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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 101, August 2006

 

 

La donna migrante*

 

 

S.E. Mons. Agostino MARCHETTO

Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale 

per i Migranti e gli Itineranti

 

Romana Guarnieri, poco più che novantenne, ci ha lasciati due giorni prima del Natale scorso. Filologa e letterata d’eccezione, collaboratrice generosa e versatile del prete romano don Giuseppe De Luca – che aprì il cammino alla “storia della pietà” –, raccolse i suoi ultimi scritti giornalistici in una pubblicazione dal titolo “Con occhi di Beghina”. Insistette talmente con me, che vi feci la presentazione, anche perché avevo accompagnato il gruppo animato dalla Guarnieri intorno alla rivista “Bailamme”.

Verso la fine di tale intervento scritto, mi domandavo dunque: “E quale il Sitz im Leben di Romana che questi saggi esaltano? La risposta viene dai personaggi posti in particolare evidenza, le donne: Maria (SS.ma), in primis, e l’altra Maria, l’Egiziaca, ben diversa eppur santa, le due Angele, da Foligno e Merici, e Domenica (Narducci) da Paradiso, Margherita Colonna, la giovane di Morlupo e Madre Teresa di Calcutta, con l’aggiunta delle coppie spirituali mistiche (sineisactismo) e di coloro che vissero e vivono nei monasteri doppi e in quelli femminili”. E così continuavo: “Cosa deducete da un tale Sitz im Leben? Sì, trattasi di una storia per lo più al femminile, quella che con tenace passione la Guarnieri viene traendo – come dice lei – ‘dal pozzo nero dell’oblio da parte di una peculiare cultura’. E’ dunque intessuta, imperlata, impreziosita, l’opera di Romana, di un femmi-nismo leggero, … impegnato, giusto, da accettarsi perché ‘vero’, non esagerato e radicale, di parte e ottuso”.

Ecco, avendo accompagnato Romana e il gruppo che le faceva corona, di uomini e donne, – fra le altre E. Fattorini, C. Militello, L. Muraro e R. Stella – per alcuni anni, mi sento di aver già un qualche titolo per parlarvi stasera, nel contesto di attenzione per un forse nuovo femminismo (v. il volumetto “Dire Dio”, il I° dei Quaderni di “Bailamme”). Titolo aggiunto è il fatto che ho proposto di parlarvi stasera della donna migrante, nella mia qualità di Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. Credo che in questo campo infatti appaia pure un “nuovo femminismo”. In che senso? Cerchiamo di vedere.

Quando si parla di “femminismo” si pensa abbastanza naturalmente all’impegno di emancipazione – ma non è così –, da parte di molte donne, e anche di uomini che hanno creduto e credono nella loro causa, di arrivare alla parità tra uomo e donna. A questo proposito, molto è stato raggiunto, soprattutto nel campo del lavoro, ma rimane ancora tanto da fare. Per il nostro caso, esaminiamo dunque le migrazioni. 

La “femminizzazione” delle migrazioni

Cosa significa il termine in tale contesto migratorio? Per averne un’idea consultiamo anzitutto le statistiche e troveremo che secondo le ultime stime delle Nazioni Unite (del 2003), ci sono circa 175 milioni di migranti internazionali nel mondo, più o meno il 3,0% della popolazione mondiale, in realtà, dunque, una piccola percentuale. Infatti, in normali condizioni di vita, poche sono le persone che tendono a spostarsi. Comunque, vi sono fattori di espulsione molto contundenti, come le guerre e le persecuzioni, la fame e i disastri naturali, ecc. In effetti si considera che solo circa 1/3 dei migranti internazionali (cioè 60-65 milioni di persone) partono per motivi di lavoro, sia in situazione regolare che irregolare. Pur di proporzioni relativamente limitate, quindi, – anche se la prospettiva è di crescita; uno studio delle Nazioni Unite parla di una necessità, nell’Unione Europea, di 50 milioni di lavoratori extracomunitari fino al 2050 – il fenomeno non è da ignorare, sia perché le persone in tali situazioni vanno tutelate, sia perché esse realmente danno un contributo allo sviluppo e al benessere dei Paese di accoglienza e non solo.

