OMELIA DEL CARDINALE PIETRO PAROLIN IN OCCASIONE DEL GIURAMENTO DELLE NUOVE RECLUTE DELLA GUARDIA SVIZZERA PONTIFICIA Basilica di San Pietro Domenica, 4 ottobre 2020 Signor Comandante, Reverendo Cappellano, Distinti Ufficiali, membri della Guardia Svizzera Pontificia, Illustri Ospiti, Fratelli e sorelle, per la terza domenica consecutiva il Vangelo ci parla della vigna del Signore. Due settimane fa ci ha presentato la parabola dei lavoratori chiamati nella vigna in diverse ore, a cui il Signore elargisce la stessa paga perché il suo Regno è per tutti e non fa differenza tra popolo e popolo, tra persona e persona. Domenica scorsa abbiamo poi ascoltato la parabola dei due figli che, invitati a lavorare nella vigna del padre, rispondono diversamente: chi promette di andarvi non ci va, mentre chi rifiuta si pente e ci va. Se nella parabola precedente si parlava dell’ampiezza della chiamata di Dio, in questa si metteva a fuoco l’importanza della risposta dell’uomo. Ora, che cosa vorrà dirci la parabola odierna, cosiddetta “dei vignaioli omicidi”? Cerchiamo anzitutto di capire perché la Liturgia insista a proporci tre brani consecutivi ambientati nella vigna del Signore. Non certo per adeguarsi alla stagione della vendemmia, ma perché il Vangelo di Matteo, che leggiamo ogni domenica in questo anno liturgico fino alla fine del prossimo mese, è giunto a narrare gli ultimi insegnamenti di Gesù a Gerusalemme. Egli ha già compiuto l’ingresso solenne nella Città santa, dove si appresta a vivere la Pasqua di morte e risurrezione. Prima, tiene questi discorsi nel tempio, davanti alla crème religiosa del tempo. In questo contesto utilizza la metafora della vigna, perfettamente compresa dagli uditori. Perché? Perché nessun’altra poteva rendere meglio il rapporto tra Dio e il suo popolo. La vite era infatti il primo e più eccellente frutto pervenuto al popolo dalla Terra promessa: quando Israele, dopo l’esodo dall’Egitto s’incamminava nel deserto verso di essa, gli esploratori che vi erano già stati, per mostrare la fecondità del luogo che Dio aveva riservato ai suoi, portarono un tralcio con un grande grappolo d’uva e lo mostrarono al popolo (cfr Nm 13,23). Per questo ancora recentemente il grappolo d’uva compariva su alcune monete israeliane. Ma c’è di più. Alla fine di un libro biblico imprescindibile, il Cantico dei Cantici, la sposa, che rappresenta il popolo, invita lo sposo, Dio, con queste parole: «Di buon mattino andremo nelle vigne, vedremo se germoglia la vite… là ti darò il mio amore» (Ct 7,13). La vigna, insomma, come suggerisce anche il profeta Isaia nella prima Lettura, parlando di «cantico d’amore per il mio diletto per la sua vigna» (Is 5,1) è la metafora dell’incontro sponsale tra Dio e il suo popolo. Gesù, riproponendo questa immagine, va al cuore della relazione tra l’uomo e Dio, che non può più porsi nei termini di un formale rispetto sacrale, ma chiede di diventare amore vissuto, familiare, fedele e indissolubile. Oggi, questa storia di amore sponsale, narrata attraverso le vicende della vigna, giunge a un epilogo drammatico. Mentre Dio, fedele al suo proposito, continua a mandare servi, cioè inviati e profeti, a prendersi cura della vigna, cioè del legame col suo popolo, a questo non interessa che tale rapporto maturi e porti frutto. All’uomo, invece, interessa il possesso dei beni: non vuole Dio, ma i doni di Dio. Giunge persino a uccidere il figlio del padrone, chiara allusione all’imminente morte di Gesù. Così sembrerebbe concludersi la parabola. Ma al culmine Gesù chiede agli interlocutori: «“Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?” Gli risposero: “Quei malvagi, li farà morire miseramente”» (Mt 21,41). Senza aver compreso di essere