enfants, ne peuvent «satisfaire à l’obligation de la séparation, et s’engagent à vivre en pleine continence, c’est-à-dire à s’abstenir des actes propres des conjoints» (Familiaris consortio, numéro 84), et qui sur la base d’une telle résolution ont reçu le sacrement de la pénitence. Puisque le fait que ces fidèles ne vivent pas more uxorio est en soi occulte, tandis que leur condition de divorcés remariés est en elle-même manifeste, ils ne pourront s’approcher de la communion eucharistique que remoto scandalo.
3. Naturellement, la prudence pastorale conseille vivement d’éviter que l’on en vienne à des cas de refus public de la sainte communion. Les pasteurs doivent s’employer pour expliquer aux fidèles concernés le vrai sens ecclésial de la norme, de sorte qu’ils puissent la comprendre ou au moins la respecter. Quand pourtant se présentent des situations dans laquelle ces précautions n’ont pas eu d’effet ou non pas été possibles, le ministre de la distribution de la communion doit se refuser de la donner à qui en est publiquement indigne. Il le fera avec une extrême charité, et il cherchera à expliquer au moment opportun les raisons qui l’y ont contraint. Pourtant il doit le faire aussi avec fermeté, conscient de la valeur que possèdent ces signes de force, pour le bien de l’Église et des âmes.
Le discernement des cas d’exclusion de la communion eucharistique des fidèles qui se trouvent dans les conditions décrites, revient au prêtre responsable de la communauté. Celui-ci donnera des instructions précises au diacre ou à l’éventuel ministre extraordinaire quant à la façon de se comporter dans les situations concrètes.
4. En tenant compte de la nature de la norme citée ci-dessus (cf. n. 1), aucune autorité ecclésiastique ne peut dispenser, en aucun cas, de cette obligation du ministre de la sainte communion, ni produire des directives qui la contredisent.
5. L’Église réaffirme sa sollicitude maternelle pour les fidèles qui se trouvent dans cette situation ou dans d’autres situations analogues qui empêchent d’être admis à la table eucharistique. Ce qui est exposé dans cette déclaration n’est pas en contradiction avec le grand désir de favoriser la participation de ces enfants à la vie ecclésiale, qui déjà peut s’exprimer en beaucoup de formes compatibles avec leur situation. Au contraire, le devoir de réaffirmer cette non-possibilité d’admettre à l’eucharistie est une condition de vraie pastoralité, d’authentique préoccupation pour le bien de ces fidèles et de toute l’Église, parce qu’il indique les conditions
nécessaires pour la plénitude de cette conversion, à laquelle tous sont toujours invités par le seigneur, et de façon particulière au cours de cette année sainte du grand jubilé.
Du Vatican, le 24 juin 2000
Solennité de la Nativité de Saint Jean Baptiste
Julián Herranz
Archevêque titulaire de Vertara
Président
Bruno Bertagna
Évêque titulaire de Drivasto
Secrétaire
[01520-03.01] [Texte original: Italien]
○ Testo in lingua tedesca
Der Codex des kanonischen Rechtes legt fest: „Zur heiligen Kommunion dürfen nicht zugelassen werden Exkommunizierte und Interdizierte nach Verhängung oder Feststellung der Strafe sowie andere, die hartnäckig in einer offenkundigen schweren Sünde verharren" (can. 915). In den vergangenen Jahren haben einige Autoren auf der Grundlage unterschiedlicher Argumentationen die Meinung vertreten, dieser Kanon sei nicht auf jene Gläubigen anzuwenden, die sich nach den zivilen Gesetzen scheiden lassen und eine neue, zivile Ehe schließen. Es wird anerkannt, dass das Apostolische Schreiben Familiaris consortio von 1981 in Nr. 84 dieses Verbot in unzweideutiger Weise bekräftigt hatte, und dass es mehrere Male ausdrücklich bestätigt wurde, vor allem 1992 vom Katechismus der Katholischen Kirche, in Nr. 1650, und 1994 vom Brief der Kongregation für die Glaubenslehre Annus internationalis Familiae. Dessen ungeachtet vertreten die erwähnten Autoren verschiedene Interpretationen des zitierten Kanons, die darin übereinstimmen, dass sie in der Praxis die Situation der wiederverheirateten Geschiedenen davon ausnehmen. Zum Beispiel wird argumentiert: weil der Text von „schwerer Sünde" spricht, müssten alle Bedingungen, auch die subjektiver Art, für das Bestehen einer Todsünde gegeben sein, deshalb könne der Kommunionspender nicht ab externo ein derartiges Urteil fällen; darüber hinaus wird gesagt: Um von einem „hartnäckigen" Verharren in jener Sünde zu sprechen, müsste - nach einer rechtmäßigen Ermahnung von Seiten des Seelsorgers - ein herausforderndes Verhalten des Gläubigen vorliegen.