Venendo alla femminizzazione, va ricordato che in passato, erano soprattutto gli uomini ad emigrare, anche se la componente femminile è stata sempre parte importante del fenomeno. Tradizionalmente, per la maggioranza di esse, lo scopo era quello di raggiungere il marito o il padre già all’estero. Orbene un tale andamento permane ma l’emigrazione femminile ora tende, sempre più, ad essere autonoma, finalizzata alla ricerca di un’occupazione nel Paese di destino. Ne consegue che la donna migrante sta diventando non di rado la fonte principale di reddito per la propria famiglia.

Le statistiche ci dicono dunque che negli ultimi decenni la migrazione femminile è in costante aumento. Così, mentre nel 1960 le donne e le ragazze costituivano il 46,6 % della popolazione migrante, la proporzione è salita al 49% nel 2000. Nelle regioni più sviluppati, essa raggiunge addirittura il 51%, mentre nei Paesi di tradizionale immigrazione risulta particolarmente alta tra i migranti legali (nel 2002, per esempio, la proporzione a favore delle donne giunge al 54% negli Stati Uniti d’America).

Orbene, tale costatazione di crescente presenza femminile, nel fenomeno di cui ci occupiamo, è denominato “femminizzazione” delle migrazioni. Chi studia la cosa, poi, non può non guardare al continente asiatico, che raccoglie il maggior numero di migranti al femminile, con tendenza ad aumentare. Ed è proprio alle migranti asiatiche, infatti, da attribuire la “femminizzazione” delle migrazioni non soltanto in Asia, ma nel mondo intero. Il Messico, in questo caso, per esempio, fa la differenza, pur in altro continente. In questo Paese, dal flusso migratorio più numeroso nel mondo, partono, in effetti, più gli uomini che le donne. Ciò si deve alla sua cultura latino-americana che considera più un compito dell’uomo il provvedere ai bisogni della famiglia, in quanto le donne sono tradizionalmente relegate alle funzioni domestiche, alla cura dei figli e della casa.

[Ma ritorniamo all’Asia per confermarci in quanto dicevamo. Da quel continente secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, circa 800.000 asiatiche emigrano ogni anno per motivi di lavoro, concretamente soprattutto dallo Sri Lanka, dalle Filippine e dall’Indonesia. La maggioranza sono lavoratrici domestiche, benché non manchino anche le professioniste, soprattutto infermiere e insegnanti, che si dirigono specialmente verso gli Stati Uniti d’America, il Canada o l’Australia. Vogliamo approfondire il discorso. Sappiamo dunque che l’emigrazione dallo Sri Lanka è composta per il 65% di donne, e di esse più del 90% lavorano come lavoratrici domestiche. Va segnalato anche che la maggioranza è impiegata nelle “economie informali” dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi e del Kuwait.

Nel flusso dalle Filippine, invece, le donne costituiscono circa il 70%, mentre si sa che l’Indonesia è una delle principali fonti di lavoratrici domestiche del mondo e che loro mete sono l’Arabia Saudita, la Malesia, il Brunei, Singapore e Hong Kong. Aggiungo l’osservazione che, oltre il lavoro domestico, in Asia, America Latina e Africa, si impiegano donne migranti nelle fabbriche, spesso in condizioni inaccettabili. In effetti, per mantenere basso il costo del prodotto si usa “esportare” le fabbriche là dove la manodopera costa poco, oppure si “importa” manodopera a basso prezzo, di solito da Paesi in via di sviluppo. Chiamati a lavorare in zone economicamente avanzate, tali lavoratori sono spesso privi di diritti considerati normali per la manodopera locale, come quello sindacale. Concludiamo considerando che se i lavoratori migranti sono particolarmente vulnerabili, fra essi le donne lo sono ancor più, anche per ragioni culturali o religiose. I datori di lavoro, poi, preferiscono assumere donne, altresì perché, oltre a pagarle meno, esse sono più docili degli uomini.]

