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Udienza al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, 11.01.2016


Discorso del Santo Padre

Testo in lingua francese

Testo in lingua inglese

Testo in lingua tedesca

Testo in lingua spagnola

Testo in lingua portoghese

Alle ore 10.30 di questa mattina, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno.
Dopo le parole introduttive del nuovo Decano del Corpo Diplomatico, S.E. il Signor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Ambasciatore di Angola, il Papa ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre

Eccellenze, Signore e Signori,

Vi porgo un cordiale benvenuto a questo appuntamento annuale, che mi offre l’opportunità di presentarVi gli auguri per il nuovo anno, consentendomi di riflettere insieme con Voi sulla situazione di questo nostro mondo, benedetto e amato da Dio, eppure travagliato e afflitto da tanti mali. Ringrazio il nuovo Decano del Corpo Diplomatico, Sua Eccellenza il Signor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Ambasciatore di Angola, per le amabili parole che mi ha indirizzato a nome dell’intero Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, mentre desidero ricordare in modo speciale – a quasi un mese dalla scomparsa – i compianti Ambasciatori di Cuba, Rodney Alejandro López Clemente, e della Liberia, Rudolf P. von Ballmoos.

L’occasione mi è gradita anche per rivolgere un particolare pensiero a quanti partecipano per la prima volta a questo incontro, rilevando con soddisfazione che, nel corso dell’ultimo anno, il numero di Ambasciatori residenti a Roma si è ulteriormente accresciuto. Si tratta di un significativo segno dell’attenzione con la quale la Comunità internazionale segue l’attività diplomatica della Santa Sede. Ne sono una ulteriore prova gli Accordi internazionali sottoscritti o ratificati nel corso dell’anno appena concluso. In particolare, desidero qui citare le intese specifiche in materia fiscale firmate con l’Italia e gli Stati Uniti d’America, che testimoniano l’accresciuto impegno della Santa Sede in favore di una più ampia trasparenza nelle questioni economiche. Non meno importanti sono gli accordi di carattere generale, volti a regolare aspetti essenziali della vita e dell’attività della Chiesa nei vari Paesi, quale l’intesa siglata a Díli con la Repubblica Democratica di Timor-Leste.

Parimenti, desidero richiamare lo scambio degli Strumenti di Ratifica dell’Accordo con il Ciad sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica nel Paese, come pure l’Accordo firmato e ratificato con la Palestina. Si tratta di due accordi che, unitamente al Memorandum d’Intesa tra la Segreteria di Stato e il Ministero degli Affari Esteri del Kuwait, dimostrano, tra l’altro, come la convivenza pacifica fra appartenenti a religioni diverse sia possibile, laddove la libertà religiosa è riconosciuta e l’effettiva possibilità di collaborare all’edificazione del bene comune, nel reciproco rispetto dell’identità culturale di ciascuno, è garantita.

D’altra parte, ogni esperienza religiosa autenticamente vissuta non può che promuovere la pace. Ce lo ricorda il Natale che abbiamo da poco celebrato e nel quale abbiamo contemplato la nascita di un bambino inerme, «chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (cfr Is 9,5). Il mistero dell’Incarnazione ci mostra il vero volto di Dio, per il quale potenza non significa forza e distruzione, bensì amore; giustizia non significa vendetta, bensì misericordia. È in questa prospettiva che ho inteso indire il Giubileo straordinario della Misericordia, inaugurato eccezionalmente a Bangui nel corso del mio viaggio apostolico in Kenya, Uganda e Repubblica Centroafricana. In un Paese lungamente provato da fame, povertà e conflitti, dove la violenza fratricida degli ultimi anni ha lasciato ferite profonde negli animi, lacerando la comunità nazionale e generando miseria materiale e morale, l’apertura della Porta Santa della Cattedrale di Bangui ha voluto essere un segno di incoraggiamento ad alzare lo sguardo, a riprendere il cammino e a ritrovare le ragioni del dialogo. Laddove il nome di Dio è stato abusato per commettere ingiustizia, ho voluto ribadire, insieme con la comunità musulmana della Repubblica Centroafricana, che «chi dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace»1, e dunque di misericordia, giacché non si può mai uccidere nel nome di Dio. Solo una forma ideologica e deviata di religione può pensare di rendere giustizia nel nome dell’Onnipotente, deliberatamente massacrando persone inermi, come è avvenuto nei sanguinari attentati terroristici dei mesi scorsi in Africa, Europa e Medio Oriente.

La misericordia è stato come il “filo conduttore” che ha guidato i miei viaggi apostolici già nel corso dell’anno passato. Mi riferisco anzitutto alla visita a Sarajevo, città profondamente ferita dalla guerra nei Balcani e capitale di un Paese, la Bosnia ed Erzegovina, che riveste uno speciale significato per l’Europa e per il mondo intero. Quale crocevia di culture, nazioni e religioni si sta sforzando, con esiti positivi, di costruire sempre nuovi ponti, di valorizzare ciò che unisce e di guardare alle differenze come opportunità di crescita nel rispetto di tutti. Ciò è possibile mediante un dialogo paziente e fiducioso, che sa far propri i valori della cultura di ciascuno e accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui2.

Il mio pensiero va poi al viaggio in Bolivia, Ecuador e Paraguay, dove ho incontrato popoli che non si arrendono dinanzi alle difficoltà e affrontano con coraggio, determinazione e spirito di fraternità le numerose sfide che li affliggono, a partire dalla diffusa povertà e dalle disuguaglianze sociali. Nel corso del viaggio a Cuba e negli Stati Uniti d’America ho potuto abbracciare due Paesi che sono stati lungamente divisi e che hanno deciso di scrivere una nuova pagina della storia, intraprendendo un cammino di ravvicinamento e di riconciliazione.

A Filadelfia, in occasione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie, come pure nel corso del viaggio in Sri Lanka e nelle Filippine e con il recente Sinodo dei Vescovi, ho richiamato l’importanza della famiglia, che è la prima è più importante scuola di misericordia, nella quale si impara a scoprire il volto amorevole di Dio e dove la nostra umanità cresce e si sviluppa. Purtroppo, conosciamo le numerose sfide che la famiglia deve affrontare in questo tempo, in cui è «minacciata dai crescenti tentativi da parte di alcuni per ridefinire la stessa istituzione del matrimonio mediante il relativismo, la cultura dell’effimero, una mancanza di apertura alla vita»3. C’è oggi una diffusa paura dinanzi alla definitività che la famiglia esige e ne fanno le spese soprattutto i più giovani, spesso fragili e disorientati, e gli anziani che finiscono per essere dimenticati e abbandonati. Al contrario, «dalla fraternità vissuta in famiglia, nasce (…) la solidarietà nella società»4, che ci porta ad essere responsabili l’uno dell’altro. Ciò è possibile solo se nelle nostre case, così come nelle nostre società, non lasciamo sedimentare le fatiche e i risentimenti, ma diamo posto al dialogo, che è il migliore antidoto all’individualismo così ampiamente diffuso nella cultura del nostro tempo.

Cari Ambasciatori,

Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre società! Tra questi, penso soprattutto ai migranti, con il loro carico di difficoltà e sofferenze, che affrontano ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo ove vivere in pace e con dignità.

Vorrei perciò quest’oggi soffermarmi a riflettere con Voi sulla grave emergenza migratoria che stiamo affrontando, per discernerne le cause, prospettare delle soluzioni, vincere l’inevitabile paura che accompagna un fenomeno così massiccio e imponente, che nel corso del 2015 ha riguardato soprattutto l’Europa, ma anche diverse regioni dell’Asia e il nord e il centro America.

«Non aver paura e non spaventarti, perché il Signore, tuo Dio, è con te, dovunque tu vada» (Gs 1,9). È la promessa che Dio fa a Giosuè e che mostra quanto il Signore accompagni ogni persona, soprattutto chi è in una situazione di fragilità come quella di chi cerca rifugio in un paese straniero. Invero, tutta la Bibbia ci narra la storia di un’umanità in cammino, perché l’essere in movimento è connaturale all’uomo. La sua storia è fatta di tante migrazioni, talvolta maturate come consapevolezza del diritto ad una libera scelta, sovente dettate da circostanze esteriori. Dall’esilio dal paradiso terrestre fino ad Abramo in marcia verso la terra promessa; dal racconto dell’Esodo alla deportazione in Babilonia, la Sacra Scrittura narra fatiche e dolori, desideri e speranze, che sono simili a quelli delle centinaia di migliaia di persone in marcia ai nostri giorni, con la stessa determinazione di Mosè di raggiungere una terra nella quale scorra “latte e miele” (cfr Es 3,17), dove poter vivere liberi e in pace.

E così, oggi come allora, udiamo il grido di Rachele che piange i suoi figli perché non sono più (cfr Ger 31,15; Mt 2,18). È la voce delle migliaia di persone che piangono in fuga da guerre orribili, da persecuzioni e violazioni dei diritti umani, o da instabilità politica o sociale, che rendono spesso impossibile la vita in patria. È il grido di quanti sono costretti a fuggire per evitare le barbarie indicibili praticate verso persone indifese, come i bambini e i disabili, o il martirio per la sola appartenenza religiosa.

Come allora, udiamo la voce di Giacobbe che dice ai suoi figli «Andate laggiù e comprate [il grano] per noi, perché possiamo conservarci in vita e non morire» (Gen 42,2). È la voce di quanti fuggono dalla miseria estrema, per l’impossibilità di sfamare la famiglia o di accedere alle cure mediche e all’istruzione, dal degrado senza prospettive di alcun progresso, o anche a causa dei cambiamenti climatici e di condizioni climatiche estreme. Purtroppo, è noto come la fame sia ancora una delle piaghe più gravi del nostro mondo, con milioni di bambini che ogni anno muoiono a causa di essa. Duole, tuttavia, constatare che spesso questi migranti non rientrano nei sistemi internazionali di protezione in base agli accordi internazionali.

Come non vedere in tutto ciò il frutto di quella “cultura dello scarto” che mette in pericolo la persona umana, sacrificando uomini e donne agli idoli del profitto e del consumo? È grave assuefarci a queste situazioni di povertà e di bisogno, ai drammi di tante persone e farle diventare “normalità”. Le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani. Siamo diventati insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra i più deprecabili, quando ci sono molte persone e famiglie che soffrono fame e malnutrizione5.

La Santa Sede auspica che il Primo Vertice Umanitario Mondiale, convocato nel maggio prossimo dalle Nazioni Unite, possa riuscire, nel triste quadro odierno di conflitti e disastri, nel suo intento di mettere la persona umana e la sua dignità al cuore di ogni risposta umanitaria. Occorre un impegno comune che rovesci decisamente la cultura dello scarto e dell’offesa della vita umana, affinché nessuno si senta trascurato o dimenticato e altre vite non vengano sacrificate per la mancanza di risorse e, soprattutto, di volontà politica.

Purtroppo, oggi come allora, sentiamo la voce di Giuda che suggerisce di vendere il proprio fratello (cfr Gen 37,26-27). È l’arroganza dei potenti che strumentalizzano i deboli, riducendoli ad oggetti per fini egoistici o per calcoli strategici e politici. Laddove è impossibile una migrazione regolare, i migranti sono spesso costretti a scegliere di rivolgersi a chi pratica la tratta o il contrabbando di esseri umani, pur essendo in gran parte coscienti del pericolo di perdere durante il viaggio i beni, la dignità e perfino la vita. In questa prospettiva, rinnovo ancora l’appello a fermare il traffico di persone, che mercifica gli esseri umani, specialmente i più deboli e indifesi. E rimarranno sempre indelebilmente impresse nelle nostre menti e nei nostri cuori le immagini dei bambini morti in mare, vittime della spregiudicatezza degli uomini e dell’inclemenza della natura. Chi poi sopravvive e approda ad un Paese che lo accoglie porta indelebilmente le cicatrici profonde di queste esperienze, oltre a quelle legate agli orrori che sempre accompagnano guerre e violenze.

Come allora, anche oggi si ode l’Angelo ripetere: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò» (Mt 2,13). È la voce che sentono i molti migranti che non lascerebbero mai il proprio Paese se non vi fossero costretti. Tra questi vi sono numerosi cristiani che sempre più massicciamente hanno abbandonato nel corso degli ultimi anni le proprie terre, che pure hanno abitato fin dalle origini del cristianesimo.

Infine, anche oggi ascoltiamo la voce del salmista che ripete: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion» (Sal 136 [137],1). È il pianto di quanti farebbero volentieri ritorno nei propri Paesi, se vi trovassero idonee condizioni di sicurezza e di sussistenza. Anche qui il mio pensiero va ai cristiani del Medio Oriente desiderosi di contribuire, come cittadini a pieno titolo, al benessere spirituale e materiale delle rispettive Nazioni.

Gran parte delle cause delle migrazioni si potevano affrontare già da tempo. Si sarebbero così potute prevenire tante sciagure o, almeno, mitigarne le conseguenze più crudeli. Anche oggi, e prima che sia troppo tardi, molto si potrebbe fare per fermare le tragedie e costruire la pace. Ciò significherebbe però rimettere in discussione abitudini e prassi consolidate, a partire dalle problematiche connesse al commercio degli armamenti, al problema dell’approvvigionamento di materie prime e di energia, agli investimenti, alle politiche finanziarie e di sostegno allo sviluppo, fino alla grave piaga della corruzione. Siamo consapevoli poi che, sul tema della migrazione, occorra stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza e, nel contempo, favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate.

Senza dimenticare altre situazioni drammatiche, tra le quali penso particolarmente alla frontiera fra Messico e Stati Uniti d’America, che lambirò recandomi a Ciudad Juárez il mese prossimo, vorrei dedicare un pensiero speciale all’Europa. Infatti, nel corso dell’ultimo anno essa è stata interessata da un imponente flusso di profughi – molti dei quali hanno trovato la morte nel tentativo di raggiungerla –, che non ha precedenti nella sua storia recente, nemmeno al termine della seconda guerra mondiale. Molti migranti provenienti dall’Asia e dall’Africa, vedono nell’Europa un punto di riferimento per principi come l’uguaglianza di fronte al diritto e valori inscritti nella natura stessa di ogni uomo, quali l’inviolabilità della dignità e dell’uguaglianza di ogni persona, l’amore al prossimo senza distinzione di origine e di appartenenza, la libertà di coscienza e la solidarietà verso i propri simili.

Tuttavia, i massicci sbarchi sulle coste del Vecchio Continente sembrano far vacillare il sistema di accoglienza, costruito faticosamente sulle ceneri del secondo conflitto mondiale e che costituisce ancora un faro di umanità cui riferirsi. Di fronte all’imponenza dei flussi e agli inevitabili problemi connessi, sono sorti non pochi interrogativi sulle reali possibilità di ricezione e di adattamento delle persone, sulla modifica della compagine culturale e sociale dei Paesi di accoglienza, come pure sul ridisegnarsi di alcuni equilibri geo-politici regionali. Altrettanto rilevanti sono i timori per la sicurezza, esasperati oltremodo della dilagante minaccia del terrorismo internazionale. L’attuale ondata migratoria sembra minare le basi di quello “spirito umanistico” che l’Europa da sempre ama e difende6. Tuttavia, non ci si può permettere di perdere i valori e i principi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di solidarietà reciproca, quantunque essi possano costituire, in alcuni momenti della storia, un fardello difficile da portare. Desidero, dunque, ribadire il mio convincimento che l’Europa, aiutata dal suo grande patrimonio culturale e religioso, abbia gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti7.

In pari tempo, sento la necessità di esprimere gratitudine per tutte le iniziative prese per favorire una dignitosa accoglienza delle persone, quali, fra gli altri, il Fondo Migranti e Rifugiati della Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa, nonché per l’impegno di quei Paesi che hanno mostrato un generoso atteggiamento di condivisione. Mi riferisco anzitutto alle Nazioni vicine alla Siria, che hanno dato risposte immediate di assistenza e di accoglienza, soprattutto il Libano, dove i rifugiati costituiscono un quarto della popolazione complessiva, e la Giordania, che non ha chiuso le frontiere nonostante ospitasse già centinaia di migliaia di rifugiati. Parimenti non bisogna dimenticare gli sforzi di altri Paesi impegnati in prima linea, tra i quali specialmente la Turchia e la Grecia. Una particolare riconoscenza desidero esprimere all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo territorio di un ingente numero di rifugiati. Auspico che il tradizionale senso di ospitalità e solidarietà che contraddistingue il popolo italiano non venga affievolito dalle inevitabili difficoltà del momento, ma, alla luce della sua tradizione plurimillenaria, sia capace di accogliere ed integrare il contributo sociale, economico e culturale che i migranti possono offrire.

È importante che le Nazioni in prima linea nell’affrontare l’attuale emergenza non siano lasciate sole, ed è altrettanto indispensabile avviare un dialogo franco e rispettoso tra tutti i Paesi coinvolti nel problema – di provenienza, di transito o di accoglienza – affinché, con una maggiore audacia creativa, si ricerchino soluzioni nuove e sostenibili. Non si possono, infatti, pensare nell’attuale congiuntura soluzioni perseguite in modo individualistico dai singoli Stati, poiché le conseguenze delle scelte di ciascuno ricadono inevitabilmente sull’intera Comunità internazionale. È noto, infatti, che le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo più di quanto non l’abbiano fatto finora e che le risposte potranno essere frutto solo di un lavoro comune, che sia rispettoso della dignità umana e dei diritti delle persone. L’Agenda di Sviluppo adottata nel settembre scorso dalle Nazioni Unite per i prossimi 15 anni, che affronta molti dei problemi che spingono alla migrazione, come pure altri documenti della Comunità internazionale per gestire la questione migratoria, potranno trovare un’applicazione coerente alle aspettative se sapranno rimettere la persona al centro delle decisioni politiche a tutti i livelli, vedendo l’umanità come una sola famiglia e gli uomini come fratelli, nel rispetto delle reciproche differenze e convinzioni di coscienza.

Nell’affrontare la questione migratoria non si potranno tralasciare, infatti, i risvolti culturali connessi, a partire da quelli legati all’appartenenza religiosa. L’estremismo e il fondamentalismo trovano un terreno fertile non solo in una strumentalizzazione della religione per fini di potere, ma anche nel vuoto di ideali e nella perdita d’identità – anche religiosa –, che drammaticamente connota il cosiddetto Occidente. Da tale vuoto nasce la paura che spinge a vedere l’altro come un pericolo ed un nemico, a chiudersi in sé stessi, arroccandosi su posizioni preconcette. Il fenomeno migratorio pone, dunque, un serio interrogativo culturale, al quale non ci si può esimere dal rispondere. L’accoglienza può essere dunque un’occasione propizia per una nuova comprensione e apertura di orizzonte, sia per chi è accolto, il quale ha il dovere di rispettare i valori, le tradizioni e le leggi della comunità che lo ospita, sia per quest’ultima, chiamata a valorizzare quanto ogni immigrato può offrire a vantaggio di tutta la comunità. In tale ambito, la Santa Sede rinnova il proprio impegno in campo ecumenico ed interreligioso per instaurare un dialogo sincero e leale che, valorizzando le particolarità e l’identità propria di ciascuno, favorisca una convivenza armoniosa fra tutte le componenti sociali.

