PREFAZIONE DI PAPA FRANCESCO
AL LIBRO DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE
SULLA DIPLOMAZIA PONTIFICIA
SFIDA PER IL FUTURO
L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 258, Dom. 10/11/2013.
Con questo volume, il cardinale Tarcisio Bertone consegna a coloro che sono impegnati nel servizio diplomatico della Santa Sede, e non solo, un’abbondante serie di riflessioni sulle principali questioni che riguardano la vita della comunità delle Nazioni e toccano da vicino le aspirazioni più profonde della famiglia umana: la pace, lo sviluppo, i diritti umani, la libertà religiosa, l’integrazione sovranazionale.
Per la diplomazia pontificia, poi, si tratta di preziose indicazioni che consentono di coglierne l’unicità, ad iniziare dalla figura del diplomatico, sacerdote e pastore, chiamato ad un’azione che, pur mantenendo il rigoroso profilo istituzionale, è impregnata di afflato pastorale; azione che del cardinale Bertone ha caratterizzato il settennato di servizio come segretario di Stato, a sostegno generoso e fedele del pontificato di Benedetto XVI. Il suo servizio al vertice, sia nella sfera più amministrativa della Curia romana, sia in quella dei rapporti internazionali della Santa Sede, si è opportunamente prolungato durante i primi mesi del mio pontificato. La sua pacata e matura esperienza di servitore della Chiesa ha aiutato anche me, chiamato alla sede di Pietro da un Paese lontano, nell’avvio di un insieme di relazioni istituzionali doverose per un Pontefice.
L’incontro con la figura del cardinale Tarcisio Bertone, nota per il suo ruolo e la sua personalità gioviale, ha avuto per me, nel passato, tre particolari momenti. Ricordo anzitutto il primo approccio alla Torre San Giovanni in Vaticano l’11 gennaio 2007 dove sono stato in visita con la Presidenza della Conferenza Episcopale argentina: uno scambio molto sereno e nello stesso tempo assai costruttivo sui problemi che allora ci assillavano. Quando nel 2007, egli si è recato in Argentina come Legato pontificio per la celebrazione della beatificazione di Zeffirino Namuncurá, il suo tratto fraterno nell’incontrare i vescovi della Conferenza episcopale, l’affabilità tutta salesiana nel trattare con la gente dopo ogni celebrazione pubblica, avevano riscosso il mio interesse e la mia ammirazione. Il cardinale Bertone, nei suoi colloqui con le maggiori istanze politiche della nazione aveva sottolineato l’apporto della Chiesa nella pacificazione e riconciliazione, necessari per rigenerare il tessuto sociale lacerato da tante situazioni che avevano messo in pericolo la concordia nazionale, e con ciò aveva dato un prezioso sostegno all’opera intrapresa dall’episcopato argentino per ricostruire il tessuto etico, sociale e istituzionale del Paese.
Qualche mese prima dello stesso anno aveva avuto luogo in Brasile la v Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi (9-14 maggio 2007) alla quale ho partecipato in qualità di primate della Chiesa di Argentina. Lì trovai il cardinale Bertone, che accompagnava Papa Benedetto XVI, interessato non solo agli aspetti ecclesiali salienti, ma alla dimensione sociale e culturale presentati nel documento finale e affidati in primo luogo alle comunità ecclesiali latino-americane.
Un interesse che riappare scorrendo l’insieme dei suoi interventi pronunciati in diverse aree geografiche, rivolti sia all’interno della Chiesa e delle sue strutture, sia di fronte alle istanze politiche dei diversi Stati e a pubblici eterogenei.
Ci si accorge subito di un’attenzione rivolta alla crisi che stiamo vivendo, globale e complessa, che rende concreta l’idea di un mondo senza confini. La crisi, però, se è una certezza per tutti, ci interroga sulle scelte sin qui fatte e sulla direzione che in futuro intendiamo seguire, richiamando la responsabilità delle persone e delle istituzioni per eliminare le tante barriere che hanno sostituito i confini: disuguaglianze, corsa agli armamenti, sottosviluppo, violazione dei diritti fondamentali, discriminazioni, impedimenti alla vita sociale, culturale, religiosa.
