VISITA AL SENATO DELLA REPUBBLICA ITALIANA DISCORSO DEL CARD. TARCISIO BERTONE, Sala capitolare della biblioteca del Senato della Repubblica Italiana
Premessa LÂÂenciclica di Benedetto XVI si apre con unÂÂintroduzione, che costituisce una densa e profonda riflessione nella quale vengono ripresi i termini del titolo stesso il quale coniuga fra loro strettamente la ÂÂcaritas e la ÂÂveritasÂÂ, lÂÂamore e la verità. Si tratta non solo di una sorta di ÂÂexplicatio terminorumÂÂ, di un chiarimento iniziale, ma si vogliono indicare i principi e le prospettive fondamentali di tutto il suo insegnamento. Infatti, come in una sinfonia, il tema della verità e della carità ritorna poi lungo tutto il documento, proprio perché qui sta, come scrive il Papa, ÂÂla principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera (Caritas in veritate, n. 1). Ma  ci chiediamo  di quale verità e di quale amore si tratta? Non vÂÂè dubbio che proprio questi concetti suscitino oggi sospetto  soprattutto il termine verità  o siano oggetto di fraintendimento  e ciò vale soprattutto per il termine ÂÂamoreÂÂ. Per questo è importante chiarire di quale verità e di quale amore parli la nuova enciclica. Il Santo Padre ci fa comprendere che queste due realtà fondamentali non sono estrinseche allÂÂuomo o addirittura imposte a lui in nome di una qualsivoglia visione ideologica, ma hanno un profondo radicamento nella persona stessa. Infatti, ÂÂamore e verità  afferma il Santo Padre - sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo (n. 1), di quellÂÂuomo che, secondo la Sacra Scrittura, è appunto creato ÂÂad immagine e somiglianza del suo Creatore, cioè del ÂÂDio biblico, che è insieme «Agápe» e «Lógos»: Carità e Verità, Amore e Parola (n. 3). Questa realtà ci è testimoniata non solo dalla Rivelazione biblica, ma può essere colta da ogni uomo di buona volontà che usa rettamente della sua ragione nel riflettere su se stesso (ÂÂLa verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della caritàÂÂ, n. 3). A questo riguardo, sembrano illustrare bene tale visione alcuni contenuti di un significativo ed importante documento che ha di poco preceduto la pubblicazione della Caritas in veritate: la Commissione Teologica Internazionale ci ha dato nei mesi scorsi un testo intitolato ÂÂAlla ricerca di unÂÂetica universale: nuovo sguardo sulla legge naturaleÂÂ. Esso affronta delle tematiche di grande importanza, che mi sento di segnalare e raccomandare specialmente in questo contesto del Senato, cioè di una istituzione che ha come funzione precipua la produzione normativa. Infatti, come disse allÂÂAssemblea delle Nazioni Unite a New York il Santo Padre, durante la sua visita dello scorso anno al Palazzo di Vetro a proposito del fondamento dei diritti umani: ÂÂQuesti diritti trovano il loro fondamento nella legge naturale inscritta nel cuore dellÂÂuomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Separare i diritti umani da tale contesto significherebbe limitare la loro portata e cedere a una concezione relativista, per la quale il senso e lÂÂinterpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità potrebbe essere negata in nome delle diverse concezioni culturali, politiche, sociali e anche religiose (18 aprile 2008). Sono considerazioni che valgono non solo per i diritti dellÂÂuomo, ma per ogni intervento dellÂÂautorità legittima chiamata a regolare secondo vera giustizia la vita della comunità mediante leggi che non siano frutto dellÂÂadesione ad un mero proceduralismo, ma che discendano dalla volontà di tendere allÂÂautentico bene della persona e della società e per questo facciano riferimento alla legge naturale. Orbene, la Commissione Teologica Internazionale nellÂÂesporre i principi fondativi della legge naturale sottolinea con forza come la verità e lÂÂamore siano esigenze irrinunciabili di ogni uomo, profondamente radicate nel suo essere. ÂÂNella sua ricerca del bene morale, la persona umana si mette in ascolto di ciò che essa è e prende coscienza delle inclinazioni fondamentali della sua natura (Alla ricerca di unÂÂetica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, n. 45), le quali sollecitano lÂÂuomo a muoversi verso lÂÂacquisizione dei beni necessari alla sua piena realizzazione morale. Come è noto, ÂÂsi distinguono tradizionalmente tre grandi insiemi di dinamismi naturali... Il primo, che le è