Distinti Membri del Corpo Diplomatico,

Il 2015 ha visto la conclusione di importanti intese internazionali, le quali fanno ben sperare per il futuro. Penso anzitutto al cosiddetto Accordo sul nucleare iraniano, che auspico contribuisca a favorire un clima di distensione nella Regione, come pure al raggiungimento dell’atteso accordo sul clima nel corso della Conferenza di Parigi. Un’intesa significativa – quest’ultima – che rappresenta un importante risultato per l’intera Comunità internazionale e che mette in luce una forte presa di coscienza collettiva circa la grave responsabilità che ciascuno, individui e nazioni, ha di custodire il creato, promuovendo una «cultura della cura che impregni tutta la società»8. È ora fondamentale che gli impegni assunti non rappresentino solo un buon proposito, ma costituiscano per tutti gli Stati un effettivo obbligo a porre in essere le azioni necessarie per salvaguardare la nostra amata Terra, a beneficio dell’intera umanità, soprattutto delle generazioni future.

Da parte sua, l’anno da poco iniziato si preannuncia carico di sfide, e non poche tensioni si sono già affacciate all’orizzonte. Penso soprattutto ai gravi contrasti sorti nella regione del Golfo Persico, come pure al preoccupante esperimento militare condotto nella penisola coreana. Auspico che le contrapposizioni lascino spazio alla voce della pace e alla buona volontà di cercare intese. In tale prospettiva, rilevo con soddisfazione come non manchino gesti significativi e particolarmente incoraggianti. Mi riferisco in particolare al clima di pacifica convivenza nel quale si sono svolte le recenti elezioni nella Repubblica Centroafricana e che costituisce un segno positivo della volontà di proseguire il cammino intrapreso verso una piena riconciliazione nazionale. Penso, inoltre, alle nuove iniziative avviate a Cipro per sanare una divisione di lunga data e agli sforzi intrapresi dal popolo colombiano per superare i conflitti del passato e conseguire la pace da tempo agognata. Tutti guardiamo poi con speranza gli importanti passi intrapresi dalla Comunità internazionale per raggiungere una soluzione politica e diplomatica della crisi in Siria, che ponga fine alle sofferenze, durate troppo a lungo, della popolazione. Parimenti, sono incoraggianti i segnali provenienti dalla Libia, che fanno sperare in un rinnovato impegno per far cessare le violenze e ritrovare l’unità del Paese. D’altra parte, appare sempre più evidente che solamente un’azione politica comune e concordata potrà contribuire ad arginare il dilagare dell’estremismo e del fondamentalismo, con i suoi risvolti di matrice terroristica, che mietono innumerevoli vittime tanto in Siria e in Libia, come in altri Paesi, quali Iraq e Yemen.

Quest’Anno Santo della Misericordia sia anche l’occasione di dialogo e riconciliazione volto all’edificazione del bene comune in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan. Soprattutto sia un tempo propizio per porre definitivamente termine al conflitto nelle regioni orientali dell’Ucraina. è di fondamentale importanza il sostegno che la Comunità internazionale, i singoli Stati e le organizzazioni umanitarie potranno offrire al Paese sotto molteplici punti di vista, affinché esso superi l’attuale crisi.

La sfida che più di ogni altra ci attende è però quella di vincere l’indifferenza per costruire insieme la pace9, la quale rimane un bene da perseguire sempre. Purtroppo tra le tante parti del nostro amato mondo che la bramano ardentemente, vi è la Terra che Dio ha prediletto e scelto per mostrare a tutti il volto della sua misericordia. Il mio augurio è che questo nuovo anno possa sanare le profonde ferite che separano Israeliani e Palestinesi e permettere la pacifica convivenza di due popoli che – ne sono certo – dal profondo del cuore null’altro chiedono che pace!

Eccellenze, Signore e Signori,

A livello diplomatico, la Santa Sede non smetterà mai di lavorare perché la voce della pace possa essere udita fino agli estremi confini della terra. Rinnovo pertanto la piena disponibilità della Segreteria di Stato a collaborare con Voi nel favorire un dialogo costante tra la Sede Apostolica e i Paesi che rappresentate a beneficio dell’intera Comunità internazionale, con l’intima certezza che quest’anno giubilare potrà essere l’occasione propizia perché la fredda indifferenza di tanti cuori sia vinta dal calore della misericordia, dono prezioso di Dio, che trasforma il timore in amore e ci rende artefici di pace. Con questi sentimenti rinnovo a ciascuno di Voi, alle Vostre famiglie, ai Vostri Paesi i più fervidi auguri di un anno pieno di benedizioni. Grazie.

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1 Incontro con la comunità musulmana, Bangui, 30 novembre 2015.

2 Cfr Incontro con le Autorità, Sarajevo, 6 giugno 2015.

3 Incontro con le famiglie, Manila, 16 gennaio 2015.

4 Incontro con la società civile, Quito, 7 luglio 2015

5 Cfr Udienza Generale, 5 giugno 2013.

6 Cfr Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.

7 Cfr ibid.

8 Enc. Laudato si’, 231.

9 Cfr Vinci l’indifferenza e conquista la pace, Messaggio per la XLIX Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2015.

[00026-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Testo in lingua francese

Excellences, Mesdames et Messieurs,

Je vous adresse une cordiale bienvenue à ce rendez-vous annuel, qui m’offre l’opportunité de vous présenter mes vœux pour la nouvelle année, me permettant de réfléchir avec vous sur la situation de notre monde, béni et aimé de Dieu, pourtant tourmenté et affligé de nombreux maux. Je remercie le nouveau Doyen du Corps diplomatique, Son Excellence Monsieur Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Ambassadeur d’Angola, pour les aimables paroles qu’il m’a adressées au nom de tout le Corps diplomatique accrédité près le Saint-Siège, alors que je désire rappeler d’une façon spéciale – à presqu’un mois de leur disparition – les regrettés Ambassadeur de Cuba, Rodney Alejandro López Clemente, et du Libéria, Rudolf P. von Ballmoos.

L’occasion m’est offerte aussi d’adresser une pensée particulière à tous ceux qui participent pour la première fois à cette rencontre, relevant avec satisfaction que, au cours de l’année passée, le nombre d’Ambassadeurs résidant à Rome s’est encore accru. Il s’agit d’une indication significative de l’attention avec laquelle la Communauté internationale suit l’activité diplomatique du Saint-Siège. Les Accords internationaux souscrits ou ratifiés au cours de l’année qui vient de s’achever en sont une preuve supplémentaire. Je désire, en particulier, citer ici les ententes spécifiques en matière fiscale signées avec l’Italie et les États-Unis d’Amérique, qui témoignent de l’engagement accru du Saint-Siège en faveur d’une plus grande transparence dans les questions économiques. Non moins importants sont les accords de caractère général, en vue de réguler des aspects essentiels de la vie et de l’activité de l’Église dans les différents pays, comme l’entente signée à Díli avec la République du Timor-Oriental.

Je désire également rappeler l’échange des Instruments de ratification de l’Accord avec le Tchad sur l’état juridique de l’Église catholique dans le pays, comme aussi l’Accord signé et ratifié avec la Palestine. Il s’agit de deux accords qui, avec le Mémorandum d’Entente entre la Secrétairerie d’État et le Ministère des Affaires étrangères du Koweit, montrent, entre autre, comment le vivre-ensemble pacifique entre des personnes appartenant à des religions différentes est possible, là où la liberté religieuse est reconnue et où la possibilité effective de collaborer à l’édification du bien commun, dans le respect réciproque de l’identité culturelle de chacun, est garantie.

D’autre part, chaque expérience religieuse authentiquement vécue ne peut que promouvoir la paix. Noël, que nous venons de célébrer et où nous avons contemplé la naissance d’un enfant sans défense, «appelé: Conseiller merveilleux, Dieu-fort, Père-à-jamais, Prince-de-la-Paix» (cf. Is 9, 5), nous le rappelle. Le mystère de l’Incarnation nous montre le vrai visage de Dieu, pour qui puissance ne signifie pas force et destruction, mais bien amour; justice ne signifie pas vengeance, mais bien miséricorde. C’est dans cette perspective que j’ai voulu proclamer le Jubilé extraordinaire de la Miséricorde, inauguré exceptionnellement à Bangui au cours de mon voyage apostolique au Kenya, en Ouganda et en République Centrafricaine. Dans un pays longuement éprouvé par la faim, la pauvreté et les conflits, où la violence fratricide des dernières années a laissé des blessures profondes dans les âmes, déchirant la communauté nationale et engendrant misère matérielle et morale, l’ouverture de la Porte Sainte de la Cathédrale de Bangui a voulu être un signe d’encouragement à élever le regard, à reprendre la route et à retrouver les raisons du dialogue. Là où l’on a abusé du nom de Dieu pour commettre l’injustice, j’ai voulu rappeler, avec la communauté musulmane de la République Centrafricaine, que «celui qui dit croire en Dieu doit être aussi un homme, une femme de paix», et donc de miséricorde, puisqu’on ne peut jamais tuer au nom de Dieu. Seule une forme idéologique et déviée de la religion peut penser rendre justice au nom du Tout-Puissant, en massacrant délibérément des personnes sans défense, comme cela est arrivé dans les attentats terroristes sanglants des mois derniers en Afrique, en Europe et au Moyen-Orient.

La miséricorde a été comme le “fil conducteur” qui a guidé mes voyages apostoliques déjà au cours de l’année passée. Je me réfère surtout à la visite à Sarajevo, ville profondément blessée par la guerre dans les Balkans et capitale d’un pays, la Bosnie Herzégovine, qui revêt une signification spéciale pour l’Europe et pour le monde entier. Un tel carrefour de cultures, nations et religions s’efforce, avec des résultats positifs, de construire toujours de nouveaux ponts, de valoriser ce qui unit et de regarder les différences comme des opportunités de croissance dans le respect de tous. Cela est possible grâce au dialogue patient et confiant, qui sait faire siennes les valeurs de la culture de chacun et accueillir le bien provenant des expériences d’autrui.

Ma pensée va ensuite au voyage en Bolivie, en Équateur et au Paraguay, où j’ai rencontré des peuples qui ne se rendent pas face aux difficultés et affrontent avec courage, détermination et esprit de fraternité les nombreux défis qui les tourmentent, à commencer par la pauvreté diffuse et les inégalités sociales. Au cours du voyage à Cuba et aux États-Unis d’Amérique, j’ai pu embrasser deux pays qui ont été longuement divisés et qui ont décidé d’écrire une nouvelle page de l’histoire, en entreprenant un chemin de rapprochement et de réconciliation.

À Philadelphie, à l’occasion de la Rencontre mondiale des familles, comme aussi au cours du voyage au Sri Lanka et aux Philippines et avec le récent Synode des Évêques, j’ai rappelé l’importance de la famille, qui est la première et la plus importante école de miséricorde, où l’on apprend à découvrir le visage affectueux de Dieu et où notre humanité grandit et se développe. Malheureusement, nous connaissons les nombreux défis que la famille doit affronter en ce temps, où elle est «menacée par les efforts croissants de certains pour redéfinir l’institution-même du mariage à travers le relativisme, la culture de l’éphémère et un manque d’ouverture à la vie». Il y a aujourd’hui une peur diffuse face au caractère définitif que la famille exige et en font les frais surtout les plus jeunes, souvent fragiles et désorientés, et les personnes âgées qui finissent par être oubliées et abandonnées. Au contraire, «de la fraternité vécue en famille, naît (…) la solidarité dans la société», qui nous porte à être responsable les uns des autres. Cela est possible seulement si dans nos maisons, de même que dans nos sociétés, nous ne laissons pas se sédimenter les peines et les ressentiments, mais donnons place au dialogue, qui est le meilleur antidote à l’individualisme si largement répandu dans la culture de notre temps.

Chers Ambassadeurs,

Un esprit individualiste est un terrain fertile pour la maturation de cette attitude d’indifférence envers le prochain, qui porte à le traiter comme simple objet d’achat et de vente, qui pousse à se désintéresser de l’humanité des autres et finit par rendre les personnes craintives et cyniques. Ces sentiments ne sont-ils pas ceux que nous éprouvons souvent devant les pauvres, les marginaux, les derniers de la société? Et combien de derniers avons-nous dans nos sociétés! Parmi ceux-ci, je pense surtout aux migrants, avec leur poids de difficultés et de souffrances qu’ils affrontent chaque jour dans la recherche, parfois désespérée, d’un lieu où vivre en paix et avec dignité.

Je voudrais donc aujourd’hui m’arrêter à réfléchir avec vous sur la grave urgence migratoire que nous sommes en train d’affronter, pour en discerner les causes, proposer des solutions, vaincre l’inévitable peur qui accompagne un phénomène aussi massif et imposant qui, au cours de 2015, a surtout concerné l’Europe, mais aussi différentes régions de l’Asie et le nord et le centre de l’Amérique.

«Ne crains pas, ne t’effraie pas, car le Seigneur ton Dieu sera avec toi où tu iras» (Jos 1, 9). C’est la promesse que Dieu fait à Josué et qui montre combien le Seigneur accompagne chaque personne, surtout celle qui est dans une situation de fragilité comme celle qui cherche refuge dans un pays étranger. En vérité, toute la Bible nous raconte l’histoire d’une humanité en chemin, parce que le fait d’être en mouvement est connaturel à l’homme. Son histoire est faite de nombreuses migrations, parfois muries comme conscience du droit à une liberté choisie, souvent dictées par des circonstances extérieures. De l’exil du paradis terrestre jusqu’à Abraham en marche vers la terre promise; du récit de l’Exode à la déportation à Babylone, la Sainte Écriture raconte peines et douleurs, désirs et espérances, qui sont communs à ceux des centaines de milliers de personnes en marche de nos jours, avec la même détermination que Moïse pour atteindre une terre dans laquelle coule “lait et miel” (cf. Ex 3, 17), où pouvoir vivre libres et en paix.

Et aussi, aujourd’hui comme alors, nous entendons le cri de Rachel qui pleure ses enfants parce qu’ils ne sont plus (cf. Jr 31, 15; Mt 2, 18). C’est la voix des milliers de personnes qui pleurent en fuyant des guerres horribles, des persécutions et des violations des droits humains, ou l’instabilité politique ou sociale, qui rendent souvent impossible la vie dans sa patrie. C’est le cri de tous ceux qui sont contraints de fuir pour éviter les barbaries indicibles pratiquées envers des personnes sans défense, comme les enfants et les personnes handicapées, ou le martyre pour la seule appartenance religieuse.

Comme alors, nous entendons la voix de Jacob qui dit à ses fils: «descendez là-bas et achetez-y du blé pour nous: ainsi nous ne mourrons pas, nous vivrons» (Gn 42, 2). C’est la voix de tous ceux qui fuient la misère extrême, à cause de l’impossibilité de nourrir la famille ou d’accéder à des soins médicaux et à l’instruction, de la dégradation sans perspective de quelque progrès, ou aussi à cause des changements climatiques et des conditions climatiques extrêmes. Malheureusement, on sait que la faim est encore une des plaies les plus graves de notre monde, avec des millions d’enfants qui meurent chaque année à cause d’elle. C’est douloureux de constater pourtant que souvent ces migrants ne rentrent pas dans les systèmes internationaux de protection sur la base des accords internationaux.

Comment ne pas voir dans tout cela le fruit de cette “culture du rejet” qui met en péril la personne humaine, sacrifiant des hommes et des femmes aux idoles du profit et de la consommation? Il est grave de s’habituer à ces situations de pauvreté et de besoin, aux drames de nombreuses personnes et de les faire devenir “normalité”. Les personnes ne sont plus perçues comme une valeur fondamentale à respecter et à protéger, surtout celles qui sont pauvres ou avec un handicap, si elles “ne servent pas encore” – comme les enfants à naître -, ou “ne servent plus” – comme les personnes âgées. Nous sommes devenus insensibles à toute forme de gaspillage, à commencer par le gaspillage alimentaire, qui est parmi les plus déplorables, quand il y a de nombreuses personnes et familles qui souffrent de la faim et de la malnutrition.

Le Saint-Siège souhaite que le Premier Sommet humanitaire mondial convoqué en mai prochain par les Nations Unies puisse réussir, dans le triste tableau actuel de conflits et de catastrophes, dans son intention de mettre la personne humaine et sa dignité au cœur de chaque réponse humanitaire. Il faut un engagement commun qui renverse résolument la culture du déchet et de l’offense à la vie humaine afin que personne ne se sente dédaigné ou oublié et que d’autres vies ne soient pas sacrifiées à cause du manque de ressources et, par-dessus tout, de volonté politique.

Malheureusement, aujourd’hui comme alors, nous entendons la voix de Juda qui suggère de vendre son propre frère (cf. Gn 37, 26-27). C’est l’arrogance des puissants qui instrumentalisent les faibles, les réduisant à des objets pour des fins égoïstes ou pour des calculs stratégiques et politiques. Là où une migration régulière est impossible, les migrants sont souvent contraints de choisir de se tourner vers qui pratique la traite ou la contrebande d’êtres humains, même étant en grande partie conscients du danger de perdre durant le voyage les biens, la dignité et jusqu’à la vie. Dans cette perspective, je renouvelle encore l’appel à arrêter le trafic des personnes, qui exploite les êtres humains, spécialement les plus faibles et sans défense. Et les images des enfants morts en mer, victimes de l’absence de scrupules des hommes et de l’inclémence de la nature, resteront toujours imprimées de façon indélébile dans nos esprits et dans nos cœurs. Celui qui peut survivre et aborder un pays qui l’accueille porte de manière indélébile les cicatrices profondes de ces expériences, outre celles liées aux horreurs qui accompagnent toujours guerres et violences.

Comme alors, aujourd’hui aussi on entend l’Ange répéter: «Lève-toi; prends l’enfant et sa mère, et fuis en Égypte. Reste là-bas jusqu’à ce que je t’avertisse» (Mt 2, 13). C’est la voix qu’entendent les nombreux migrants qui ne laisseraient jamais leur propre pays s’ils n’y étaient pas contraints. Parmi eux, il y a de nombreux chrétiens qui d’une façon toujours plus massive ont abandonné au cours des dernières années leurs terres, qu’ils ont pourtant habitées depuis les origines du christianisme.

Enfin, aujourd’hui aussi écoutons la voix du psalmiste qui répète: «Au bord des fleuves de Babylone, nous étions assis et nous pleurions, nous souvenant de Sion» (Ps 136 [137], 1). C’est la plainte de tous ceux qui retourneraient volontiers dans leurs propres pays, s’ils y trouvaient des conditions idoines de sécurité et de subsistance. Là aussi, ma pensée va aux chrétiens du Moyen-Orient, désireux de contribuer, comme citoyens à part entière, au bien-être spirituel et matériel de leurs nations respectives.

