CONVEGNO SU "LA CHIESA E L'ORDINE INTERNAZIONALE" INTERVENTO CONCLUSIVO Pontificia Università Gregoriana, 24 maggio 2003
Accennando all'attività internazionale dell'attuale Papato, un autore francese - e chiedo venia se mi permetto di cominciare, vantando "prodotti" della mia terra di origine - notava con finezza, penso, che la diplomazia vaticana, messa in questione all'epoca del Concilio Vaticano II, aveva guadagnato una nuova giustificazione per lavorare in un mondo in cui "il senso accusa un ritardo sulla potenza" (Z. Laidi, L'ordre mondial relâché; Etudes, luglio-agosto 1992, pagg. 5-11). Parlare di etica e di ordine mondiale non è altro, così mi sembra, che riequilibrare proprio questo sfasamento tra il "senso" e la "potenza". Nelle grandi questioni di oggi sul destino storico dell'uomo, le lotte per i diritti umani, per la giustizia, per la pace, il messaggio di salvezza che le Chiese cristiane sono chiamate a portare a nome di Cristo è costitutivo di senso e apporto insostituibile all'ordine dei principi etico-politici che sono alla base di un armonioso ordine mondiale. Al termine di queste giornate di riflessione sull'apporto della Chiesa ad una certa moralità internazionale, nella mia veste di Segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, desidererei illustrarvi il contributo specifico della diplomazia pontificia in tale ambito. 1. Come ben sapete, la Chiesa Cattolica Romana è l'unica confessione religiosa che ha accesso alle relazioni diplomatiche. Deve ciò, prima di tutto, alla sua struttura organizzativa, prettamente universale: non soprannazionale ma, piuttosto, transnazionale. Lo deve, pertanto, anche al Suo Capo, il Romano Pontefice, che, dal momento della sua elezione in conclave, gode di una personalità internazionale. Lo deve, poi, alla sua storia, che ha visto il Papato divenire il centro delle nazioni dell'occidente cristiano. Basti pensare all'epoca della Res Publica Christiana, oppure a quando il Pontefice pronunciava arbitrati e promuoveva la pace, in nome dello jus gentium christianorum. Si potrebbero anche ricordare, a mo' di esempio, le sue mediazioni internazionali nelle diatribe fra Spagna e Portogallo, relative ai territori del nuovo mondo. Lungo i secoli, la soggettività internazionale della Santa Sede è sopravvissuta alle tormente della riforma protestante, della rivoluzione francese e dell'annessione italiana. Tanto è che, grazie alla personalità che le è riconosciuta, la Santa Sede può esercitare, ancora oggi, una presenza attiva nelle relazioni internazionali, in particolare nel contesto della diplomazia bilaterale e multilaterale. Lo fa attraverso una rete di relazioni diplomatiche, che la mette in contatto con 174 Paesi, senza contare i suoi Rappresentanti presso l'Organizzazione delle Nazioni Unite ed altre Organizzazioni Governative. 2. Quanto precede non deve tuttavia indurre nella tentazione di assimilare la Santa Sede e la sua azione internazionale a quella di uno Stato, con ambizioni di potere. La Santa Sede è certamente un soggetto sovrano di diritto internazionale, ma di natura prettamente religiosa. È, sì, una potenza, ma una potenza morale. La sua "strategia", pertanto, se vogliamo ricorrere a questa espressione, consiste, anzitutto, nel sollecitare e nel dare voce alla coscienza delle persone e dei popoli. Per questa ragione - e non per mire di potere - essa intrattiene un dialogo franco e cordiale con i governanti. Rivolgendosi alle coscienze, essa promuove quei principi, senza i quali non si può parlare di una "comunità di Nazioni". Consentitemi, pertanto, di evocare tali principi che costituiscono una sorta di "corpus" di morale internazionale. a) Anzitutto, la centralità della persona umana e, di conseguenza, dei suoi diritti. La Santa Sede s'impegna a ricordare e - se necessario - a difendere, il primo dei diritti umani: quello alla vita, in tutte le fasi dello sviluppo biologico della persona, fino alla sua morte naturale. Tutti conosciamo l'impressionante Magistero di Giovanni Paolo II, in favore della vita e della famiglia. Esso, tra l'altro, ha