comune con ogni essere sostanziale, comprende essenzialmente lÂÂinclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende lÂÂinclinazione a riprodursi per perpetuare la specie. Il terzo, che le è proprio come essere razionale, comporta lÂÂinclinazione a conoscere la verità su Dio e a vivere in società (n. 46). Approfondendo questo terzo dinamismo che si ritrova in ogni persona, la Commissione Teologica Internazionale chiarisce che esso ÂÂè specifico dellÂÂessere umano come essere spirituale, dotato di ragione, capace di conoscere la verità, di entrare in dialogo con gli altri e di stringere relazioni di amicizia... Il suo bene integrale è così intimamente legato alla vita in comunità, che si organizza in società politica in forza di unÂÂinclinazione naturale e non di una semplice convenzione. Il carattere relazionale della persona si esprime anche con la tendenza a vivere in comunione con Dio o lÂÂAssoluto Certamente, può essere negata da coloro che rifiutano di ammettere lÂÂesistenza di un Dio personale, ma rimane implicitamente presente nella ricerca della verità e del senso presente in ogni essere umano (n. 50). LÂÂuomo è dunque fatto per conoscere mediante la ÂÂragione allargata (cfr. Discorso del 12 settembre 2006 all'Università di Regensburg) la verità in tutta la sua ampiezza, cioè non limitandosi ad acquisire conoscenze tecniche per dominare la realtà materiale, ma aprendosi fino ad incontrare il Trascendente, e per vivere pienamente la dimensione interpersonale dellÂÂamore, ÂÂprincipio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici (Caritas in veritate, n. 2). Sono proprio la veritas e la caritas che ci indicano le esigenze della legge naturale che Benedetto XVI pone come criterio fondamentale della riflessione di ordine morale sullÂÂattuale realtà socio-economica: ÂÂCaritas in veritate è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale (n. 6). Con efficace espressione, il Santo Padre afferma perciò che ÂÂla dottrina sociale della Chiesa è caritas in veritate in re sociali: annuncio della verità dell'amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella veritàÂÂ(n. 5). La proposta che lÂÂenciclica avanza non è né di carattere ideologico né solo riservata a chi condivide la fede nella Rivelazione divina, ma si fonda su realtà antropologiche fondamentali, quali sono appunto la verità e la carità rettamente intese, o come dice la stessa enciclica, date allÂÂuomo e da lui ricevute, non da lui prodotte arbitrariamente (ÂÂLa verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto ÂÂdataÂÂ. In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, «non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano»ÂÂ, Caritas in veritate, n. 34). Benedetto XVI vuol così ricordare a tutti che solo ancorandosi a questo duplice criterio della veritas e della caritas, fra loro inseparabilmente congiunti, si può costruire lÂÂautentico bene dellÂÂuomo, fatto per la verità e lÂÂamore. Secondo il Santo Padre, ÂÂsolo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante (n. 9). Fatta questa indispensabile premessa, nella quale ho voluto evidenziare alcuni aspetti antropologici e teologici del testo pontificio, forse meno commentati dai servizi giornalistici, mi soffermerò ora su alcuni punti qualificanti dellÂÂenciclica, senza avere la pretesa di coprirne il vasto contenuto, anche perché autorevoli commentatori, sulle pagine dellÂÂOsservatore Romano o e altrove, hanno già offerto specifici approfondimenti e altri ne seguiranno nei prossimi mesi. 1. Oltre vecchie e obsolete dicotomie Un primo importante messaggio che ci viene dalla Caritas in veritate è lÂÂinvito a superare lÂÂormai obsoleta dicotomia tra la sfera dellÂÂeconomico e la sfera del sociale. La modernità ci ha lasciato in eredità lÂÂidea in base alla quale per poter operare nel campo dellÂÂeconomia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati prevalentemente dal proprio interesse; come a dire che non si è pienamente imprenditori se non si persegue la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si dovrebbe accontentare di far parte della sfera del sociale. Questa concettualizzazione, che confonde lÂÂeconomia di mercato che è il genus con una sua particolare species quale è il sistema capitalistico, ha portato ad identificare lÂÂeconomia con il luogo della produzione della ricchezza (o del