On aurait pu affronter une grande partie des causes des migrations depuis longtemps déjà. On aurait pu ainsi éviter beaucoup de malheurs ou, du moins, en adoucir les conséquences les plus cruelles. Encore aujourd’hui, et avant qu’il ne soit trop tard, on pourrait faire beaucoup pour arrêter les tragédies et construire la paix. Mais cela signifierait remettre en cause des habitudes et des pratiques établies, en commençant par les questions liées au commerce des armes, au problème de l’approvisionnement de matières premières et d’énergie, aux investissements, aux politiques financières et de soutien au développement, jusqu’à la grave plaie de la corruption. Nous sommes conscients ensuite que, sur le thème de la migration, il convient d’établir des projets à moyen et à long terme qui aillent plus loin que la réponse d’urgence. Ceux-ci devraient d’un côté aider effectivement l’intégration des migrants dans les pays d’accueil, et en même temps favoriser le développement des pays de provenance par des politiques solidaires, mais qui ne soumettent pas les aides à des stratégies et à des pratiques idéologiquement étrangères ou contraires aux cultures des peuples auxquels elles s’adressent.

Sans oublier d’autres situations dramatiques, parmi lesquelles je pense en particulier à la frontière entre le Mexique et les Etats-Unis d’Amérique, que j’aborderai en me rendant à Ciudad Juarez le mois prochain, je voudrais dédier une pensée spéciale à l’Europe. En effet, au cours de l’année passée, elle a été concernée par un flux important de réfugiés – beaucoup d’entre eux ont trouvé la mort en essayant de l’atteindre –, qui n’a pas de précédent dans son histoire récente, pas même à la fin de la seconde guerre mondiale. Beaucoup de migrants venant de l’Asie et de l’Afrique, voient dans l’Europe un point de référence pour des principes comme l’égalité devant le droit et les valeurs inscrites dans la nature même de tout homme, dont l’inviolabilité de la dignité et de l’égalité de chaque personne, l’amour du prochain sans distinction d’origine ni d’appartenance, la liberté de conscience et la solidarité envers ses semblables.

Cependant, les débarquements massifs sur les côtes du vieux continent semblent faire vaciller le système d’accueil construit avec peine sur les cendres du second conflit mondial, qui constitue encore un phare d’humanité auquel se référer. Devant l’importance des flux et les inévitables problèmes connexes, de nombreuses questions sont sorties sur les possibilités réelles de réception et d’adaptation des personnes, sur la modification de la structure culturelle et sociale des pays d’accueil, comme aussi sur le remodelage de certains équilibres géopolitiques régionaux. De même, les craintes concernant la sécurité sont importantes, considérablement augmentées par la menace déferlante du terrorisme international. La vague migratoire actuelle semble miner les bases de cet «esprit humaniste» que l’Europe aime et défend depuis toujours. Cependant, on ne peut pas se permettre de perdre les valeurs et les principes d’humanité, de respect pour la dignité de toute personne, de subsidiarité et de solidarité réciproque, bien qu’ils puissent, à certains moments de l’histoire, constituer un fardeau difficile à porter. Je souhaite donc rappeler ma conviction que l’Europe, aidée par son grand patrimoine culturel et religieux, a les instruments pour défendre la centralité de la personne humaine et pour trouver le juste équilibre entre le double devoir moral de protéger les droits de ses propres citoyens, et celui de garantir l’assistance et l’accueil des migrants.

En même temps, je sens la nécessité d’exprimer de la gratitude pour toutes les initiatives prises pour favoriser un accueil digne des personnes, dont, parmi d’autres, le Fond Migrants et Réfugiés de la Banque de Développement du Conseil de l’Europe, et aussi pour l’engagement des pays qui ont eu une attitude généreuse de partage. Je fais référence avant tout aux nations proches de la Syrie, qui ont donné des réponses immédiates d’assistance et d’accueil; surtout le Liban, où les réfugiés constituent un quart de la population globale, et la Jordanie, qui n’a pas fermé ses frontières bien qu’elle héberge déjà des centaines de milliers de réfugiés. De même, il ne faut pas oublier les efforts d’autres pays engagés en première ligne, parmi lesquels spécialement la Turquie et la Grèce. Je souhaite exprimer une reconnaissance particulière à l’Italie, dont l’engagement décisif a sauvé beaucoup de vies en Méditerranée et qui prend encore en charge sur son territoire un nombre très important de réfugiés. Je souhaite que le traditionnel sens de l’hospitalité et de la solidarité qui distingue le peuple italien ne s’affaiblisse pas par les inévitables difficultés du moment, mais, à la lumière de sa tradition multimillénaire qu’il soit capable d’accueillir et d’intégrer l’apport social, économique et culturel que les migrants peuvent offrir.

Il est important que les Nations en première ligne pour affronter l’urgence actuelle ne soient pas laissées seules, et il est de même indispensable d’engager un dialogue franc et respectueux entre tous les pays impliqués dans le problème – de provenance, de transit ou d’accueil – pour que, avec une plus grande audace créative, on recherche des solutions nouvelles et durables. Dans la conjoncture actuelle, on ne peut pas penser, en effet, des solutions poursuivies de façon individualiste par chaque État, car les conséquences des choix de chacun retombent inévitablement sur la Communauté internationale tout entière. Il est connu, en effet, que les migrations constitueront un élément fondamental de l’avenir du monde, plus qu’elles ne l’ont fait jusqu’à présent, et que les réponses pourront être seulement le fruit d’un travail commun, qui soit respectueux de la dignité humaine et des droits des personnes. L’Agenda de Développement adopté en septembre dernier par les Nations Unies pour les 15 prochaines années, qui affronte beaucoup des problèmes qui poussent à la migration, comme aussi d’autres documents de la Communauté internationale pour gérer la question migratoire, pourront trouver une application cohérente aux attentes s’ils savent remettre la personne au centre des décisions politiques à tous les niveaux, voyant l’humanité comme une seule famille et les hommes comme des frères, dans le respect des différences réciproques et des convictions de conscience.

En affrontant la question migratoire, on ne pourra pas négliger, en effet, les aspects culturels connexes, en commençant par ceux qui sont liés à l’appartenance religieuse. L’extrémisme et le fondamentalisme trouvent un terrain fertile, non seulement dans une instrumentalisation de la religion à des fins de pouvoir, mais aussi dans le vide d’idéaux et dans la perte d’identité – aussi religieuse – que connaît dramatiquement l’Occident. D’un tel vide nait la peur qui pousse à voir l’autre comme un danger et un ennemi, à se refermer sur soi-même en se retranchant sur des positions préconçues. Le phénomène migratoire pose donc un sérieux problème culturel, auquel on ne peut se dispenser de répondre. L’accueil peut donc être une occasion propice pour une nouvelle compréhension et ouverture d’horizon, tant pour celui qui est accueilli, lequel a le devoir de respecter les valeurs, les traditions et les lois de la communauté qui l’héberge, que pour cette dernière, appelée à valoriser tout ce que chaque immigré peut offrir à l’avantage de toute la communauté. Dans ce cadre, le Saint Siège renouvelle son engagement dans le domaine œcuménique et interreligieux pour instaurer un dialogue sincère et loyal qui, valorisant la particularité et l’identité propre à chacun, favorise une cohabitation harmonieuse entre toutes les composantes sociales.

Distingués membres du Corps diplomatique,

2015 a vu la conclusion d’importantes ententes internationales, qui font beaucoup espérer pour l’avenir. Je pense avant tout à l’Accord sur le nucléaire iranien qui, je l’espère, contribue à favoriser un climat de détente dans la région, comme aussi la conclusion de l’accord attendu sur le climat, au cours de la Conférence de Paris. Il s’agit d’une entente significative qui représente un résultat important pour la Communauté internationale tout entière et qui met en lumière une forte prise de conscience collective à propos de la grave responsabilité que chacun, individus et nations, a de préserver la création, en promouvant une «culture de protection qui imprègne toute la société». Il est maintenant fondamental que les engagements pris ne soit pas seulement une bonne intention, mais constituent pour tous les États une obligation effective à réaliser les actions nécessaires pour sauvegarder notre Terre bien-aimée, au profit de l’humanité tout entière, surtout des générations à venir.

De son côté, l’année qui vient de commencer s’annonce pleine de défis et beaucoup de tensions se sont déjà manifestées à l’horizon. Je pense surtout aux graves divergences surgies dans la région du Golfe persique, comme aussi à la préoccupante expérience militaire menée dans la péninsule coréenne. Je souhaite que les oppositions laissent place à la voix de la paix et à la bonne volonté de chercher des ententes. Dans cette perspective, je relève avec satisfaction que des gestes significatifs et particulièrement encourageants ne manquent pas. Je fais référence en particulier au climat de cohabitation pacifique dans lequel se sont déroulées les récentes élections en République Centrafricaine et qui constitue un signe positif de la volonté de poursuivre le chemin entrepris vers une pleine réconciliation nationale. Je pense, en outre, aux nouvelles initiatives engagées à Chypre pour assainir une division de longue date, et aux efforts entrepris par le peuple colombien pour dépasser les conflits du passé et obtenir la paix ardemment désirée depuis longtemps. Ensuite, nous regardons tous avec espérance les pas importants entrepris par la Communauté internationale pour atteindre une solution politique et diplomatique de la crise en Syrie, qui mette fin aux souffrances de la population, qui durent depuis trop longtemps. De même, les signes provenant de la Libye sont encourageants, ils font espérer un engagement renouvelé pour faire cesser les violences et retrouver l’unité du pays. D’autre part, il apparaît de plus en plus évident que seule une action politique commune et coordonnée pourra contribuer à endiguer le déferlement de l’extrémisme et du fondamentalisme, avec leurs aspects d’origine terroriste, qui font d’innombrables victimes, tant en Syrie, en Libye, que dans d’autres pays tels que l’Irak et le Yémen.

Que cette Année Sainte de la Miséricorde soit aussi une occasion de dialogue et de réconciliation orienté vers l’édification du bien commun au Burundi, en République Démocratique du Congo et au Sud Soudan. Qu’elle soit surtout un temps propice pour mettre définitivement un terme au conflit dans les régions orientales de l’Ukraine. Le soutien que la Communauté internationale, chaque État et les organismes humanitaires, pourront offrir au pays à de multiples points de vue afin qu’il résolve la crise actuelle, est d’une importance fondamentale.

Mais le défi qui, plus que tout autre, nous attend est celui de vaincre l’indifférence pour construire ensemble la paix, qui demeure un bien à poursuivre sans cesse. Malheureusement, parmi les nombreuses parties du monde bien-aimé qui la désirent ardemment, il y a la Terre que Dieu a aimée et choisie pour montrer à tous le visage de sa miséricorde. Mon souhait est que cette nouvelle année puisse guérir les blessures profondes qui séparent Israéliens et Palestiniens et permettre la cohabitation pacifique de deux peuples qui – j’en suis sûr – du fond du cœur, ne demandent rien d’autre que la paix!

Excellences, Mesdames et Messieurs,

Au niveau diplomatique, le Saint-Siège ne cessera jamais de travailler pour que la voix de la paix puisse être entendue jusqu’aux extrémités de la terre. Je renouvelle donc l’entière disponibilité de la Secrétairerie d’État à collaborer avec vous pour favoriser un dialogue constant entre le Siège Apostolique et les pays que vous représentez au profit de toute la Communauté internationale, avec la profonde certitude que cette année jubilaire pourra être l’occasion propice pour que la froide indifférence de nombreux cœurs soit vaincue par la chaleur de la miséricorde, don précieux de Dieu, qui transforme la crainte en amour et nous rend artisans de paix. Avec ces sentiments je renouvelle à chacun de vous, à vos familles, à vos pays, mes vœux les plus fervents d’une année pleine de bénédictions.

Merci.

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1 Rencontre avec la communauté musulmane, Bangui, 30 novembre 2015.

2 Cf. Rencontre avec les Autorités, Sarajevo, 6 juin 2015.

3 Rencontre avec les familles, Manille, 16 janvier 2015.

4 Rencontre avec la société civile, Quito, 7 juillet 2015.

5 Cf. Audience générale, 5 juin 2013.

6 Cf. Discours au Parlement Européen, Strasbourg, 25 novembre 2014.

7 Ibid.

8 Laudato si’, n. 231.

9 Cf. Gagne sur l’indifférence et remporte la paix, Message pour la 49ème Journée Mondiale de la Paix, 8 décembre 2015.

[00026-FR.01] [Texte original: Italien]

Testo in lingua inglese

Your Excellencies, Ladies and Gentlemen,

I offer you a cordial welcome to this annual gathering. It allows me to offer you my best wishes for the New Year and to reflect with you on the state of our world, so loved and blessed by God, and yet fraught with so many ills. I thank your new Dean, His Excellency Armindo Fernandes do Espírito Santo Veira, the Ambassador of Angola, for his kind greeting in the name of the entire Diplomatic Corps accredited to the Holy See. In a special way, I would also like to remember the late Ambassadors of Cuba, Rodney Alejandro López Clemente, and Liberia, Rudolf P. von Ballmoos, both of whom left us in this past month.

This occasion also allows me to offer a particular word of welcome to those of you who join us for the first time. I note with satisfaction that the number of resident Ambassadors in Rome has increased over the past year. This is an important sign of the interest with which the international community follows the diplomatic activity of the Holy See, as for that matter are the international agreements signed or ratified in the course of this last year. Here I would mention the specific fiscal agreements reached with Italy and the United States of America, reflecting the increased commitment of the Holy See to greater transparency in economic matters. No less important are the more general agreements aimed at regulating essential aspects of the Church’s life and activity in different countries, such as the agreement sealed in Dili with the Democratic Republic of Timor-Leste.

At the same time, I would like to mention the exchange of instruments of ratification of the agreement with Chad on the juridical status of the Catholic Church in that country, as well as the agreement signed and ratified with Palestine. These two agreements, together with the Memorandum of Understanding between the Secretariat of State and the Foreign Affairs Minister of Kuwait, demonstrate, among other things, how peaceful co-existence between the followers of different religions is possible when religious freedom is recognized and practical cooperation in the pursuit of the common good, in a spirit of respect for the cultural identity of all parties, is effectively guaranteed.

For that matter, every authentic practice of religion cannot fail to promote peace. Our recent celebration of Christmas reminds us of this: we contemplated the birth of a vulnerable child who is “named Wonderful Counsellor, Mighty God, Everlasting Father, the Prince of Peace” (cf. Is 9:5). The mystery of the Incarnation shows us the real face of God, for whom power does not mean force or destruction but love, and for whom justice is not vengeance but mercy. It is in light of this that I wished to proclaim the Extraordinary Jubilee of Mercy, exceptionally inaugurated in Bangui during my Apostolic Journey in Kenya, Uganda and the Central African Republic. In a country sorely tried by hunger, poverty and conflict, where fratricidal violence in recent years has left deep wounds, rending the nation and creating material and moral destitution, the opening of the Holy Door of Bangui Cathedral was meant as a sign of encouragement to look ahead, to set out anew and resume dialogue. There, where God’s name has been misused to perpetrate injustice, I wanted to reaffirm, together with the Muslim community of the Central African Republic, that “those who claim to believe in God must also be men and women of peace” and consequently of mercy, for one may never kill in the name of God. Only a distorted ideological form of religion can think that justice is done in the name of the Almighty by deliberately slaughtering defenceless persons, as in the brutal terrorist attacks which occurred in recent months in Africa, Europe and the Middle East.

Mercy was the common thread linking my Apostolic Journeys in the course of the past year. This was the case above all with my visit to Sarajevo, a city deeply scarred by the war in the Balkans and the capital of a country, Bosnia and Herzegovina, which is uniquely significant for Europe and the entire world. As a crossroads of cultures, nations and religions, it is working successfully to build new bridges, to encourage those things which unite, and to see differences as opportunities for growth in respect for all. This is possible thanks to a patient and trusting dialogue capable of embracing the values of each culture and accepting the good which comes from the experience of others.

I think too of my Journey to Bolivia, Ecuador and Paraguay, where I encountered peoples who have not given up in the face of difficulties, and who are facing with courage, determination and solidarity their many challenges, beginning with widespread poverty and social inequality. During my Journey to Cuba and the United States of America, I was able to embrace two countries which were long divided and which have decided to write a new page of history, embarking on the path of closer ties and reconciliation.

In Philadelphia for the World Meeting of Families, during my Journey to Sri Lanka and to the Philippines, and more recently with the Synod of Bishops, I reaffirmed the centrality of the family, which is the first and most important school of mercy, in which we learn to see God’s loving face and to mature and develop as human beings. Sadly, we recognize the numerous challenges presently facing families, “threatened by growing efforts on the part of some to redefine the very institution of marriage by relativism, by the culture of the ephemeral, by a lack of openness to life”. Today there is a widespread fear of the definitive commitment demanded by the family; those who pay the price are the young, who are often vulnerable and uncertain, and the elderly, who end up being neglected and abandoned. On the contrary, “out of the family’s experience of fraternity is born solidarity in society”, which instils in us a sense of responsibility for others. This is possible only if, in our homes and our societies, we refuse to allow weariness and resentment to take root, but instead make way for dialogue, which is the best antidote to the widespread individualism of today’s culture.

Dear Ambassadors,

An individualistic spirit is fertile soil for the growth of that kind of indifference towards our neighbours which leads to viewing them in purely economic terms, to a lack of concern for their humanity, and ultimately to feelings of fear and cynicism. Are these not the attitudes we often adopt towards the poor, the marginalized and the “least” of society? And how many of these “least” do we have in our societies! Among them I think primarily of migrants, with their burden of hardship and suffering, as they seek daily, often in desperation, a place to live in peace and dignity.

Today, then, I would like to reflect with you on the grave crisis of migration which we are facing, in order to discern its causes, to consider possible solutions, and to overcome the inevitable fears associated with this massive and formidable phenomenon, which in 2015 has mainly concerned Europe, but also various regions of Asia and North and Central America.

“Be not frightened, neither be dismayed; for the Lord your God is with you wherever you go” (Jos 1:9). This is the promise which God makes to Joshua, revealing his concern for every person, but particularly those in precarious situations such as people seeking refuge in a foreign country. The Bible as a whole recounts the history of a humanity on the move, for mobility is part of our human nature. Human history is made up of countless migrations, sometimes out of an awareness of the right to choose freely, and often dictated by external circumstances. From the banishment from Eden to Abraham’s journey to the promised land, from the Exodus story to the deportation to Babylon, sacred Scripture describes the struggles and sufferings, the desires and hopes, which are shared by the hundreds of thousands of persons on the move today, possessed of the same determination which Moses had to reach a land flowing with “milk and honey” (cf. Ex 3:17), a land of freedom and peace.

Now as then, we hear Rachel weeping for her children who are no more (cf. Jer 31:15; Mt 2:18). Hers is the plea of thousands of people who weep as they flee horrific wars, persecutions and human rights violations, or political or social instability, which often make it impossible for them to live in their native lands. It is the outcry of those forced to flee in order to escape unspeakable acts of cruelty towards vulnerable persons, such as children and the disabled, or martyrdom solely on account of their religion.

