INGRESSO DI S.E. MONS. FRANCESCO MONTERISI DISCORSO DEL CARD. TARCISIO BERTONE, Giovedì, 1° ottobre 2009
Eccellentissimo Arciprete, Siamo raccolti presso la tomba dell’Apostolo Paolo in occasione di un avvenimento importante nella storia di questa insigne Basilica: l’ingresso del nuovo Arciprete. Come è noto, Sua Santità, il 31 maggio 2005, con il Motu Proprio “L’antica e venerabile Basilica”, tra le nuove norme emanate, ha stabilito che alla Basilica di San Paolo fuori le mura “sia preposto, al pari delle altre tre Basiliche Maggiori, un Arciprete” (n. 4). E’ con grande gioia che oggi questa Basilica accoglie solennemente il nuovo Arciprete nella persona di S.E. Mons. Francesco Monterisi, chiamato a questo incarico dopo aver ricoperto con zelo e fedeltà numerose e importanti mansioni presso la Santa Sede. In questo momento mi pare doveroso rivolgere un cordiale e sentito ringraziamento al Cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo per il servizio che ha generosamente svolto sinora con grande competenza, non solo pastorale ma anche culturale, artistica e tecnica. Un saluto fraterno indirizzo all’Abate e alla cara comunità monastica benedettina, come pure a quanti si dedicano ai diversi compiti nella Basilica. Lo scorso 28 giugno si è concluso, proprio qui, lo speciale anno indetto per commemorare il bimillenario della nascita di Paolo. In questo momento, è dal solido suo messaggio che vogliamo ancora una volta attingere, ed è alla sua intercessione che vogliamo affidare il mandato del nuovo Arciprete. Tradizionalmente, San Paolo viene raffigurato con la spada nelle mani. Chi lo guarda senza conoscere la storia del cristianesimo, potrebbe farsi l'idea che si tratti di un grande guerriero che con le armi ha assoggettato i popoli. Il cristiano sa invece che la spada nelle mani di quest'uomo significa esattamente il contrario: essa fu lo strumento con cui egli venne messo a morte. In quanto cittadino romano non poteva essere crocifisso come Pietro; morì dunque di spada. Ma anche se questa era considerata una forma nobile di esecuzione, nella storia dell'umanità egli rientra tra le vittime, non tra gli oppressori. Chi poi si addentra nel ricco e profondo patrimonio degli scritti di Paolo per cercarvi qualcosa che assomigli a una sua autobiografia, riconoscerà subito che la spada va intesa, a ragione, come simbolo dell’intera sua vita: «Ho combattuto la buona battaglia», dice, al tramonto dei suoi giorni, al suo amato discepolo Timoteo volgendo lo sguardo al cammino percorso e sentendo ormai prossima la morte (2 Tim 4,7). Proprio in forza di parole come queste, Paolo è stato volentieri descritto come un combattente, come un uomo d'azione, non al servizio del male bensì del bene, non dell’odio, ma dell’amore. Uno d’azione, Paolo è il missionario per antonomasia. In quattro lunghi viaggi ha percorso una parte considerevole del mondo allora conosciuto ed è divenuto davvero l'apostolo delle genti, che porta il vangelo di Gesù Cristo «fino agli estremi confini della terra». Con le sue lettere ha tenuto unite le comunità, ha stimolato la loro crescita e ha rafforzato la loro costanza. Con tutta la forza del suo vivo temperamento egli si confronta con gli avversari, che non scarseggiavano mai. Usa tutti i mezzi a sua disposizione per corrispondere il più efficacemente possibile al «dovere» di annunciare, che egli sente gravare su di sé (1 Cor 9,16). Per questo egli continua a essere presentato come il grande ed infaticabile difensore di Cristo, il patrono di coloro che vanno alla ricerca di nuove strategie pastorali e missionarie. Tutto questo tuttavia non ci offre il suo completo identikit, non è Paolo nella sua interezza. Vediamo altri aspetti. All'inizio del suo cammino Paolo era stato un persecutore e aveva usato violenza contro i cristiani, ma dal momento della sua conversione era passato dalla parte del Cristo crocifisso e aveva scelto la via di Gesù Cristo. Paolo non era un diplomatico; quando fece dei tentativi diplomatici, ebbe poco successo. Era piuttosto una persona che non aveva altra arma che il messaggio di Cristo e l'impegno della sua stessa vita fu totalmente volto a questo messaggio. Già nella lettera ai Filippesi egli dice che la sua vita sarà versata in libagione come sacrificio (Fil 2,7); alla sera della sua esistenza terrena, nelle ultime parole indirizzate a Timoteo (2 Tm 4,6) questa stessa espressione torna ancora una volta. Paolo era un uomo disposto a dare tutto di