reddito) e il sociale con il luogo della solidarietà per unÂÂequa distribuzione della stessa. La Caritas in veritate ci dice, invece, che fare impresa è possibile anche quando si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi allÂÂazione da motivazioni di tipo pro-sociale. E questo un modo concreto, anche se non lÂÂunico, di colmare il divario tra lÂÂeconomico e il sociale dato che un agire economico che non incorporasse al proprio interno la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile, come è altrettanto vero che un sociale meramente redistributivo, che non facesse i conti col vincolo delle risorse, non risulterebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre. Si deve essere particolarmente grati a Benedetto XVI per aver voluto sottolineare il fatto che lÂÂagire economico non è qualcosa di staccato e di alieno dai principi cardine della dottrina sociale della Chiesa che sono: centralità della persona umana; solidarietà; sussidiarietà; bene comune. Occorre superare la concezione pratica in base alla quale i valori della dottrina sociale della Chiesa dovrebbero trovare spazio unicamente nelle opere di natura sociale, mentre agli esperti di efficienza spetterebbe il compito di guidare lÂÂeconomia. E merito, certamente non secondario, di questa enciclica quello di contribuire a porre rimedio a questa lacuna, che è culturale e politica ad un tempo. Contrariamente a quel che si pensa non è lÂÂefficienza il fundamentum divisionis per distinguere ciò che è impresa e ciò che non lo è, e questo per la semplice ragione che la categoria dellÂÂefficienza appartiene allÂÂordine dei mezzi e non a quello dei fini. Infatti, si deve essere efficienti per conseguire al meglio il fine che liberamente si è scelto di dare alla propria azione. LÂÂimprenditore che si lascia guidare da unÂÂefficienza fine a se stessa rischia di scadere nellÂÂefficientismo, che è una delle cause oggi più frequenti di distruzione della ricchezza, come la crisi economico-finanziaria in atto tristemente conferma. Ampliando un istante la prospettiva del discorso, dire mercato significa dire competizione e ciò nel senso che non può esistere il mercato laddove non cÂÂè pratica di competizione (anche se il contrario non è vero). E non vÂÂè chi non veda come la fecondità della competizione stia nel fatto che essa implica la tensione, la dialettica che presuppone la presenza di un altro e la relazione con un altro. Senza tensione non cÂÂè movimento, ma il movimento  ecco il punto  cui la tensione dà luogo può essere anche mortifero, cioè generatore di morte. Quando lo scopo dellÂÂagire economico non è la tensione verso un comune obiettivo  come lÂÂetimo latino cum-petere lascerebbe chiaramente intendere  ma lÂÂhobbesiana mors tua, vita mea, il legame sociale viene ridotto al rapporto mercantile e lÂÂattività economica tende a divenire inumana e dunque ultimamente inefficiente. Dunque, anche nella competizione, la ÂÂdottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o ÂÂdopo di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente (n. 36). Ebbene, il guadagno, certo non da poco, che la Caritas in veritate ci offre è quello di prendere in grande considerazione quella concezione del mercato, tipica della tradizione di pensiero dellÂÂeconomia civile, secondo cui si può vivere lÂÂesperienza della socialità umana allÂÂinterno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa o a lato di essa. E questa una concezione che si potrebbe definire alternativa, sia rispetto a quella che vede il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffazione del forte sul debole, sia a quella che, in linea con il pensiero anarco-liberista, lo vede come luogo in grado di dare soluzione a tutti i problemi della società. Questo modo di concepire lÂÂeconomico si differenzia nei confronti dellÂÂeconomia di tradizione smithiana che vede il mercato come lÂÂunica istituzione davvero necessaria per la democrazia e per la libertà. La dottrina sociale della Chiesa ci ricorda invece che una buona società è frutto certamente del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata o alla filantropia. Piuttosto, essa propone un umanesimo a più dimensioni, nel quale il mercato non è combattuto o ÂÂcontrollatoÂÂ, ma è visto come momento importante della sfera pubblica  sfera che è assai più vasta di ciò che è statale  che, se concepito e vissuto come luogo aperto anche ai principi di reciprocità e del dono, può costruire una sana convivenza civile. 