direttamente coinvolti nella parabola, gli interlocutori si esprimono duramente contro i colpevoli: è sempre facile decretare il peggio nei confronti degli altri senza accorgersi di essere come loro! Invece Gesù, oltre a dire che l’uomo ha la tragica possibilità di perdere la vigna che il Signore ha creato per lui, introduce un altro aspetto, riguardante Dio, non noi. È il passaggio cruciale nel quale parla della pietra scartata dai costruttori che diventa pietra d’angolo (cfr v. 42). Il Signore allude a se stesso: è lui la pietra scartata sulla croce e posta nel sepolcro che, risorgendo, è diventata pietra angolare di un edificio nuovo, la Chiesa. Egli è la pietra viva che dà vita, perché ha fatto di una pietra tombale un fondamento nuovo, ha cambiato un sepolcro da punto di arrivo in punto di partenza. Ha trasformato la separazione in comunione, la morte in vita, la fine in un nuovo inizio. Ecco la forza dell’amore di Dio. Chi lo accoglie trasforma a sua volta la propria vita, diventa pietra viva edificata su Gesù (cfr 1 Pt 2,4-7). Un esempio di vita rinnovata ci è offerto, nel giorno della sua ricorrenza, da San Francesco di Assisi, la cui figura ci invita a pregare oggi più intensamente per il Papa che ne porta il nome e a motivarci nel servizio che gli prestiamo, perché non si riduca mai a un’onorabile mansione, ma sia un’opera del cuore ritmata dalla preghiera. San Francesco, dunque, giunto a un momento particolarmente difficile della vita, perché malato e pressoché cieco, al punto da non riuscire a sopportare la luce e nemmeno il bagliore del fuoco, ebbe un’esperienza particolare. Passò una nottata di grande sofferenza fisica e di lotta spirituale e, dopo aver intensamente pregato, provò la consolazione del Signore. Fu dopo questa notte che all’alba ebbe l’ispirazione di comporre la sua opera più nota, il Cantico delle Creature, nella quale lodava il Signore proprio per frate sole e con cui dava sostanzialmente inizio, lui che sembrava arrivato alla fine, alla letteratura italiana. Questo ci dice che con il Signore anche la notte più buia cede lo spazio al giorno e ogni crisi può diventare sorgente di rinnovata speranza. Qui ci conduce la vicenda della vigna del Signore: infatti, quanto abbiamo finora incontrato attraverso le pagine bibliche non è tutto. C’è ancora un passaggio determinante: nel quarto Vangelo, quello di Giovanni, dopo l’ultima Cena, l’immagine finale che Gesù offre ai suoi discepoli è proprio quella della vite. Dice: «Io sono la vite vera» (Gv 15,1). L’attenzione si concentra sulla parola vera. Il fatto che Gesù dica di essere la vite vera lascia intendere che vi siano anche delle viti false. Vero e falso, al tempo, non designavano tanto qualcosa di concettuale, legato alle idee, come sostanzialmente per noi oggi. Nella mentalità semitica, più concreta, vero era piuttosto sinonimo di stabile, fedele, duraturo. La parola amen, che ripetiamo nella Liturgia, deriva da questa radice e non indica un semplice sì teorico, ma una vera e propria adesione di vita, un credere fermamente e fedelmente a quanto si è professato o pregato. Gesù, dunque, è la vite vera: quelle coltivate in precedenza erano false, in quanto, per la mancanza di fedeltà dell’uomo, non hanno portato frutto, impedendo il compiersi del progetto di amore sponsale di Dio. Ma Egli non si rassegna alla nostra infedeltà e pone una vigna che non appassirà mai, che non smetterà di portare frutto, Gesù. Dio stesso, in Gesù, si è innestato nell’umanità. Si è fatto uomo e non abbandonerà mai la nostra umanità. E noi, nonostante le nostre fragilità, abbiamo linfa nuova in Lui, come i tralci dalla vite: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me porta molto frutto» (v. 