Questo domanda una riflessione realistica non solo sul nostro piccolo mondo quotidiano, ma anche sulla natura dei legami che uniscono la comunità internazionale e delle tensioni presenti al suo interno. Lo sa bene l’azione della diplomazia che attraverso i suoi protagonisti, le sue regole e i suoi metodi è strumento concorrente alla costruzione del bene comune, chiamato anzitutto a leggere i fatti internazionali, che è poi un modo di interpretare la realtà. Questa realtà siamo noi, la famiglia umana in movimento, quasi un’opera in continua costruzione che include il luogo e il tempo in cui si incarna la nostra storia di donne e di uomini, di comunità, di popoli. La diplomazia è, dunque, un servizio, non un’attività ostaggio di interessi particolari dei quali guerre, conflitti interni e forme diverse di violenza sono la logica, ma amara, conseguenza; né strumento delle esigenze di pochi che escludono le maggioranze, generano povertà ed emarginazione, tollerano ogni genere di corruzione, producono privilegi e ingiustizie.
La crisi profonda di convinzioni, di valori, di idee offre all’attività diplomatica una nuova opportunità, che è allo stesso tempo una sfida. La sfida di concorrere a realizzare tra i diversi popoli delle nuove relazioni veramente giuste e solidali per cui ogni Nazione e tutte le persone siano rispettate nella loro identità e dignità, e promosse nella loro libertà. In tal modo i diversi Paesi avranno modo di progettare il loro avvenire, così come le persone potranno scegliere i modi per realizzare le loro aspirazioni di creature fatte a immagine del creatore.
In questa fase storica la comunità internazionale, le sue regole e le sue istituzioni si trovano, infatti, obbligate a scegliere una direzione che riprenda le loro rispettive radici costitutive e porti la famiglia umana verso un futuro che non solo parli il linguaggio della pace e dello sviluppo, ma sia capace nei fatti di includere tutti, evitando che qualcuno resti ai margini. Questo significa superare l’attuale situazione nella vita degli Stati e in quella internazionale che vede l’assenza di convinzioni forti e di programmi sul lungo periodo intrecciarsi con la profonda crisi di quei valori che da sempre fondano i legami sociali.
Di fronte a questa globalizzazione negativa che è paralizzante, la diplomazia è chiamata a intraprendere un compito di ricostruzione riscoprendo la sua dimensione profetica, determinando quella che potremo chiamare utopia del bene, e se necessario rivendicandola. Non si tratta di abbandonare quel sano realismo che di ogni diplomatico è una virtù non una tecnica, ma di superare il dominio del contingente, il limite di un’azione pragmatica che spesso ha il sapore dell’involuzione. Un modo di pensare e di agire che, se prevale, limita qualsiasi azione sociale e politica e impedisce la costruzione del bene comune.
La vera utopia del bene, che non è un’ideologia né sola filantropia, attraverso l’azione diplomatica può esprimere e consolidare quella fraternità presente nelle radici della famiglia umana e da lì chiamata a crescere, a espandersi per dare i suoi frutti.
Una diplomazia rinnovata significa diplomatici nuovi, e cioè capaci di ridare alla vita internazionale il senso della comunità rompendo la logica dell’individualismo, della competizione sleale, del desiderio di primeggiare, promuovendo piuttosto un’etica della solidarietà capace di sostituire quella della potenza, ormai ridotta ad un modello di pensiero per giustificare la forza. Proprio quella forza che contribuisce a spezzare i legami sociali e strutturali tra i diversi popoli, e allo stesso tempo a distruggere i vincoli che legano ognuno di noi ad altre persone fino al punto di condividere lo stesso destino. La direzione che prenderanno i rapporti internazionali sarà allora legata all’immagine che abbiamo dell’altro: persona, popolo, Stato.
Ecco la chiave della rinascita di quella unità tra i popoli che fa sue le differenze senza ignorare gli elementi storici, politici, religiosi, biologici, psicologici e sociali che sono espressione di diversità. Anche di fronte a limiti, condizionamenti, ostacoli è possibile fondere e integrare i comportamenti, i valori e le regole che si sono andati costituendo nel tempo.
