RELAZIONE PRIMA DELLA DISCUSSIONE DEL RELATORE GENERALE
Mentre veniva intonato il Te Deum e nell’intera Aula del Sinodo risuonava questo inno di rendimento di grazie, a mezzogiorno del 7 maggio 1994, si concludeva formalmente la I Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi. Il Sinodo aveva avuto come tema: “La Chiesa in Africa e la sua Missione evangelizzatrice verso l’anno 2000: ‘Sarete miei testimoni’ (At 1, 8)”. Esso rivolse un messaggio alla Chiesa e al mondo che rispecchiava gli slanci principali del processo sinodale e votò diverse risoluzioni in forma di Proposizioni. A partire da qui i Padri sinodali e l’intera Chiesa attesero intensamente l’Esortazione Apostolica Post-sinodale del Santo Padre, come Presidente del Sinodo, che avrebbe raccolto i frutti del Sinodo in un messaggio che avrebbe contrassegnato la conclusione definitiva dell’esercizio collegiale e consultivo del Sinodo. Cosa che il Santo Padre ha fatto emanando l’Esortazione Post-sinodale Ecclesia in Africa (La Chiesa in Africa) e presentandola all’Africa e al mondo a Yaoundé in Camerun, il 14 settembre 1995, poi a Johannesburg, in Sudafrica, il 17 settembre 1995, e infine a Nairobi, in Kenya, il 19 settembre 1995 [1].
Dalla I Assemblea Speciale per l’Africa Papa Giovanni Paolo II descriveva il Sinodo da lui concluso con la promulgazione dell’Esortazione Post-sinodale Ecclesia in Africa come un “Sinodo di risurrezione e di speranza” [2]. Da quella Assemblea sinodale, convocata sullo sfondo di una visione del mondo prevalentemente pessimistica dell’Africa, di una situazione del continente di particolare sfida e “tragicamente sfavorevole” [3] per la missione evangelizzatrice della Chiesa negli ultimi anni del ventesimo secolo, si attendeva tuttavia che segnasse una svolta nella storia del continente [4]. Quando il Santo Padre e i Padri sinodali si incontrarono per quel primo Sinodo, dovettero considerare “gli elementi sia positivi che negativi (le luci e le ombre) nei ‘segni dei tempi’” [5]. Dovettero contemplare e celebrare i successi dell’evangelizzazione e la crescita delle Chiese locali nel continente, ma anche lamentare e deplorare una serie di miserie e di mali nel continente. Dovettero onorare l’eroismo e lo spirito pionieristico dei missionari, ma anche criticare la mancanza di impegno e di zelo pastorale del personale ecclesiastico, l’emergere di tendenze sincretistiche, la proliferazione delle sette, la politicizzazione dell’islam e la sua intolleranza alle critiche. Dovettero accogliere con ottimismo l’emergere di democrazie e il risveglio di una profonda consapevolezza culturale, sociale, economica e politica nel continente, ma dovettero anche lamentare regimi dispotici e dittatoriali, malgoverno, corruzione diffusa e un’allarmante aumento della povertà. La situazione del continente era fortemente ambivalente quanto paradossale e la rapida successione degli eventi come la fine dell’apartheid e il triste inizio del genocidio ruandese ben rappresentavano questo paradosso. Tenendo conto di questa situazione paradossale in cui il male e la sofferenza sembravano prevalere sul bene e sulla virtù, il clima pasquale della I Assemblea Speciale per l’Africa ispirò un messaggio di speranza per il continente. Con la pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Post-sinodale Ecclesia in Africa, la Chiesa in Africa ebbe nuovo impulso e nuovo slancio per la sua vita e attività nel continente come Chiesa missionaria, ossia Chiesa con una missione. Infatti, il Sinodo nel suo clima pasquale e l’Esortazione Apostolica Post-sinodale diedero alla Chiesa in Africa un nuovo impulso che possiamo così descrivere: - speranza nel Cristo Risorto, come nuovo impeto per vivere il suo “programma” e la sua missione evangelizzatrice; - un nuovo paradigma: la Chiesa come famiglia di Dio, per offrire una prospettiva, un sistema di valori per vivere il suo “programma”, ma specialmente per sottolineare l’unità e la comunione di tutti nonostante le differenze; - un insieme di priorità pastorali: evangelizzazione come Proclamazione, evangelizzazione come Inculturazione, evangelizzazione come Dialogo, evangelizzazione come Giustizia e Pace ed evangelizzazione come Comunicazione per orientare l’attuazione del proprio “programma” e della propria missione in un’Africa con un paradossale accostamento di deplorevoli miserie umane e di straordinari eroismi al di fuori e all’interno della Chiesa [6]. Perciò il periodo successivo alla pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Post-sinodale ha rappresentato, come riteneva anche Papa Giovanni Paolo II [7], il tempo dell’approfondimento di questa esperienza sinodale e di applicazione della Ecclesia in Africa, nello sforzo perseverante e concertato di ristabilire un rinnovato vigore e una speranza più concreta in un continente in difficoltà. Questo periodo post-sinodale ha raggiunto il suo quattordicesimo anno; e, mentre la situazione del continente, delle sue isole e della Chiesa presenta ancora alcune delle “luci e ombre” [8] che motivarono il primo Sinodo, essa è anche notevolmente cambiata. Tale nuova realtà richiede un appropriato esame in vista di un rinnovato sforzo di evangelizzazione che esige un approfondimento di alcuni temi specifici importanti per il presente e il futuro della Chiesa cattolica nel grande continente africano [9]. Di conseguenza, riuniti nuovamente in una II Assemblea Speciale per l’Africa quindici anni dopo la prima, dobbiamo radicarci in profondità nel primo Sinodo [10], consapevoli e desiderosi di esplorare in primo luogo i “nuovi dati ecclesiali e sociali del continente” [11], che attualmente influiscono sulla missione della Chiesa nel continente ed esigono che la Chiesa in Africa, oltre a considerarsi come “testimone di Cristo” e “famiglia di Dio”, si consideri anche “sale della terra, luce del mondo” e “a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”.