5). Rimanere in lui: ecco il segreto per far rinascere la vita in ogni circostanza e la Chiesa in ogni prova. Cari fratelli e sorelle, vorrei trarre da tutto questo qualche conseguenza per la nostra vita. Un primo spunto ha a che vedere con la carità. Dio, ci mostra la storia della vite, non si stanca di noi, anche se, stando al giudizio degli uomini nel Vangelo, ne avrebbe ben ragione. Ma chi ama non si stanca. L’amore vero, la carità, non si lascia infatti condizionare dalla risposta altrui, ma ama incondizionatamente. Conforta pensare che questo è il modo con cui Dio guarda alla vita di ciascuno di noi. Ma ci incoraggia anche pensare che, con il Signore nella vita, questo possa realmente diventare il nostro modo di atteggiarci con il prossimo, con i colleghi, con le persone care, con chi ha bisogno di noi. Amare, sull’esempio di Dio, significa coltivare la pazienza di trovare vie nuove, perché la carità, come ripete il Papa, è creativa. Essa sa ricominciare sempre, non si arrende nel cercare ogni giorno il bene. La carità è la lingua di Dio: beati noi se impariamo a parlarla sempre più fluidamente. Un secondo spunto riguarda la speranza. La Parola di Dio ci fa capire che da soli non ce la facciamo. Perché la storia infedele dell’umanità è in fondo anche la nostra storia: esistiamo per portare molto frutto, ma ne portiamo spesso poco. Eppure Dio non si rassegna: crede in noi, ci cerca ostinatamente, non smette di attenderci. Più forte della nostra infedeltà c’è la fedeltà di Dio e questo è il fondamento della nostra speranza. Il Signore non rinuncia alla vigna, non pianta qualcosa di diverso. Egli crede in noi più di quanto noi crediamo in noi stessi e ci ama più di quanto amiamo noi stessi. Come possiamo perciò rassegnarci nella vita, sapendo che la pietra angolare su cui tutto è costruito è la sua incrollabile fedeltà? L’ultimo spunto, dopo la carità e la speranza, concerne, l’avrete immaginato, la fede. Parola che richiama non solo la dottrina che professiamo, ma soprattutto la fedeltà nei confronti di Colui in cui crediamo. Egli è vero, cioè sempre fedele nei nostri riguardi, e desidera da noi una condotta simile, che per essere tale ha bisogno di rimotivarsi attraverso momenti costanti e forti di preghiera, nei quali confermare la nostra piena adesione a lui. Anche il giuramento che trentotto di voi presteranno questo pomeriggio è un gesto rivelatore di una fedeltà più profonda. Promettere fedeltà al Successore di Pietro per amore di Cristo non significa infatti solo esprimere la volontà di svolgere accuratamente un dovere assunto, ma anche di adeguare la vita a tale intenzione. Manifesta la volontà di crescere, attraverso il servizio di questi anni, nella fedeltà al Signore e al suo Vangelo, una fedeltà che potrà anche giovarsi del clima costruttivo e fraterno che c’è tra di voi, e strutturarsi in un sano connubio tra ordine di vita e genuina amicizia. La vostra fedeltà è inoltre sostenuta da radici solide: coloro vi sono vicini anche se distanti, come i vostri familiari, ed anche quanti vi hanno preceduto nella storia: nel giorno del giuramento – nonostante questo travagliato anno di pandemia abbia modificato la data consueta – potete fare memoria di essere qui perché gesti eroici di dedizione e di sacrificio vi hanno preceduto. In questa Eucarestia il ricordo e il ringraziamento si estendono così a tutta la più ampia famiglia della Guardia Svizzera, a cui desidero esprimere di vero cuore gratitudine e rinnovare la stima della Santa Sede e mia personale. Con questi sentimenti auguro a ciascuno di voi, e a me per primo, di vivere il servizio nella vigna del Signore quotidianamente innestati in Gesù, perché solo così porteremo veramente frutto. Così sia. |