2. Dalla fraternità il bene comune Prendo ora in considerazione uno dei temi presenti nellÂÂenciclica che mi pare abbia suscitato un certo interesse pubblico per la novità che rivestono i principi di fraternità e di gratuità nellÂÂagire economico. ÂÂLo sviluppo, se vuole essere autenticamente umanoÂÂ, dice Benedetto XVI, deve ÂÂfare spazio al principio di gratuità (n. 34). Servono ÂÂforme economiche solidaliÂÂ. Significativo, in questo senso il capitolo dedicato alla collaborazione della famiglia umana, dove viene messo in evidenza che ÂÂlo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia per cui ÂÂun simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazioneÂÂ. E ancora: ÂÂIl tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace (nn. 53-54). La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità. E stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo, che costituisce il complemento e lÂÂesaltazione del principio di solidarietà. Infatti mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali per via della loro uguale dignità e dei loro diritti fondamentali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser diversi, nel senso di poter esprimere diversamente il loro piano di vita o il loro carisma. Esplicito meglio: le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, lÂÂ800 e soprattutto il ÂÂ900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che una società orientata al bene comune non può accontentarsi della solidarietà, ma ha bisogno di una solidarietà che si apra alla fraternità dato che, mentre la società fraterna è anche solidale, il contrario non è necessariamente vero. Se si dimentica il fatto che non è sostenibile una società di esseri umani in cui viene meno il senso di fraternità e in cui tutto si riduce a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti o ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci si rende conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. La Caritas in veritate ci aiuta a prendere coscienza che la società non è capace di futuro se si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire se esiste e si sviluppa solamente la logica del ÂÂdare per avere oppure del ÂÂdare per dovereÂÂ. Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate. Ci si pone allora la domanda: perché riemerge come un fiume carsico, la prospettiva del bene comune, secondo la formulazione ad essa data dalla dottrina sociale della Chiesa, dopo almeno un paio di secoli durante i quali essa era di fatto uscita di scena? Perché il passaggio dai mercati nazionali al mercato globale, consumatosi nel corso dellÂÂultimo quarto di secolo, va rendendo di nuovo attuale il discorso sul bene comune? Osservo, di sfuggita, che quanto accade è parte di un più vasto movimento di idee in economia, un movimento il cui oggetto è il legame tra religiosità e performance economica. A partire dalla considerazione che le credenze religiose sono di importanza decisiva nel forgiare le mappe cognitive dei soggetti e nel plasmare le norme sociali di comportamento, questo movimento di idee cerca di indagare quanto la prevalenza in un determinato paese (o territorio) di una certa matrice religiosa influenzi la formazione di categorie di pensiero economico, i programmi di welfare, la politica scolastica e così via. Dopo un lungo periodo di tempo, durante il quale la celebre tesi della secolarizzazione pareva avesse detto la parola fine sulla questione religiosa, almeno per quel che concerne il campo economico, quanto sta oggi accadendo suona veramente paradossale. Non è così difficile spiegarsi il ritorno nel dibattito culturale contemporaneo della prospettiva del bene comune, vera e propria cifra dellÂÂetica cattolica in ambito socio-economico. Come Giovanni Paolo II in parecchie occasioni ha chiarito, la dottrina sociale della Chiesa non va considerata una teoria etica ulteriore rispetto alle tante già disponibili in letteratura, ma una ÂÂgrammatica comune a queste, perché fondata su uno specifico punto di vista, quello del prendersi cura del bene umano. Invero, mentre le diverse teorie etiche pongono il loro fondamento vuoi nella ricerca di regole (come succede nel giusnaturalismo positivistico, secondo cui lÂÂetica viene