a. Subsidia Fidei: è importante notare che lo slancio e l’impulso che la I Assemblea Speciale per l’Africa ha dato alla Chiesa di questo continente per rinnovarsi, fortificarsi e radicare più saldamente la propria speranza nel Signore, è stato considerevolmente favorito da alcuni eventi ecclesiali successivi e da attività del Papa e della Curia Romana, che potremmo definire come “subsidia fidei” per la Chiesa. Così, il “Sinodo sull’Eucaristia” ha affermato la centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa-Famiglia di Dio quale simbolo di unità. Il “Sinodo sul Vescovo: Servitore del Vangelo...” ha ricordato a Vescovi e Pastori il loro ministero essenziale, quali annunciatori del Vangelo in seno alla Chiesa-Famiglia di Dio; e il “Sinodo sulla Parola di Dio” ha ricordato alla Famiglia di Dio il seme eterno e imperituro della sua nascita. Inoltre le Encicliche del Papa “Deus caritas est”, “Spe salvi”, “Caritas in veritate”, le sue omelie e i suoi discorsi nel corso della recente visita apostolica in Africa (Camerun e Angola) hanno offerto catechesi di inestimabile valore alla Chiesa in Africa. Infine i dicasteri della Curia Romana hanno tenuto seminari su: - “La Liturgia” (Kumasi 2007) allo scopo di offrire una guida per una permanente opera di inculturazione nella liturgia. - La “Dottrina Sociale della Chiesa” (Dar-es-Salaam 2008) per promuovere la conoscenza e la diffusione degli insegnamenti sociali della Chiesa. - “La Migrazione” (Nairobi 2008) per parlare della migrazione e delle nuove forme di schiavitù. - I “Lavori delle Commissioni Teologiche delle Conferenze episcopali” (Dar-es-Salaam 2009) per ricordare ai Vescovi l’importanza del loro compito magisteriale in seno alla Chiesa, anche se si avvalgono di esperti. Tali incontri hanno accresciuto la consapevolezza della Chiesa in Africa riguardo alla propria vita e al proprio ministero. b. La crescita eccezionale della Chiesa in Africa: negli ultimi decenni (compresi gli anni successivi alla I Assemblea Speciale per l’Africa) è diventato abituale parlare di una eccezionale crescita della Chiesa in Africa e gli indicatori, come sottolineano i Lineamenta e l’Instrumentum laboris, sono diversi. Tuttavia, fra questi segnali di crescita della Chiesa del continente e delle isole, le vere novità sono: - L’ascesa di membri africani di congregazioni missionarie a posizioni e ruoli di guida: membri di consigli, vicari generali e perfino superiori generali. - Ricerca dell’autosufficienza da parte delle Chiese locali, impegnandosi in operazioni economiche in grado di generare profitti (banche, società finanziarie, compagnie di assicurazioni, agenzie immobiliari e negozi). - Un incremento visibile delle strutture e istituzioni ecclesiali (seminari, università ed istituti cattolici di istruzione superiore, centri di formazione permanente per i religiosi, i catechisti e i laici, scuole di evangelizzazione) come pure un aumento di esperti e manager per il lavoro di ricerca nel campo della fede, della missione, della cultura e dell’inculturazione, della storia, dell’evangelizzazione e della catechesi. Tuttavia la Chiesa in Africa affronta anche terribili sfide: - Quando si parla di una Chiesa prospera in Africa si dimentica il fatto che in vaste aree a nord dell’equatore, essa a malapena esiste. La crescita straordinaria della Chiesa si è verificata soprattutto a sud del Sahara. - La fedeltà e l’impegno di alcuni sacerdoti e religiosi alla loro vocazione.- La necessità di evangelizzare (o ri-evangelizzare) per una conversione profonda e permanente. - La perdita di membri che sono passati a nuovi movimenti religiosi o alle sette. I giovani cattolici vanno all’estero (in Europa e America) e tornano non cattolici, perché nelle Chiese di quei Paesi non si sono trovati a loro agio. - Il calo degli indici di incremento della popolazione nell’Europa tradizionalmente cristiana e in America. c. Il Sinodo per l’Africa e il “Simposio delle Conferenze Episcopali dell’Africa e del Madagascar” (SCEAM): l’approfondimento dell’esperienza sinodale africana nel continente e nelle isole è dipeso in larga misura da un organismo specifico della Chiesa continentale, il “SCEAM”. Durante il Concilio Vaticano II i Vescovi africani, alla ricerca di mezzi idonei di cooperazione, diedero vita ad un segretariato che coordinasse i loro interventi e presentasse al Concilio un punto di vista comune (africano). Dopo il Concilio e alla presenza di Papa Paolo VI a Kampala (1969), i Vescovi africani decisero di rendere permanente questo organismo di cooperazione del Concilio con la creazione del SCEAM. Allora il SCEAM era un auspicabile organismo o istituzione permanente per promuovere l’esercizio di una solidarietà pastorale organica nel continente da parte dei suoi Pastori. Doveva essere uno strumento dei vescovi per promuovere nel continente l’“Evangelizzazione nella corresponsabilità” [12]; ed è stato a questo organismo che Papa Giovanni Paolo II ha attribuito l’idea originaria di un Sinodo per l’Africa [13]. Nel corso della II Assemblea Speciale per l’Africa non sarebbe fuori luogo se i Pastori del continente riesaminassero la necessità dell’esistenza del SCEAM e il loro impegno nei suoi confronti. Nel trattare “alcuni punti critici della vita delle società africane” [14], l’Instrumentum laboris ha individuato e discusso molti di questi nuovi dati sociali. Vogliamo aggiungere poche note a piè di pagina che potrebbero essere importanti e lasciare all’assemblea sinodale il compito di completare il quadro. La schiavitù e lo schiavismo, che il mondo arabo portò per primo sulla costa dell’Africa orientale e che gli europei , in collaborazione con gli stessi africani, nel XIV secolo incrementarono ed estesero a tutto il continente, hanno portato a un flusso migratorio forzato di africani. Oggi le migrazioni volontarie, dettate da vari motivi, dei figli e delle figlie dell’Africa verso l’Europa, l’America e l’Estremo Oriente, li pongono in una condizione di occupazione servile che esige la nostra attenzione e la nostra cura pastorale. e. Nota socio-politica all’Instrumentum laboris: strettamente legate agli sviluppi post-coloniali del continente sono state le celebrazioni di indipendenza e l’emergere di stati e nazioni africane con governi gestiti da soli africani. L’esercizio del potere politico e del governo è stato generalmente criticato e spesso viziato da dispotismi, dittature, politicizzazione della religione o dell’etnia, disprezzo per i diritti dei cittadini, mancanza di trasparenza e di libertà di stampa, ecc. I leader politici africani sembrano determinati a cambiare il volto dell’amministrazione politica nel continente; e hanno condotto un’auto-valutazione critica che ha identificato nel malgoverno le cause della povertà e delle sofferenze dell’Africa. Hanno quindi tracciato un cammino del buon governo e della formazione della classe politica, in grado di cogliere la parte migliore delle tradizioni ancestrali africane e di integrarla con i principi di governo delle moderne società. Hanno adottato un quadro strategico (NEPAD) per orientare le azioni e guidare il rinnovamento dell’Africa attraverso delle leadership politiche trasparenti [16]. Può, la Chiesa in Africa, riconoscere l’impegno politico dei suoi figli e delle sue figlie e dare loro lo stimolo del messaggio evangelico, che li sfidi ad essere la “luce delle (loro) nazioni” e il “sale delle loro comunità”, offrendo una “leadership a servizio degli altri”? f. Nota socio-economica all’Instrumentum laboris: il rapporto radicale tra governo ed economia è chiaro; dimostra che un cattivo governo produce una cattiva economia. Ciò spiega il paradosso della povertà di un continente che è senz’altro uno dei più ricchi del mondo di potenzialità. La conseguenza di questa “equazione governo-economia” è che quasi nessun paese africano può rispettare i propri obblighi di bilancio, vale a dire i programmi finanziari nazionali pianificati, senza ricorrere ad aiuti esterni in forma di obbligazioni o prestiti. Questo continuo finanziamento dei bilanci nazionali facendo ricorso a prestiti non fa altro che accrescere un già