Now as then, we hear Jacob saying to his sons: “Go down and buy grain for us there, that we may live and not die” (Gen 42:2). His is the voice of all those who flee extreme poverty, inability to feed their families or to receive medical care and education, hopeless squalor or the effects of climate change and extreme weather conditions. Sadly, we know that hunger continues to be one of the gravest banes of our world, leading to the death of millions of children every year. It is painful to realize, however, that often these migrants are not included in international systems of protection based on international agreements.

How can we not see in all this the effects of that “culture of waste” which endangers the human person, sacrificing men and women before the idols of profit and consumption? It is a grievous fact that we grow so inured to such situations of poverty and need, to these tragedies affecting so many lives, that they appear “normal”. Persons are no longer seen as a paramount value to be cared for and respected, especially when poor or disabled, or “not yet useful” – like the unborn, or “no longer needed” – like the elderly. We have grown indifferent to all sorts of waste, starting with the waste of food, which is all the more deplorable when so many individuals and families suffer hunger and malnutrition.

The Holy See trusts that, amid today’s sad context of conflicts and disasters, the First World Humanitarian Summit, convened by the United Nations for May 2016, will succeed in its goal of placing the person and human dignity at the heart of every humanitarian response. What is needed is a common commitment which can decisively turn around the culture of waste and lack of respect for human life, so that no one will feel neglected or forgotten, and that no further lives will be sacrificed due to the lack of resources and, above all, of political will.

Sadly, now as then, we hear the voice of Judah who counsels selling his own brother (cf. Gen 37:26-27). His is the arrogance of the powerful who exploit the weak, reducing them to means for their own ends or for strategic and political schemes. Where regular migration is impossible, migrants are often forced to turn to human traffickers or smugglers, even though they are aware that in the course of their journey they may well lose their possessions, their dignity and even their lives. In this context I once more appeal for an end to trafficking in persons, which turns human beings, especially the weakest and most defenceless, into commodities. The image of all those children who died at sea, victims of human callousness and harsh weather, will remain forever imprinted on our minds and hearts. Those who survive and reach a country which accepts them bear the deep and indelible scars of these experiences, in addition to those left by the atrocities which always accompany wars and violence.

Now as then, we hear the angel say: “Rise, take the child and his mother, and flee to Egypt, and remain there till I tell you” (Mt 2:13). His is the voice heard by many migrants who would never have left their homeland had they not been forced to. Among these are many Christians who in great numbers have abandoned their native lands these past years, despite the fact that they have dwelt there from the earliest days of Christianity.

Finally, we also hear today the voice of the Psalmist: “By the waters of Babylon, there we sat down and wept, when we remembered Zion” (Ps 137:1). His is the cry of those who would readily return to their own country, if only there they could find adequate conditions of security and sustenance. Here too my thoughts turn to the Christians of the Middle East, who desire to contribute fully as citizens to the spiritual and material well-being of their respective nations.

Many of the causes of migration could have been addressed some time ago. So many disasters could have been prevented, or at least their harshest effects mitigated. Today too, before it is too late, much could be done to end these tragedies and to build peace. But that would mean rethinking entrenched habits and practices, beginning with issues involving the arms trade, the provision of raw materials and energy, investment, policies of financing and sustainable development, and even the grave scourge of corruption. We all know, too, that with regard to migration there is a need for mid-term and long-term planning which is not limited to emergency responses. Such planning should include effective assistance for integrating migrants in their receiving countries, while also promoting the development of their countries of origin through policies inspired by solidarity, yet not linking assistance to ideological strategies and practices alien or contrary to the cultures of the peoples being assisted.

Without overlooking other dramatic situations – in this regard, I think particularly of the border between Mexico and the United States of America, which I will be near when I visit Ciudad Juárez next month – my thoughts turn in a special way to Europe. Over the past year Europe has witnessed a great wave of refugees – many of whom died in the attempt – a wave unprecedented in recent history, not even after the end of the Second World War. Many migrants from Asia and Africa see in Europe a beacon for principles such as equality before the law and for values inherent in human nature, including the inviolable dignity and equality of every person, love of neighbour regardless of origin or affiliation, freedom of conscience and solidarity towards our fellow men and women.

All the same, the massive number of arrivals on the shores of Europe appear to be overburdening the system of reception painstakingly built on the ashes of the Second World War, a system that is still an acknowledged beacon of humanity. Given the immense influx and the inevitable problems it creates, a number of questions have been raised about the real possibilities for accepting and accommodating people, about changes in the cultural and social structures of the receiving countries, and about the reshaping of certain regional geopolitical balances. Equally significant are fears about security, further exacerbated by the growing threat of international terrorism. The present wave of migration seems to be undermining the foundations of that “humanistic spirit” which Europe has always loved and defended. Yet there should be no loss of the values and principles of humanity, respect for the dignity of every person, mutual subsidiarity and solidarity, however much they may prove, in some moments of history, a burden difficult to bear. I wish, then, to reaffirm my conviction that Europe, aided by its great cultural and religious heritage, has the means to defend the centrality of the human person and to find the right balance between its twofold moral responsibility to protect the rights of its citizens and to ensure assistance and acceptance to migrants.

Here I likewise feel obliged to express gratitude for all initiatives aimed at providing a dignified reception to these persons; I think, for example, of the Migrant and Refugee Fund of the Council of Europe Development Bank, and the generous solidarity shown by a number of countries. I also have in mind the nations neighbouring Syria, which have responded immediately with help and acceptance, especially Lebanon, where refugees make up a fourth of the total population, and Jordan, which has not closed its borders despite the fact that it already harbours hundreds of thousands of refugees. Nor should we overlook the efforts made by other countries in the front lines, especially Turkey and Greece. I wish to express particular gratitude to Italy, whose decisive commitment has saved many lives in the Mediterranean, and which continues to accept responsibility on its territory for a massive number of refugees. It is my hope that the traditional sense of hospitality and solidarity which distinguishes the Italian people will not be weakened by the inevitable difficulties of the moment, but that, in light of its age-old tradition, the nation may prove capable of accepting and integrating the social, economic and cultural contribution which migrants can offer.

It is important that nations in the forefront of meeting the present emergency not be left alone, and it is also essential to initiate a frank and respectful dialogue among all the countries involved in the problem – countries of origin, transit, or reception - so that, with greater boldness and creativity, new and sustainable solutions can be sought. As things presently stand, there is no place for autonomous solutions pursued by individual states, since the consequences of the decisions made by each inevitably have repercussions on the entire international community. Indeed, migrations, more then ever before, will play a pivotal role in the future of our world, and our response can only be the fruit of a common effort respectful of human dignity and the rights of persons. The Development Agenda adopted last September by the United Nations for the next fifteen years, which deals with many of the problems causing migration, and other documents of the international community on handling the issue of migration, will be able to find application consistent with expectations if they are able to put the person at the centre of political decisions at every level, seeing humanity as one family, and all people as brothers and sisters, with respect for mutual differences and convictions of conscience.

In facing the issue of migrations, one cannot overlook its cultural implications, beginning with those linked to religious affiliation. Extremism and fundamentalism find fertile soil not only in the exploitation of religion for purposes of power, but also in the vacuum of ideals and the loss of identity – including religious identity – which dramatically marks the so-called West. This vacuum gives rise to the fear which leads to seeing the other as a threat and an enemy, to closed-mindedness and intransigence in defending preconceived notions. The phenomenon of migration raises a serious cultural issue which necessarily demands a response. The acceptance of migrants can thus prove a good opportunity for new understanding and broader horizons, both on the part of those accepted, who have the responsibility to respect the values, traditions and laws of the community which takes them in, and on the part of the latter, who are called to acknowledge the beneficial contribution which each immigrant can make to the whole community. In this context, the Holy See reaffirms its commitment in the ecumenical and interreligious sectors to inaugurating a sincere and respectful dialogue which, by valuing the distinctness and identity of each individual, can foster a harmonious coexistence among all the members of society.

Distinguished Members of the Diplomatic Corps,

2015 witnessed the conclusion of important international agreements, which give solid hope for the future. I think first of the so-called Iran nuclear deal, which I hope will contribute to creating a climate of détente in the region, as well as the reaching of the long-awaited agreement on climate at the Paris Conference. This significant accord represents for the entire international community an important achievement; it reflects a powerful collective realization of the grave responsibility incumbent on individuals and nations to protect creation, to promote a “culture of care which permeates all of society”. It is now essential that those commitments prove more than simply a good intention, but rather a genuine duty incumbent on all states to do whatever is needed to safeguard our beloved earth for the sake of all mankind, especially generations yet to come.

For its part, the year which has just begun promises to be full of challenges and more than a few tensions have already appeared on the horizon. I think above all of the serious disagreements which have arisen in the Persian Gulf region, as well as the disturbing military test conducted on the Korean peninsula. It is my hope that these conflicts will be open to the voice of peace and a readiness to seek agreements. Here I note with satisfaction of certain significant and particularly encouraging gestures. I think especially of the climate of peaceful coexistence in which the recent elections in the Central African Republic were held; these are a positive sign of the will to persevere on the path to full national reconciliation. I also think of the new initiatives under way in Cyprus to heal a long-standing division, and to the efforts being made by the Colombian people to leave behind past conflicts and to attain the long-awaited peace. All of us look with hope to the important steps made by the international community to achieve a political and diplomatic solution of the crisis in Syria, one which can put a long overdue end to the sufferings of the population. The signals coming from Libya are likewise encouraging and offer the hope of a renewed commitment to ending violence and reestablishing the country’s unity. On the other hand, it appears increasingly evident that only a common and agreed political action will prove able to stem the spread of extremism and fundamentalism, which spawn terrorist acts which reap countless victims, not only in Syria and Libya, but in other countries like Iraq and Yemen.

May this Holy Year of Mercy also be the occasion of dialogue and reconciliation aimed at consolidating the common good in Burundi, in the Democratic Republic of the Congo, and in South Sudan. Above all, may it be a favourable time for definitively ending the conflict in eastern Ukraine. Of fundamental importance is the support which the international community, individual states and humanitarian organizations can offer the country from a number of standpoints, in order to surmount the present crisis.

Yet the greatest challenge we face is that of overcoming indifference and working together for peace, which remains a good which must constantly be sought. Sadly, among the many parts of our beloved world which long fervently for peace, there is the land for which God showed a particular love and chose to show to all the face of his mercy. I pray that this new year can heal the deep wounds dividing Israelis and Palestinians, and enable the peaceful coexistence of two peoples who – of this I am sure – in the depths of their heart ask only for peace!

Your Excellencies, Ladies and Gentlemen,

On the diplomatic level, the Holy See will never cease its efforts to enable the message of peace to be heard to the ends of the earth. I thus reiterate the complete readiness of the Secretariat of State to cooperate with you in favouring constant dialogue between the Apostolic See and the countries which you represent, for the benefit of the entire international community. I am certain that this Jubilee year will be a favourable occasion for the cold indifference of so many hearts to be won over by the warmth of mercy, that precious gift of God which turns fear into love and makes us artisans of peace. With these sentiments I renew to each of you, to your families and your countries, my heartfelt good wishes for a blessed New Year.

Thank you.

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1 Meeting with the Muslim Community, Bangui, 30 November 2015.

2 Cf. Meeting with Authorities, Sarajevo, 6 June 2015.

3 Meeting with Families, Manila, 16 January 2015.

4 Meeting with Political, Economic and Civic Leaders, Quito, 7 July 2015.

5 Cf. General Audience, 5 June 2013.

6 Cf. Address to the European Parliament, Strasburg, 25 November 2015.

7 Ibid.

8 Encyclical Laudato Si’, 231.

9 Cf. Overcome Indifference and Win Peace, Message for the 2015 World Day of Peace (8 December 2015).

[00026-EN.01] [Original text: Italian]

Testo in lingua tedesca

Exzellenzen, meine Damen und Herren,

ich heiße Sie herzlich willkommen zu diesem jährlichen Treffen, das mir die Gelegenheit bietet, Ihnen meine Glückwünsche für das neue Jahr zu überbringen, und es mir gestattet, gemeinsam mit Ihnen über die Situation dieser unserer von Gott gesegneten und geliebten und doch von so vielen Übeln geplagten und bedrückten Welt nachzudenken. Ich danke dem neuen Dekan des Diplomatischen Corps, Exzellenz Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Botschafter von Angola, für seine freundlichen Worte, die er im Namen des gesamten beim Heiligen Stuhl akkreditierten Diplomatischen Corps an mich gerichtet hat. Zugleich möchte ich in besonderer Weise der vor fast einem Monat verstorbenen Botschafter von Kuba, Rodney Alejandro López Clemente, und von Liberia, Rudolf P. von Ballmoos, gedenken.

Gerne nehme ich die Gelegenheit wahr, auch einen speziellen Gruß an alle zu richten, die zum ersten Mal an dieser Begegnung teilnehmen, und betone zu meiner Zufriedenheit, dass die Anzahl der in Rom ansässigen Botschafter sich weiter erhöht hat. Das ist ein bedeutsames Zeichen für die Aufmerksamkeit, mit der die internationale Gemeinschaft die diplomatische Aktivität des Heiligen Stuhls verfolgt. Ein weiterer Beweis dafür sind die im eben zu Ende gegangenen Jahr unterzeichneten oder ratifizierten internationalen Verträge. Besonders möchte ich hier die spezifischen steuerlichen Vereinbarungen erwähnen, die mit Italien und den Vereinigten Staaten von Amerika unterschrieben wurden und die das verstärkte Engagement des Heiligen Stuhls für eine umfassendere Transparenz in wirtschaftlichen Angelegenheiten bezeugen. Nicht weniger bedeutend sind die Verträge allgemeiner Art, die darauf ausgerichtet sind, wesentliche Aspekte des Lebens und Handelns der Kirche in den verschiedenen Ländern zu regeln, wie die in Díli mit der Demokratischen Republik Timor-Leste unterzeichnete Vereinbarung.

Gleichfalls möchte ich an den Austausch der Ratifizierungsurkunden des Vertrags mit Tschad über die Rechtsstellung der katholischen Kirche im Land erinnern wie auch an den unterzeichneten und ratifizierten Vertrag mit Palästina. Es handelt sich um zwei Verträge, die – gemeinsam mit der Grundsatzvereinbarung zwischen dem Staatssekretariat und dem Außenministerium von Kuweit – unter anderem beweisen, dass ein friedliches Zusammenleben unter Angehörigen verschiedener Religionen dort möglich ist, wo die Religionsfreiheit anerkannt wird und die effektive Möglichkeit gewährleistet ist, in gegenseitiger Achtung gegenüber der kulturellen Identität eines jeden am Aufbau des Gemeinwohls zusammenzuarbeiten.

Andererseits kann jede authentisch gelebte religiöse Erfahrung nur den Frieden fördern. Daran erinnert uns das Weihnachtsfest, das wir gerade gefeiert und an dem wir die Geburt eines wehrlosen Kindes betrachtet haben, das »Wunderbarer Ratgeber, Starker Gott, Vater in Ewigkeit, Fürst des Friedens« genannt wird (Jes 9,5). Das Geheimnis der Menschwerdung zeigt uns das wahre Gesicht Gottes, für den Macht nicht Gewalt und Zerstörung bedeutet, sondern Liebe und für den Gerechtigkeit nicht Rache bedeutet, sondern Barmherzigkeit. Das ist die Sichtweise, die meiner Absicht zugrunde lag, das außerordentliche Jubiläum der Barmherzigkeit auszurufen, das dann ausnahmsweise in Bangui im Laufe meiner apostolischen Reise nach Kenia, Uganda und in die Zentralafrikanische Republik eröffnet wurde. In einem lange von Hunger, Armut und Konflikten heimgesuchten Land, wo die brudermörderische Gewalt der letzten Jahre tiefe Verwundungen in den Herzen der Menschen hinterlassen, die nationale Gemeinschaft zerrissen und materielle wie moralische Not verursacht hat, wollte die Öffnung der Heiligen Pforte der Kathedrale ein Zeichen der Ermutigung sein, den Blick zu erheben, den Weg wieder aufzunehmen und die Argumente für den Dialog wiederzufinden. Dort, wo der Name Gottes missbraucht worden ist, um Unrecht zu verüben, wollte ich gemeinsam mit der muslimischen Gemeinschaft der Zentralafrikanischen Republik bekräftigen: »Wer behauptet, an Gott zu glauben, muss auch ein Mensch des Friedens sein«1 und folglich ein Mensch der Barmherzigkeit, denn niemals kann man im Namen Gottes töten. Nur eine ideologische und irregeleitete Form von Religion kann daran denken, durch vorsätzlichen Mord an wehrlosen Menschen im Namen Gottes Gerechtigkeit zu erweisen, wie es in den blutigen Terroranschlägen der vergangenen Monate in Afrika, Europa und im Nahen Osten geschehen ist.

Die Barmherzigkeit war gleichsam der „Leitfaden“, der meine Apostolischen Reisen schon im vergangenen Jahr orientiert hat. Ich beziehe mich vor allem auf den Besuch in Sarajevo, einer durch den Balkankrieg zutiefst verwundeten Stadt und Hauptstadt eines Landes – Bosnien und Herzegowina –, das eine spezielle Bedeutung für Europa und für die ganze Welt besitzt. Als Kreuzungspunkt von Kulturen, Nationen und Religionen bemüht es sich mit positiven Ergebnissen, immer neue Brücken zu bauen, das Einende zur Geltung zu bringen und die Unterschiede als eine Gelegenheit anzusehen, im Respekt gegenüber allen zu wachsen. Das ist möglich durch einen geduldigen und vertrauensvollen Dialog, der es versteht, sich die Werte der Kultur eines jeden zu eigen zu machen und das Gute aus den Erfahrungen der anderen aufzunehmen.2

Außerdem denke ich an die Reise nach Bolivien, Ecuador und Paraguay, wo ich Völkern begegnet bin, die angesichts der Schwierigkeiten nicht aufgeben und sich mutig, entschlossen und im Geist der Brüderlichkeit den zahlreichen Herausforderungen stellen, die sie quälen, angefangen von der verbreiteten Armut und den sozialen Ungleichheiten. Im Laufe meiner Reise nach Kuba und in die Vereinigten Staaten von Amerika konnte ich zwei Länder umfangen, die lange voneinander getrennt waren und sich entschlossen haben, eine neue Seite im Buch der Geschichte zu schreiben, indem sie sich auf einen Weg der Wiederannäherung und der Versöhnung begeben haben.