In generale, la presenza femminile nel lavoro affidato ai migranti prevale nei settori che offrono bassi salari, spesso in conseguenza della globalizzazione. Le donne sono anche predominanti nell’offerta di vari servizi, per esempio nella cura degli anziani, o nell’ospitalità e nello spettacolo, oltre che nel lavoro domestico. 

In questo contesto varrà menzionare la tratta e il contrabbando di esseri umani, fenomeno che prospera laddove le opportunità di migliorare la propria condizione di vita, o persino di sopravvivere, sono scarse. Diventa dunque facile per il trafficante offrire i propri “servizi” alle vittime che non sospettano assolutamente ciò che dovranno poi affrontare, dopo aver pagato, o promesso di pagare, esorbitanti somme. Anche qui, predomina la presenza di donne e ragazze, spesso considerate carne da macello per l’industria del sesso o sfruttate sul lavoro quasi come schiave. (A questo fenomeno si riferisce anche la nostra recente Istruzione Erga migrantes caritas Christi, nei nn. 5 e 96).

Ma analizziamo ora più da vicino le cause e le conseguenze della “femminizzazione” delle migrazioni. 

Alcune cause delle migrazioni femminili

La situazione economica e/o politica di un Paese è generalmente un fattore importante nella decisione di emigrare, sia per gli uomini che per le donne. Soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, quando la sopravvivenza è minacciata per motivi economici, le famiglie potrebbero infatti decidere di inviare un loro membro altrove, per cercare un miglioramento collettivo. La scelta di chi realmente partirà, però, è grandemente condizionata dai ruoli attribuiti all’uomo e alla donna nella società di origine. Quando la donna è discriminata – per esempio, nell’accesso all’istruzione, alle risorse, alla partecipazione nel processo politico, nella relazione con l’uomo –, la sua capacità di partecipare e contribuire pienamente allo sviluppo della società è compromessa, come lo è anche la sua possibilità di emigrare. Dove le donne non godono di indipendenza sociale ed economica, o si ritiene inappropriata la loro migrazione autonoma, diminuisce altresì considerevolmente la loro possibilità di lasciare la terra natìa, e ancora di più il farlo indipendentemente.

Anche il tipo di lavoro richiesto nei Paesi di destino, però, determina chi finalmente emigrerà. Infatti, se i lavori disponibili richiedono personale maschile la migrazione femminile naturalmente si riduce, e vice-versa. Così, se i rischi di detenzione e violenza nella migrazione non autorizzata sono alti, generalmente ciò scoraggia la partecipazione delle donne. La si stimola invece quando la società (di origine) ritiene che le figlie, e non tanto i figli, siano tenute a mostrare lealtà filiale e familiare attraverso le cosiddette rimesse.

La migrazione delle donne, però, è anche determinata dalla loro possibilità di guadagno. Quanto più alto è di fatto tale potenziale, tanto maggiore è la propensione ad emigrare, soprattutto se nella società di origine tale capacità non è riconosciuta a parità con quella maschile. 

Alcune conseguenze delle migrazioni sulle donne

Nei Paesi da cui emigrano più uomini che donne, soprattutto se le norme sociali sono tali che queste ultime sono dipendenti dai familiari maschili, esse, rimanendo in patria, sono costrette a vivere in modo quasi eroico la loro parte nel progetto migratorio della famiglia. Spesso vivono, in effetti, con altri parenti e sono perciò condizionate nelle loro attività. Se le rimesse, poi, dell’emigrato risultano insufficienti, le donne sono obbligate a intraprendere o intensificare una attività economica, con ulteriore responsabilità, oltre gli altri compiti a loro affidati, quali la cura e l’educazione dei figli. Ne può venire uno stress considerevole, anche se in tal modo le donne sostengono la migrazione maschile. L’esercizio di qualche attività economica, peraltro, rende chi la compie più indipendente e dona un qualche “potere”.