Angesichts des behaupteten Widerspruchs zwischen der Weisung des Kodex von 1983 und der beständigen Lehre der Kirche in bezug auf diese Materie, gibt dieser Päpstliche Rat, in Übereinstimmung mit der Kongregation für die Glaubenslehre und der Kongregation für den Gottesdienst und die Sakramente, folgende Erklärung ab:
1. Das Verbot, das im zitierten Kanon ausgesprochen wird, leitet sich, seiner Natur entsprechend, aus dem göttlichen Gesetz ab und überschreitet den Bereich der positiven kirchlichen Gesetze: Letztere können keine gesetzlichen Änderungen herbeiführen, die der Lehre der Kirche widersprechen würden. Der Schrifttext, auf den sich die kirchliche Tradition immer beruft, findet sich beim hl. Paulus: „Wer also unwürdig von dem Brot isst und aus dem Kelch des Herrn trinkt, macht sich schuldig am Leib und am Blut des Herrn. Jeder soll sich selbst prüfen; erst dann soll er von dem Brot essen und aus dem Kelch trinken. Denn wer davon isst und trinkt, ohne zu bedenken, dass es der Leib des Herrn ist, der zieht sich das Gericht zu, indem er isst und trinkt" (1 Kor 11, 27-29).
Dieser Text betrifft vor allem den Gläubigen selbst und sein moralisches Gewissen, was vom Kodex im folgenden Kanon 916 zum Ausdruck gebracht wird. Aber die Tatsache, dass man unwürdig ist, weil man sich in einem Zustand der Sünde befindet, stellt auch ein schweres rechtliches Problem in der Kirche dar: genau auf den Begriff „unwürdig" bezieht sich der Kanon des Gesetzbuch der katholischen Ostkirchen, der eine Parallele zu can. 915 im lateinischen Gesetzbuch darstellt: „Vom Empfang der Göttlichen Eucharistie müssen jene ferngehalten werden, deren Unwürdigkeit öffentlich bekannt ist" (can. 712). In der Tat ist es ein objektiver Schaden für die kirchliche Gemeinschaft, wenn jemand, der öffentlich als unwürdig bekannt ist, den Leib des Herrn empfängt; es ist ein Verhalten, das die Rechte der Kirche und aller Gläubigen verletzt, in konsequenter Weise den Ansprüchen dieser Gemeinschaft entsprechend zu leben. Im konkreten Fall der Zulassung der geschiedenen und wiederverheirateten Gläubigen zur hl. Kommunion betrifft das Ärgernis - verstanden als ein Handeln, das die andern zum Schlechten bewegt - zugleich das Sakrament der Eucharistie und die Unauflöslichkeit der Ehe. Ein solches Ärgernis besteht auch dann, wenn ein derartiges Verhalten leider keine Verwunderung mehr hervorruft; ja, gerade angesichts der Verformung der Gewissen wird ein geduldiges und zugleich entschiedenes Handeln der Seelsorger umso notwendiger, zum Schutz der Heiligkeit der Sakramente, zur Verteidigung der christlichen Moral und zur richtigen Unterweisung der Gläubigen.
2. Jegliche Interpretation des can. 915, die seinem wesentlichen Inhalt widerspricht, wie er ununterbrochen vom Lehramt und der Disziplin der Kirche durch die Jahrhunderte erklärt wurde, ist eindeutig abwegig. Man darf die Achtung vor den Worten des Gesetzes (vgl. can. 17) nicht verwechseln mit dem uneigentlichen Gebrauch der selben Worte als Instrumente zur Relativierung der Vorschriften oder zu deren inhaltlicher Entleerung.