In Philadelphia anlässlich des Weltfamilientreffens wie auch im Laufe der Reise nach Sri Lanka und auf die Philippinen sowie mit der jüngsten Bischofssynode habe ich an die Bedeutung der Familie erinnert: Sie ist die erste und wichtigste Schule der Barmherzigkeit, in der man lernt, das liebevolle Antlitz Gottes zu entdecken, und wo unsere Menschlichkeit wächst und sich entwickelt. Leider wissen wir um die zahlreichen Herausforderungen, mit denen sich die Familie auseinandersetzen muss in dieser Zeit, in der sie »bedroht [ist] durch zunehmende Bemühungen einiger, die Institution der Ehe selbst neu zu definieren, durch Relativismus, durch die Kultur der Kurzlebigkeit und durch mangelnde Offenheit für das Leben«3. Es besteht heute eine verbreitete Angst vor der Endgültigkeit, die für die Familie erforderlich ist, und den Preis dafür zahlen vor allem die Jüngsten, die oft schwach und orientierungslos sind, sowie die älteren Menschen, die am Ende vergessen und verlassen werden. Im Gegensatz dazu erwächst »aus der gelebten Geschwisterlichkeit in der Familie […] die Solidarität in der Gesellschaft«4, die uns in die Verantwortlichkeit füreinander führt. Das ist nur möglich, wenn wir nicht zulassen, dass sich in unseren Familien wie in unseren Gesellschaften ein „Bodensatz“ von Schwierigkeiten und Ressentiments ablagert, und stattdessen dem Dialog Raum geben, der das beste Gegenmittel gegen den in der Kultur unserer Zeit so weit verbreiteten Individualismus ist.

Liebe Botschafter,

eine individualistische Mentalität ist der Nährboden, auf dem jenes Gefühl der Gleichgültigkeit gegenüber dem Nächsten reift, das dazu führt, mit ihm umzugehen wie mit einer bloßen Handelsware; das dazu treibt, sich nicht um das Menschsein der anderen zu kümmern, und das die Personen schließlich feige und zynisch werden lässt. Sind das denn nicht die Gefühle, die wir oft gegenüber den Armen, den Ausgegrenzten, den Letzten der Gesellschaft hegen? Und wie viele Letzte haben wir in unseren Gesellschaften! Unter ihnen denke ich vor allem an die Migranten mit ihrer Last an Schwierigkeiten und Leiden, denen sie täglich begegnen auf ihrer manchmal verzweifelten Suche nach einem Ort, wo sie in Frieden und Würde leben können.

Darum möchte ich heute dabei verweilen, mit Ihnen über den schweren Migrations-Notstand nachzudenken, mit dem wir uns auseinanderzusetzen haben, um die Ursachen zu erkennen, Lösungen in Aussicht zu stellen und die unvermeidliche Angst zu überwinden, die ein so massives und gewaltiges Phänomen begleitet, das im Laufe des Jahres 2015 vor allem Europa, aber auch verschiedene Regionen Asiens sowie Nord- und Mittelamerika betraf.

»Fürchte dich also nicht und hab keine Angst; denn der Herr, dein Gott, ist mit dir bei allem, was du unternimmst« (Jos 1,9). Das ist das Versprechen, das Gott dem Josua gibt und das zeigt, wie sehr der Herr jeden Menschen begleitet, vor allem den, der sich in einer Situation der Schwäche befindet wie der eines Zuflucht Suchenden in einem fremden Land. Tatsächlich erzählt uns die ganze Bibel die Geschichte einer Menschheit auf dem Wege, denn das In-Bewegung-Sein ist dem Menschen wesenseigen. Seine Geschichte besteht aus vielen Wanderungen, die manchmal aus dem Bewusstsein seines Rechts auf freie Entscheidung gereift sind, häufig aber von äußeren Umständen vorgeschrieben werden. Von der Vertreibung aus dem irdischen Paradies bis zu Abraham, der unterwegs ist zum Land der Verheißung; von der Erzählung des Exodus bis zur Deportation nach Babylonien schildert die Heilige Schrift Mühen und Leiden, Wünsche und Hoffnungen, die denen von Hunderttausenden von Menschen gleichen, die in unseren Tagen unterwegs sind, mit demselben Ziel wie Mose, ein Land zu erreichen, »in dem Milch und Honig fließen« (Ex 3,17), wo man in Freiheit und Frieden leben kann.

Und so hören wir heute wie damals den Schrei Rachels, die ihre Kinder beweint, »denn sie sind dahin« (Jer 31,15; vgl. Mt 2,18). Es ist die Stimme von Tausenden weinender Menschen auf der Flucht vor schrecklichen Kriegen, vor Verfolgungen und vor Verletzungen der Menschenrechte oder vor politischer bzw. sozialer Instabilität, die oft das Leben in der Heimat unmöglich machen. Es ist der Schrei derer, die gezwungen sind zu fliehen, um den unsäglichen Grausamkeiten, die an schutzlosen Menschen wie Kindern und Behinderten verübt werden, oder dem Martyrium aufgrund der bloßen religiösen Zugehörigkeit zu entgehen.

Wie damals hören wir die Stimme Jakobs, der zu seinen Söhnen sagt: »Zieht hin und kauft dort für uns Getreide, damit wir am Leben bleiben und nicht sterben müssen« (Gen 42,2). Es ist die Stimme derer, die dem extremen Elend entfliehen, weil es ihnen unmöglich ist, ihre Familie zu ernähren, oder weil sie keinen Zugang zu medizinischer Versorgung und zu Bildung haben; die vor dem Niedergang ohne irgendeine Aussicht auf Fortschritt fliehen oder auch aufgrund des Klimawandels und der extremen klimatischen Bedingungen. Leider ist bekanntlich der Hunger noch eine der schwersten Plagen unserer Welt, mit Millionen von Kindern, die jedes Jahr verhungern. Es schmerzt jedoch festzustellen, dass diese Migranten häufig von keinem der internationalen Schutzsysteme aufgefangen werden, die auf den internationalen Verträgen basieren.

Wie kann man in all dem nicht die Frucht jener „Wegwerfkultur“ sehen, die die menschliche Person in Gefahr bringt, indem sie Männer und Frauen den Götzen des Gewinns und des Konsums opfert? Es ist schwerwiegend, wenn man sich an diese Situationen von Armut und Not, an die Tragödien so vieler Menschen gewöhnt und sie zur „Normalität“ werden lässt. Die Menschen werden nicht mehr als ein vorrangiger zu respektierender und zu schützender Wert empfunden, besonders, wenn sie arm sind oder eine Behinderung haben, wenn sie – wie die Ungeborenen – „noch nicht nützlich sind“ oder – wie die Alten – „nicht mehr nützlich sind“. Wir sind unsensibel geworden gegenüber jeder Form von Verschwendung, angefangen bei jener der Nahrungsmittel, die zu den verwerflichsten gehört, wenn es viele Menschen und Familien gibt, die an Hunger und Unterernährung leiden.5

Der Heilige Stuhl hofft, dass der erste Weltgipfel für humanitäre Hilfe, der für den kommenden Mai von den Vereinten Nationen einberufen ist, in seiner Zielsetzung, den Menschen und seine Würde in den Mittelpunkt jeder humanitären Antwort zu stellen, im heutigen traurigen Rahmen von Konflikten und Unglücken erfolgreich ist. Es bedarf eines gemeinsamen Einsatzes, der die Wegwerfkultur und die Kultur der Entwürdigung des menschlichen Lebens entschlossen umkehrt, damit niemand sich vernachlässigt oder vergessen fühlt und damit nicht weitere Leben aus Mangel an Hilfsmitteln und – vor allem – an politischem Willen geopfert werden.

Leider hören wir heute wie damals die Stimme Judas, der vorschlägt, den eigenen Bruder zu verkaufen (vgl. Gen 37,26-27). Es ist die Arroganz der Mächtigen, welche die Schwachen instrumentalisieren und sie zu Objekten für egoistische Ziele oder für strategische und politische Kalküle herabwürdigen. Wo eine reguläre Migration unmöglich ist, sind die Migranten häufig zu der Wahl gezwungen, sich an Menschenhändler oder -schmuggler zu wenden, obwohl sie sich großenteils der Gefahr bewusst sind, während der Reise ihre Habe, ihre Würde und sogar ihr Leben zu verlieren. Aus dieser Sicht erneuere ich noch einmal meinen Appell, dem Menschenhandel Einhalt zu gebieten, der die Menschen vermarktet, besonders die schwächsten und schutzlosesten. Immer werden unserer Erinnerung und unseren Herzen die Bilder von Kindern, die im Meer ums Leben kamen, unvergesslich eingeprägt bleiben – Opfer der Skrupellosigkeit der Menschen und der Erbarmungslosigkeit der Natur. Wer dann überlebt und in einer Nation landet, die ihn aufnimmt, behält unauslöschlich die tiefen Wundmale dieser Erfahrungen und dazu die, welche von den Schrecken herrühren, die stets mit Kriegen und Gewalttaten einhergehen.

Wie damals, hört man auch heute wieder die Stimme des Engels, die ruft: »Steh auf, nimm das Kind und seine Mutter, und flieh nach Ägypten; dort bleibe, bis ich dir etwas anderes auftrage« (Mt 2,13). Es ist die Stimme, welche die vielen Migranten hören, die niemals ihr Land verlassen würden, wenn sie nicht dazu gezwungen wären. Unter diesen sind zahlreiche Christen, die im Laufe der letzten Jahre zunehmend massenhaft ihre Länder verlassen haben, die sie doch seit den Anfängen des Christentums bewohnten.

Schließlich hören wir auch heute die Stimme des Psalmisten, der wiederholt: »An den Strömen von Babel, da saßen wir und weinten, wenn wir an Zion dachten« (Ps 137,1). Es ist das Weinen derer, die gerne in ihre Länder zurückkehren würden, wenn sie dort geeignete Bedingungen für Sicherheit und Auskommen fänden. Auch hier denke ich an die Christen des Nahen Ostens, die sich wünschen, als vollberechtigte Bürger zum geistigen und materiellen Wohl ihrer jeweiligen Nationen beizutragen.

Einen großen Teil der Ursachen für die Migrationen hätte man schon vor Zeiten in Angriff nehmen können. So hätte man vielen Unglücken zuvorkommen oder zumindest ihre grausamsten Folgen abmildern können. Auch heute – und bevor es zu spät ist – könnte man vieles tun, um den Tragödien Einhalt zu gebieten und den Frieden herzustellen. Das würde aber bedeuten, eingefahrene Gewohnheiten und Gepflogenheiten wieder zur Diskussion zu stellen, vom mit dem Waffenhandel verbundenen Fragenkomplex über das Problem der Rohstoff- und Energieversorgung, über die Investitionen, die Finanzpolitik und die politischen Programme für Entwicklungshilfe bis zu der schweren Plage der Korruption. Wir sind uns außerdem bewusst, dass zum Thema der Migration mittel- und langfristige Pläne aufgestellt werden müssen, die über den Notbehelf hinausgehen. Sie müssten einerseits wirklich die Eingliederung der Migranten in die Aufnahmeländer fördern und andererseits zugleich die Entwicklung in den Herkunftsländern begünstigen mit solidarischen politischen Programmen, die jedoch die Hilfen nicht von Strategien und Verfahren abhängig machen, die den Kulturen der Völker, an die sie sich richten, ideologisch fremd sind oder zu ihnen im Widerspruch stehen.

Ohne andere dramatische Situationen zu vergessen, unter denen ich besonders an die Grenze zwischen Mexiko und den Vereinigten Staaten denke – die ich kurz streifen werde, wenn ich mich im kommenden Februar nach Ciudad Juárez begebe –, möchte ich Europa einen speziellen Gedanken widmen. Tatsächlich ist dieser Kontinent im Laufe des letzten Jahres von einem gewaltigen Strom von Flüchtlingen heimgesucht worden – von denen viele bei dem Versuch, ihn zu erreichen, den Tod gefunden haben –, von einem Flüchtlingsstrom, der in der jüngeren Geschichte Europas keinen Vergleich kennt, nicht einmal am Ende des Zweiten Weltkriegs. Viele Migranten aus Asien und aus Afrika sehen in Europa einen Anhaltspunkt für Grundsätze wie die Gleichheit vor dem Recht und die in die Natur jedes Menschen selbst eingeschriebenen Werte, z. B. die Unveräußerlichkeit der Würde und die Gleichheit aller Menschen, die Nächstenliebe ohne Unterscheidung der Herkunft und Zugehörigkeit, die Gewissensfreiheit und die Solidarität gegenüber den Mitmenschen.

Die massenhaften Landungen an den Küsten des Alten Kontinents scheinen jedoch das System der Aufnahme ins Wanken zu bringen, das auf den Trümmern des Zweiten Weltkriegs mühsam aufgebaut wurde und immer noch ein Leuchtfeuer der Menschlichkeit darstellt, auf das man sich beziehen kann. Angesichts des gewaltigen Ausmaßes der Ströme und der unvermeidlich damit verbundenen Probleme sind nicht wenige Fragen aufgetaucht nach den realen Möglichkeiten des Empfangs und der Anpassung der Menschen, nach der Veränderung des kulturellen und sozialen Gefüges der Aufnahmeländer wie auch nach einer Umgestaltung einiger regionaler geopolitischer Gleichgewichte. Ebenso relevant sind die Befürchtungen um die Sicherheit, die durch die überhand nehmende Bedrohung durch den internationalen Terrorismus über alle Maßen verschärft werden. Die augenblickliche Migrationswelle scheint die Fundamente jenes „humanistischen Geistes“ zu untergraben, den Europa von jeher liebt und verteidigt.6 Dennoch darf man sich nicht erlauben, die Werte und die Prinzipien der Menschlichkeit, der Achtung der Würde eines jeden Menschen, der Subsidiarität und der gegenseitigen Solidarität aufzugeben, auch wenn sie in einigen Momenten der Geschichte eine schwer zu tragende Bürde sein können. Ich möchte daher meine Überzeugung bekräftigen, dass Europa, unterstützt durch sein großes kulturelles und religiöses Erbe, die Mittel besitzt, um die Zentralität der Person zu verteidigen und um das rechte Gleichgewicht zu finden in seiner zweifachen moralischen Pflicht, einerseits die Rechte der eigenen Bürger zu schützen und andererseits die Betreuung und die Aufnahme der Migranten zu garantieren.7

Zugleich empfinde ich die Notwendigkeit, Dankbarkeit auszudrücken für all die Initiativen, die ergriffen wurden, um eine würdige Aufnahme der Menschen zu fördern, darunter z. B. der Migranten- und Flüchtlingsfonds der Entwicklungsbank des Europarates. Ebenso danke ich für das Engagement jener Länder, die eine großherzige Haltung des Miteinander-Teilens gezeigt haben. Ich beziehe mich vor allem auf die Nationen in der Nachbarschaft Syriens, die unverzüglich mit Hilfe und Aufnahme reagiert haben, vor allem auf den Libanon, wo die Flüchtlinge ein Viertel der Gesamtbevölkerung ausmachen, und auf Jordanien, das seine Grenzen nicht geschlossen hat, obwohl es bereits Hunderttausende von Flüchtlingen beherbergt. In gleicher Weise dürfen die Anstrengungen anderer an vorderster Front engagierter Länder nicht vergessen werden, darunter besonders Türkei und Griechenland. Eine spezielle Anerkennung möchte ich Italien aussprechen, dessen entschiedener Einsatz viele Leben im Mittelmeer gerettet hat und das sich auf seinem Territorium immer noch einer gewaltigen Zahl von Flüchtlingen annimmt. Ich hoffe, dass der traditionelle Sinn für Gastfreundschaft, der das italienische Volk auszeichnet, durch die unvermeidlichen Schwierigkeiten des Augenblicks nicht geschwächt werde, sondern dass es im Licht seiner vieltausendjährigen Tradition fähig sei, den gesellschaftlichen, wirtschaftlichen und kulturellen Beitrag, den die Migranten bieten können, aufzunehmen und zu integrieren.

Es ist wichtig, dass die Nationen an vorderster Front bei ihrer Auseinandersetzung mit dem aktuellen Notstand nicht allein gelassen werden, und es ist ebenso unerlässlich, einen freimütigen und respektvollen Dialog unter allen von dem Problem betroffenen Nationen – sowohl den Herkunfts- als auch den Durchgangs- oder den Aufnahmeländern – einzuleiten, um mit größerem kreativen Wagemut nach neuen und nachhaltigen Lösungen zu suchen. Tatsächlich ist unter den gegebenen Umständen nicht an Lösungen zu denken, die von den einzelnen Staaten im Alleingang angestrebt werden, denn die Konsequenzen der Entscheidungen eines jeden fallen unvermeidlich auf die gesamte internationale Gemeinschaft zurück. Es ist ja bekannt, dass die Migrationen mehr, als das bisher der Fall war, ein grundlegendes Element der Zukunft der Welt darstellen werden und dass die Antworten nur das Ergebnis einer gemeinsamen Arbeit sein können, die die Menschenwürde und die Menschrechte achtet. Die von den Vereinten Nationen im vergangenen September angenommene Entwicklungs-Agenda für die nächsten 15 Jahre, die viele der Probleme ins Auge fasst, die in die Migration treiben, wie auch andere Dokumente der internationalen Gemeinschaft zur Handhabung der Migrationsfrage werden eine den Erwartungen entsprechende Anwendung finden können, wenn es gelingt, den Menschen wieder in den Mittelpunkt der politischen Entscheidungen auf allen Ebenen zu stellen und dabei die Menschheit als eine einzige Familie und die Menschen als Geschwister zu betrachten, in der Achtung gegenüber den jeweiligen Unterschieden und Gewissensüberzeugungen.

Wenn man sich mit der Migrationsfrage auseinandersetzt, dürfen nämlich die damit zusammenhängenden kulturellen Hintergründe nicht vernachlässigt werden, angefangen bei denen, die mit der Religionszugehörigkeit verbunden sind. Der Extremismus und der Fundamentalismus finden einen fruchtbaren Boden nicht nur in der Instrumentalisierung der Religion für Ziele der Macht, sondern auch in der Leere der fehlenden Ideale und im Verlust der – auch religiösen – Identität, die den sogenannten Westen dramatisch kennzeichnet. Aus dieser Leere erwächst die Angst, die dazu treibt, den anderen als eine Gefahr und einen Feind anzusehen, sich in sich selbst zu verschließen und sich in vorgefassten Meinungen zu verschanzen. Das Phänomen der Migration wirft also eine ernste kulturelle Frage auf, deren Beantwortung man sich nicht entziehen kann. Die Aufnahme kann daher eine günstige Gelegenheit sein für eine neue Einsicht und Öffnung des Horizontes – sowohl für den Aufgenommenen, der die Pflicht hat, die Werte, Traditionen und Gesetze der gastgebenden Gemeinschaft zu respektieren, als auch für diese Letztere, die aufgefordert ist, alles zum Tragen kommen zu lassen, was jeder Einwanderer zum Nutzen der gesamten Gemeinschaft beisteuern kann. Auf diesem Gebiet erneuert der Heilige Stuhl seinen Einsatz im ökumenischen und interreligiösen Bereich, um einen aufrichtigen und fairen Dialog einzuleiten, der dadurch, dass er die Besonderheiten und die persönliche Identität eines jeden zur Geltung bringt, ein harmonisches Zusammenleben aller sozialen Komponenten fördert.