Nei Paesi di destino poi, le convenzioni, le leggi e le usanze che regolano i diritti delle donne hanno ovviamente la loro incidenza anche sui diritti di quelle immigrate. Così se in essi non c’è uguaglianza tra uomo e donna, tale situazione si ripercuote pure sulle nuove venute. Inoltre, dato che i tipi di lavoro normalmente svolti “al femminile” sono spesso pagati meno di quelli riservati agli uomini, le donne migranti percepiscono anche un guadagno minore di quello dei colleghi maschili, con meno opportunità di avanzamento.

Ciò nonostante, il fatto che la donna migrante percepisca un qualche guadagno (e che, nella società di destino, venga in contatto con un diverso rapporto tra uomo e donna), ha delle conseguenze inevitabili su quello nella famiglia immigrata. Ma la cosa non appare lineare.

Migliorando le loro capacità lavorative, le donne migranti contribuiscono in genere alla crescita del livello d’istruzione e delle capacità lavorative delle successive generazioni. Oltre che influenzare o operare per il cambiamento nel rapporto uomo-donna all’interno della propria famiglia, in molti Paesi, esse partecipano altresì alle attività delle ONG che lottano per la necessaria parità tra donne e uomini.

In questo senso, forse, possiamo considerare “femministe” tali donne migranti, oltre la “femminizzazione” del fenomeno migratorio. 

Il “femminismo” oggi

Si rischia così di continuare la lotta del femminismo degli anni '70 che chiedeva di liberare la donna dal lavoro domestico e dava rilievo solo al suo impegno fuori di casa. Era, cioè, un femminismo che lottava perché la donna fosse trattata come l’uomo, per avere i suoi stessi poteri e privilegi. Questo, però, significava in fondo per la donna un prendere l’uomo come suo modello, imitandolo.

Naturalmente a ciò molti non si sentono di aderire. Penso, per esempio, alla prof.ssa Janne Haaland Matlary, titolare della cattedra di Relazioni Internazionali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Oslo, membro della delegazione della Santa Sede alla Conferenza Mondiale sulla donna, nel 1995, a Pechino. Ella infatti afferma che nell’antropologia cristiana, la differenza tra i sessi è molto più profonda di quella prettamente biologica. La differenza, come l’uguaglianza, tra l’uomo e la donna è dunque ontologica e non solo fisica. Nel nostro mondo – asserisce ancora la Haaland Matlary – in cui, nel passato, eccessivo risalto fu dato alla biologia, considerando le donne esclusivamente come madri (lo ritengono ancora molte culture), ora si esagera l’affermazione del carattere artificiale di certi ruoli, ritenendo che la differenza tra i sessi sia insignificante, come fosse una semplice costruzione sociale. Questo è il pensiero prevalente nell’Occidente, mentre uno dei filoni più autentici e radicali di femminismo occidentale è quello che – non a caso – si definisce pensiero della differenza sessuale e vede in varie pensatrici d’Italia, Spagna e Francia la punta di diamante per il confronto fra le donne nello stesso Occidente. In realtà, la madre e il padre sono tali non solo nel senso biologico, ma nella totalità della vita e sono, per i figli, profondamente diversi e complementari. Se la donna dunque è profondamente diversa dall’uomo, imitarlo la renderebbe semplicemente una sua copia.