opprimente debito nazionale. La Chiesa universale con quell’Africana hanno messo a punto una campagna per cancellarlo nell’anno del Grande Giubileo. I rapporti economici tradizionali degli stati africani con i paesi ex-colonizzatori, per esempio il “Commonwealth”, sono stati sostituiti da altre potenti alleanze economiche tra gli stati africani individualmente o in blocco con gli Stati Uniti (Millennium Challenge Account), la Comunità Economica Europea (Lomé Culture, Yaoundé Agreement e il Cotonou Agreement) [17] e il Giappone (TICAD I-III). Recentemente la Cina e l’India, assetate di risorse naturali, si sono affacciate sulla scena manifestando interesse per ogni possibile aspetto delle economie nazionali africane. Al centro della maggior parte di questi protocolli e accordi c’è la discussione sul “commercio e sostegno”, vedendo che i paesi che si sono sviluppati, lo hanno fatto attraverso il commercio (non solo in “materie prime”), e non in conseguenza di una “sindrome di dipendenza dagli aiuti”. Rappresentano quindi un motivo di grande interesse per le giovani economie commerciali africane le decisioni e le condizioni imposte dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e dal mondo sviluppato. Come già detto sopra, i leader africani hanno recentemente dato vita a una struttura strategica (NEPAD) [18] che guidi gli accordi economici dell’Africa, il superamento della povertà e il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals). Come afferma il Dr. Uschi Eid, “Soltanto gli stimoli e gli sforzi che nascono dall’Africa porteranno al successo” [19]. In un certo senso l’uscita dell’Africa dalla sua agonia economica deve essere opera degli africani e guidata da loro stessi [20]. Per questo i cuori devono essere convertiti e gli occhi aperti per trovare nuovi modi di amministrare la ricchezza pubblica per il bene comune; e ciò spetta alla missione evangelizzatrice della Chiesa nel continente e nelle isole. g. Note sociali all’Instrumentum laboris: gli effetti delle suddette situazioni (storiche, politiche, economiche) determinano lo stato di salute della società africana (stabile, pacifica, prospera); costituiscono inoltre le sfide di fondo per la missione evangelizzatrice della Chiesa nel continente e nelle isole. Esistono inoltre fenomeni globali e iniziative internazionali, di cui occorre valutare l’impatto sulla società africana e su alcune delle sue strutture, che pongono nuove sfide anche alla Chiesa. Mentre l’importanza che viene data sempre di più al posto e al ruolo delle donne nella società è un felice progresso, l’emergere nel mondo di stili di vita, valori, atteggiamenti, associazioni, ecc., che destabilizzano la società, sono motivo di inquietudine. Essi minano le basi stesse della società (matrimonio e famiglia), ne riducono il capitale umano (migrazioni, spaccio di droga, traffico d’armi) e minacciano la vita del pianeta. Il matrimonio e la famiglia sono sottoposti a pressioni diverse e terribili perché venga ridefinita la loro natura e funzione nella società moderna. I matrimoni tradizionali, che portavano alla creazione di famiglie, sono minacciati da una crescente proposta di unioni e rapporti alternativi, privati del concetto di impegno duraturo, di natura non eterosessuale e senza il fine della procreazione. In alcune parti del continente questi hanno già i loro paladini all’interno della Chiesa. Questo attacco al matrimonio e alla famiglia è portato avanti e sostenuto da gruppi che producono un glossario teso a sostituire i concetti e i termini tradizionali riguardanti il matrimonio e la famiglia con nuove espressioni. Lo scopo è quello di stabilire una nuova etica globale sul matrimonio, la famiglia, la sessualità umana e le istanze correlate dell’aborto, della contraccezione, di aspetti dell’ingegneria genetica, ecc. Spaccio di droga e traffico di armi: alcune parti del continente sono diventate le vie della droga dall’America Latina all’Europa. Per quanto riguarda l’Africa occidentale, il traffico di droga viene indicato come causa principale dell’instabilità e del disordine politico in Guinea Bissau e ora anche in Guinea. Quando all’inizio di luglio l’esercito della Guinea ha dichiarato il massimo stato di allerta, lo ha fatto in seguito a minacce di invasione sostenute dai cartelli della droga. I mercanti di guerra e i criminali di guerra vengono sempre di più denunciati, processati e perseguiti. Un ufficiale della Repubblica Democratica del Congo è stato processato: Charles Taylor della Liberia sta affrontando la corte internazionale. La verità è che l’Africa è stata accusata per troppo tempo dai media di tutto ciò che viene aborrito dall’umanità; è tempo di “cambiare marcia”e di dire la verità sull’Africa con amore, promuovendo lo sviluppo del continente che porterà al benessere di tutto il mondo [21]. I paesi del G-8 e i paesi del mondo devono amare l’Africa nella verità! [22]. Generalmente considerata alla decima posizione nella graduatoria dell’economia mondiale, l’Africa rappresenta tuttavia il secondo mercato mondiale emergente dopo la Cina. Per questo motivo, come l’ha definita il summit del G-8 da poco concluso, è il continente delle opportunità. E ciò dovrebbe valere anche per le popolazioni del continente. Si spera che la ricerca della riconciliazione, la giustizia e la pace, che è eminentemente cristiana per il fatto di essere radicata nell’amore e nella misericordia, ristabilisca l’unità della Chiesa-Famiglia di Dio nel continente e che quest’ultima, in quanto sale della terra e luce del mondo, guarisca “il cuore ferito dell’uomo, in cui si annida la causa di tutto ciò che destabilizza il continente africano” [23]. In tal modo il continente e le sue isole comprenderanno le opportunità e i doni dati loro da Dio.
Dall’essere “Famiglia di Dio (evangelizzatori) Come precedentemente osservato, quando la I Assemblea speciale per l’Africa si riunì per riflettere sull’evangelizzazione nel continente e nelle isole alle soglie del terzo millennio della fede cristiana, adottò la Chiesa-Famiglia di Dio come il principio guida dell’evangelizzazione in Africa [24]. L’immagine della Chiesa-Famiglia di Dio evocava valori come sollecitudine verso gli altri, solidarietà, dialogo, fiducia, accoglienza e calore nei rapporti. Evocava tuttavia anche le realtà socioculturali di genitorialità, procreazione e filiazione, affinità e fraternità, come pure una rete di rapporti che derivavano da queste realtà sociali e in cui i membri si riconoscevano. I rapporti costituiscono la vita di comunione della famiglia, ma richiedono ai membri un impegno, il cui compimento rappresenta allo stesso tempo la loro giustizia e rende le relazioni armoniose e pacifiche. Tuttavia, quando tali esigenze del rapporto non vengono rispettate, la giustizia viene violata e la vita di comunione risulta offesa, danneggiata, menomata. L’Instrumentum laboris ne tiene conto e mette in rilievo le numerose sfide alla comunione e all’ordine sociale che il disprezzo per le giuste esigenze di relazione pone al continente. In questi casi la riconciliazione rappresenta il ristabilimento della comunione e del giusto ordine; ed essa prende la forma di restaurazione della giustizia che sola ristabilisce pace ed armonia nella Chiesa-Famiglia di Dio e nella famiglia della società. Quanto segue si propone di contribuire alla discussione del tema sinodale, fornendo brevi riferimenti biblici ai termini del tema allo scopo di radicare le istanze dei termini e la loro interazione nei rapporti umani (nella società umana) prima e, soprattutto, nel rapporto di Dio con l’uomo (umanità).
Nelle Scritture. La riconciliazione è una iniziativa divina, un moto libero e gratuito di Dio nei confronti dell’umanità; e il suo scopo è quello di sanare e di ristabilire la comunione sancita dall’alleanza, che viene minacciata e infranta dal peccato. L’insegnamento di San Paolo ai Corinzi sull’argomento è illuminante: “Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5, 17-20). La Riconciliazione quindi è un atto divino di cui noi (umanità) facciamo esperienza e in questa esperienza diventiamo suoi strumenti e ambasciatori.