Sehr geehrte Mitglieder des diplomatischen Corps,

das Jahr 2015 kann den Abschluss bedeutender internationaler Vereinbarungen verzeichnen, die auf eine gute Zukunft hoffen lassen. Ich denke vor allem an das sogenannte Atomabkommen mit dem Iran, das – wie ich hoffe – dazu beitragen möge, ein Klima der Entspannung in der Region zu fördern, wie auch an die Erzielung des erwarteten Klimavertrags im Laufe der Konferenz von Paris. Es handelt sich um eine bedeutungsvolle Vereinbarung, die ein wichtiges Ergebnis für die gesamte internationale Gemeinschaft darstellt und eine starke kollektive Bewusstwerdung der großen Verantwortung deutlich werden lässt, die jeder – Einzelne wie Nationen – dafür hat, die Schöpfung zu bewahren und »eine Kultur der Achtsamkeit [zu] fördern, die die gesamte Gesellschaft erfüllt«8. Nun ist es grundlegend, dass die übernommenen Engagements nicht nur ein guter Vorsatz bleiben, sondern für alle Staaten eine wirkliche Verpflichtung darstellen, die notwendigen konkreten Schritte zu unternehmen, um unsere geliebte Erde zu erhalten, zum Wohl der gesamten Menschheit, vor allem der kommenden Generationen.

Das eben begonnene Jahr kündigt sich seinerseits an als ein Jahr voller Herausforderungen, und nicht wenige Spannungen haben sich schon am Horizont blicken lassen. Ich denke vor allem an die schweren Konflikte, die in der Region des Persischen Golfs aufgekommen sind, wie auch an das besorgniserregende militärische Experiment, das auf der koreanischen Halbinsel durchgeführt wurde. Ich hoffe, dass die Gegensätze Raum lassen für die Stimme des Friedens und für den guten Willen, nach Einigungen zu suchen. Aus dieser Perspektive kann ich zu meiner Zufriedenheit feststellen, dass es nicht an bedeutungsvollen und besonders ermutigenden Zeichen fehlt. Ich beziehe mich speziell auf das Klima eines friedlichen Zusammenlebens, in dem sich die jüngsten Wahlen in der Zentralafrikanischen Republik abgespielt haben – ein positives Zeichen für den Willen, den eingeschlagenen Weg zur vollkommenen nationalen Versöhnung fortzusetzen. Außerdem denke ich an die in Zypern eingeleiteten neuen Initiativen, um eine lang andauernde Spaltung zu heilen, und auf die vom kolumbianischen Volk unternommenen Anstrengungen, um die Konflikte der Vergangenheit zu überwinden und den lang ersehnten Frieden zu erreichen. Alle schauen wir außerdem voller Hoffnung auf die wichtigen Schritte, die die internationale Gemeinschaft unternommen hat, um eine politische und diplomatische Lösung der Krise in Syrien zu erzielen, die den allzu lang andauernden Leiden der Bevölkerung ein Ende setzen soll. In gleicher Weise sind die Signale aus Libyen ermutigend, die auf einen erneuerten Einsatz hoffen lassen, um die Gewalttätigkeiten zu beenden und die Einheit des Landes wiederzufinden. Andererseits erscheint immer deutlicher, dass nur eine gemeinsame und abgestimmte politische Aktion dazu beitragen kann, die Ausbreitung des Extremismus und des Fundamentalismus aufzuhalten, mit ihren Hintergründen terroristischer Prägung, die sowohl in Syrien und Libyen als auch in anderen Ländern wie dem Irak und dem Jemen unzählige Opfer fordern.

Möge dieses Heilige Jahr der Barmherzigkeit auch der Anlass zu Dialog und Versöhnung im Hinblick auf den Aufbau des Gemeinwohls in Burundi, in der Demokratischen Republik Kongo und im Süd-Sudan sein. Möge es vor allem eine günstige Zeit sein, um den Konflikt in den östlichen Regionen der Ukraine definitiv zu beenden. Von grundlegender Bedeutung ist die Unterstützung, die die internationale Gemeinschaft, die einzelnen Staaten und die humanitären Organisationen dem Land unter vielfältigen Gesichtspunkten bieten können, damit es die aktuelle Krise überwindet.

Die Herausforderung, die uns mehr als alle anderen erwartet, ist jedoch die, die Gleichgültigkeit zu überwinden, um den Frieden aufzubauen9, der ein immer anzustrebendes Gut bleibt. Leider befindet sich unter den vielen Teilen unserer geliebten Welt, die ihn brennend herbeisehnen, das Land, das Gott bevorzugt und erwählt hat, um allen das Antlitz seiner Barmherzigkeit zu zeigen. Es ist mein Wunsch, dass dieses neue Jahr die tiefen Wunden heilen möge, die Israelis und Palästinenser trennen, und das friedliche Zusammenleben zweier Völker ermögliche, die – des bin ich gewiss – aus tiefstem Herzen nichts anderes verlangen als Frieden!

Exzellenzen, meine Damen und Herren,

auf diplomatischer Ebene wird der Heilige Stuhl niemals aufhören dafür zu arbeiten, dass die Stimme des Friedens bis an die äußersten Enden der Erde gehört werden kann. Ich bekräftige daher erneut die völlige Bereitschaft des Staatssekretariats, mit Ihnen bei der Förderung eines ständigen Dialogs zwischen dem Apostolischen Stuhl und den von Ihnen vertretenen Ländern zusammenzuarbeiten, zum Wohl der gesamten internationalen Gemeinschaft. Dabei habe ich die innere Gewissheit, dass dieses Jubiläumsjahr die günstige Gelegenheit sein kann, dass die kalte Gleichgültigkeit vieler Herzen überwunden wird durch die Wärme der Barmherzigkeit, dieses kostbaren Geschenks Gottes, das die Furcht in Liebe verwandelt und uns zu Friedensstiftern macht. Mit diesen Empfindungen übermittle ich erneut jedem von Ihnen, Ihren Familien und Ihren Ländern meine innigsten Glückwünsche für ein von Segen erfülltes Jahr.

Danke.

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1 Begegnung mit der muslimischen Gemeinschaft (Bangui, 30. November 2015).

2 Vgl. Begegnung mit Vertretern der Regierung und des öffentlichen Lebens (6. Juni 2015).

3 Begegnung mit den Familien (Manila, 16. Januar 2015).

4 Begegnung mit Vertretern des öffentlichen Lebens (Quito, 7. Juli 2015).

5 Vgl. Generalaudienz (5. Juni 2013).

6 Vgl. Ansprache an das Europäische Parlament (Straßburg, 25. November 2014).

7 Vgl. ebd.

8 Laudato si’, 231.

9 Vgl. Überwinde die Gleichgültigkeit und erringe den Frieden, Botschaft zum Weltfriedenstag 2016 (8. Dezember 2015)

[00026-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Testo in lingua spagnola

Excelencias, Señoras y Señores:

Les doy la cordial bienvenida a esta cita anual, que me da la oportunidad de presentarles mis mejores deseos para el nuevo año, y de reflexionar con ustedes sobre la situación de nuestro mundo, bendecido y amado por Dios, y, sin embargo, cansado y afligido por tantos males. Doy las gracias al nuevo Decano del Cuerpo Diplomático, Su Excelencia el Sr. Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Embajador de Angola, por las amables palabras que me ha dirigido en nombre de todo el Cuerpo Diplomático acreditado ante la Santa Sede. Al mismo tiempo quiero recordar de manera especial a los difuntos Embajadores de Cuba, Rodney Alejandro López Clemente, y de Liberia, Rudolf P. von Ballmoos, cuando se cumple casi un mes de su muerte.

Aprovecho la ocasión también para saludar de modo particular a los que participan por primera vez en este encuentro, reconociendo con agrado que, en el último año, se ha incrementado el número de embajadores residentes en Roma. Es un signo importante del interés con que la comunidad internacional sigue la actividad diplomática de la Santa Sede. Prueba de ello son también los acuerdos internacionales firmados o ratificados durante el año que acaba de terminar. En particular, quisiera mencionar los acuerdos en materia fiscal firmados con Italia y con los Estados Unidos de América, que demuestran el creciente compromiso de la Santa Sede en favor de una mayor transparencia en materia económica. Igualmente importantes son los acuerdos de carácter general, orientados a regular los aspectos esenciales de la vida y de la actividad de la Iglesia en varios países, como el acuerdo firmado en Dili con la República Democrática de Timor Oriental.

Del mismo modo, deseo mencionar el intercambio de los instrumentos de ratificación del Acuerdo con Chad sobre el estatuto jurídico de la Iglesia católica en ese País, así como el Acuerdo firmado y ratificado con Palestina. Se trata de dos acuerdos que, junto con el Memorándum de Entendimiento entre la Secretaría de Estado y el Ministerio de Asuntos Exteriores de Kuwait, demuestran, entre otras cosas, que la convivencia pacífica entre los creyentes de distintas religiones es posible, allí donde la libertad religiosa se reconoce, y se garantiza la posibilidad efectiva de colaborar en la edificación del bien común, en el respeto mutuo de la identidad cultural de cada uno.

Por otro lado, toda experiencia religiosa auténticamente vivida promueve la paz. Nos lo recuerda la Navidad que acabamos de celebrar y en la que hemos contemplado el nacimiento de un niño indefenso, «llamado: Maravilla de Consejero, Dios fuerte, Padre de eternidad, Príncipe de la paz» (Is 9,5). El misterio de la Encarnación nos muestra el verdadero rostro de Dios, para quien el poder no significa fuerza y destrucción, sino amor; la justicia no significa venganza, sino misericordia. He querido que se situara en esta perspectiva el Jubileo extraordinario de la Misericordia, que inauguré excepcionalmente en Bangui durante mi viaje apostólico a Kenia, Uganda y República Centroafricana. En un país tan golpeado por el hambre, la pobreza y los conflictos, en el que la violencia fratricida de los últimos años ha dejado profundas heridas en las almas, desgarrando la comunidad nacional y generando pobreza material y moral, la apertura de la Puerta Santa de la Catedral de Bangui pretendía ser un signo de aliento para alzar la mirada, para retomar el camino y para volver a encontrar las razones para el diálogo. Allí donde se ha abusado del nombre de Dios para cometer injusticias, he querido reafirmar, junto con la comunidad musulmana de la República Centroafricana, que «quien dice que cree en Dios ha de ser también un hombre o una mujer de paz»1, y, por lo tanto, de misericordia, porque nunca se puede matar en nombre de Dios. Sólo una forma ideológica y desviada de religión puede pensar que se hace justicia en nombre del Omnipotente masacrando deliberadamente a personas indefensas, como ocurrió en los sanguinarios atentados terroristas de los últimos meses en África, Europa y Oriente Medio.

La Misericordia ha sido el «hilo conductor» que ha guiado mis viajes apostólicos durante el año pasado. Me refiero en primer lugar a la visita a Sarajevo, ciudad profundamente golpeada por la guerra en los Balcanes y capital de un País, Bosnia y Herzegovina, que tiene un significado especial para Europa y para el mundo entero. Como encrucijada de culturas, naciones y religiones se está esforzando, con resultados positivos, en construir puentes nuevos, valorar lo que une y ver las diferencias como oportunidades de crecimiento en el respeto de todos. Esto es posible a través del diálogo paciente y confiado, que sabe respetar los valores de la cultura de cada uno y acoger lo que hay de bueno en las experiencias de los demás.2

Pienso también en el viaje a Bolivia, Ecuador y Paraguay, donde encontré pueblos que no se rinden ante las dificultades, y se enfrentan con valentía, determinación y espíritu de fraternidad a los muchos retos que los afligen, empezando por la pobreza generalizada y las desigualdades sociales. En el viaje a Cuba y a los Estados Unidos de América pude abrazar a dos países que durante mucho tiempo han estado divididos, y que han decidido escribir una nueva página de la historia, emprendiendo un camino de acercamiento y reconciliación.

En Filadelfia, con ocasión del Encuentro Mundial de las Familias, así como durante el viaje a Sri Lanka y Filipinas, y con el reciente Sínodo de los Obispos, he recordado la importancia de la familia, que es la primera y más importante escuela de la misericordia, en la que se aprende a descubrir el rostro amoroso de Dios y en la que nuestra humanidad crece y se desarrolla. Por desgracia, sabemos cuántos desafíos tiene que afrontar la familia en este tiempo en el que está «amenazada por el creciente intento, por parte de algunos, de redefinir la institución misma del matrimonio, guiados por el relativismo, la cultura de lo efímero, la falta de apertura a la vida».3 Hoy existe un miedo generalizado a la estabilidad que la familia reclama y quienes pagan las consecuencias son sobre todo los más jóvenes, a menudo frágiles y desorientados, y los ancianos que terminan siendo olvidados y abandonados. Por el contrario, «de la fraternidad vivida en la familia, nace (...) la solidaridad en la sociedad»,4 que nos lleva a ser unos responsables de los otros. Esto sólo es posible si en nuestras casas, así como en nuestra sociedad, no permitimos que se sedimenten el cansancio y los resentimientos, sino que damos paso al diálogo, que es el mejor antídoto contra el individualismo, tan extendido en la cultura de nuestro tiempo.

Estimados Embajadores.

Un espíritu individualista es terreno fértil para que madure el sentido de indiferencia hacia el prójimo, que lleva a tratarlo como puro objeto de compraventa, que induce a desinteresarse de la humanidad de los demás y termina por hacer que las personas sean pusilánimes y cínicas. ¿Acaso no son estas las actitudes que frecuentemente asumimos frente a los pobres, los marginados o los últimos de la sociedad? ¡Y cuántos últimos hay en nuestras sociedades! Entre estos, pienso sobre todo en los emigrantes, con la carga de dificultades y sufrimientos que deben soportar cada día en la búsqueda, a veces desesperada, de un lugar donde poder vivir en paz y con dignidad.

Quisiera, por tanto, detenerme a reflexionar con ustedes sobre la grave emergencia migratoria que estamos afrontando, para discernir sus causas, plantear soluciones, y vencer el miedo inevitable que acompaña un fenómeno tan consistente e imponente, que a lo largo del año 2015 ha afectado principalmente a Europa, pero también a diversas regiones de Asia, así como del norte y el centro de América.

«No tengas miedo ni te acobardes, que contigo está el Señor, tu Dios, en cualquier cosa que emprendas» (Jos 1,9). Es la promesa que Dios hizo a Josué y que pone de manifiesto cómo el Señor acompaña a cada persona, sobre todo a quien se encuentra en una situación de fragilidad, como la que tiene quien busca refugio en un país extranjero. En efecto, toda la Biblia nos narra la historia de una humanidad en camino, porque el estar en camino es connatural al hombre. Su historia está hecha de tantas migraciones, a veces como fruto de su conciencia del derecho a una libre elección; otras, impuestas a menudo por las circunstancias externas. Desde el exilio del paraíso terrenal hasta Abrahán, en camino hacia la tierra prometida, desde la narración del Éxodo hasta la deportación en Babilonia, la Sagrada Escritura narra fatigas y sufrimientos, aspiraciones y esperanzas, que son comunes a los de cientos de miles de personas que, también en nuestros días, con la misma determinación de Moisés, se ponen en marcha para llegar a una tierra en la cual que destile «leche y miel» (cf. Ex 3, 17), donde poder vivir en libertad y en paz.

Y así, también hoy como entonces, oímos el grito de Raquel que llora por sus hijos porque ya no están (cf. Jr 31,15; Mt 2,18). Es la voz de los miles de personas que lloran huyendo de guerras espantosas, de persecuciones y de violaciones de los derechos humanos, o de la inestabilidad política o social, que hace imposible la vida en la propia patria. Es el grito de cuantos se ven obligados a huir para evitar las indescriptibles barbaries cometidas contra personas indefensas, como los niños y los discapacitados, o el martirio por el simple hecho de su fe religiosa.

También hoy como entonces, escuchamos la voz de Jacob que dice a sus hijos: «Bajad y comprad allí [el grano] para nosotros, a fin de que sobrevivamos y no muramos» (Gn 42,2). Es la voz de los que escapan de la miseria extrema, al no poder alimentar a sus familias ni tener acceso a la atención médica y a la educación, de la degradación, porque no tienen ninguna perspectiva de progreso, o de los cambios climáticos y las condiciones climáticas extremas. Todos saben que el hambre sigue siendo, desgraciadamente, una de las plagas más graves de nuestro mundo, con millones de niños que mueren cada año por su causa. Duele constatar, sin embargo, que a menudo estos emigrantes no entran en los sistemas internacionales de protección en virtud de los acuerdos internacionales.

¿Cómo no ver en todo esto el fruto de una «cultura del descarte» que pone en peligro a la persona humana, sacrificando a hombres y mujeres a los ídolos del beneficio y del consumismo? Es grave acostumbrarse a estas situaciones de pobreza y necesidad, al drama de tantas personas, y considerarlas como «normales». No se considera ya a las personas como un valor primario que hay que respetar y amparar, especialmente si son pobres o discapacitadas, si «todavía no son útiles» – como los no nacidos– , o si «ya no sirven » –como los ancianos–. Nos hemos hecho insensibles a cualquier forma de despilfarro, comenzando por el de los alimentos, que es uno de los más vergonzosos, pues son muchas las personas y las familias que sufren hambre y desnutrición.5

La Santa Sede espera que el Primer Vértice Humanitario Mundial, convocado por las Naciones Unidas para el próximo mes de mayo, pueda, en medio del actual y triste cuadro de conflictos y desastres, tener éxito en su intento de colocar a la persona humana y su dignidad en el centro de cualquier respuesta humanitaria. Se hace necesario un compromiso común que acabe decididamente con la cultura del descarte y de la ofensa a la vida humana, de modo que nadie se sienta descuidado u olvidado, y que no se sacrifiquen más vidas por falta de recursos y, sobre todo, de voluntad política.

Tristemente, seguimos escuchando también hoy la voz de Judas que sugiere vender a su propio hermano (cf. Gn 37,26-27). Es la arrogancia de los poderosos que, con fines egoístas o cálculos estratégicos y políticos, instrumentalizan a los débiles y los reducen a objetos. Allí donde una migración regular es imposible, los emigrantes se ven obligados a dirigirse, ordinariamente, a quienes practican la trata [trafficking] o el contrabando [smuggling] de seres humanos, a pesar de que son, en gran parte, conscientes del peligro que corren de perder durante la travesía sus bienes, su dignidad e, incluso, la propia vida. En este sentido, renuevo una vez más el llamado a detener el tráfico de personas, que convierte a los seres humanos en mercancía, especialmente a los más débiles e indefensos. Permanecerán siempre indelebles en nuestra mente y en nuestro corazón las imágenes de los niños ahogados en el mar, víctimas de la falta de escrúpulos de los hombres y de la inclemencia de la naturaleza. Quien logra sobrevivir y llegar a un país que lo acoge, lleva permanentemente las profundas cicatrices provocadas por esas experiencias, además de las producidas por los horrores que acompañan siempre a las guerras y a las violencias.