Die Formulierung „sowie andere, die hartnäckig in einer offenkundigen schweren Sünde verharren" ist klar und muss so verstanden werden, dass ihr Sinn nicht verformt und die Anwendung der Norm unmöglich wird. Die drei geforderten Bedingungen sind:
a) die schwere Sünde, im objektiven Sinn, denn die subjektive Anrechenbarkeit könnte der Kommunionspender nicht beurteilen;
b) das hartnäckige Verharren, das heißt das Bestehen einer objektiven Situation der Sünde, die in der Zeit fortdauert und die der Gläubige nicht aus der Welt schaffen will; es sind keine anderen Erfordernisse notwendig (herausforderndes Verhalten, vorausgehende Ermahnung usw.), damit die Situation in ihrer grundsätzlichen kirchlichen Schwere eintritt;
c) der offenkundige Charakter der Situation der schweren habituellen Sünde.
Jene Gläubigen, die geschieden und wiederverheiratet sind und wegen ernster Gründe, zum Beispiel wegen der Erziehung der Kinder, nicht „der Verpflichtung zur Trennung nachkommen können", befinden sich nicht im Zustand der schweren habituellen Sünde, wenn sie „die Verpflichtung eingehen, in voller Enthaltsamkeit zu leben, das heißt sich der den Gatten eigenen Akte zu enthalten" (Familiaris consortio, Nr. 84) und auf der Grundlage dieser Absicht das Sakrament der Buße empfangen haben. Weil die Tatsache, dass diese Gläubigen nicht more uxorio zusammenleben, naturgemäß verborgen ist, während ihre Lebenssituation als geschiedene Wiederverheiratete naturgemäß bekannt ist, können diese nur remoto scandalo das Sakrament der Eucharistie empfangen.
3. Natürlich rät die pastorale Klugheit mit Nachdruck, Fälle öffentlicher Verweigerung der hl. Kommunion zu vermeiden. Die Seelsorger müssen den betreffenden Gläubigen den wahren kirchlichen Sinn der Norm zu erklären suchen, damit diese sie verstehen oder wenigstens respektieren können. Wenn es jedoch zu Situationen kommt, in denen solche Vorsichtsmaßnahmen keine Wirkung erzielt haben oder nicht möglich waren, muss der Kommunionspender die hl. Kommunion demjenigen verweigern, dessen Unwürdigkeit öffentlich bekannt ist. Er wird das mit großer Liebe tun und wird versuchen, in einem günstigen Moment die Gründe zu erklären, die ihn dazu verpflichtet haben. Er muss es allerdings auch mit Festigkeit tun, im Bewusstsein des Wertes, die solche Zeichen der Festigkeit für das Wohl der Kirche und der Seelen haben. Das Urteil in den Fällen des Ausschlusses vom Kommunionempfang von Gläubigen, die sich in der beschriebenen Situation befinden, steht dem verantwortlichen Priester der jeweiligen Gemeinschaft zu. Dieser wird dem Diakon oder dem eventuellen außerordentlichen Kommunionspender genaue Anweisungen geben, wie sie sich in den konkreten Situationen verhalten sollen.
4. In Anbetracht der Natur der oben zitierten Norm (vgl. Nr. 1) kann keine kirchliche Autorität in irgendeinem Fall von dieser Verpflichtung des Kommunionspenders dispensieren oder Direktiven erlassen, die dieser Verpflichtung widersprechen.
5. Die Kirche bekräftigt ihre mütterliche Sorge für die Gläubigen, die sich in dieser oder in ähnlichen Situationen befinden, die sie daran hindern, zum Tisch des Herrn zugelassen zu werden. Was in dieser Erklärung dargelegt wird, steht nicht im Gegensatz zu dem großen Wunsch, die Teilnahme dieser Söhne und Töchter am kirchlichen Leben zu fördern, - eine Teilnahme, die sich in vielen Formen ausdrücken kann, die mit ihrer Situation vereinbar sind. Die Pflicht, die Unmöglichkeit der Zulassung zum Empfang der Eucharistie zu unterstreichen, ist vielmehr Bedingung wirklicher pastoraler Sorge, echter Sorge um das Wohl dieser Gläubigen und der ganzen Kirche, insofern sie die notwendigen Bedingungen für den wahren Vollzug jener Umkehr anzeigt, zu der alle immer vom Herrn eingeladen sind, besonders in diesem Heiligen Jahr des Großen Jubiläums.