derivata dalla norma giuridica) vuoi nellÂÂagire (si pensi al neo-contrattualismo rawlsiano o al neo-utilitarismo), la dottrina sociale della Chiesa accoglie come suo punto archimedeo lo ÂÂstare conÂÂ. Il senso dellÂÂetica del bene comune, spiega che per poter comprendere lÂÂazione umana, occorre porsi nella prospettiva della persona che agisce (Veritatis splendor, n. 78) e non nella prospettiva della terza persona (come fa il giusnaturalismo) ovvero dello spettatore imparziale (come Adam Smith aveva suggerito). Infatti il bene morale, essendo una realtà pratica, lo conosce primariamente non chi lo teorizza, ma chi lo pratica: è lui che sa individuarlo e quindi sceglierlo con certezza ogniqualvolta è in discussione. 3. Il principio del dono in economia Veniamo allora a parlare del principio del dono in economia. Cosa comporta, a livello pratico, lÂÂaccoglimento della prospettiva della gratuità entro lÂÂagire economico? Risponde Papa Benedetto XVI che mercato e politica necessitano ÂÂdi persone aperte al dono reciproco (Caritas in veritate, n. 35-39). La conseguenza che discende dal riconoscere al principio di gratuità un posto di primo piano nella vita economica ha a che vedere con la diffusione della cultura e della prassi della reciprocità. Assieme alla democrazia, la reciprocità  definita da Benedetto XVI ÂÂl'intima costituzione dell'essere umano (n. 57) - è valore fondativo di una società. Anzi, si potrebbe anche sostenere che è dalla reciprocità che la regola democratica trae il suo senso ultimo. In quali ÂÂluoghi la reciprocità è di casa, viene cioè praticata ed alimentata? La famiglia è il primo di tali luoghi: si pensi ai rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle. Attorno alla propria famiglia si sviluppa quel rapporto donativo tipico della fraternità. Poi cÂÂè la cooperativa, lÂÂimpresa sociale e le varie forme di associazioni. Non è forse vero che i rapporti tra i componenti di una famiglia o tra soci di una cooperativa sono rapporti di reciprocità? Oggi sappiamo che il progresso civile ed economico di un paese dipende basicamente da quanto diffuse tra i suoi cittadini sono le pratiche di reciprocità. CÂÂè oggi un immenso bisogno di cooperazione: ecco perché abbiamo bisogno di espandere le forme della gratuità e di rafforzare quelle che già esistono. Le società che estirpano dal proprio terreno le radici dellÂÂalbero della reciprocità sono destinate al declino, come la storia da tempo ci ha insegnato. Qual è la funzione propria del dono? Quella di far comprendere che accanto ai beni di giustizia ci sono i beni di gratuità e quindi che non è autenticamente umana quella società nella quale ci si accontenta dei soli beni di giustizia. Il Papa parla della ÂÂstupefacente esperienza del dono (n. 34). Qual è la differenza? I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere; i beni di gratuità sono quelli che nascono da una obbligatio. Sono beni cioè che nascono dal riconoscimento che io sono legato ad un altro, che, in un certo senso, è parte costitutiva di me. Ecco perché la logica della gratuità non può essere semplicisticamente ridotta ad una dimensione puramente etica; la gratuità infatti non è una virtù etica. La giustizia, come già Platone insegnava, è una virtù etica, e siamo tutti dÂÂaccordo sullÂÂimportanza della giustizia, ma la gratuità riguarda piuttosto la dimensione sovra-etica dellÂÂagire umano perché la sua logica è la sovrabbondanza, mentre la logica della giustizia è la logica dellÂÂequivalenza. Ebbene, la Caritas in veritate ci dice che una società per ben funzionare e per progredire ha bisogno che allÂÂinterno della prassi economica ci siano soggetti, che capiscano cosa sono i beni di gratuità, che si capisca, in altre parole, che abbiamo bisogno di far rifluire nei circuiti della nostra società il principio di gratuità. Benedetto XVI invita a restituire il principio del dono alla sfera pubblica. Il dono autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dellÂÂidentità personale sullÂÂutile, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dellÂÂagire umano, ivi compresa lÂÂeconomia. Il messaggio che la Caritas in veritate ci lascia è quello di pensare la gratuità, e dunque la fraternità, come cifra della condizione umana e quindi di vedere nellÂÂesercizio del dono il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune. Senza pratiche estese di dono si potrà anche avere un mercato efficiente ed uno Stato autorevole (e perfino giusto), ma di certo le persone non saranno aiutate a realizzare la gioia di vivere. Perché efficienza e giustizia, anche se unite, non bastano ad assicurare la felicità delle persone. 