I Vangeli hanno presentato la vita e il ministero di Gesù come l’opera di salvezza del Padre per l’umanità. I discepoli di Gesù sono stati i primi a essere chiamati a sperimentare l’offerta di salvezza del Padre in Gesù e l’hanno fatto in vari modi, anche attraverso il perdono e la riconciliazione. Il saluto di “pace” di Gesù ai discepoli la mattina della Resurrezione (cf. Gv 20, 19-21), per esempio, rappresentava il perdono del loro tradimento e del loro abbandono di Gesù, e allo stesso tempo il ristabilimento dell’amicizia. Gesù non ha preteso un’ammissione di colpa da parte dei discepoli. Non c’è stata alcuna richiesta di perdono e non sono state porte scuse. C’era solo una luce benevola che brillava su tutte le loro mancanze. Sono stati offerti un perdono gratuito e un riconciliante augurio di pace. L’esperienza di Riconciliazione di Paolo Più tardi Paolo prosegue l’opera dei discepoli-apostoli di Gesù come predicatore dello stesso dono di salvezza in Gesù. Tuttavia, avendo ricevuto l’incarico di annunciare Gesù nelle particolari circostanze del suo incontro con il Signore risorto sulla via di Damasco, anche Paolo comprende che l’offerta di salvezza in Gesù da parte del Padre è l’atto di riconciliazione del Padre [25]. Infatti, come egli stesso ammette: “Io che per l'innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù” (1 Tm 1, 13-14). Per Paolo, quindi, l’esperienza della salvezza ha rappresentato anche un passaggio dall’ostilità e l’inimicizia verso Cristo e la sua Chiesa alla fede in Cristo e alla fratellanza con la sua Chiesa. Questo passaggio dall’inimicizia alla fratellanza costituisce la riconciliazione ed è un’esperienza immeritata che solo Dio può suscitare in una persona. In questo, Paolo ha considerato se stesso un esempio per coloro che avrebbero creduto in Cristo (cf. 1 Tm 1, 16). Riconciliazione con Dio (verticale) e tra gli Esseri Umani (orizzontale) In Gesù: nella sua vita e nel suo ministero ma in particolare nella sua morte e risurrezione, Paolo ha visto Dio Padre riconciliare il mondo (tutte le cose in cielo e sulla terra) a sé, cancellando i peccati dell’umanità (cf. 2 Cor 5, 19; Rm 5, 10, Col 1, 21-22). Paolo ha visto Dio Padre riconciliare giudei e gentili a sé in un solo corpo attraverso la croce (cf. Ef 2, 16). Ma Paolo ha anche visto Dio riconciliare giudei e gentili creando, dei due, un solo uomo nuovo (cf. Ef 2, 15; 3, 6). In tal modo l’esperienza della riconciliazione stabilisce la comunione su due livelli: comunione tra Dio e umanità e, poiché l’esperienza della riconciliazione rende noi (umanità riconciliata) anche “ambasciatori della riconciliazione”, essa ristabilisce pure la comunione tra gli uomini. Riconciliazione tra Dio e Umanità La creazione dell’umanità a immagine e somiglianza di Dio, la scelta di Israele come “parte e eredità di Dio”, la redenzione dell’umanità in Cristo e il sigillo dello Spirito Santo (cf. Ef 1, 13; 4, 30) conducono l’umanità alla comunione con Dio. Quando l’umanità è alienata e lontana da Dio a causa del peccato (disobbedienza, idolatria, rifiuto di Gesù), la riconciliazione si concretizza nel perdono; e questa è l’opera di Dio [26]. La Riconciliazione in seno alla Famiglia Umana Ricordando brevemente la storia di Gesù e Zaccheo (cf. Lc 19), si comprende che l’incontro tra Gesù e Zaccheo non ha portato soltanto a una conversione che ha stabilito la comunione tra Zaccheo e il Signore. Questo incontro ha portato anche a una conversione che ha ristabilito il rapporto di Zaccheo con la sua gente. In questa nuova relazione è cambiata anche la sua visione della sua gente: erano fratelli che non dovevano essere sfruttati o defraudati. - il colpevole ammette l’errore e chiede perdono, riconoscendo così che l’offeso è nel giusto (virtuoso) [28]; - il colpevole nega l’errore e si dà avvio a una mediazione per stabilire chi è nel giusto; - l’offeso perdona unilateralmente e fa cessare le ostilità, stabilendo la pace e la riconciliazione. In tutti questi casi tuttavia la riconciliazione, come passaggio dall’inimicizia alla pace, dall’alienazione alla comunione, non è un sacrificio dei diritti e non si sostituisce alla giustizia. Piuttosto, il ripristino della giustizia è il suo frutto. In sostanza la riconciliazione dell’umanità ancora alienata può assumere la forma di ebrei e gentili che si riuniscono come eredi del regno (cf. Ef 2, 13-15). Può prendere la forma di membri di una comunità di culto che armonizzano le proprie differenze e sono in pace gli uni con gli altri (cf. Mt 5, 23-26; 1 Cor 3, 3); può prendere anche la forma di membri di una comunità che si perdonano reciprocamente le offese (cf. Mt 18, 15; Lc 17, 3-4) e che non nutrono rabbia e rancori (cf. Ef 4, 26). Attraverso il perdono, i membri della famiglia umana costruiscono una comunità di riconciliati (cf. Ef 2, 16-19), il cui perdono reciproco riflette quello del Padre nei cieli (cf. Mt 6, 12, Lc 11, 4), il quale ha dato avvio alla nostra riconciliazione con il suo amore e la sua misericordia.
Esiste una spiritualità di riconciliazione nell’Instrumentum laboris che può ispirare la discussione e che deve diventare la disposizione del servitore della riconciliazione. Infatti, in una Chiesa che è una famiglia in comunione, la riconciliazione non diventa uno status o un’azione, bensì un processo dinamico, un compito da intraprendere ogni giorno, un obiettivo da raggiungere, un tentativo continuo di ricomporre con l’amore e la misericordia, amicizie interrotte, legami fraterni, speranza e fiducia [29].
Il frutto della riconciliazione tra Dio e gli uomini e all’interno della famiglia umana (tra uomo e uomo), come osservato precedentemente, è il ristabilimento della giustizia e delle giuste esigenze dei rapporti. È allo stesso tempo etico e religioso e scaturisce dall’amore e dalla misericordia.
False forme di giustizia Il concetto di giustizia si è secolarizzato per significare: - solamente la legge del più forte; - un compromesso sociale per evitare mali peggiori; e - la virtù dell’imparzialità nell’applicazione generale della legge, senza alcun riguardo per la giustizia naturale [30]. L’affermarsi dello “spirito del capitalismo” è andato ad aggiungersi all’alienazione del concetto di giustizia da ogni radice trascendentale [31]. L’etica dell’economia, per esempio, era razionalista e individualista. Suo scopo principale era il profitto e non teneva conto delle esigenze della solidarietà, dell’ “ordo amoris” e di tutti i vincoli religiosi ed etici. Di conseguenza, l’intera nozione di giustizia sociale è stata eliminata e la giustizia applicata a stesure di contratti negoziati conformemente alla legge della domanda e dell’offerta, senza restrizioni per le imprese individuali. Lo stato ha solo applicato l’ordine pubblico e il rispetto dei contratti rimanendo rigorosamente neutrale riguardo al loro contenuto [32]. Invece la giustizia della diakonia cristiana rappresenta il giusto ordine delle cose e il rispetto delle giuste esigenze dei rapporti. È la giustizia e la rettitudine di Dio e del suo regno (cf. Mt 6, 33).
La rettitudine, o la giustizia del regno, non è una giustizia retributiva, sebbene questo sia talvolta il senso della sua attribuzione a Dio (cf. Ap 15, 4; 19, 2, 11; 16, 5-6; Eb 6, 10; 2 Ts 1, 6). Non ha neanche il significato di “conformità a una norma o a un insieme di norme”. Almeno, non è questo il suo principale significato e in questo senso non può mai essere applicato a Dio. Fondamentalmente, tre eventi spiegano tutte le relazioni che esistono tra Dio e gli uomini e tra uomo e uomo; essi sono: - la creazione dell’umanità “a sua immagine e somiglianza” (Gn 1, 26-27) che fa degli esseri umani creature di Dio. Lo stesso atto della creazione tuttavia postula per l’umanità un’origine e una paternità comuni che lega profondamente tutti i membri della famiglia umana l’uno all’altro, come fratelli e sorelle [35]; - l’alleanza-elezione di Dio nei confronti di Israele che fa di Israele “il primogenito di Dio”, “la sua eredità”, “la sua porzione”. Essa rende inoltre anche i figli di Israele “fratelli” (cf. Dt 15, 11-12); - la nuova alleanza nel sangue di Cristo, per cui tutti i seguaci di Cristo portano il “sigillo dello Spirito Santo” (Ef 1, 13-14) che li rende “templi dello Spirito Santo” e “dimora di Dio”. Queste sono le basi dei rapporti tra Dio e gli uomini nei diversi momenti della storia. E sono iniziative di Dio e atti del suo amore. In tal senso, la rettitudine è una giustizia radicale ed esauriente di natura religiosa che esige che gli uomini si abbandonino a Dio nell’obbedienza e nella fede e che rende ogni peccato una “injuria”, un’ingiustizia e un’empietà. Esige anche che l’uomo risponda alle giuste esigenze del rapporto che intrattiene a motivo della creazione e della fratellanza universale degli uomini e in virtù della salvezza e della chiamata comune alla santità e alla filiazione in Cristo.
Rettitudine (giustizia) basata sulla creazione La questione riguardo a dare a Cesare quel che è di Cesare (cf. Mt 22, 15-22; Mc 12, 13-17; Lc 20, 20-26) ha dato a Gesù l’opportunità di definire il rapporto fondamentale fra Dio e l’uomo come giustizia (rettitudine). Secondo la risposta di Gesù il denaro apparteneva a Cesare poiché recava il marchio di proprietà ossia la sua effige e la sua iscrizione. Nella giustizia, il possesso della moneta da parte di Cesare doveva essere riconosciuto e sostenuto; per cui “date a Cesare quel che è di Cesare”. Analogamente la paternità comune degli uomini (cf. At 17, 28-29) impone a ciò un “ordo amoris” di solidarietà e di fratellanza universale che è sostenuto dalla giustizia nei rapporti.