Aus dem Vatikan, 24. Juni 2000.
Hochfest der Geburt des hl. Johannes des Täufers
Julián Herranz
Titularerzbischof von Vertara
Präsident
Bruno Bertagna
Titularbischof von Drivasto
Sekretär
[01520-05.01] [Originalsprache: Deutsch]
○ Testo in lingua spagnola
El Código de Derecho Canónico establece que: «No deben ser admitidos a la sagrada comunión los excomulgados y los que están en entredicho después de la imposición o de la declaración de la pena, y los que obstinadamente persistan en un manifiesto pecado grave» (can. 915). En los últimos años algunos autores han sostenido, sobre la base de diversas argumentaciones, que este canon no sería aplicable a los fieles divorciados que se han vuelto a casar. Reconocen que la Exhortación Apostolica Familiaris consortio, de 1981, en su n. 84 había confirmado, en términos inequívocos, tal prohibición, y que ésta ha sido reafirmada de modo expreso en otras ocasiones, especialmente en 1992 por el Catecismo de la Iglesia Católica, n. 1650, y en 1994 por la Carta Annus internationalis Familiae de la Congregación para la Doctrina de la Fe. Pero, pese a todo ello, dichos autores ofrecen diversas interpretaciones del citado canon que concuerdan en excluir del mismo, en la práctica, la situación de los divorciados que se han vuelto a casar. Por ejemplo, puesto que el texto habla de «pecado grave», serían necesarias todas las condiciones, incluidas las subjetivas, que se requieren para la existencia de un pecado mortal, por lo que el ministro de la Comunión no podría hacer ab externo un juicio de ese género; además, para que se hablase de perseverar «obstinadamente» en ese pecado, sería necesario descubrir en el fiel una actitud desafiante después de haber sido legítimamente amonestado por el Pastor.
Ante ese pretendido contraste entre la disciplina del Código de 1983 y las enseñanzas constantes de la Iglesia sobre la materia, este Consejo Pontificio, de acuerdo con la Congregación para la Doctrina de la Fe y con la Congregación para el Culto Divino y la Disciplina de los Sacramentos, declara cuanto sigue:
1. La prohibición establecida en ese canon, por su propia naturaleza, deriva de la ley divina y trasciende el ámbito de las leyes eclesiásticas positivas: éstas no pueden introducir cambios legislativos que se opongan a la doctrina de la Iglesia. El texto de la Escritura en que se apoya siempre la tradición eclesial es éste de San Pablo: «Así, pues, quien come el pan y bebe el cáliz del Señor indignamente, será reo del cuerpo y de la sangre del Señor. Examínese, pues, el hombre a sí mismo, y entonces coma del pan y beba del cáliz: pues el que come y bebe sin discernir el Cuerpo, come y bebe su propia condenación» (1 Cor 11, 27-29).
Este texto concierne ante todo al mismo fiel y a su conciencia moral, lo cual se formula en el Código en el sucesivo can. 916. Pero el ser indigno porque se está en estado de pecado crea también un grave problema jurídico en la Iglesia: precisamente el término «indigno» está recogido en el canon del Código de los Cánones de las Iglesias Orientales que es paralelo al can. 915 latino: «Deben ser alejados de la recepción de la Divina Eucaristía los públicamente indignos» (can. 712). En efecto, recibir el cuerpo de Cristo siendo públicamente indigno constituye un daño objetivo a la comunión eclesial; es un comportamiento que atenta contra los derechos de la Iglesia y de todos los fieles a vivir en coherencia con las exigencias de esa comunión. En el caso concreto de la admisión a la sagrada Comunión de los fieles divorciados que se han vuelto a casar, el escándalo, entendido como acción que mueve a los otros hacia el mal, atañe a un tiempo al sacramento de la Eucaristía y a la indisolubilidad del matrimonio. Tal escándalo sigue existiendo aún cuando ese comportamiento, desgraciadamente, ya no cause sorpresa: más aún, precisamente es ante la deformación de las conciencias cuando resulta más necesaria la acción de los Pastores, tan paciente como firme, en custodia de la santidad de los sacramentos, en defensa de la moralidad cristiana, y para la recta formación de los fieles.