Igual que en aquel tiempo, también hoy se oye repetir al Ángel: «Levántate, toma al niño y a su madre y huye a Egipto; quédate allí hasta que yo te avise» (Mt 2,13). Es la voz que escuchan muchos de los emigrantes que jamás habrían dejado su propia patria si no se hubieran visto obligados a ello. Se cuentan entre ellos la multitud de cristianos que, cada vez más en masa, han tenido que abandonar durante los últimos años su propia tierra, en la que han vivido incluso desde los orígenes del cristianismo.

Por último, también hoy escuchamos la voz del salmista que dice: «Junto a los canales de Babilonia nos sentamos a llorar con nostalgia de Sion» (Sal 136 [137], 1). Es el llanto de quienes regresarían de buena gana a sus propios países si encontraran adecuadas condiciones de seguridad y de subsistencia. También en este caso, pienso en los cristianos del Medio Oriente, deseosos de contribuir, como ciudadanos a pleno título, al bienestar espiritual y material de sus respectivas naciones.

Gran parte de las causas que provocan la emigración se podían haber ya afrontado desde hace tiempo. Así, se podría haber evitado o, al menos, mitigado sus consecuencias más crueles. Todavía ahora, y antes de que sea demasiado tarde, se puede hacer mucho para detener las tragedias y construir la paz. Para ello, habría que poner en discusión costumbres y prácticas consolidadas, empezando por los problemas relacionados con el comercio de armas, el abastecimiento de materias primas y de energía, la inversión, la política financiera y de ayuda al desarrollo, hasta la grave plaga de la corrupción. Somos conscientes de que, con relación al tema de la emigración, se necesitan establecer planes a medio y largo plazo que no se queden en la simple respuesta a una emergencia. Deben servir, por una parte, para ayudar realmente a la integración de los emigrantes en los países de acogida y, al mismo tiempo, favorecer el desarrollo de los países de proveniencia, con políticas solidarias, que no sometan las ayudas a estrategias y prácticas ideológicas ajenas o contrarias a las culturas de los pueblos a las que van dirigidas.

Sin olvidar otras situaciones dramáticas, y pienso particularmente en la frontera entre México y los Estados Unidos de América, a la que me acercaré el próximo mes cuando visite Ciudad Juárez, quisiera dedicar una especial reflexión a Europa. En efecto, durante el último año se ha visto afectada por un flujo masivo de prófugos –mucho de los cuales han encontrado la muerte en el tentativo de alcanzarla–, que no tiene precedentes en la historia reciente, ni siquiera al final de la Segunda Guerra Mundial. Muchos emigrantes procedentes de Asía y África, ven a Europa como un referente por sus principios, como la igualdad ante la ley, y por los valores inscritos en la naturaleza misma de todo hombre, como la inviolabilidad de la dignidad y la igualdad de toda persona, el amor al prójimo sin distinción de origen y pertenencia, la libertad de conciencia y la solidaridad con sus semejantes.

Sin embargo, los desembarcos masivos en las costas del Viejo Continente parece que ponen en dificultad al sistema de acogida construido laboriosamente sobre las cenizas del segunda conflicto mundial, que sigue siendo un faro de humanidad al cual referirse. Ante la magnitud de los flujos y sus inevitables problemas asociados han surgido muchos interrogantes acerca de las posibilidades reales de acogida y adaptación de las personas, sobre el cambio en la estructura cultural y social de los países de acogida, así como sobre un nuevo diseño de algunos equilibrios geopolíticos regionales. Son igualmente relevantes los temores sobre la seguridad, exasperados sobremanera por la amenaza desbordante del terrorismo internacional. La actual ola migratoria parece minar la base del «espíritu humanista» que desde siempre Europa ha amado y defendido.6 Sin embargo, no podemos consentir que pierdan los valores y los principios de humanidad, de respeto por la dignidad de toda persona, de subsidiariedad y solidaridad recíproca, a pesar de que puedan ser, en ciertos momentos de la historia, una carga difícil de soportar. Deseo, por tanto, reiterar mi convicción de que Europa, inspirándose en su gran patrimonio cultural y religioso, tiene los instrumentos necesarios para defender la centralidad de la persona humana y encontrar un justo equilibrio entre el deber moral de tutelar los derechos de sus ciudadanos, por una parte, y, por otra, el de garantizar la asistencia y la acogida de los emigrantes.7

Al mismo tiempo, siento la necesidad de expresar mi gratitud por todas las iniciativas que se han adoptado para facilitar una acogida digna de las personas, como son, entre otras, las realizadas por el Fondo Migrantes y Refugiados del Banco de Desarrollo del Consejo de Europa, así como por el compromiso de aquellos países que han mostrado una generosa disponibilidad a la ayuda. Me refiero sobre todo a las Naciones vecinas a Siria, que han respondido inmediatamente con la asistenta y la acogida, especialmente el Líbano, donde los refugiados constituyen una cuarta parte de la población total, y Jordania, que no ha cerrado sus fronteras a pesar de que alberga a cientos de miles de refugiados. Del mismo modo, no hay que olvidar los esfuerzos de otros países que se encuentran en la primera línea, especialmente Turquía y Grecia. Deseo expresar un agradecimiento especial a Italia, cuyo firme compromiso ha salvado muchas vidas en el Mediterráneo y que, incluso en su territorio, se ocupa de un ingente número de refugiados. Espero que el tradicional sentido de hospitalidad y solidaridad que caracteriza al pueblo italiano no se debilite ante las inevitables dificultades del momento, sino que, a la luz de su tradición milenaria, sea capaz de acoger e integrar la aportación social, económica y cultural que los emigrantes pueden ofrecer.

Es importante que no se deje solas a las naciones que se encuentran en primera línea haciendo frente a la emergencia actual, y es igualmente indispensable que se inicie un diálogo franco y respetuoso entre todos los países implicados en el problema –de origen, tránsito o recepción– para que, con mayor audacia creativa, se busquen soluciones nuevas y sostenibles. En la coyuntura actual, en efecto, los Estados no pueden pretender buscar por su cuenta dichas soluciones, ya que las consecuencias de las opciones de cada uno repercuten inevitablemente sobre toda la Comunidad internacional. Se sabe que las migraciones constituirán un elemento determinante del futuro del mundo, mucho más de lo que ha sido hasta ahora, y de que las respuestas sólo vendrán como fruto de un trabajo común, que respete la dignidad humana y los derechos de las personas. La Agenda para el Desarrollo, que las Naciones Unidas ha adoptado en septiembre pasado para los próximos 15 años, aborda muchos de los problemas que llevan a la emigración, al igual que otros documentos de la Comunidad internacional sobre la gestión de la problemática migratoria, sólo responderán a las expectativas si saben colocar a la persona en el centro de las decisiones políticas, a todos los niveles, y ven a la humanidad como una sola familia y a los hombres como hermanos, respetando las reciprocas diferencias y las convicciones de conciencia.

Para afrontar el tema de la emigración es importante, de hecho, que se preste atención a sus implicaciones culturales, empezando por las que están relacionadas con la propia confesión religiosa. El extremismo y el fundamentalismo se ven favorecidos, no sólo por una instrumentalización de la religión en función del poder, sino también por la falta de ideales y la pérdida de la identidad, incluso religiosa, que caracteriza dramáticamente al así llamado Occidente. De este vacío nace el miedo que empuja a ver al otro como un peligro y un enemigo, a encerrarse en sí mismo, enrocándose en sus planteamientos preconcebidos. El fenómeno migratorio, por tanto, plantea un importante desafío cultural, que no se puede dejar sin responder. La acogida puede ser una ocasión propicia para una nueva comprensión y apertura de mente, tanto para el que es acogido, y tiene el deber de respetar los valores, las tradiciones y las leyes de la comunidad que lo acoge, como para esta última, que está llamada a apreciar lo que cada emigrante puede aportar en beneficio de toda la comunidad. En este contexto, la Santa Sede renueva su compromiso en el campo ecuménico e interreligioso para establecer un diálogo sincero y leal que, valorando las peculiaridades y la identidad de cada uno, favorezca una convivencia armónica de todos los miembros de la sociedad.

Distinguidos miembros del Cuerpo Diplomático.

En el año 2015 se han concluido importantes acuerdos internacionales, que son un buen augurio para el futuro. Me refiero, en primer lugar, al llamado Acuerdo sobre el programa nuclear iraní, que espero contribuirá a fomentar un clima de distensión en la Región, así como a la consecución del tan esperado acuerdo sobre el clima en la Conferencia de París. Se trata de un importante acuerdo, que representa un logro significativo para toda la Comunidad internacional y que pone de manifiesto una fuerte conciencia colectiva acerca de la grave responsabilidad que todos, individuos y naciones, tenemos en la protección de la creación, y en la promoción de una «cultura del cuidado que impregne toda la sociedad».8 Ahora es vital que los compromisos asumidos no sólo representen un buen propósito, sino que todos los Estados sientan la obligación real de poner en marcha las acciones necesarias para salvaguardar nuestra amada Tierra, para bien de toda la humanidad, especialmente de las generaciones futuras.

Por su parte, el año que acaba de comenzar se presenta lleno de desafíos y ya han aparecido en el horizonte muchas tensiones. Me refiero sobre todo a los graves contrastes que han surgido en la región del Golfo Pérsico, así como al preocupante ensayo militar realizado en la península coreana. Espero que los antagonismos abran paso a la voz de la paz y de la buena voluntad en la búsqueda de acuerdos. En esa perspectiva, veo con agrado que no faltan gestos significativos y especialmente ilusionantes. Me refiero en particular al clima pacífico de convivencia en el que se han realizado las recientes elecciones en la República Centroafricana y que representa un signo positivo de la voluntad de proseguir el camino emprendido hacia una plena reconciliación nacional. Pienso, además, en las nuevas iniciativas que se han puesto en marcha en Chipre, para resolver una división que dura ya mucho tiempo, y a los esfuerzos del pueblo colombiano para superar los conflictos del pasado y lograr la tan ansiada paz. Todos miramos con esperanza los pasos importantes que la Comunidad internacional ha emprendido para encontrar una solución política y diplomática a la crisis en Siria, que ponga fin a un sufrimiento de la población que dura ya demasiado tiempo. Del mismo modo, llegan señales positivas de Libia, que permiten confiar en un renovado compromiso para erradicar la violencia y restaurar la unidad del país. Por otro lado, cada vez es más claro que sólo la acción política conjunta y acordada ayudará a contener la propagación del extremismo y del fundamentalismo, con sus implicaciones de carácter terrorista, que producen tantas víctimas en Siria y Libia, así como en otros países, como Irak y Yemen.

Espero que este Año Santo de la Misericordia sea también una ocasión para el diálogo y la reconciliación que ayude a la construcción del bien común en Burundi, la República Democrática del Congo y Sudán del Sur. Que sea, sobre todo, un momento propicio para poner definitivamente fin al conflicto en las regiones orientales de Ucrania. Es fundamental el apoyo que, desde muchos puntos de vista, la comunidad internacional, los estados y las organizaciones humanitarias pueden ofrecer al país para que supere la crisis actual.

El reto principal que nos espera es, sin embargo, el de vencer la indiferencia para construir juntos la paz,9 que es un bien que hay perseguir siempre. Por desgracia, entre las muchas partes de nuestro querido mundo que la anhelan ardientemente está la Tierra que Dios ha preferido y elegido para mostrar a todos el rostro de su misericordia. Mi esperanza es que en este nuevo año se cierren las profundas heridas que dividen a israelíes y palestinos y se consiga la convivencia pacífica de dos pueblos que, en lo profundo de sus corazones –estoy seguro–, no desean otra cosa que la paz.

Excelencias, Señoras y Señores.

En el plano diplomático, la Santa Sede no dejará nunca de trabajar para que la voz de la paz llegue hasta los extremos de la tierra. Renuevo, por tanto, la plena disponibilidad de la Secretaría de Estado para colaborar con ustedes en el fomento de un diálogo constante entre la Sede Apostólica y los países que ustedes representan, para el bien de toda la Comunidad internacional, con la certeza interior de que este año jubilar será una buena oportunidad para vencer, con el calor de la misericordia, don precioso de Dios que transforma el miedo en amor y nos hace artífices de paz, la fría indiferencia de tantos corazones. Con estos sentimientos, renuevo a cada uno de ustedes, a sus familias, a sus países, mis más fervientes deseos de un año lleno de bendiciones.

Gracias.

______________________

1 Encuentro con la Comunidad Musulmana, Bangui, 30 noviembre 2015.

2 Cf. Encuentro con las Autoridades, Sarajevo, 6 junio 2015.

3 Encuentro con las Familias, Manila, 16 enero 2015.

4 Encuentro con la Sociedad Civil, Quito, 7 julio 2015.

5 Audiencia General, 5 junio 2013.

6 Cf. Discurso al Parlamento Europeo, Estrasburgo, 25 noviembre 2014.

7 Ibíd.

8 Laudato si’, n. 231.

9 Cf. Vence la indiferencia y conquista la paz, Mensaje para la XLIX Jornada Mundial de la Paz, 8 diciembre 2015.

[00026-ES.01] [Texto original: Italiano]

Testo in lingua portoghese

Excelências, Senhoras e Senhores!

De coração vos dou as boas-vindas a este encontro anual, em que tenho oportunidade de vos apresentar os meus votos para o novo ano e reflectir convosco sobre a situação deste nosso mundo, abençoado e amado por Deus e todavia atribulado e aflito por tantos males. Agradeço ao novo Decano do Corpo Diplomático, senhor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Embaixador de Angola, as amáveis palavras que me dirigiu em nome de todo o Corpo Diplomático acreditado junto da Santa Sé; desejo aqui fazer memória especial – quase um mês depois da sua morte – dos falecidos Embaixadores de Cuba, Rodney Alejandro López Clemente, e da Libéria, Rudolf P. von Ballmoos.

Aproveito a ocasião também para dirigir uma saudação particular a quantos participam pela primeira vez neste encontro, notando com satisfação que, no decurso do ano passado, aumentou ainda mais o número de Embaixadores residentes em Roma. Trata-se de um sinal importante da atenção com que a comunidade internacional segue a actividade diplomática da Santa Sé. E outra prova disso mesmo são os Acordos internacionais assinados ou ratificados durante o ano findo. Em particular, desejo mencionar aqui as convenções específicas em matéria de tributação assinadas com a Itália e os Estados Unidos da América, que demonstram o crescente empenho da Santa Sé em prol duma maior transparência nas questões económicas. Não menos importantes, porém, são os acordos de carácter geral, visando regular aspectos essenciais da vida e da actividade da Igreja nos diferentes países, como o Acordo assinado em Díli com a República Democrática de Timor-Leste.

De igual modo, desejo recordar a troca dos Instrumentos de Ratificação do Acordo com o Chade sobre o estatuto jurídico da Igreja Católica no país, bem como o Acordo assinado e ratificado com a Palestina. Trata-se de dois acordos que, juntamente com o Memorando de Entendimento entre a Secretaria de Estado e o Ministério dos Negócios Estrangeiros do Kuwait, demonstram, para além do mais, que a convivência pacífica entre membros de religiões diferentes é possível quando se reconhece a liberdade religiosa e se assegura uma real possibilidade de colaborar para a edificação do bem comum, no respeito mútuo da identidade cultural de cada um.

Aliás toda a experiência religiosa, vivida autenticamente, só pode promover a paz. Assim no-lo recorda o Natal que há pouco celebrámos, contemplando o nascimento dum menino indefeso, cujo «nome é: Conselheiro admirável, Deus forte, Pai eterno, Príncipe da paz» (cf. Is 9, 5). O mistério da Encarnação mostra-nos o verdadeiro rosto de Deus, para quem o poder não significa força e destruição, mas amor; a justiça não significa vingança, mas misericórdia. Precisamente nesta perspectiva, quis proclamar o Jubileu extraordinário da Misericórdia, inaugurado excepcionalmente em Bangui durante a minha viagem apostólica ao Quénia, Uganda e República Centro-Africana. Num país longamente atribulado pela fome, a pobreza e os conflitos, onde a violência fratricida dos últimos anos deixou feridas profundas nos espíritos, dilacerando a comunidade nacional e gerando miséria material e moral, a abertura da Porta Santa da Catedral de Bangui pretendeu ser um sinal de encorajamento para erguerem o olhar, retomarem o caminho e reencontrarem as razões do diálogo. Lá onde se abusou do nome de Deus para cometer injustiça, quis reiterar, juntamente com a comunidade muçulmana da República Centro-Africana, que «quem afirma crer em Deus deve ser também um homem ou uma mulher de paz»1 e, consequentemente, de misericórdia, porque nunca se pode matar em nome de Deus. Só uma forma ideologizada e extraviada de religião pode pensar fazer justiça em nome do Omnipotente, massacrando deliberadamente pessoas indefesas, como aconteceu nos sanguinários ataques terroristas dos meses passados na África, Europa e Médio Oriente.

A misericórdia foi, de certo modo, o «fio condutor» que guiou as minhas viagens apostólicas já no ano passado. Refiro-me, antes de mais nada, à visita a Sarajevo, cidade profundamente ferida pela guerra nos Balcãs e capital dum país, a Bósnia-Herzegovina, que se reveste dum significado especial para a Europa e o mundo inteiro. Como encruzilhada de culturas, nações e religiões, tem-se esforçado, com resultados positivos, por construir sem cessar novas pontes, valorizar aquilo que une e olhar as diferenças como oportunidades de crescimento no respeito por todos. Isto é possível através dum diálogo paciente e confiante, que sabe assumir os valores da cultura de cada um e acolher o bem proveniente das experiências alheias.2

Depois, penso na viagem à Bolívia, Equador e Paraguai, onde encontrei povos que não se rendem diante das dificuldades e, com coragem, determinação e espírito de fraternidade, enfrentam os numerosos desafios que os afligem, a começar pela pobreza generalizada e as desigualdades sociais. Durante a viagem a Cuba e aos Estados Unidos da América, pude abraçar dois países que, depois de prolongada divisão, decidiram escrever nova página na história, empreendendo um caminho de avizinhamento e reconciliação.

Em Filadélfia, por ocasião do Encontro Mundial das Famílias, bem como durante a viagem ao Sri Lanka e às Filipinas e com o recente Sínodo dos Bispos, recordei a importância da família, que é a primeira e mais importante escola de misericórdia, na qual se aprende a descobrir o rosto amoroso de Deus e onde cresce e se desenvolve a nossa humanidade. Conhecemos os numerosos desafios que, infelizmente, a família tem de enfrentar neste tempo em que está «ameaçada pelos crescentes esforços de alguns em redefinir a própria instituição do matrimónio mediante o relativismo, a cultura do efémero, a falta de abertura à vida».3 Hoje há um medo generalizado à condição definitiva que a família supõe e, quem o paga, são sobretudo os mais novos, muitas vezes frágeis e desorientados, e os idosos que acabam por ser esquecidos e abandonados. Pelo contrário, «da fraternidade vivida na família, nasce a solidariedade na sociedade»,4 que nos leva a ser responsáveis uns pelos outros. Isto só é possível se nas nossas casas, bem como na sociedade, não deixarmos sedimentar incómodos e ressentimentos, mas dermos lugar ao diálogo, que é o melhor antídoto contra o individualismo tão largamente espalhado na cultura do nosso tempo.