La prospettiva cristiana sa valutare sia ciò che è autenticamente umano sia quanto scaturisce dalla libertà della persona, dalla sua apertura al nuovo, in definitiva dal suo spirito che unisce la dimensione umana alla dimensione trascendente. Questo è uno dei contributi che la diplomazia pontificia offre all’umanità intera, operando per far rinascere la dimensione morale nei rapporti internazionali, quella che permette alla famiglia umana di vivere e svilupparsi assieme, senza diventare nemici gli uni degli altri. Se l’uomo manifesta la sua umanità nella comunicazione, nella relazione, nell’amore verso i propri simili, le diverse Nazioni possono legarsi intorno a obiettivi e pratiche condivise, e generare così un sentire comune ben radicato. Ancora di più possono dar vita a istituzioni unitarie in seno alla comunità internazionale, capaci di compiere un servizio senza che ciò neghi l’identità, la dignità e la libertà responsabile di ogni Paese. Il servizio di queste istituzioni sarà di chinarsi davanti al bisogno dei diversi popoli, scoprendo cioè le capacità e le necessità dell’altro. È il rifiuto dell’indifferenza o di una cooperazione internazionale frutto dell’egoismo utilitaristico, per fare invece attraverso organi comuni qualcosa per gli altri.
Il servizio così, non è semplicemente un impegno etico o una forma di volontariato, né un obiettivo ideale, ma una scelta frutto di un vincolo sociale basato su quell’amore capace di costruire una nuova umanità, un nuovo modo di vivere. Non sarà facendo prevalere la ragion di Stato o l’individualismo che elimineremo i conflitti o daremo ai diritti della persona la giusta collocazione. Il diritto più importante di un popolo e di una persona non sta nel non essere impedito di realizzare le proprie aspirazioni, bensì nel realizzarle effettivamente e integralmente. Non basta evitare l’ingiustizia, se non si promuove la giustizia. Non è sufficiente proteggere i bambini dall’abbandono, dagli abusi e dai maltrattamenti, se non si educano i giovani ad un amore pieno e gratuito per l’esistenza umana nelle sue diverse fasi, se non si danno alle famiglie tutte le risorse di cui hanno bisogno per compiere la loro imprescindibile missione, se non si favorisce in tutta la società un atteggiamento di accoglienza e di amore per la vita di tutti e di ciascuno dei suoi membri.
Una comunità degli Stati matura sarà quella in cui la libertà dei suoi membri è pienamente responsabile della libertà degli altri, sulla base dell’amore che è solidarietà operante. Questa, però, non è qualcosa che cresce spontaneamente, ma implica la necessità di investire lavoro, pazienza, impegno quotidiano, sincerità, umiltà, professionalità. Non è questa la via maestra che la diplomazia è chiamata a percorrere in questo XXI secolo?
Sono tanti e pregnanti gli spunti di questo lavoro che dimostra quanto il cardinale Bertone abbia saputo presentare l’annuncio evangelico, i valori e le grandi istanze della dottrina della Chiesa, in conformità con le linee portanti del magistero di Benedetto XVI, con quell’equilibrio e quella sobrietà necessari a favorire una cultura del dialogo, propria della Santa Sede.
Il metro della vita dei servitori della Chiesa non è dettato da quel «stampare una notizia a grandi lettere, perché la gente pensi che sia indiscutibilmente vera» (Jorge Luis Borges), anzi è intessuto, pur nei limiti inerenti alla condizione e possibilità di ciascuno, dalla silenziosa e generosa dedizione al bene autentico del corpo di Cristo e al servizio duraturo della causa dell’uomo. Perciò la storia, la cui misura è la verità della croce, renderà evidente l’intensa azione del cardinale Bertone, che ha dimostrato anche di avere la tempra piemontese del gran lavoratore che non lesina nelle fatiche nel promuovere il bene della Chiesa, preparato culturalmente e intellettualmente e animato da una serena forza interiore che ricorda la parola dell’apostolo delle genti: «Di null’altro mai ci glorieremo se non della Croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione; per mezzo di Lui siamo stati salvati e liberati» (Galati, 6, 14).
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