Le diverse alleanze nell’Antico Testamento hanno istituito diversi rapporti fra Dio e: - gli individui: Abramo (cf. Gn 17, 4), Isacco (cf. Gn 17, 19, 21), Giacobbe (cf. Es 6, 4), Davide (cf. 2Cr 21, 7); - le tribù e le famiglie: Abramo (cf. Gn 17, 11), Davide (cf. 2 Sam 7) e - il popolo d’Israele (cf. Dt 4, 12-13, quindi Es 19-20; 24, 8; Lev 24, 8; Is 24, 5). Le alleanze hanno stabilito rapporti speciali che hanno posto agli interessati delle esigenze [36]; e la giustizia (rettitudine) era l’osservanza delle esigenze dei rapporti che assicuravano la fratellanza e la comunione, verticalmente fra Dio e gli uomini e, orizzontalmente, fra le persone. Nella Bibbia, i termini opposti sono “malvagio” (malfattore) e “malvagità” (rasha’); e denotano il male commesso contro la persona con cui si è in rapporto. Pertanto i “malvagi” distruggono la comunità (comunione) non adempiendo alle esigenze del rapporto comunitario [37]. Le alleanze tra Dio e gli individui e il popolo di Israele erano iniziative di Dio che coinvolgevano gli individui, le famiglie e il popolo di Israele in un rapporto speciale e richiedevano che essi vivessero le esigenze del rapporto nei confronti di Dio e tra di loro. L’esigenza/le esigenze del rapporto era/erano, da un lato, la sottomissione nella fede e nella fiducia all’offerta di Dio espressa talvolta attraverso la celebrazione di un semplice rito di circoncisione (cf. Gn 17,10-11) ma spesso attraverso l’osservanza delle leggi (torah) di Dio (cf. Es 19, 5; Dt 7, 9, ecc.). D’altra parte, gli israeliti dovevano adempiere a certe esigenze tra loro (giustizia sociale) in virtù del loro rapporto di alleanza con Dio. Con i suoi numerosi peccati e violazioni delle esigenze del suo rapporto di alleanza con Dio Israele ha agito in modo ingiusto (injuria) e si è collocato al di fuori del rapporto. Non poteva più avere nessuna pretesa nei confronti di Dio quale partner dell’alleanza. Se Dio ha continuato a trattarlo come partner dell’alleanza è stato perché ha ignorato la sua violazione “facendolo ritornare” (Sal 80, 3, 7, 19). Israele, da parte sua, non poteva fare altro che confessare i propri peccati e permettere a Dio di riportarlo indietro. Era questo il tema principale di Osea e dei profeti post-esilio. La rettitudine di Dio consisteva quindi nel suo giustificare Israele: riportare Israele nel rapporto di alleanza nonostante le sue mancanze. Da parte sua, la rettitudine di Israele consisteva nel confessare i propri peccati riconoscendo le sue mancanze e accettando nella fede la generosa offerta di Dio della salvezza. Rettitudine (giustizia) basata sulla Nuova Alleanza in Cristo È su questa linea che Giovanni Battista ha inaugurato il suo ministero; e il suo ministero ha adempiuto a ogni giustizia nel senso che il pentimento e la confessione dei peccati che esso richiedeva erano l’ammissione di Israele (dell’umanità) di non riuscire a essere fedele alle esigenze dell’Alleanza, la sua esperienza immeritata di ricevere comunque il perdono giustificatore e il favore di Dio e il riconoscimento che Dio agisce solo per amore e misericordia. Quando dunque Gesù si è fatto battezzare da Giovanni si è unito all’umanità per professare tutto quanto detto sopra come giustizia di Dio. È per questo che si dice che Gesù ha adempiuto a ogni giustizia! In Gesù e nel suo ministero si vedono due cose: - la rivelazione della giustizia come grazia giustificatrice di Dio che ignora le giuste esigenze del rapporto dell’Alleanza e reintegra l’umanità per misericordia [38] e amore in un rapporto di Alleanza. Poiché “Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio” (Ef 2, 8). - Il dono dello Spirito di Gesù alla Chiesa e ai suoi membri che consente loro di rispondere alla giustizia (rettitudine) di Dio nella fede e di diventare la “giustizia di Dio in Cristo” (2 Cor 5, 21), “giustificandosi” a loro volta l’un l’altro per misericordia e amore [39]: ignorando i loro peccati e la violazione dei diritti, i rapporti socio-politici, ecc. e ripristinando in tal modo la comunione della famiglia di Dio e della famiglia della società.
Giustizia (rettitudine), come abbiamo visto sopra, è un concetto di rapporto, e il giusto è colui/colei che adempie alle esigenze postegli dal rapporto che intrattiene. Nel caso della corrotta Israele e dell’umanità caduta (cf. Rm 5, 6 ss), che Dio ha giustificato in Cristo imputando loro la rettitudine, la loro giustizia (rettitudine) consisteva nel riconoscimento del loro bisogno della grazia giustificatrice di Dio e la loro sottomissione ad essa nella fede; e questo sembra precisamente essere l’atteggiamento che predispone l’umanità alla pace di Dio nel Vangelo. Infatti, quando alla nascita di Gesù, l’angelo annuncia la venuta della Pace di Dio in terra, essa era destinata solo a coloro “che Egli ama” (Lc 2, 14). “La Pace” è destinata, in terra “agli uomini che Egli ama” (Lc 2, 14) e il significato della frase “agli uomini che Egli ama” è, secondo alcuni autori, “chiunque riceverà la grazia di Dio e risponderà con fede” [42]. Questo significato della frase, come ricordiamo, coincide con il senso del “giusto” e “retto” di cui si è detto, e sembrerebbe quindi che i “giusti” (retti), in quanto disposti ad accettare nella fede ciò che Dio opera, sono anche coloro sui quali, in terra, riposa la “pace” di Dio. Inoltre, sembrerebbe che quanti sperimentano la pace di Dio siano proprio coloro che sono disposti a realizzare la pace sulla terra, adempiendo alle esigenze poste dai rapporti che vivono.
