PRESENTAZIONE DEL CARD. GIANFRANCO RAVASI DELL'ESORTAZIONE APOSTOLICA POST-SINODALE VERBUM DOMINI
PAROLA DIVINA E PAROLA STORICA NELLE SACRE SCRITTURE
Vladimir: «Hai mai letto la Bibbia?». Estragon: «La Bibbia?... devo averci dato un’occhiata». Le battute che si scambiano i due vagabondi protagonisti del celebre dramma di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952) esprimono un atteggiamento comune a molti: un’occhiata bisogna pur darla a questo testo così acclamato ma, come accade per i classici, poco letto. Persino per i cattolici il poeta francese Paul Claudel non esitava a dire che essi nutrono nei confronti della Bibbia un grande rispetto e questo rispetto lo dimostrano standone il più lontani possibile. In verità, bisogna riconoscere che il Concilio Vaticano II ha fatto sì che questa distanza si accorciasse nella liturgia, nella catechesi e nella stessa teologia. Sempre più, anche in ambito “laico”, si riconosce inoltre la necessità di avere tra le mani questo “grande codice” della cultura occidentale per poterne decifrare e ammirare le produzioni più alte nel campo delle arti e persino certi aspetti della nostra quotidianità, per non parlare poi dell’incidenza che la Sacra Scrittura ha avuto sull’orizzonte dell’ethos e dell’etica comune (si pensi solo al rilievo del Decalogo). A distanza di decenni dal Vaticano II, di fronte a qualche allentamento e soprattutto a un’assuefazione che poteva creare una deriva di genericità e di vago spiritualismo o, al contrario, di aridi tecnicismi da parte degli specialisti, il Sinodo dei Vescovi convocato da Benedetto XVI nell’ottobre 2008 ha dato un impulso significativo per un ritorno intenso e autentico alla Parola di Dio. I frutti di quell’assemblea espressi nella molteplicità dei suoi documenti – dai materiali preparatori fino agli interventi dei Padri sinodali, dalle discussioni per aree linguistiche al messaggio finale per il popolo di Dio, dalle relazioni ufficiali alle propositiones votate dal Sinodo – sono stati presentati al Papa che ha elaborato la relativa Esortazione post-sinodale significativa già nel suo stesso titolo Verbum Domini e nel suo genere, emanata emblematicamente nella memoria liturgica di san Girolamo, il 30 settembre 2010. Noi ora vorremmo di essa offrire un breve profilo strutturale, con una sola sottolineatura finale che sicuramente dovrà essere aperta a una vasta e approfondita analisi da parte di esegeti e teologi. Innanzitutto è necessaria una nota sul genere del testo. Non siamo di fronte a uno scarno ed essenziale appello che funga da stimolo alle comunità ecclesiali e ai fedeli; non è neppure un testo puramente dottrinale e tematico, così come non vuole ridursi al solo ambito pastorale e operativo; non opta neppure per l’elencazione di alcune tesi teoriche e di proposte pratiche in una sorta di schema destinato ad essere colmato con motivazioni, documentazioni e applicazioni successive. Siamo, invece, di fronte a un vero e proprio scritto globale, quasi simile a una “costituzione” conciliare, ove s’intrecciano teologia e pastorale e ove la riflessione è sostenuta e arricchita da un intarsio di citazioni significative, di rimandi efficaci, di motivazioni puntuali. Non usiamo il termine “trattato” perché esso trascina con sé una connotazione negativa, accademica, manualistica e fin datata, ma la sostanza espressa dall’etimologia ben s’adatta a questo testo papale: in esso il tema della Parola di Dio è “trattato”, ossia analizzato, sviluppato, approfondito in tutte le sue iridescenze. C’è anche una vera e propria linea-guida o chiave interpretativa che regge l’intera Esortazione: è il prologo del Vangelo di Giovanni (n. 5) che scandisce il trittico in cui il documento si articola, rendendo in tal modo nitida la sua trama e facendo sì che dottrina e prassi, fede e vita, Parola e “carne” storica s’intreccino armoniosamente. Si parte, così, con la Parola di Dio in sé considerata, colta nel suo rivelarsi ampio che eccede e precede la stessa Bibbia, delineata nel suo aspetto dialogico (l’ascolto, l’alleanza, la fede, l’invocazione, ma anche il peccato) ed esaltata nel suo apice che è Cristo. Si ha per questa via un ideale commento al capitale asserto giovanneo: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… e il Verbo si fece carne» (1, 1.14). Uno dei capitoli fondamentali in questa prima grande tavola del trittico è certamente quello dedicato all’ermeneutica (nn. 29-49), indispensabile proprio per il nesso inscindibile tra Logos e sarx, tra divinità e umanità, tra assoluto e contingente, tra eternità e storia propria della Rivelazione biblica, tra Parola trascendente e parole umane linguisticamente e culturalmente connotate. Molte e suggestive sono