2. Toda interpretación del can. 915 que se oponga a su contenido sustancial, declarado ininterrumpidamente por el Magisterio y la disciplina de la Iglesia a lo largo de los siglos, es claramente errónea. No se puede confundir el respeto de las palabras de la ley (cfr. can. 17) con el uso impropio de las mismas palabras como instrumento para relativizar o desvirtuar los preceptos.
La fórmula «y los que obstinadamente persistan en un manifiesto pecado grave» es clara, y se debe entender de modo que no se deforme su sentido haciendo la norma inaplicable. Las tres condiciones que deben darse son:
a) el pecado grave, entendido objetivamente, porque el ministro de la Comunión no podría juzgar de la imputabilidad subjetiva;
b) la obstinada perseverancia, que significa la existencia de una situación objetiva de pecado que dura en el tiempo y a la cual la voluntad del fiel no pone fin, sin que se necesiten otros requisitos (actitud desafiante, advertencia previa, etc.) para que se verifique la situación en su fundamental gravedad eclesial;
c) el carácter manifiesto de la situación de pecado grave habitual.
Sin embargo, no se encuentran en situación de pecado grave habitual los fieles divorciados que se han vuelto a casar que, no pudiendo por serias razones -como, por ejemplo, la educación de los hijos- «satisfacer la obligación de la separación, asumen el empeño de vivir en perfecta continencia, es decir, de abstenerse de los actos propios de los cónyuges» (Familiaris consortio, n. 84), y que sobre la base de ese propósito han recibido el sacramento de la Penitencia. Debido a que el hecho de que tales fieles no viven more uxorio es de por sí oculto, mientras que su condición de divorciados que se han vuelto a casar es de por sí manifiesta, sólo podrán acceder a la Comunión eucarística remoto scandalo.
3. Naturalmente la prudencia pastoral aconseja vivamente que se evite el tener que llegar a casos de pública denegación de la sagrada Comunión. Los Pastores deben cuidar de explicar a los fieles interesados el verdadero sentido eclesial de la norma, de modo que puedan comprenderla o al menos respetarla. Pero cuando se presenten situaciones en las que esas precauciones no hayan tenido efecto o no hayan sido posibles, el ministro de la distribución de la Comunión debe negarse a darla a quien sea públicamente indigno. Lo hará con extrema caridad, y tratará de explicar en el momento oportuno las razones que le han obligado a ello. Pero debe hacerlo también con firmeza, sabedor del valor que semejantes signos de fortaleza tienen para el bien de la Iglesia y de las almas.
El discernimiento de los casos de exclusión de la Comunión eucarística de los fieles que se encuentren en la situación descrita concierne al Sacerdote responsable de la comunidad. Éste dará precisas instrucciones al diácono o al eventual ministro extraordinario acerca del modo de comportarse en las situaciones concretas.
4. Teniendo en cuenta la naturaleza de la antedicha norma (cfr. n. 1), ninguna autoridad eclesiástica puede dispensar en caso alguno de esta obligación del ministro de la sagrada Comunión, ni dar directivas que la contradigan.
5. La Iglesia reafirma su solicitud materna por los fieles que se encuentran en esta situación o en otras análogas, que impiden su admisión a la mesa eucarística. Cuanto se ha expuesto en esta Declaración no está en contradicción con el gran deseo de favorecer la participación de esos hijos a la vida eclesial, que se puede ya expresar de muchas formas compatibles con su situación. Es más, el deber de reafirmar esa imposibilidad de admitir a la Eucaristía es condición de una verdadera pastoralidad, de una auténtica preocupación por el bien de estos fieles y de toda la Iglesia, porque señala las condiciones necesarias para la plenitud de aquella conversión a la cual todos están siempre invitados por el Señor, de manera especial durante este Año Santo del Gran Jubileo.