Poiché la “pace” è stata così strettamente collegata con l’alleanza e con il vivere le sue esigenze, quando il popolo di Dio non ha rispettato l’alleanza, anche la “pace” è stata allontanata. È stato di nuovo necessario l’intervento di Dio scaturito dalla sua amorevole misericordia per portare la “pace” al suo popolo; ed è in questo senso che gli scritti post-esilio di Israele cominciano a vedere la “pace” come generata dalla punizione del servo di Dio “Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui” (Is 53, 5). Gesù Cristo nella sua missione e ministero, ha realizzato la visione degli ultimi profeti d’Israele. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3, 16); e dopo essere stato “messo a morte per i nostri peccati” (Rm 4, 25), il Figlio di Dio è diventato la nostra “pace”. Dunque se la “pace” viene da Dio (cf. Gal 1, 3; Ef 1, 2; Ap 1, 4) ed è di Dio (cf. Fil 4, 7; Col 3, 15; Rm 15, 33) è Cristo che è quella “pace” (Ef 2, 14). È Lui che la proclama e la stabilisce (cf. Ef 2, 17) ed è Lui la presenza di Dio che porta la pace che il mondo non può dare. La “pace” non ha solamente un significato laico, di assenza di conflitto (cf. Gn 34, 21, Gs 9, 15; 10, 1, 4; Lc 14, 32), presenza di armonia nella casa e nella famiglia (cf. Is 38, 17, Sal 37, 11, 1 Cor 7, 15, Mt 10, 34; Lc 12, 51), sicurezza e prosperità individuale e comunitaria (nazionale) (cf. Gdc 18, 6; 2 Re 20, 19; Is 32, 18). La “pace” non è solo quando gli esseri umani e le società adempiono ai rispettivi doveri e riconoscono i diritti di altre persone e società” [43] e non è neanche uno dei risultati dell’impegno per la giustizia [44]. La “pace” trascende fondamentalmente il mondo e gli sforzi umani [45]. È un dono di Dio (cf. Is 45, 7; Nm 6, 26) donato ai “retti/giusti”. Dunque, quando Gesù ha perdonato il peccatore (cf. Lc 7, 50) e guarito l’ammalata (cf. Mc 5, 34), li ha mandati via “in pace”: “andate in pace”. “Andate in pace” non era soltanto una benedizione di congedo, ma l’offerta di shalom. Ai perdonati e ai guariti non veniva solo restituita l’integrità del corpo, venivano anche rimessi in pace con Dio per mezzo della loro fede e completamente risanati davanti a Dio e alla comunità [46]. Quest’ultimo è anche il significato del saluto di “pace” di Gesù ai suoi discepoli la mattina della resurrezione (cf. Gv 20, 19-21). Era il perdono del loro tradimento di Gesù e anche il ripristinare l’amicizia. Gesù non aveva bisogno di un’ammissione di colpa da parte dei suoi discepoli. Non c’è stata nessuna richiesta di perdono e nessuna scusa è stata presentata. Semplicemente sono state benevolmente ignorate tutte le mancanze. Invece, è stato concesso un perdono gratuito e un segno conciliatorio di “pace”. La “pace” di Gesù è la nostra pace per la quale egli si è assunto i nostri castighi (cf. Is 53, 5). È perciò un ripristino gratuito e immeritato dell’interezza e della comunione con Dio e con gli uomini e viene ricevuto da tutti coloro che lo accolgono come grazia di Dio e rispondono con fede, cioè da “coloro che egli ama” (i giusti/retti). Paolo esorta le sue comunità cristiane a perseguire la pace (cf. Rm 14, 19; Ef 4, 3; Eb 12, 14) come giuste portatrici in terra della pace di Cristo e ad essere in pace gli uni con gli altri (cf. Rm 12, 18; 2 Cor 13, 11), proprio come ora l’Instrumentum laboris auspica che faccia la Chiesa in Africa. Ma è anche in qualità di giusti portatori in terra della pace di Cristo che dobbiamo ricordare, come abbiamo già fatto per la “giustizia”, che la “pace” è un atto che va oltre la giustizia in senso stretto ed esige amore [47]. Essa deriva dalla comunione con Dio ed è tesa al benessere dell’uomo (umanità). Perciò, nell’invitare la Chiesa in Africa e sulle isole a essere “ministri (servitori) della riconciliazione, della giustizia e della pace”, dopo l’invito del Primo Sinodo alla Chiesa a vivere nella comunione della Chiesa-Famiglia di Dio, il Secondo Sinodo invita la Chiesa a sperimentare quelle virtù che fondano la nostra comunione con Dio e a testimoniare/vivere le stesse - ovvero la riconciliazione, la giustizia e la pace attraverso l’amore e la misericordia - nel continente. Le implicazioni di questo ministero sono ciò che il (tema del) Sinodo ora spiega con i simboli del sale e della luce: sale della terra e luce del mondo.
Raccogliendo i frutti del Primo Sinodo nell’Ecclesia in Africa, Papa Giovanni Paolo II ha esaltato la “testimonianza” come elemento essenziale della cooperazione missionaria e ha ricordato alla Chiesa africana che Cristo non solo lancia ai suoi discepoli in Africa la sfida di testimoniarlo, ma dà loro lo stesso mandato che ha affidato ai suoi apostoli il giorno dell’Ascensione: “Di me sarete testimoni” (At 1, 8) in Africa [48]. Dunque, paragonando i discepoli di Cristo in Africa al sale e alla luce, il Santo Padre afferma: “Ai nostri giorni, nel contesto di una società pluralista, è soprattutto grazie all'impegno dei cattolici nella vita pubblica che la Chiesa può esercitare un'influenza efficace. Dai cattolici, siano essi professionisti o insegnanti, uomini d'affari o funzionari, agenti di sicurezza o politici, ci si aspetta che testimonino bontà, verità, giustizia e amore di Dio nelle loro attività di ogni giorno. Il compito del fedele laico [...] è quello di essere il sale e la luce nella vita quotidiana, specialmente laddove è il solo a poter intervenire”[49]. “Sale della terra” e “luce del mondo” dunque erano le immagini/metafore in cui il Papa ha fissato la sua visione delle attività missionarie della Chiesa in Africa e nelle isole. Questo Sinodo ora invita la Chiesa in Africa a intendere il suo servizio di riconciliazione, giustizia e pace nel continente come l’essere “sale della terra” e “luce del mondo”.
Servi (diakonoi) della Riconciliazione, della Giustizia e della Pace come “sale della terra” La metafora “sale” che Gesù usa nei Vangeli sinottici (cf. Mt 5, 13; Mc 9, 50; Lc 14, 34) per descrivere la peculiarità della vita dei suoi discepoli, è polivalente. Ha molti significati. Dunque, poiché il “Mar Morto” è detto anche “mare di sale” (Gn 14, 3), per coloro che vivono vicino al “Mar Morto”, “sale” può significare “morte” (cf. Gn 19, 26). Dio, il Signore della vita, comunque, sanerà le acque del “mare di sale” con l’acqua del tempio e darà loro vita (cf. Ez 47). In un altro senso, il sale ha un potere di conservazione. Esso dà sapore e conserva il cibo (cf. Gb 6, 6; Mt 5, 13; Lc 14, 34) e, in senso correlato, come nel caso della purificazione di Eliseo delle acque di Gerico (cf. 2 Re 19, 22), il sale ha anche un potere purificatore. L’uso del sale per suggellare amicizia e patti nel mondo dell’Antico Testamento (cf. Esd 4, 14) sembra essere alla base dell’uso, da parte di Dio, di immagini per esprimere il permanere e la stabilità delle disposizioni riguardanti il sostentamento dei sacerdoti nell’Antico Testamento: “È un’alleanza inviolabile, perenne, davanti al Signore ...” (Nm 18, 19). L’uso del sale in occasioni di alleanza può dunque essere alla base dell’invito di Gesù ai suoi discepoli: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”(Mc 9, 50),cioè di osservare la lealtà reciproca di una relazione di alleanza e di vivere in pace. Il sale, però, è simbolo anche di “saggezza” e di “forza morale” ed è ciò che dà valore alle cose. È quello che accade, per esempio, quando il sale è usato per concimare il suolo. Far riferimento ai discepoli come “luce del mondo” significa ricorrere ad una simbologia le cui origini affondano nell’Antico Testamento come attributo e missione di Sion, la città sul monte. Di conseguenza, il Servo-Messia sarà chiamato ad assumere questo come sua vocazione e ciò troverà compimento in Gesù. Gesù, dunque, come “luce del mondo”, anzi come la “luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9) costituirà anche i suoi discepoli “luce del mondo”.
Sion, la città sul monte e luce delle nazioni Sion era il monte della casa del Signore (cf. Is 2, 2) ed era la dimora dell’Arca dell’Alleanza (cf. 2 Sam 6; 1 Re 8, 20-21) e del Nome del Signore (cf. Dt 12, 5). L’Arca dell’Alleanza conteneva la Legge di Dio e la Legge era “una lampada e l’insegnamento una luce” (Pr 6, 23; Sal 19, 8; 119, 105; Bar 4, 2). Il Nome di Dio, comunque, rappresentava la “presenza di Dio” e la luce della presenza di Dio faceva riferimento al potere e all’azione salvifici di Dio (cf. Is 10, 17; Sal 27; 36, 9) per salvare Gerusalemme e il suo popolo [51]. Perciò, in considerazione del suo essere in possesso della luce della conoscenza della Legge e della luce della salvezza di Dio, Gerusalemme divenne una luce per le nazioni ed i re [52].