4. Sulle cause remote della crisi finanziaria La Caritas in veritate si sofferma sulle cause profonde (e non già sulle cause prossime) della crisi ancora in atto. Non è mia intenzione passarle in rassegna e mi limiterò a sintetizzare i tre principali fattori di crisi individuati e presi in esame. Il primo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dellÂÂultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni ÂÂ70 del secolo scorso, diversi paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari, esponendo così lÂÂeconomia reale ai capricci della finanza e generando il bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi investiti quote di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese, derivanti dalle borse e dai fondi di private equity, si sono ripercosse in più direzioni: sui dirigenti indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli a comprare sempre di più, pur in assenza di potere dÂÂacquisto; sulle imprese dellÂÂeconomia reale per convincerle ad aumentare il valore per lÂÂazionista. E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti si sia ripercossa sullÂÂintero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale. Il secondo fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dellÂÂethos dellÂÂefficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso, ciò ha finito col legittimare lÂÂavidità  che è la forma più nota e più diffusa di avarizia  come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. ÂÂGreed is good, greed is right (lÂÂavidità è buona; lÂÂavidità è giusta), predicava Gordon Gekko, il protagonista del celebre film del 1987, Wall Street. Infine, la Caritas in veritate non manca di soffermarsi sulla causa delle cause della crisi: le specificità della matrice culturale che si è andata consolidando negli ultimi decenni sullÂÂonda, da un lato, del processo di globalizzazione e, dallÂÂaltro, dallÂÂavvento della terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie info-telematiche. Un aspetto specifico di tale matrice riguarda lÂÂinsoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà: lÂÂautonomia, lÂÂimmunità, la capacitazione. LÂÂautonomia dice libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. LÂÂimmunità, invece, dice assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno. EÂÂ, in buona sostanza, la libertà negativa (ovvero la ÂÂlibertà daÂÂ). La capacitazione, (letteralmente: capacità di azione) infine, dice capacità di scelta, di conseguire cioè gli obiettivi, almeno in parte o in qualche misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il proprio piano di vita. Come si può comprendere, la sfida da raccogliere è quella di fare stare insieme tutte e tre le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale il paradigma del bene comune appare come una prospettiva quanto mai interessante da esplorare. Alla luce di quanto precede riusciamo a comprendere perché la crisi finanziaria non può dirsi un evento né inatteso né inspiegabile. Ecco perché, senza nulla togliere agli indispensabili interventi in chiave regolatoria e alle necessarie nuove forme di controllo, non riusciremo ad impedire lÂÂinsorgere in futuro di episodi analoghi se non si aggredisce il male alla radice, vale a dire se non si interviene sulla matrice culturale che sorregge il sistema economico. Alle autorità di governo questa crisi lancia un duplice messaggio. In primo luogo, che la critica sacrosanta allo ÂÂStato interventista in nessun modo può valere a disconoscere il ruolo centrale dello ÂÂStato regolatoreÂÂ. In secondo luogo, che le autorità pubbliche collocate ai diversi livelli di governo devono consentire, anzi favorire, la nascita e il rafforzamento di un mercato finanziario pluralista, un mercato cioè in cui possano operare in condizioni di oggettiva parità soggetti diversi per quanto concerne il fine specifico che essi attribuiscono alla loro attività. Penso alle banche del territorio, alle banche di credito cooperativo, alle banche etiche, ai vari fondi etici. Si tratta di enti che non solamente non propongono ai propri sportelli finanza creativa, ma soprattutto svolgono un ruolo complementare, e dunque equilibratore, rispetto agli agenti della finanza speculativa. Se negli ultimi decenni le autorità finanziarie avessero tolto i tanti vincoli che gravano sui soggetti della finanza alternativa, la crisi odierna non avrebbe avuto la potenza devastatrice che stiamo conoscendo. 