ispirato l'azione delle Delegazioni della Santa Sede alle grandi Conferenze internazionali, promosse dall'ONU negli anni passati: nel 1992, alla Conferenza di Rio su Ambiente e Sviluppo; nel 1993, alla Conferenza di Vienna sui diritti umani; nel 1994, alla Conferenza del Cairo su Popolazione e Sviluppo; nel 1995, alla Conferenza di Pechino sulla Donna; nel 1996, alla Conferenza di Istanbul sull'Habitat; nel 2000, alla Conferenza di Johannesburg sullo Sviluppo Sostenibile. Se gli strumenti giuridici internazionali proclamano solennemente il diritto fondamentale alla vita, per esempio l'art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo o, ancora, l'art. 6 del Patto dei Diritti Civili e Politici, non possiamo che deplorare numerose leggi nazionali, indicazioni internazionali e ricerche biomediche, che mettono la vita umana a repentaglio. Basti pensare a quelle relative al cosiddetto "diritto all'aborto", alla sperimentazione sugli embrioni, oppure alla liberalizzazione dell'eutanasia. Nei suoi contatti con i responsabili della comunità internazionale, la Santa Sede non ha mai cessato di ricordare che la vita è un dono che proviene da un Altro e, pertanto, è sacra. Sabato scorso, 17 maggio, in occasione del VII centenario della fondazione dell'Università di Roma La Sapienza, il Santo Padre ha ribadito che i diritti fondamentali derivano non dallo Stato, né da altra autorità umana, ma dalla persona stessa. Inoltre, ha ricordato come il suo Predecessore, Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, invitò i pubblici poteri a "riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere" questi diritti, che promanano dalla stessa natura umana e, per questo, sono universali, inviolabili ed inalienabili. Ovviamente, conoscete l'insistenza con la quale la Santa Sede ha sempre difeso la libertà di coscienza e di religione, non soltanto quale libertà di culto, ma come possibilità per i credenti di partecipare alla vita sociale e politica del Paese di cui essi sono cittadini, ma sempre membri di una comunità di fede. Tante volte il Papa Giovanni Paolo II, memore della sua esperienza polacca ha avvertito che, quando la libertà di religione è violata o soppressa, in realtà sono minacciate tutte le altre libertà fondamentali. In sintesi, si può affermare che la Santa Sede si oppone a qualsiasi visione unidimensionale dell'uomo e ne propone una, aperta alla sua componente individuale, sociale e trascendente. b) Un altro campo di azione della Sede Apostolica è quello relativo alla promozione e alla difesa della pace. Non occorre che mi dilunghi sulla convinzione con la quale i Pontefici rigettano la guerra, quale soluzione per le controversie fra i popoli. In occasione della recente crisi irachena, il Papa Giovanni Paolo II ed i suoi collaboratori hanno ricordato che ogni Stato ha il dovere di proteggere la propria esistenza e libertà, con mezzi proporzionati, contro un ingiusto aggressore. Al di fuori del caso della legittima difesa che giustifica il ricorso alle armi, sono sempre da preferire, per risolvere le contese, gli strumenti del dialogo e della mediazione, come l'arbitrato di terzi imparziali, o di un'autorità internazionale, munita di sufficienti poteri. Infatti, l'esperienza ha dimostrato che la violenza genera violenza. Ricorderete l'esclamazione del Papa, durante la prima guerra del Golfo: "La guerra è un'avventura senza ritorno!". O, ancora, alcuni mesi or sono: "La guerra è sempre una disfatta per l'umanità!". La Santa Sede, pertanto, ha sempre incoraggiato gli sforzi condotti per raggiungere un effettivo disarmo, che vada oltre la dissuasione, fondata sull'equilibrio del terrore. Per appoggiare moralmente l'impegno in tale direzione, essa non ha esitato a firmare il Trattato di non-proliferazione nucleare del 1971; ha aderito al trattato contro la produzione, lo sviluppo e l'utilizzo delle armi chimiche, del 1993, ed a quello che mette al bando le mine anti-uomo, del 1997. Tutto questo per incoraggiare un'autentica cultura della pace. È convinzione della Santa Sede che la potenza distruttrice e