sé, e proprio questa era la sua vera forza. Il fatto che si sia lasciato consumare per il vangelo, lo ha reso credibile e, in tal modo, ha edificato la Chiesa: «Per conto mio ben volentieri mi prodigherò, anzi consumerò me stesso per le vostre anime» (2 Cor 12,15). Dalle sue lettere sappiamo che egli fu tutt'altro che un abile parlatore. Condivideva la mancanza di talento oratorio con Mosè e con Geremia, i quali affermavano davanti a Dio di essere del tutto inadatti alla missione a cui Egli li chiamava e adducevano ambedue come scusa il fatto di non saper parlare. «La sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2 Cor 10,10), dicevano di lui i suoi avversari. Sull'inizio della sua missione in Galazia lui stesso racconta: «Sapete che durante una malattia del corpo vi annunciai il Vangelo la prima volta» (Gal 4,13). Paolo non ha operato grazie a una brillante retorica o servendosi di raffinate strategie di comunicazione, ma impegnandosi in prima persona ed esponendosi per l'annuncio che portava nel suo cuore. Anche oggi l’azione evangelizzatrice della Chiesa – lo ripete spesso il Papa Benedetto XVI - potrà essere efficace solo nella misura in cui coloro che annunciano in suo nome rinunciano a se stessi e sono disposti al sacrificio. Alla spada nelle mani di san Paolo possiamo attribuire un ulteriore significato, oltre a quello di strumento del suo martirio: nella Scrittura la spada è talora simbolo della parola di Dio, che «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio...discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La verità può far male, può ferire, come appunto una spada appuntita. Va a colpire la vita vissuta nella menzogna o anche solo determinata a scegliere di ignorare la verità. Non è forse vero che a molti appare comodo non schierarsi a difesa della verità? Chi di noi potrebbe negare che talvolta la verità gli ha recato disturbo: la verità su se stessi, la verità su ciò che dobbiamo fare o non fare? Paolo era inquieto perché era un uomo della verità; chi si dedica alla verità, fino in fondo, e non vuole utilizzare nessun'altra arma, né prefiggersi alcun altro compito, non necessariamente sarà ucciso, ma giungerà comunque vicino al martirio. Di Paolo spesso ricordiamo i suoi testi più battaglieri, ma chi lo conosce nella sua interezza, scopre la sua grande tenerezza paterna. Scrive ai Corinzi: “Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori” (1 Cor 15-16). In sintesi possiamo dire che il successo della predicazione di Paolo dipende dalla sua disponibilità a soffrire in prima persona per coloro che ha generato alla fede in Cristo. La sofferenza e la verità vanno sempre insieme. La sofferenza è necessaria per accreditare la verità, ma solo la verità dà alla sofferenza un significato. Quest’oggi la Chiesa fa memoria di santa Teresa del Bambino Gesù, Patrona delle missioni e Dottore della Chiesa. Entrambi – Paolo e la piccola Teresa – sono stati missionari, pur in modo diverso; entrambi accomunati dall’amore di e per Cristo. Possiamo trarre da questa felice coincidenza un messaggio per tutti: sono certamente diverse le strade che ognuno percorre realizzando la propria vocazione, unico è però lo spirito che deve tutti accomunarci. E’ l’Amore a muovere ogni nostro passo e a rendere vivo ogni nostro gesto. Così è stato per san Paolo, così anche è avvenuto per la piccola Carmelitana di Lisieux, la quale, appassionata degli scritti di san Paolo, ne ha colto e vissuto lo spirito. Ci ha lasciato in proposito alcune ben note parole che vale la pena riascoltare. “ Compresi – scrive con impeto appassionato - che la Chiesa ha un cuore, e che questo cuore bruciava d’Amore. Compresi che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa, che se l’Amore si fosse spento, gli Apostoli non avrebbero più annunciato il Vangelo, i Martiri avrebbero rifiutato di versare il loro sangue…Compresi che l’Amore era tutto… Allora esclamai: La mia vocazione è l’Amore”. Ritroviamo in queste sue parole tutto san Paolo conquistato e trasformato dall’amore di Cristo che dirà: “per me vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1, 21). L’intercessione di san Paolo, dono straordinario del Signore alla Chiesa e all’umanità, e di santa Teresa del Bambino Gesù, esistenza immolata di amore per l’intera umanità, ci aiutino a realizzare la nostra vocazione e a restare ad essa fedeli sino al termine della nostra esistenza. Amen!
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