L’esperienza di Sion divenne la vocazione del Servo-Messia In Isaia, l’esperienza di Gerusalemme, luce delle nazioni e dei re, è presentata come la vocazione di un servo. Il servo di Jahvè, che è dotato dello Spirito di Jahvè, per portare giustizia alle nazioni (cf. Is 42, 1; 51, 4) è dato dunque come alleanza del popolo e “luce delle nazioni” (Is 42, 6, 49, 8 ss). La sua chiamata a essere “luce delle nazioni” implica la sua personale esperienza della salvezza di Jahvè (cf. Is 49, 7) e ciò ha permesso che la salvezza di Jahvè raggiungesse tutti gli angoli della terra. In questi passaggi relativi al servo, “luce” è conoscenza della Legge e della salvezza di Dio ed è un dono destinato ad arrivare a tutti i popoli.
La figura del Servo-Messia si compie in Gesù. Mt 4, 16 cita Is 9, 2 e allude alla stella apparsa alla nascita di Gesù per sottolineare il compimento e la continuazione, in Gesù, del simbolismo rivelatore e salvifico della luce nell’Antico Testamento. Gesù è la “luce della salvezza di Dio” (Gv 1, 5; 3, 19; 8, 12; 12, 46) ed è la “luce della Parola/Legge/Saggezza di Dio” (Gv 1, 4; 9, 5; 12, 36, 46). Gesù è la “luce del mondo” (Lc 2, 32; Gv 1, 9) e muore e risorge per “annunciare la luce al popolo e alle genti” (At 26, 23).
Dunque il riferimento ai discepoli come “luce del mondo” non è altro che Gesù che fa dei suoi discepoli la sua estensione e rappresentazione nel mondo. “Voi siete la luce del mondo” esprime quindi l’alta vocazione dei discepoli di Gesù: una chiamata a compiere, in Cristo, la vocazione di Israele nell’Antico Testamento di essere testimone della luce della conoscenza della Legge di Dio (Vangelo) e della sua salvezza nel mondo. Questa alta vocazione dei seguaci di Gesù è ciò che il Sinodo propone per la Chiesa in Africa ed essa comincia con la loro chiamata (battesimale) che li rende “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui che vi (li) ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1 Pt 2, 9). Rispondendo alla chiamata, essi si arrendevano all’illuminazione della Parola di verità (cf. Ef 1, 17 ss), la luce del Vangelo della salvezza (cf. 2 Cor 4, 4) e la sua chiamata al pentimento. La vita derivante dallo stato di discepolo, li rende “luce nel Signore e figli della luce” (Ef 5, 8), “figli della luce e figli del giorno” (1 Ts 5, 5; cf. Rm 13, 12). “E Dio che disse: ‘Rifulga la luce dalle tenebre’, rifulse nei nostri (loro) cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo” (2 Cor 4, 6). Essa conduce alla fede in Gesù e a ricevere il sigillo promesso dello Spirito Santo (cf. Ef 1, 13) per aver vissuto una vita senza macchia; perché “il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5, 9). Ai tempi di Gesù, la terra e il mondo per cui i discepoli dovevano essere “sale” e “luce” erano la terra e il mondo al di fuori del circolo dei dodici, “quel fuori” per cui “tutto avviene in parabole” (Mc 4, 11). In questo Sinodo la terra e il mondo per cui i cattolici del continente e delle isole devono essere “sale” e “luce” come servitori della riconciliazione, della giustizia e della pace è l’Africa dei nostri giorni, come descritto nell’Instrumentum laboris e accennato sopra [53]. È qui che Gesù Cristo, dopo essersi rivelato attraverso le Scritture come nostra riconciliazione, giustizia e pace, ora chiama e invia i suoi discepoli in Africa e nelle isole a spendere sé stessi, come sale e luce, per costruire la Chiesa in Africa come autentica Famiglia di Dio attraverso i ministeri della riconciliazione, della giustizia e della pace, esercitati nell’amore, come il loro maestro. [1] Giovanni Paolo II, Discorso nella Cattedrale di Cristo Re (17 settembre 1995, Johannesburg, Sudafrica): “Qui a Johannesburg, in Sud Africa, insieme all’intera Chiesa in questa parte meridionale del Continente, ci siamo riuniti per promulgare l’Esortazione Apostolica “Ecclesia in Africa” che contiene le proposte fatte dai Padri sinodali al termine della sessione di lavoro svoltasi a Roma nei mesi di aprile e maggio del 1994. Con l’autorità apostolica propria del Successore di Pietro, presento a tutta la Chiesa di Dio in Africa e nel Madagascar i discernimenti, le riflessioni e le risoluzioni del Sinodo...” [2] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, n. 13. [3] Cf. Giovanni Paolo II, Ai partecipanti alla riunione del Consiglio post-sinodale della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi per l’Assemblea Speciale per l’Africa (15 giugno 2004). [4] Prima Assemblea Speciale per l’Africa, Instrumentum laboris, 1993, n. 1. Lo stesso documento asseriva: “Sembra essere arrivata l’ora dell’Africa, un’ora propizia che chiama tutti i messaggeri di Cristo a prendere il largo per raccogliere frutti abbondanti per Cristo” (Instrumentum laboris 1993 n. 24). [5] Ibidem, n. 22-24. “Segni dei tempi” si riferisce al contesto africano in cui deve essere proclamato il Vangelo. [6] Cf. Le vite eroiche dei martiri e dei santi africani, da una parte, e le vite eroiche e le lotte per l’indipendenza degli africani nell’Africa post-coloniale, in Sudafrica, in Sudan, ecc, dall’altra. [7] Cf. Giovanni Paolo II, Discorso in occasione della riunione del Consiglio post-sinodale della Segreteria Generale (15 giugno 2004). [8] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, 13-14, 39-42, 51; Seconda Assemblea Speciale per l’Africa, Lineamenta, n. 6-8. [9] Seconda Assemblea Speciale per l’Africa, Lineamenta, Prefazione. [10] È ciò che l’Instrumentum laboris indica come “una continua dinamica” ed è ciò che illustra abbondantemente in n. 14-20. [11] Cf. Giovanni Paolo II, Lettera a Mons. Nikola Eterovic, in occasione della Riunione del Consiglio Speciale per l'Africa della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi (23 febbraio 2005). [12] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, 4. [13] Cf. Ibidem, 2-5. Infatti, era il SCEAM che “si preoccupò di cercare vie e mezzi per condurre a buon fine il progetto di un simile incontro continentale. Fu organizzata una consultazione delle Conferenze episcopali e di ciascun Vescovo dell'Africa e del Madagascar, in seguito alla quale potei convocare un'Assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi” (Ecclesia in Africa, 5). [14] Seconda Assemblea Speciale per l’Africa, Instrumentum laboris, n. 21-33. [15] Nana Akuffo-Addo, Ministro degli Esteri della Repubblica del Ghana (2001-2008), Vertice UA. Kikwete, Presidente della Tanzania afferma: “... esistono già in Africa dirigenti pronti ad andare avanti e ci auguriamo di essere al loro fianco” (Fraternité Matin, venerdì 10/07/2009, p.1). [16] NEPAD significa New Economic Partnership for African Development. Il NEPAD esige il rispetto per l’autorità democratica e il rifiuto del colpo di stato. Esiste l’organizzazione di un Meccanismo di Vigilanza tra Pari per controllare l’azione dei governi. Bisogna ammetterlo, il ritmo di lavoro del Parlamento dell’Unione Africana e l’attuazione dei requisiti del NEPAD da parte degli stati membri sono stati recentemente criticati per la loro lentezza. [17] Lomé Culture è il nome dato a una serie di accordi di cooperazione allo sviluppo fra paesi della Comunità Europea (CEE) e le loro ex colonie. Entrò in vigore nel 1957 con il Trattato di Roma, che sancì la CEE. Lomé I - Lomé IV stabilì un regime di aiuti mediante il Commercio fra la CEE e 46 paesi ACP (rispetto dei diritti umani, principi democratici ed esercizio della legge). La convenzione di Yaoundé fu firmata nel 1975 fra la CEE e i paesi ACP per fornire infrastrutture allo sviluppo dei paesi francofoni. La Convenzione di Cotonou, siglata fra la Ue e 70 paesi ACP, dovrebbe durare vent’anni