Del Vaticano, 24 de junio de 2000,
Solemnidad de la Natividad de San Juan Bautista.
Julián Herranz
Arzobispo tit. de Vertara
Presidente
Bruno Bertagna
Obispo tit. de Drivasto
Secretario
[01520-04.01] [Texto original: Italiano]
○ Testo in lingua portoghese
O Código de Direito Canónico estabelece que: «Não sejam admitidos à sagrada comunhão os excomungados e os interditos, depois da aplicação ou declaração da pena, e outros que obstinadamente perseverem em pecado grave manifesto» (cân. 915). Nos últimos anos, alguns autores têm sustentado, com base em diferentes argumentos, que este cânon não seria aplicável aos fiéis divorciados que contraíram novas núpcias. Reconhece-se que a Exortação Apostólica Familiaris consortio de 1981 reafirma, no n. 84, a mesma proibição em termos inequívocos, e que esta tem sido expressamente reiterada, especialmente em 1992 pelo Catecismo da Igreja Católica, n.º 1650, e em 1994 pela Carta Annus internationalis Familiae da Congregação para a Doutrina da Fé. Apesar disso, os referidos autores propugnam várias interpretações do mencionado cânon, as quais, na prática, coincidem em excluir do mesmo a situação dos divorciados novamente casados. Por exemplo, porque o texto fala de «pecado grave», seriam necessárias todas as condições, mesmo as subjectivas, requeridas para a existência de um pecado mortal, razão pela qual o ministro da Comunhão não poderia emitir ab externo um juízo do género; ademais, para que se fale de perseverar «obstinadamente» naquele pecado, seria necessário verificar-se no fiel uma atitude de desacato, após uma legítima admonição por parte do Pastor.
Face a este pretenso contraste entre a disciplina do Código de 1983 e os ensinamentos constantes da Igreja nessa matéria, este Conselho Pontifício, de acordo com a Congregação para a Doutrina da Fé e com a Congregação para o Culto Divino e a Disciplina dos Sacramentos, declara quanto segue:
1. A proibição feita no citado cânon, por sua natureza, deriva da lei divina e transcende o âmbito das leis eclesiásticas positivas: estas não podem introduzir modificações legislativas que se oponham à doutrina da Igreja. O texto das Escrituras ao qual a Tradição eclesial sempre remonta é o de São Paulo: «E, assim, todo aquele que comer o pão ou beber o cálice do Senhor indignamente será réu do corpo e do sangue do Senhor. Examine-se cada qual a si mesmo e, então, coma desse pão e beba desse cálice. Aquele que come e bebe, sem distinguir o corpo do Senhor, come e bebe a própria condenação» (1 Cor 11, 27-29).
Este texto diz respeito primeiramente ao próprio fiel e à sua consciência, e isto está formulado pelo Código no sucessivo cânon 916. Porém o ser-se indigno por se achar em estado de pecado põe também um grave problema jurídico na Igreja: precisamente ao termo «indigno» se refere o cânon do Código dos Cânones das Igrejas Orientais que é paralelo ao cân. 915 latino: «Devem ser impedidos de receber a Divina Eucaristia aqueles que são publicamente indignos» (cân. 712). Com efeito, receber o Corpo de Cristo sendo publicamente indigno constitui um dano objectivo para a comunhão eclesial; é um comportamento que atenta aos direitos da Igreja e de todos os fiéis de viver em coerência com as exigências dessa comunhão. No caso concreto da admissão dos fiéis divorciados novamente casados à Sagrada Comunhão, o escândalo, concebido qual acção que move os outros para o mal, diz respeito simultaneamente ao sacramento da Eucaristia e à indissolubilidade do matrimónio. Tal escândalo subsiste mesmo se, lamentavelmente, um tal comportamento já não despertar alguma admiração: pelo contrário, é precisamente diante da deformação das consciências, que se torna mais necessária por parte dos Pastores, uma acção tão paciente quanto firme, em tutela da santidade dos sacramentos, em defesa da moralidade cristã e pela recta formação dos fiéis.