le note che vengono offerte non solo alla lettura del fedele, ma anche suggerite come guida all’esercizio teologico. Così, se da un lato, ci si preoccupa delle “pagine oscure” della Bibbia (n. 42) oppure del rischio insito nel fondamentalismo o anche dell’impegno ecumenico o di quello esistenziale, basato sul bel motto di san Gregorio sulla vita giusta come lettura vivente della Bibbia (viva lectio, vita bonorum), d’altro lato si toccano questioni rilevanti in sede teologica, come quella che – sulla scia di Dei Verbum (n. 12) – propone un’interpretazione della Scrittura che non elida uno dei suoi due volti. Non si deve, certo, cancellare la dimensione storica e letteraria che è specchio dell’Incarnazione, ma non si deve neppure ignorare il profilo trascendente della Bibbia, pena la sua riduzione «a pura storiografia, a storia della letteratura». Ermeneutica della “lettera” ed ermeneutica dello “spirito” (nn. 32-39) devono coesistere se si vuole rendere ragione della realtà vivente e unitaria della Parola di Dio in parole umane. Fede e ragione ancora una volta, pur procedendo secondo propri percorsi, non sono tra loro né repulsive né esclusive, ma coerenti e armoniche. Su questa tematica di stampo ermeneutico ci riserviamo di ritornare con una nota finale. È, questo, solo un cenno attorno a pagine che si rivelano molto ricche e varie, permettendo di raccogliere il respiro secolare di una tradizione, ma anche aprendo prospettive ulteriori e ribadendo la necessità di un’autentica preparazione del fedele perché l’approccio al testo sacro non sia unilaterale o “istintivo” o ingenuo. Per questa via si è spontaneamente condotti al secondo quadro del trittico disegnato da Benedetto XVI; dopo il Verbum Dei, la Parola di Dio in sé considerata, si ha il Verbum in Ecclesia, ossia la stessa Parola che interpella ed entra nella Chiesa per esservi accolta e diventare norma della fede e della vita. Risuona qui l’altro asserto del prologo di Giovanni: «A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (1,12). Potremmo sinteticamente affermare che in questo ingresso della Parola nel terreno ecclesiale Benedetto XVI individui due percorsi. Il primo è quello glorioso e regale della liturgia, “luogo privilegiato” in cui far risuonare e palpitare la Parola (nn. 52-71). È anche qui interessante notare come il Pontefice si muova lungo il duplice versante della riflessione teologica (solo per suggerire un esempio, si veda il paragrafo sulla “sacramentalità” della Parola, n. 56) e dell’applicazione pastorale. A quest’ultimo proposito – sempre per esemplificare – ci sembra significativo evocare l’attenzione riservata, tra l’altro, ai non vedenti e ai non udenti (n. 71), così come l’interesse per l’acustica in ambito architettonico, in modo che la Parola proclamata abbia quella “sonorità” che dal “sentire” conduce all’“ascoltare” e all’“osservare”, per usare le parole di Gesù (Luca 8,19-21; 11,27-28). Proprio da qui possiamo far diramare l’altro percorso che fa uscire la Parola dal tempio e dal culto per entrare nella piazza e nella casa, cioè nella vita ecclesiale quotidiana. La presenza della Bibbia acquista allora lineamenti diversi, coinvolgendo e interpellando i vari soggetti ecclesiali, pastori e fedeli, comunità religiose e famiglie, suscitando impegni molteplici che vanno dallo studio alla lectio divina. Quest’ultima è seguita dal documento papale con molta accuratezza fino al punto di scandirne le tappe classiche della lectio, della meditatio, dell’oratio e dell’actio, vera e propria “scala” – come diceva il certosino Guigo II – per ascendere al Signore della Parola. La comunità ecclesiale si trasforma, così, in testimone vitale e non solo in annunciatore della Parola. Scriveva Ferdinand Ebner (1882-1931) che «un commento al Vangelo non si deve scrivere ma vivere. E ci sono molti più commenti viventi al Vangelo di quanto possa sembrare a prima vista». Per certi versi questo autore austriaco, prima ateo e poi ardente credente, echeggiava le parole di un agnostico esplicito come il filosofo Nietzsche che affermava: «Se la buona novella della vostra Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, non avreste bisogno di insistere così ostinatamente perché si creda all’autorità di questo libro: le vostre azioni dovrebbero rendere quasi superflua la Bibbia perché voi stessi dovreste essere la stessa Bibbia». Siamo, così, di fronte alla terza e ultima parte della trilogia: la Parola di Dio, dopo aver vissuto la sua epifania nella Chiesa, diventa Verbum mundo, una presenza che entra nel mondo, che giudica e che salva, che inquieta e consola, e soprattutto che rivela a tutti il mistero di Dio e dell’uomo. La filigrana del prologo giovanneo ora