ed è finalizzata alla riduzione della povertà, allo sviluppo sostenibile e alla graduale integrazione delle economie ACP nell’economia mondiale. [18] I principali obiettivi del NEPAD sono: sradicare la povertà, instradare i paesi africani verso una crescita e uno sviluppo sostenibili; mettere fine all’emarginazione dell’Africa dal processo di globalizzazione, accelerare la presa di coscienza e di potere delle donne. [19] “Cooperazione significa condividere con le popolazioni africane un punto di vista: l’idea di un Africa che è moderna e indipendente, dove gli uomini e le donne africani, fiduciosi in sé stessi, forgiano la propria vita e il proprio futuro, perseguendo la via dello sviluppo sostenibile e democratico. Solo gli stimoli e gli sforzi realizzati in seno all’Africa stessa porteranno al successo” (Discorso del Dott. Uschi Eid, Segretario di Stato Parlamentare del Ministero Federale tedesco per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo, pronunciato presso il TICAD III [Conferenza Internazionale di Tokio sullo sviluppo dell’Africa], Tokyo 2003. [20] Barack Obama ha espresso lo stesso concetto ai governanti africani nel suo discorso al Parlamento del Ghana durante la visita al paese del luglio scorso. [21] Quando l’ex presidente Clinton nel 2003 si recò in visita in Ghana, l’Herald Tribune scrisse: “Ci è stato detto che Clinton è andato a cambiare l’idea che l’America ha dell’Africa: non più un paese disperato, ma un luogo di opportunità e speranza”. [22] Cf. Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate, Vaticano 2009. [23] Seconda Assemblea Speciale per l’Africa, Instrumentum laboris, n. 11. [24] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, 63. [25] Cf. Confessione di Paolo: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi... Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio...” (Gal 1, 13-16). [26] In questo senso, Dio è come il pastore che cerca la pecora smarrita. È come la donna che cerca la dramma perduta e come il padre il cui amore provoca il ritorno del figliol prodigo (cf. Lc 15). È come Gesù che trova Zaccheo sul sicomoro e gli dice di scendere (cf. Lc 19, 5). [27] Cf. Pietro Bovati, Ristabilire la giustizia in Analecta Biblica 110, PIB Roma, 1986. [28] Talvolta, l’esigenza di conciliazione comporta e fa scaturire un gesto concreto, quale il riconoscimento dell’esistenza dei diritti, la cui negazione e il cui abuso ha fatto precipitare la situazione dei conflitti e delle ostilità (cf. Abramo e Abimelec in Gn 21, 25-34). [29] In questo senso, ci sono fattori che favoriscono la riconciliazione e che i servi della riconciliazione devono abbracciare; esistono anche fattori che ostacolano la riconciliazione e che i servitori della riconciliazione devono fuggire: a. Fattori che l’ostacolano: l’empietà e il disprezzo del rapporto con Dio; la negazione dei diritti degli altri, l’inganno e i pregiudizi, l’ipocrisia e la pace apparente, l’attenzione selettiva, il silenzio della complicità e il fallimento delle strutture dello stato. b. Fattori che la favoriscono: il perdono, l’amore fraterno, la comunicazione, il dialogo, l’educazione alla pace e alla riconciliazione. [30] Sacramentum Mundi 3, 235. [31] Cf. Paolo VI, Lettera Enciclica Populorum Progressio, 26. [32] Sacramentum Mundi 3, 236. [33] Cf. The Interpreter’s Dictionary of the Bible, vol. 4, 85-88, 91-99. [34] La “giustizia”, in qualunque forma si manifesti, si basa su tutto ciò che è dovuto a una persona in virtù della sua dignità e della sua vocazione alla comunione con le persone (cf. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 3, 63). [35] Ciò, per inciso, costituisce anche la base dell’imperativo fondamentale che impone il rispetto positivo della dignità e dei diritti degli altri nonché un contributo solidale nell’andare incontro alle loro necessità (cf. Gaudium et spes, 23-32, 63-72; Papa Giovanni XXIII, Lettera Enciclica Mater et Magistra). La condizione di figli, comune all’umanità esige che gli uomini siano retti, agendo secondo la volontà di Dio, legati nella solidarietà dall’amore di Dio, quale amore di Padre. [36] Dunque Tamar era più giusta del suocero, poiché questi non rispettava la tradizione familiare (cf. Gn 38, 26), David non avrebbe ucciso Saul, “perché è il consacrato del Signore”(1 Sam 24, 7, 11) e un “padre” per lui (cf. 1 Sam 24, 12). Quando una relazione cambia, cambiano anche le sue esigenze. Colui che si cura degli orfani e delle vedove e li difende, quegli è giusto (cf. Gb 29, 12-16; Os 2, 19). Colui che tratta i servi con umanità, vive in pace con i vicini, parla bene degli altri, quegli è retto/giusto (cf. Gb 31, 1-13; Pr 29, 2; Is 35, 15; Sal 52, 3, ecc.). La Rettitudine/Giustizia come comportamento che ricade sui membri della comunità, talvolta è tutelata e applicata dai magistrati, quando giudicano i casi in tribunale. Questo è il significato forense di giustizia; dunque sia Dio sia il re svolgono il ruolo di giudice (cf. Dt 25, 1; 1 Re 8,32; Es 23, 6 ss, Sal 9, 4; 50, 6, 96, 13). I giudizi retti restituiscono alla comunità la sua ’interezza; ed è in tal senso che il giudizio e il governo giusti sono considerati caratteristici del Messia-Re. [37] Il malvagio (עשר) è colui che esercita la forza e la falsità, ignora i doveri che la parentela e l’alleanza gli imporrebbero, calpesta i diritti degli altri (The Interpreter’s Dictionary of the Bible, vol. 4, 81). [38] Papa Giovanni Paolo II definisce la “misericordia” uno “speciale potere dell’amore, che prevale sul peccato e l’infedeltà dei prescelti” (Dives in Misericordia, 4.3). [39] Dunque, Papa Giovanni Paolo II ci insegna che nelle relazioni fra individui e gruppi sociali ecc., la “giustizia non è abbastanza”. C’è bisogno di quel “potere più profondo che è l’amore” (cf. Dives in Misericordia, 12). [40] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2304. Si veda anche Gaudium et spes, 78. [41] Ibidem. [42] “In tutto il Vangelo di Luca, la ‘pace in terra’ raggiunge i reietti, i discepoli, gli stranieri, chiunque accoglierà la grazia di Dio e risponderà con fede” (Cf. Dictionary of Jesus and the Gospels, ed. Joel B. Green et alii, InterVarsity Press 1992 p. 605). [43] Giovanni XXIII, Lettera Enciclica Pacem in terris, 174. [44] Gaudium et spes, 84. [45] Sebbene sia un compito, qualche cosa per cui lavorare, la “pace” è un dono di Dio, qualcosa che la nostra pace terrena può solo vagamente anticipare. [46] Nel caso dell’emorroissa (cf. Mc 5, 24-34), per esempio, Gesù non solo ne ha guarito l’impurità religiosa e sociale (la perdita di sangue), ma ne ha rivelato il segreto e ne ha reso pubblica la fede e la guarigione (cf. Mc 5, 34; 2, 5; 10, 52). Tale guarigione ha rappresentato il ritorno totale della donna alla salute, alla sua comunità e al Dio della sua fede. [47] Gaudium et spes, 78. [48] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, n. 86. [49] Ibidem, 108. [50] Cf. SCEAM, Seminario sul Sinodo, Abidjan Costa d’Avorio, 2009: Carrefour Groupe n. III. [51] Dunque la grande restaurazione e giustificazione che Yahweh opera nei confronti di Gerusalemme è descritta da Isaia come il ritorno della luce di Yahweh: “Il sole non sarà più la tua luce di giorno né ti illuminerà più il chiarore della luna..Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore” (Is 60, 19-20). [52] Il Testamento di Levi estende la luce di Gerusalemme ai suoi figli, gli Israeliti, e li esorta dicendo: “Siate la luce di Israele, più pura di tutti i gentili... Che mai farebbero i gentili se foste oscurati dalla trasgressione?” (14, 3). [53] Cf. pp 21-26 del presente testo.
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