Il “nuovo femminismo” deve cioè tener conto del fatto che uguaglianza non vuol dire trattare tutti allo stesso modo. A tale proposito cito ancora la prof.ssa Haartland Matlary, per la quale non si discrimina solo quando soggetti uguali sono trattati in modo differente, ma altresì quando si trattano soggetti diversi in modo uguale. [Molto progresso si è fatto certo nel trattamento paritario tra l’uomo e la donna sul lavoro, ma con frequenza mette seriamente in pericolo per esempio la stessa maternità, caratteristica fondamentale della donna. Essa infatti è spesso costretta a scegliere tra lavoro e famiglia e ciò minaccia quest’ultima nella quale si vede mancare l’attenzione delle madri per i propri figli. Minacciare la famiglia, cellula fondamentale della società, è lo stesso che minacciare la società e lo Stato, i quali dipendono da ciò che si vive all’interno della famiglia per la formazione dei cittadini. È dunque chiaro che l’uguaglianza cercata dal “nuovo femminismo” non è quella, per la donna, di essere considerata come l’uomo, ma quale donna, uguale in dignità all’uomo, ma diversa da lui.] 

Nasce un nuovo “femminismo”: quello di Giovanni Paolo II (che guarda alle donne e alle loro aspirazioni senza averne paura).

Nella sua toccante lettera del 29 giugno 1995, all’avvicinarsi della IV Conferenza Mondiale sulla Donna, tenutasi a Pechino, esprimeva così la gratitudine della Chiesa “per ‘il mistero della donna’, e, per ogni donna, per ciò che costituisce l’eterna misura della sua dignità femminile” (n. 1). Rivolgeva poi un ‘grazie’ ad ogni donna “per il fatto stesso che sei donna” (n. 2), ben cosciente del suo difficile cammino lungo la storia, essendo essa “misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù” (n. 3), Egli auspicava nella Chiesa una rinnovata fedeltà al Vangelo, il cui atteggiamento verso la donna è quello di Cristo stesso. “Egli, superando i canoni vigenti nella cultura del suo tempo, ebbe nei confronti delle donne un atteggiamento di apertura, di rispetto, di accoglienza, di tenerezza. Onorava così nella donna la dignità che essa ha da sempre nel progetto e nell’amore di Dio” (n. 3). Di grande aiuto per la conoscenza del pensiero pontificio, a questo riguardo, risulta il volume L’essere e l’agire della donna in Giovanni Paolo II (ed. AVE, Roma 1996), di Piersandro Vanzan ed Angelo Auletta (con presentazione del Card. Martini). E’ una sinossi di testi a tema.

[Ma l’apprezzamento pontificio non era astratto. Giovanni Paolo II era infatti consapevole degli ostacoli posti al pieno inserimento della donna nella vita sociale, politica ed economica e così fece un appello ben preciso in questi termini: “Basti pensare a come viene spesso penalizzato, più che gratificato, il dono della maternità, a cui pur deve l’umanità la sua stessa sopravivenza. … È urgente [quindi] ottenere dappertutto l’effettiva uguaglianza dei diritti della persona e dunque parità di salario rispetto a parità di lavoro, tutela della lavoratrice-madre, giuste progressioni nella carriera, uguaglianza fra i coniugi nel diritto di famiglia…” (n. 4).]

Anche specificatamente nel campo delle migrazioni, Giovanni Paolo II considerò preziosa una maggiore presenza sociale della donna “perché contribuirà a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata su puri criteri di efficienza e produttività e costringerà a riformulare i sistemi a tutto vantaggio dei processi di umanizzazione che delineano la ‘civiltà dell’amore’” (n. 4).

[Ancora, Egli condannò con vigore “le forme di violenza sessuale che non di rado hanno per oggetto le donne” e “la diffusa cultura edonistica e mercantile che promuove il sistematico sfruttamento della sessualità” (n. 5). Fece, poi, un appello accorato agli Stati e alle Istituzioni internazionali, affinché “si faccia quanto è necessario per restituire alle donne il pieno rispetto della loro dignità e del loro ruolo”, ovviamente differente da quello dell’uomo.