5. Per concludere Prima di concludere, desidero ringraziare il Presidente del Senato della Repubblica Italiana, Onorevole Renato Schifani, per avermi consentito di illustrare a questo qualificato uditorio alcuni tratti dellÂÂultima enciclica di Benedetto XVI. In qualche modo si tratta oggi come di un ritorno del Santo Padre in questa sede del Senato della Repubblica, ove lÂÂallora Card. Joseph Ratzinger tenne il 13 maggio 2004 nella Biblioteca del Senato stesso una non dimenticata ÂÂlectio magistralis sul tema ÂÂEuropa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domaniÂÂ. E interessante notare come in quellÂÂintervento, tra lÂÂaltro, il futuro Pontefice toccava alcuni temi che ritroviamo oggi nella sua ultima enciclica. Pensiamo, ad esempio, allÂÂaffermazione della ragione profonda della dignità della persona e dei suoi diritti: essi  diceva lÂÂallora Card. Ratzinger - ÂÂnon vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, "ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati come valori di ordine superiore". Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore: solamente Egli può stabilire valori che si fondano sull'essenza dell'uomo e che sono intangibili. Che ci siano valori che non sono manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del Creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all'uomoÂÂ. Nella Caritas in veritate Benedetto XVI ripete che ÂÂi diritti umani rischiano di non essere rispettati quando ÂÂvengono privati del loro fondamento trascendente (n. 56), cioè quando si dimentica che ÂÂDio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignitàÂÂ(n. 29). Ancora, nella lectio magistralis tenuta cinque anni or sono, lÂÂattuale Pontefice ricordava che ÂÂun secondo punto in cui appare l'identità europea è il matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttura fondamentale della relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula nella formazione della comunità statale, è stato forgiato a partire dalla fede biblica. Esso ha dato all'Europa, a quella occidentale come a quella orientale, il suo volto particolare e la sua particolare umanità, anche e proprio perché la forma di fedeltà e di rinuncia qui delineata dovette sempre nuovamente venir conquistata, con molte fatiche e sofferenze. L'Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiataÂÂ. Nella Caritas in veritate questo monito si allarga fino a divenire universale, diremmo globale, e raggiunge tutti responsabili della vita pubblica; così leggiamo, infatti, in essa: ÂÂDiventa una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale (n. 44). Certo la Caritas in veritate si rivolge, come si afferma nel suo titolo ufficiale, a tutti i membri della Chiesa cattolica e ÂÂa tutti gli uomini di buona volontàÂÂ. Eppure per i principi che illumina, per i problemi che affronta e per le indicazioni che offre, questo documento pontificio, che ha suscitato tanta attesa, prima, e poi tanta attenzione e tanto apprezzamento, in particolare in ambito sociale, politico ed economico, mi sembra che possa trovare una singolare eco in questa sede istituzionale che è il Senato della Repubblica. Sono convinto che, al di là delle differenze di formazione e di convinzioni personali, coloro che hanno la delicata e onorifica responsabilità di rappresentare il popolo italiano e di esercitare per suo mandato il potere legislativo, possono trovare nelle parole del Papa unÂÂalta e profonda ispirazione nello svolgimento della loro missione, così da rispondere adeguatamente alle sfide etiche, culturali e sociali che oggi ci interpellano e che con grande lucidità e completezza lÂÂenciclica Caritas in veritate ci pone davanti. Il mio augurio è che questo documento del Magistero ecclesiale, che ho cercato di illustrarvi almeno in parte questÂÂoggi, possa in questa sede trovare lÂÂattenzione che merita e così portare frutti positivi e abbondanti per il bene di ogni persona e di tutta lÂÂumana famiglia, a cominciare dalla cara Nazione italiana.
|
|