Queridos Embaixadores!

Um espírito individualista é terreno fértil para medrar aquele sentido de indiferença para com o próximo, que leva a tratá-lo como mero objecto de comércio, que impele a ignorar a humanidade dos outros e acaba por tornar as pessoas medrosas e cínicas. Porventura não são estes os sentimentos que muitas vezes nos assaltam à vista dos pobres, dos marginalizados, dos últimos da sociedade? E são tantos os últimos na nossa sociedade! Dentre eles, penso sobretudo nos migrantes, com o peso de dificuldades e tribulações que enfrentam diariamente à procura, por vezes desesperada, dum lugar onde viver em paz e com dignidade.

Por isso, hoje, queria deter-me a reflectir convosco sobre a grave emergência migratória que temos estado a enfrentar, para discernir as suas causas, perspectivar soluções, vencer o medo que inevitavelmente acompanha um fenómeno assim grande e impressionante, que, durante o ano de 2015, interessou sobretudo a Europa, mas também várias regiões da Ásia e o Norte e Centro da América.

«Tem coragem, não tremas, porque o Senhor, teu Deus, estará contigo para onde quer que fores» (Js 1, 9). É a promessa feita por Deus a Josué, que mostra como o Senhor acompanha cada pessoa, sobretudo quem vive numa situação de vulnerabilidade como esta de quem procura refúgio num país estrangeiro. Na verdade, toda a Bíblia nos conta a história duma humanidade a caminho, pois é conatural ao homem estar em movimento. A sua história é feita de muitas migrações, às vezes amadurecidas como consciência do direito a uma livre escolha, mas frequentemente ditadas por circunstâncias externas. Do desterro do paraíso terreal até Abraão em marcha para a terra prometida, da história do Êxodo até à deportação para Babilónia, a Sagrada Escritura narra incómodos e sofrimentos, desejos e esperanças, que são comuns aos de centenas de milhares de pessoas em marcha nos nossos dias, com a mesma determinação de Moisés de alcançar uma terra onde corra «leite e mel» (cf. Ex 3, 17), onde possam viver livres e em paz.

E assim, hoje como então, ouvimos o grito de Raquel que chora pelos seus filhos, que já não existem (cf. Jr 31, 15; Mt 2, 18). É a voz dos milhares de pessoas que choram enquanto fogem de guerras horríveis, de perseguições e violações dos direitos humanos, da instabilidade política ou social, que frequentemente lhes tornam impossível a vida na própria pátria. É o grito de quantos se vêem constrangidos a fugir para evitar barbáries indescritíveis contra pessoas indefesas como crianças e deficientes, ou evitar o martírio por simples filiação religiosa.

Como então, ouvimos a voz de Jacob que – tendo ouvido dizer que havia trigo à venda no Egipto – diz aos seus filhos: «Ide lá comprá-lo, para nós continuarmos vivos e não morrermos» (Gn 42, 2). É a voz daqueles que fogem da miséria extrema, sem possibilidades de alimentar a família ou ter acesso aos cuidados médicos e à instrução, fogem da degradação sem perspectivas de qualquer progresso ou mesmo por causa das alterações climáticas e de condições climáticas extremas. Sabe-se que, infelizmente, a fome é ainda uma das chagas mais graves do nosso mundo, com milhões de crianças que morrem anualmente por causa dela. É triste, porém, constatar que muitas vezes estes migrantes não se enquadram nos sistemas de protecção baseados nos acordos internacionais.

Como é possível não ver, em tudo isto, o resultado daquela «cultura do descarte» que põe em perigo a pessoa humana, sacrificando homens e mulheres aos ídolos do lucro e do consumo? É grave habituar-se a estas situações de pobreza e necessidade, aos dramas de tantas pessoas, fazendo com que se tornem «normalidade». As pessoas já não são vistas como um valor primário a respeitar e tutelar, especialmente se são pobres ou deficientes, se «ainda não servem» (como os nascituros) ou «já não servem» (como os idosos). Tornamo-nos insensíveis a qualquer forma de desperdício, a começar pelo alimentar, que aparece entre os mais deploráveis, vistas as inúmeras pessoas e famílias que padecem fome e subalimentação.5

A Santa Sé espera que a I Cimeira Humanitária Mundial, convocada pelas Nações Unidas para o próximo mês de Maio, possa ter sucesso, no actual quadro sombrio de conflitos e desastres, na sua pretensão de colocar a pessoa humana e a sua dignidade no coração de cada resposta humanitária. É preciso um compromisso comum que inverta decididamente a cultura do descarte e da violação da vida humana, para que ninguém se sinta negligenciado ou esquecido nem sejam sacrificadas mais vidas pela falta de recursos e sobretudo de vontade política.

Infelizmente, hoje como então, ouvimos a voz de Judá sugerir que se venda o próprio irmão (cf. Gn 37, 26-27). É a arrogância dos poderosos que instrumentalizam os fracos, reduzindo-os a objectos para fins egoístas ou por cálculos estratégicos e políticos. Onde é impossível uma migração regular, os migrantes vêem-se muitas vezes forçados a tomar a opção de se dirigirem a quem pratica o tráfico ou o contrabando de seres humanos, embora estejam em grande parte cientes do perigo de perder, durante o percurso, os bens, a dignidade e até mesmo a vida. Nesta perspectiva, renovo uma vez mais o apelo a deter o tráfico de pessoas, que mercantiliza os seres humanos, especialmente os mais fracos e indefesos. Nas nossas mentes e nos nossos corações, permanecerão indelevelmente gravadas as imagens das crianças mortas no mar, vítimas dos homens sem escrúpulos e da inclemência da natureza. Depois, quem sobrevive e chega a um país que o acolhe leva consigo indelevelmente as cicatrizes profundas destas experiências, além das relacionadas com os horrores que sempre acompanham guerras e violências.

Como então, também hoje se ouve o Anjo repetir: «Levanta-te, toma o menino e sua mãe, foge para o Egipto e fica lá até que eu te avise» (Mt 2, 13). É a voz escutada pelos inúmeros migrantes que nunca deixariam o seu país se, a isso mesmo, não fossem constrangidos. Entre eles, há numerosos cristãos que, no decurso dos últimos anos, têm abandonado de forma cada vez mais maciça as suas terras, onde habitaram desde as origens do cristianismo.

Finalmente, também hoje escutamos a voz do Salmista que repete: «Junto aos rios de Babilónia nos sentamos a chorar, recordando-nos de Sião» (Sal 137/136, 1). É o pranto daqueles que de boa vontade regressariam aos seus países, se lá encontrassem adequadas condições de segurança e de subsistência. Também aqui penso nos cristãos do Médio Oriente desejosos de contribuir, como cidadãos de pleno direito, para o bem-estar espiritual e material das respectivas nações.

Desde há muito tempo que se poderia ter enfrentado grande parte das causas das migrações; e, deste modo, teria sido possível prevenir tantas desgraças ou, pelo menos, mitigar as suas consequências mais atrozes. E hoje, antes que seja tarde demais, muito se pode fazer para impedir as tragédias e construir a paz. Mas isto significaria pôr em discussão hábitos e práticas consolidadas, a começar pelas problemáticas relacionadas com o comércio dos armamentos, até ao problema da conservação de matérias-primas e energia, aos investimentos, às políticas de financiamento e apoio ao desenvolvimento, até à grave chaga da corrupção. Além disso, devemos estar cientes da necessidade que há, em tema de migração, de estabelecer projectos de médio e longo prazo que ultrapassem a resposta de emergência; deveriam ajudar realmente à integração dos migrantes nos países de acolhimento e, ao mesmo tempo, favorecer o desenvolvimento dos países de origem com políticas solidárias, mas sem condicionar as ajudas a estratégias e práticas ideologicamente alheias ou contrárias às culturas dos povos a que se destinam.

Sem esquecer outras situações dramáticas – nomeadamente a que se vive na fronteira entre o México e os Estados Unidos da América, que tocarei ao de leve quando for a Ciudad Juárez no próximo mês –, gostaria de dedicar um pensamento especial à Europa. Na verdade, ao longo do ano passado, viu-se afectada por um fluxo impressionante de refugiados (tendo muitos deles encontrado a morte na tentativa de a alcançar), que não tem precedentes na sua história recente, nem mesmo no final da II Guerra Mundial. Muitos migrantes, originários da Ásia e da África, vêem na Europa um ponto de referência por princípios, como a igualdade perante a lei, e valores inscritos na própria natureza de cada ser humano, como a inviolabilidade da dignidade e da igualdade de cada pessoa, o amor ao próximo sem distinção de origem nem de raça, a liberdade de consciência e a solidariedade com o seu semelhante.

Todavia estes desembarques maciços nas costas do Velho Continente parecem fazer vacilar o sistema de acolhimento laboriosamente construído sobre as cinzas do segundo conflito mundial, que constitui ainda um farol de humanidade a servir de referência. Perante a imensidão dos fluxos e os problemas inevitavelmente relacionados, surgiram muitas dúvidas sobre as reais possibilidades de recepção e adaptação das pessoas, sobre a mudança do meio cultural e social dos países de acolhimento, bem como a redefinição de alguns equilíbrios geopolíticos regionais. Relevantes são igualmente os temores pela segurança, exacerbados desmedidamente pela difusa ameaça do terrorismo internacional. A vaga migratória actual parece minar as bases daquele «espírito humanista» que a Europa ama e defende desde sempre.6 Mas não se pode dar ao luxo de perder os valores e os princípios de humanidade, de respeito pela dignidade de cada pessoa, de subsidiariedade e de mútua solidariedade, mesmo que, em alguns momentos da história, possam constituir um fardo difícil de levar. Por isso, desejo reiterar a minha convicção de que a Europa, ajudada pelo seu grande património cultural e religioso, possui os instrumentos para defender a centralidade da pessoa humana e encontrar o justo equilíbrio entre estes dois deveres: o dever moral de tutelar os direitos dos seus cidadãos e o dever de garantir a assistência e o acolhimento dos migrantes.7

Ao mesmo tempo, sinto a necessidade de exprimir gratidão por todas as iniciativas tomadas para favorecer uma recepção digna das pessoas, nomeadamente o Fundo Migrantes e Refugiados do Banco de Desenvolvimento do Conselho da Europa, e também pelo empenhamento dos países que demonstraram uma generosa atitude de partilha; refiro-me, antes de mais nada, às nações vizinhas da Síria, que deram respostas imediatas de assistência e acolhimento, sobretudo o Líbano, onde os refugiados constituem um quarto da população total, e a Jordânia, que não fechou as fronteiras, apesar de abrigar já centenas de milhares de refugiados. De igual modo, não devemos esquecer os esforços doutros países empenhados na vanguarda, entre os quais se conta especialmente a Turquia e a Grécia. Desejo expressar um agradecimento particular à Itália, cujo decidido empenho salvou muitas vidas no Mediterrâneo e que ainda se ocupa no seu território dum grande número de refugiados. Espero que o tradicional sentido de hospitalidade e solidariedade que caracteriza o povo italiano não fique enfraquecido pelas inevitáveis dificuldades do momento presente, mas, à luz de sua milenária tradição, seja capaz de acolher e integrar a contribuição social, económica e cultural que os migrantes possam prestar.

É importante não deixar sozinhas as nações que, na vanguarda, estão enfrentando a situação actual de emergência, tornando-se igualmente indispensável dar início a um diálogo franco e respeitoso entre todos os países implicados no problema – países de origem, de trânsito ou de recepção – procurando, com maior audácia criativa, soluções novas e sustentáveis. Realmente, na actual conjuntura, não se pode pensar em soluções perseguidas de forma individualista por um Estado, porque as consequências das opções de cada um recaem inevitavelmente sobre toda a comunidade internacional. Com efeito, sabe-se que as migrações constituirão uma pedra angular do futuro do mundo, mais do que o têm sido até agora, e que as respostas só poderão ser fruto dum trabalho comum, que respeite a dignidade humana e os direitos das pessoas. A Agenda de Desenvolvimento, adoptada em Setembro passado pelas Nações Unidas para os próximos 15 anos, que aborda muitos dos problemas que impelem à migração, bem como outros documentos da comunidade internacional visando gerir a questão migratória, poderão encontrar uma aplicação coerente com as expectativas se souberem colocar a pessoa no centro das decisões políticas a todos os níveis, olhando a humanidade como uma única família e os homens como irmãos, no respeito pelas diferenças e convicções de consciência de cada um.

Com efeito, ao abordar a questão migratória não se poderão negligenciar as relativas implicações culturais, a começar pelas relacionadas com a pertença religiosa. O extremismo e o fundamentalismo encontram terreno fértil não só numa instrumentalização da religião para fins de poder, mas também no vazio de ideais e na perda de identidade – inclusive religiosa – que contradistingue dramaticamente o chamado Ocidente. De tal vazio nasce o medo que impele a ver o outro como um perigo e um inimigo, a fechar-se em si mesmo, refugiando-se em posições preconceituosas. Por isso o fenómeno migratório põe um sério interrogativo cultural, ao qual não nos podemos eximir de responder. Assim o acolhimento pode ser ocasião propícia para uma nova compreensão e abertura de horizonte, tanto para quem é acolhido, que tem o dever de respeitar os valores, as tradições e as leis da comunidade que o acolhe, como para esta última chamada a valorizar aquilo que cada imigrante pode oferecer para benefício de toda a comunidade. Neste contexto, a Santa Sé renova o seu compromisso de estabelecer, em campo ecuménico e inter-religioso, um diálogo sincero e leal que, valorizando as peculiaridades e a identidade própria de cada um, favoreça uma convivência harmoniosa entre todas as componentes sociais.

Ilustres Membros do Corpo Diplomático!

O ano de 2015 viu a conclusão de acordos internacionais importantes, que permitem olhar com esperança para o futuro. Penso, em primeiro lugar, no chamado Acordo sobre o nuclear iraniano que espero possa contribuir para favorecer um clima de desanuviamento na região, bem como na obtenção do esperado acordo sobre o clima na Conferência de Paris. Trata-se de um entendimento significativo que representa um resultado importante para toda a comunidade internacional e evidencia uma forte tomada de consciência colectiva sobre a grave responsabilidade que cada um – tanto indivíduos como nações – tem de salvaguardar a criação, promovendo «uma cultura do cuidado que permeie toda a sociedade».8 Naturalmente é fundamental que os compromissos assumidos não representem apenas um bom propósito, mas constituam para todos os Estados uma real obrigação de pôr em prática as medidas necessárias para salvaguardar a nossa amada Terra, em benefício da humanidade inteira, sobretudo das gerações futuras.

Por sua vez, o ano há pouco iniciado preanuncia-se cheio de desafios, tendo já assomado ao horizonte não poucas tensões. Penso sobretudo nos graves contrastes surgidos na região do Golfo Pérsico, bem como na preocupante experimentação militar realizada na Península Coreana. Espero que as contraposições dêem lugar à voz da paz e à boa vontade de procurar acordos. Nesta perspectiva, destaco, com satisfação, a presença de gestos significativos e particularmente encorajadores; refiro-me em particular ao clima de pacífica convivência em que se desenrolaram as recentes eleições na República Centro-Africana, constituindo um sinal positivo da vontade de prosseguir o caminho rumo a uma plena reconciliação nacional. Além disso, penso nas novas iniciativas lançadas em Chipre para resolver uma divisão de longa data e aos esforços empreendidos pelo povo colombiano para superar os conflitos do passado e alcançar a tão anelada paz. Além disso todos olhamos com esperança para os passos importantes empreendidos pela comunidade internacional para alcançar uma solução política e diplomática da crise na Síria, que ponha termo aos sofrimentos, demasiado longos, da população. Igualmente encorajadores são os sinais provenientes da Líbia, que permitem esperar num renovado compromisso para fazer cessar as violências e reencontrar a unidade do país. Por outro lado, revela-se cada vez mais claramente que só uma acção política conjunta e concorde poderá contribuir para conter a propagação do extremismo e do fundamentalismo, com as suas consequências de matriz terrorista, que ceifam inumeráveis vítimas quer na Síria e na Líbia, quer noutros países, como o Iraque e o Iémen.

Que este Ano Santo da Misericórdia seja também uma ocasião de diálogo e reconciliação, visando a edificação do bem comum no Burundi, na República Democrática do Congo e no Sudão do Sul. E sobretudo que seja um tempo propício para pôr definitivamente termo ao conflito nas regiões orientais da Ucrânia; de importância fundamental é o apoio que a comunidade internacional, os vários Estados e as organizações humanitárias poderão oferecer ao país, sob os mais variados pontos de vista, para que ele supere a crise actual.

Mas o desafio maior de todos que nos espera é o de vencer a indiferença para juntos construirmos a paz,9 que permanece um bem a perseguir sem cessar. E, entre as muitas partes deste nosso amado mundo que por ela anseiam ardentemente, conta-se, infelizmente, a Terra que Deus olhou com predilecção e escolheu para mostrar a todos o rosto da sua misericórdia. A minha esperança é que este novo ano possa curar as feridas profundas que separam israelitas e palestinenses, permitindo a convivência pacífica de dois povos, que – tenho a certeza! – do fundo do coração nada mais pedem senão paz.

Excelências, Senhoras e Senhores!

A nível diplomático, a Santa Sé não deixará jamais de trabalhar para que a voz da paz possa ser ouvida até aos últimos confins da terra. Assim, renovo a plena disponibilidade da Secretaria de Estado para colaborar convosco na promoção dum diálogo constante entre a Sé Apostólica e os países que representais em benefício de toda a comunidade internacional, com a íntima certeza de que este ano jubilar poderá ser a ocasião propícia para que a fria indiferença de tantos corações seja vencida pelo calor da misericórdia, dom precioso de Deus, que transforma o temor em amor e nos torna artesãos de paz. Com estes sentimentos, renovo a cada um de vós, às vossas famílias, aos vossos países os votos mais ardentes de um ano cheio de bênçãos.

Obrigado!

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1 Encontro com a comunidade muçulmana, Bangui, 30 de Novembro de 2015.

2 Cf. Encontro com as Autoridades, Sarajevo, 6 de Junho de 2015.

3 Encontro com as famílias, Manila, 16 de Janeiro de 2015.

4 Encontro com a sociedade civil, Quito, 7 de Julho de 2015.

5 Cf. Audiência Geral, 5 de Junho de 2013.

6 Cf. Discurso ao Parlamento Europeu, Estrasburgo, 25 de Novembro de 2014.

7 Cf. Ibidem.

8 Laudato si’, 231.

9 Cf. Mensagem para o XLIX Dia Mundial da Paz, intitulada Vence a indiferença e conquista a paz, 8 de Dezembro de 2015.

[00026-PO.01] [Texto original: Italiano]

[B0016-XX.02]