le sofferenze causate da tali armi le rendono così pericolose, che il loro utilizzo, probabilmente, arreca danni che sono di gran lunga superiori al male che intendono eliminare. Non va dimenticato, inoltre, che la corsa agli armamenti, lungi dall'eliminare le cause di guerra, rischia di aggravarle. L'impiego di ricchezze enormi nella preparazione di armi sempre nuove impedisce di soccorrere le popolazioni indigenti ed ostacola lo sviluppo dei popoli. L'armarsi ad oltranza moltiplica le cause dei conflitti ed aumenta il rischio del loro propagarsi (riconoscerete l'insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica, N. 2315). c) La pace, tuttavia, è molto più che l'assenza di conflitti. Essa poggia su un ordine sociale ed internazionale, fondato sul diritto e sulla giustizia. Più volte, Papa Giovanni Paolo II ha gridato: "Non c'è pace senza giustizia!" Ogni Paese ha il dovere di assicurare ai propri cittadini il soddisfacimento di alcune necessità fondamentali: il cibo, la salute, il lavoro, l'alloggio, l'educazione. Come ricorda il n. 76 della Costituzione Apostolica Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, "la Chiesa, fondata nell'amore del Redentore, contribuisce ad estendere il raggio di azione della giustizia e dell'amore all'interno di ogni nazione e tra tutte le nazioni". La Santa Sede è convinta pure che ogni Paese ha il dovere di rispettare i principi consuetudinari del diritto internazionale e le convenzioni alle quali ha liberamente aderito. Senza diritto non c'è solamente ordine, ma nemmeno libertà e pace. Durante la crisi irachena, la Santa Sede ha detto di non condividere il principio della "guerra preventiva" - concetto inventato all'uopo - e ha sollecitato il rispetto della Carta delle Nazioni Unite, in particolare del suo capitolo VII, che stabilisce i criteri di comportamento, in caso di minacce o di aggressioni alla pace. La comunità internazionale, infatti, ha elaborato e codificato una serie di diritti e di doveri che costituiscono, ormai, una porzione del patrimonio comune dell'umanità. A prezzo di enormi sacrifici, la comunità internazionale ha acquisito un corpus giuridico consistente e dettagliato che, se fosse stato applicato in questi ultimi anni, in ossequio all'antico adagio latino "pacta sunt servanda", avrebbe risparmiato tanti spargimenti di sangue ed avrebbe evitato molte crisi internazionali. La Santa Sede ha sempre manifestato apprezzamento per il diritto internazionale ed ha collaborato spesso alla redazione di Convenzioni che lo hanno di volta in volta rinnovato. Penso, per esempio, a concetti quali il dovere di intervento umanitario o i diritti delle minoranze. Ancora; i Papi non hanno mai esitato ad esprimere la loro stima per l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Penso a Pio XII, a Giovanni XXIII ma, soprattutto, a Giovanni Paolo II che, nella sua ultima visita nel 1995, in occasione del 50° anniversario della sua fondazione, la definiva come "il più grande degli strumenti di sintesi e di coordinamento della vita internazionale", sottolineando che la sua attività condiziona la cultura e l'etica internazionali. Auspicava che "l'Organizzazione... si innalzi sempre più dallo stadio di una fredda istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale dove tutte le nazioni del mondo si sentano a casa loro sviluppando la coscienza comune di esse, per così dire, una famiglia di nazioni... Per natura la famiglia è una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul mutuo aiuto e sul rispetto sincero, in una famiglia autentica non c'è dominio dei forti: al contrario i membri più deboli sono, a ragione della loro debolezza, doppiamente accolti e serviti". Parole, penso, che rivestono nel contesto internazionale di oggi un rilievo particolare. Soltanto una rigorosa applicazione del diritto, da parte di tutti ed in ogni circostanza, può impedire che il più debole sia reso vittima della cattiva volontà, della forza e delle manipolazioni del più forte. La Santa Sede, pertanto, si adopera perché la forza della legge prevalga sulla legge