2. Qualquer interpretação do cân. 915 que se oponha ao conteúdo substancial, declarado ininterruptamente pelo Magistério e pela disciplina da Igreja ao longo dos séculos, é claramente fonte de desvios. Não se pode confundir o respeito pelas palavras da lei (cfr. cân. 17) com o uso impróprio das mesmas palavras como instrumentos para relativizar ou esvaziar a substância dos preceitos.
A fórmula «e outros que obstinadamente perseverem em pecado grave manifesto» é clara e deve ser compreendida de modo a não deformar o seu sentido, tornando a norma inaplicável. As três condições requeridas são:
a) o pecado grave, entendido objectivamente, porque da imputabilidade subjectiva o ministro da Comunhão não poderia julgar;
b) a perseverança obstinada, que significa a existência de uma situação objectiva de pecado que perdura no tempo e à qual a vontade do fiel não põe termo, não sendo necessários outros requisitos (atitude de desacato, admonição prévia, etc.) para que se verifique a situação na sua fundamental gravidade eclesial;
c) o carácter manifesto da situação de pecado grave habitual.
Não se encontram, porém, em situação de pecado grave habitual os fiéis divorciados novamente casados que, por sérios motivos – quais, por exemplo, a educação dos filhos – não podendo «satisfazer a obrigação da separação, assumem o compromisso de viver em plena continência, isto é, de abster-se dos actos próprios dos cônjuges» (Familiaris consortio, n.º 84), e que, com base em tal propósito, receberam o sacramento da Penitência. Visto que o facto de tais fiéis não viverem more uxorio é de per si oculto, ao passo que a situação de divorciados novamente casados é de per si manifesta, eles poderão aceder à Comunhão eucarística somente remoto scandalo.
3. Naturalmente a prudência pastoral aconselha vivamente a evitar que se chegue a casos de recusa pública da sagrada Comunhão. Os Pastores devem esforçar-se para explicar aos fiéis envolvidos o verdadeiro sentido eclesial da norma, de modo que a possam compreender ou ao menos respeitar. Quando, porém, se apresentarem situações em que tais precauções não tenham obtido efeito ou não tenham sido possíveis, o ministro da distribuição da Comunhão deve recusar-se a dá-la a quem seja publicamente indigno. Fá-lo-á com extrema caridade e procurará explicar no momento oportuno as razões que a tanto o obrigaram. Deve, porém, fazê-lo com firmeza, consciente do valor que estes sinais de fortaleza têm para o bem da Igreja e das almas.
O discernimento dos casos de exclusão da Comunhão eucarística dos fiéis que se encontrem na condição descrita pertence ao Sacerdote responsável pela comunidade. Ele dará instruções precisas ao diácono ou ao eventual ministro extraordinário acerca do modo de se comportar nas situações concretas.
4. Considerando a natureza da já mencionada norma (cfr. n. 1), nenhuma autoridade eclesiástica pode dispensar em caso algum desta obrigação do ministro da sagrada Comunhão, nem emanar directrizes que a contradigam.
5. A Igreja reafirma a sua solicitude materna para com os fiéis que se acham nesta situação ou em outras análogas, que os impeçam de ser admitidos à mesa eucarística. O que se afirma nesta Declaração não está em contradição com o grande desejo de favorecer a participação desses filhos na vida eclesial, que se pode já exprimir em muitas formas compatíveis com a sua situação. Mas o dever de reafirmar esta impossibilidade de admitir à Eucaristia é condição de verdadeira pastoralidade, de autêntica preocupação pelo bem destes fiéis e de toda a Igreja, porque indica as condições necessárias para a plenitude da conversão à qual todos estão sempre convidados pelo Senhor, especialmente durante este Ano Santo do Grande Jubileu.
Do Vaticano, 24 de junho de 2000,
Solenidade da Natividade de São João Baptista.
Julián Herranz
Arcebispo tit. de Vertara
Presidente
Bruno Bertagna
Bispo tit. de Drivasto
Secretário
[01520-06.01] [Texto original: Italiano]