può, certo, essere anche la severa notazione sulle tenebre che si confrontano e vanamente si oppongono alla luce, ma è in particolare il desiderio divino di rivelarsi e comunicarsi: «Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (1,18). La trama del testo papale qui si ramifica in un vero e proprio delta tematico che ha, ovviamente, il suo corso principale nella missione della Chiesa intera chiamata – come accade in Paolo, che è considerato un “esempio emblematico” – ad annunciare la Parola alle genti tutte, ai migranti, ai giovani, ai poveri, ai sofferenti, rendendo questo annuncio un seme di speranza, di giustizia, di carità, di riconciliazione, di verità. Interlocutori privilegiati sono ebrei e musulmani, anche per i vincoli di base che essi hanno con la cristianità, così come lo è il mondo della cultura. A questo riguardo, Benedetto XVI apre lo sguardo su un orizzonte vasto e variegato, intuendone le consonanze, sottolineandone le potenzialità, ribadendone la necessità, delineandone anche le modalità (si pensi solo alla questione complessa e delicata dell’inculturazione o a quella del far correre la Parola divina lungo le nuove traiettorie della comunicazione, come Internet). Ed è considerevole che uno degli ultimi appelli (n.108) sia riservato alla “custodia del creato”, al cui interno si distendono le tracce di una Rivelazione “cosmica” a tutti aperta, come ammoniva già il Salmista nel suo canto dei cieli e del sole (Salmo 19) e come è suggerito da un passo della meditazione tenuta dal patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I ai Padri sinodali raccolti nella Cappella Sistina. «Il mondo intero – affermava – è un prologo di san Giovanni… Per questo ogni autentica ecologia profonda è indissolubilmente legata a una teologia profonda».
A questo punto, quasi in appendice, ma non certo perché il tema sia secondario, riserviamo una sottolineatura al profilo dell’esegeta così come è delineato in questo documento, a partire dal riconoscimento esplicito dovuto al fatto che «dal fecondo rapporto tra esegesi e teologia dipende gran parte dell’efficacia pastorale della Chiesa e della vita spirituale dei fedeli» (n. 31). Questo nesso è modulato sulla base di un’analogia cristologica. Come già si diceva, da un lato, la stessa natura storica della Rivelazione biblica, d’altro lato l’Incarnazione esigono un’analisi storico-critica dei testi sacri che si presentano appunto come la Parola trascendente espressa però in parole umane. Come la storia della salvezza non è né mitologia né astrazione teoretica «ma una vera storia, la Bibbia è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica» (n. 92). È quell’amore per la “lettera” che è stata alla base di una ricerca secolare, divenuta fondamento anche della cultura europea. Lo stesso magistero ecclesiale, soprattutto con l’enciclica Divino Afflante Spiritu, ha ribadito questa esigenza (n. 33). Al riguardo, Benedetto XVI riprende un passaggio del suo Discorso agli uomini di cultura al “Collège des Bernardins” del 2008 in cui si marcava la necessità per la comprensione della Parola biblica di «imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua». A questo punto, però, rimandando al noto documento della Pontificia Commissione Biblica sull’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), si riprende nuovamente l’analogia dell’Incarnazione applicandola alla stessa Sacra Scrittura e alla sua natura “teandrica”: «Nel loro lavoro di interpretazione, gli esegeti cattolici non devono mai dimenticare che ciò che interpretano è la parola di Dio. Il loro compito non finisce una volta che hanno distinto le fonti, definito le forme o spiegato i procedimenti letterari. Lo scopo del loro lavoro è raggiunto solo quando hanno chiarito il significato del testo biblico come Parola attuale di Dio» (n. 33). A questo proposito, la Verbum Domini offre un duplice paragrafo (il 34 e il 35) di grande rilievo metodologico che invitiamo ad approfondire direttamente. Esso si muove sempre sul doppio binario appena evocato – che successivamente nel documento papale è illustrato anche sulla base della storia dell’ermeneutica nella quale s’incrociavano “senso letterale e senso spirituale» (n. 37) e sul riferimento più moderno all’interazione tra fede e ragione (n. 36) – ma l’attenzione di Benedetto XVI punta maggiormente sul versante più in crisi nell’attuale investigazione esegetica, cioè su quello teologico. Il pendolo ermeneutico, nella vicenda dei secoli, ha registrato spesso differenti oscillazioni: in passato prevaleva, infatti, l’incidenza della dimensione teologica della Parola a scapito di quella storico-letteraria. Attingendo alla Dei Verbum (n. 12), il Papa indica tre criteri di base per questa