del più forte. d) In un mondo "globalizzato come si suol dire - dove la solidarietà ed il principio di sussidiarietà sono all'ordine del giorno, nessuno si meraviglierà che la Chiesa Cattolica nutra apprezzamento per la democrazia. La pace e la convivenza civile sono sempre gravemente minacciate dalle diverse espressioni di un potere totalitario, dall'ossessione per la sicurezza, dall'ideologia, dalla ricerca di privilegi per alcune categorie di cittadini. Il secolo appena concluso lo insegna con eloquenza. Tutti conosciamo il ruolo svolto dal Papa Giovanni Paolo II nell'evoluzione dei Paesi dell'Europa centrale ed orientale verso la democrazia. Il suo magistero ha illustrato come tale sistema politico risponda al desiderio dei singoli di partecipare alla vita politica e sociale del proprio Paese. Questo sistema di governo fa sì pure che i responsabili della società debbano rispondere ai loro concittadini di ciò che dicono e di ciò che fanno. Democrazia significa sempre partecipazione e responsabilità, diritti e doveri. Tutti ricordiamo il ricco insegnamento dell'Enciclica Centesimus annus. 3. Questo riepilogo dei grandi principi che guidano l'azione internazionale della Santa Sede e che traducono, in maniera concreta, la dottrina sociale della Chiesa Cattolica, mi pare illustrare questo apporto etico all'ordine mondiale che è stato oggetto della vostra riflessione. Ma direi anche che è un messaggio profetico; e mi spiego. Il Papa Giovanni Paolo II è profondamente convinto che i mali che affliggono la società internazionale di oggi non sono una fatalità. Secondo lui, ognuno di noi può sviluppare in se stesso il proprio potenziale di fede, di probità, di rispetto altrui, di dedizione al servizio degli altri, e quindi, porre rimedio a situazioni di ingiustizia e di conflitto. Ovviamente, una grave responsabilità pesa su coloro che, a capo delle società, sono chiamati a servire il bene comune. Per questa ragione, all'inizio del presente anno, in occasione dei consueti auguri al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il Santo Padre rammentava, che "l'indispensabile competenza professionale dei responsabili politici non può essere legittimata che da un saldo riferimento a forti convinzioni etiche. Come si potrebbe trattare gli affari del mondo senza riferimento a quell'insieme di principi che sono alla base di quel "bene comune universale" di cui l'Enciclica "Pacem in terris" di Papa Giovanni XXIII ha parlato? Sarà sempre possibile a un dirigente, coerente con le proprie convinzioni, di rifiutarsi dinanzi a situazioni ingiuste e deviazioni istituzionali, o di porvi fine". 4. Concludendo, vorrei dare la parola, ancora una volta, al Pontefice che, nella stessa occasione, riferendosi alla precarietà della situazione mondiale all'inizio di questo millennio, non esitava a dire ai diplomatici che: "tutto può cambiare, dipende da ciascuno di noi. Ognuno può sviluppare in se stesso il proprio potenziale di fede, di probità, di rispetto altrui, di dedizione al servizio degli altri". E indicava alcuni imperativi:
Ciò che suppone, per il Santo Padre, il coraggio della coerenza, ossia il saper andare controcorrente, dicendo:
Non è forse questo il nucleo del presente Convegno? Per l'ultima volta, ricorro ancora alla parola del Santo Padre. Nell'anno 1995, dirigendosi ancora al Corpo diplomatico precisava che "la ragion d'essere della Santa Sede in seno alla comunità delle Nazioni è di essere la voce che la coscienza umana attende, senza sminuire, per questo, l'apporto di altre tradizioni religiose". Questo servizio della coscienza è anche l'unica ambizione della diplomazia pontificia: convincere chi detiene la responsabilità delle società che la violenza, la paura, la repressione, il male, la differenza, la morte non possono avere l'ultima parola. Chi ha una certa familiarità con il cristianesimo non ne sarà sorpreso: il cristiano, infatti, non crede alla fatalità della storia, ma egli sa che, con l'aiuto di Dio, l'uomo può cambiare il corso degli eventi del mondo.
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