PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Senza nome
Giovedì, 5 marzo 2015
(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.053, Ven. 06/03/2015)
Essere mondani significa perdere il proprio nome fino ad avere gli occhi dell’anima «oscurati», anestetizzati, tanto da non vedere più le persone che ci stanno intorno. È da questo «peccato» che Francesco ha messo in guardia nella messa celebrata giovedì mattina, 5 marzo, a Santa Marta.
«La liturgia quaresimale di oggi ci propone due storie, due giudizi e tre nomi» ha subito fatto notare Francesco. Le «due storie» sono quelle della parabola del ricco e del mendicante Lazzaro, narrata da Luca (16, 19-31). In particolare, ha affermato il Papa, la prima storia è «quella dell’uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e lino finissimo» e «si trattava bene», tanto che «ogni giorno si dava a lauti banchetti». In realtà il testo, ha precisato Francesco, «non dice che era cattivo»: piuttosto «era un uomo di vita agiata, si dava alla buona vita». In fondo «il Vangelo non dice che si divertisse alla grande»; la sua era piuttosto «una vita tranquilla, con gli amici». Chissà, magari «se aveva i genitori, sicuramente inviava loro dei beni perché avessero il necessario per vivere». E forse «era anche un uomo religioso, a suo modo. Recitava, forse, qualche preghiera; e due o tre volte l’anno sicuramente si recava al tempio per fare i sacrifici e dava grosse offerte ai sacerdoti». E «loro, con quella pusillanimità clericale lo ringraziavano e lo facevano sedere al posto d’onore». Questo era «socialmente» il sistema di vita dell’uomo ricco presentato da Luca.
C’è poi «la seconda storia, quella di Lazzaro», il povero medicante che sta davanti alla porta del ricco. Com’è possibile che quell’uomo non si accorgesse che sotto casa sua c’era Lazzaro, povero e affamato? Le piaghe di cui parla il Vangelo, ha rilevato il Papa, sono «un simbolo delle tante necessità che aveva». Invece «quando il ricco usciva da casa, forse la macchina con la quale usciva aveva i vetri oscurati per non vedere fuori». Ma «sicuramente la sua anima, gli occhi della sua anima erano oscurati per non vedere». E così il ricco «vedeva soltanto la sua vita e non si accorgeva di che cosa era accaduto» a Lazzaro.
In fin dei conti, ha affermato Francesco, «il ricco non era cattivo, era ammalato: ammalato di mondanità». E «la mondanità trasforma le anime, fa perdere la coscienza della realtà: vivono in un mondo artificiale, fatto da loro». La mondanità «anestetizza l’anima». E «per questo, quell’uomo mondano non era capace di vedere la realtà».
Perciò, ha spiegato il Papa, «la seconda storia è chiara»: ci sono «tante persone che conducono la loro vita in maniera difficile», ma «se io ho il cuore mondano, mai capirò questo». Del resto, «con il cuore mondano» non si possono comprendere «la necessità e il bisogno degli altri. Con il cuore mondano si può andare in chiesa, si può pregare, si possono fare tante cose». Ma Gesù, nella preghiera dell’ultima cena, che cosa ha chiesto? «Per favore, Padre, custodisci questi discepoli», in modo «che non cadano nel mondo, non cadano nella mondanità». E la mondanità «è un peccato sottile, è più di un peccato: è uno stato peccaminoso dell’anima».
«Queste sono le due storie» presentate dalla liturgia, ha riepilogato il Pontefice. Invece «i due giudizi» sono «una maledizione e una benedizione». Nella prima lettura, tratta da Geremia (17, 5-10), si legge: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore». Ma questo, ha puntualizzato Francesco, è proprio il profilo del «mondano che noi abbiamo visto» nell’uomo ricco. E «alla fine, come sarà» quest’uomo? La Scrittura lo definisce «come un tamerisco nella steppa: non vedrà venire il bene, “dimorerà in luoghi aridi nel deserto” — la sua anima è deserta — “in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”». E tutto questo «perché i mondani, per la verità, sono soli con il loro egoismo».
Nel testo di Geremia c’è poi anche la benedizione: «Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua», mentre l’altro «era come un tamerisco nella steppa». E, poi, ecco «il giudizio finale: niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce: quell’uomo aveva il cuore ammalato, tanto attaccato a questo modo di vivere mondano che difficilmente poteva guarire».
Dopo le «due storie» e i «due giudizi» Francesco ha riproposto anche «i tre nomi» suggeriti nel Vangelo: «Sono quello del povero, Lazzaro, quello di Abramo e quello di Mosè». Con un’ulteriore chiave di lettura: il ricco «non aveva nome, perché i mondani perdono il nome». Sono soltanto un elemento «della folla benestante che non ha bisogno di niente». Invece un nome lo hanno «Abramo, nostro padre, Lazzaro, l’uomo che lotta per essere buono e povero e porta tanti dolori, e Mosè, quello che ci dà la legge». Ma «i mondani non hanno nome. Non hanno ascoltato Mosè», perché hanno bisogno solo di manifestazioni straordinarie.
«Nella Chiesa — ha proseguito il Pontefice — tutto è chiaro, Gesù ha parlato chiaramente: quella è la strada». Ma «c’è alla fine una parola di consolazione: quando quel povero uomo mondano, nei tormenti, chiede di inviare Lazzaro con un po’ d’acqua per aiutarlo», Abramo, che è la figura di Dio Padre, risponde: «Figlio, ricordati...». Dunque «i mondani hanno perso il nome» e «anche noi, se abbiamo il cuore mondano, abbiamo perso il nome». Però «non siamo orfani. Fino alla fine, fino all’ultimo momento c’è la sicurezza che abbiamo un Padre che ci aspetta. Affidiamoci a lui». E il Padre si rivolge a noi dicendoci «figlio», anche «in mezzo a quella mondanità: figlio». E questo significa che «non siamo orfani».
«Nella preghiera all’inizio della messa — ha detto infine Francesco — abbiamo chiesto al Signore la grazia di volgere i nostri cuori a lui, che è Padre». E così, ha concluso, «continuiamo la celebrazione della messa pensando a queste due storie, a questi due giudizi, ai tre nomi; ma, soprattutto, a quella bella parola che sarà sempre detta fino all’ultimo momento: figlio».
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