lettura teologica corretta della Scrittura: «interpretare il testo considerando l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; tenere presente la Tradizione viva di tutta la Chiesa; e, infine, osservare l’analogia della fede. Solo dove i due livelli metodologici, quello storico- critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica – di una esegesi adeguata a questo Libro» (n. 34). Ritrovare questa “simbolicità”, cioè la compattezza tra i due itinerari, non significa cancellare i rispettivi statuti epistemologici, per altro codificati attraverso secoli di ricerca, né arbitrariamente confonderli, bensì operare un’integrazione di risultati che obbedisce alla complessità del testo biblico. Esso si autopone contemporaneamente come scritto “informativo”, documentario, storico-letterario, ma anche come opera “performativa” che contiene in sé un appello che proviene dal trascendente e chiama al trascendente. L’Esortazione apostolica continua, poi, rigettando la tentazione di un dualismo simile a quello che si è consumato nell’analogia cristologica a cui abbiamo rimandato: «distinguendo i due livelli dell’approccio biblico non si intende affatto separarli, né contrapporli, né meramente giustapporli. Essi si danno solo in reciprocità. Purtroppo, non di rado un’improduttiva separazione tra essi ingenera un’estraneità tra esegesi e teologia» (n. 35).
Attraverso questa operazione di discrasia si creano corollari significativi dai risvolti rischiosi soprattutto per la comprensione compiuta e completa della Scrittura che, se analizzata esclusivamente col microscopio storico-critico o quello degli altri approcci più recenti (lo ripetiamo, sempre necessari, pena la caduta in una sorta di gnosticismo biblico, come è accaduto per la cristologia sia pure nel senso opposto), si riduce a un mero documento del passato, attestazione di una vicenda storica interessante, ma superata e datata, a testo letterario classico, da allocare solo nella storia della letteratura o nella storiografia, e così via. A livello teorico più generale si negherebbe, inoltre, la struttura piena dell’essere e dell’esistere che non è riducibile a mero fenomenismo positistico, a meno di ricorrere a una semplificata concezione secolaristica che riconosce come validi e fondati solo gli asserti di stampo fisico o storiografico e nega ogni dimensione trascendente della realtà e, quindi, esclude la presenza del divino nella storia e nel creato. Infine, la natura stessa della Verbum Domini esige che si denuncino con vigore anche gli esiti teologici, pastorali e spirituali negativi di tale contrapposizione, a partire dalla nascita di un inevitabile «pesante dualismo tra l’esegesi, che si attesta unicamente sul primo livello, e la teologia, che si apre alla deriva di una spiritualizzazione del senso delle Scritture non rispettosa del carattere storico della Rivelazione» (n. 35). Le ridondanze di tale impostazione dissociata si riverberano poi nella vita spirituale, nell’attività pastorale e nello stesso itinerario formativo dei presbiteri e dei fedeli. Per questo, l’appello di Benedetto XVI al ritorno a una più coerente “concordia” tra ricerca strettamente esegetica e investigazione teologica – entrambe partecipi dell’unico mistero della Parola e, quindi, entrambe dotate di qualità “teologica”, pur nella diversità degli statuti – acquista un calore e un’intensità particolari. Concludiamo questo nostro breve ed essenziale profilo della Verbum Domini, ricordando che la prima e ultima parola che suggella questa Esortazione apostolica, messa ormai in mano a tutte le Chiese perché la meditino e la considerino come una guida per il loro itinerario di fede e di vita alla luce della Parola, è “gioia” (nn. 2 e 123), sulla scia ancora una volta del Vangelo di Giovanni quando Cristo, nell’ultima sera della sua vita terrena, auspica che «la vostra gioia sia piena» (16,24). Per ottenere questa “beatitudine” che Maria, la madre di Cristo, ha sperimentato, è necessaria la purezza della fede: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento della Parola del Signore» (Luca, 1, 45). Ed è necessario anche lasciare spazio al silenzio dell’ascolto, come suggeriva Dietrich Bonhoeffer, testimone di fede e di amore per la Parola fino alla meta estrema del martirio: «Facciamo silenzio prima di ascoltare la Parola perché i nostri pensieri siano già rivolti alla Parola. Facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi. Facciamo silenzio alla mattina presto perché Dio deve avere la prima parola. Facciamo silenzio prima di coricarci perché l’ultima parola appartiene a Dio. Facciamo silenzio solo per amore della Parola».
GIANFRANCO RAVASI
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