“La donna – affermò ancora Giovanni Paolo II – è il complemento dell'uomo, come l'uomo è il complemento della donna: donna e uomo sono tra loro complementari. La femminilità realizza l'«umano» quanto la mascolinità, ma con una modulazione diversa… È soltanto grazie alla dualità del «maschile» e del «femminile» che l'«umano» si realizza appieno” (n. 7). La donna e l’uomo sono dunque diversi, ma la loro differenza non è “abissale e inesorabilmente conflittuale” (n. 8) e sono anche uguali, “ma non di “un'uguaglianza statica e omologante” (n. 8). Tra loro, il rapporto più naturale è quello dell'«unità dei due», in cui il rapporto interpersonale e reciproco risulta come “un dono arricchente e responsabilizzante” (n. 8) e al quale Dio ha affidato “non soltanto l'opera della procreazione e la vita della famiglia, ma la costruzione stessa della storia” (n.8). Occorre dunque prendere coscienza “del molteplice contributo che la donna offre alla vita di intere società e nazioni” (n. 8) 

Ricordando il genio femminile allo scopo di “fare ad esso più spazio nell’insieme della vita sociale, nonché di quella ecclesiale” (n. 10), infatti, Giovanni Paolo II invitò a riflettere anche sul significativo ruolo che la donna svolge come madre, come sorella e come collaboratrice nelle opere di apostolato (cf. n. 10), altre dimensioni della collaborazione fra l’uomo e la donna diversa da quella coniugale, ma assolutamente non meno importante. Difatti tale era l’opera delle donne straordinarie che la Chiesa ha visto sorgere nel suo seno attraverso i secoli, come Santa Caterina da Siena e Santa Teresa d’Avila, ambedue dottori della Chiesa (cf. n. 11).] 

E il “genio della donna” – espressione caratteristica di Giovanni Paolo II di felice memoria – è emerso anche nel mondo delle migrazioni. Ricordiamo a questo proposito anzitutto, Santa Francesca Saverio Cabrini, fondatrice delle Suore Missionarie del Sacro Cuore, la quale desiderava principalmente, in tutte le sue iniziative a favore degli emigrati, la diffusione del messaggio cristiano a coloro che rischiavano di perdere “con la patria terrena, anche [quella] eterna” (cf. People on the Move, vol XXXVI, n. 94, aprile 2004, pp. 99-108); e poi Santa Paolina del Cuore Agonizzante di Gesù (Amabile Wisenteiner, al secolo), emigrata italiana in Brasile, madre di famiglia e fondatrice della Congregazione delle Piccole Suore dell’Immacolata Concezione e infine Sorella Assunta, collaboratrice del missionario scalabriniano P. Giuseppe Marchetti, nella sua opera tra gli emigrati italiani in Brasile, divenuta poi cofondatrice della Congregazione delle Missionarie di S. Carlo (Scalabriniane). Anche per lei, è in corso la causa di beatificazione (cf. People on the Move, vol XXXIV, n. 88-89, aprile-agosto 2002, pp. 371-372). 

L’apostolato delle religiose fra gli immigrati è comunque sempre attuale, come ricorda la recente Istruzione Erga migrantes caritas Christi (n. 80), per cui il “genio femminile” non è prerogativa soltanto di donne eccezionali del passato, presente o futuro, ma anche di “quelle semplici, che esprimono il loro talento femminile a servizio degli altri nella normalità del quotidiano” (Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, n. 12). Lo fanno anche le donne migranti, per cui è nato un “nuovo femminismo” anche fra di esse. È la conclusione che vi lascio prima di contemplare  

Maria, icona della donna migrante e massima espressione del genio femminile

Icona vivente della donna migrante è Maria Santissima stessa. “Ella dà alla luce suo Figlio lontano da casa (cfr. Lc 2,17) ed è costretta a fuggire in Egitto (cfr. Mt 2,13-14). La devozione popolare considera quindi giustamente Maria come Madonna del cammino” (EMCC 15). 

Ma è anche in Maria che la Chiesa vede la massima espressione del “genio femminile”, in Colei che si è definita “serva del Signore”, che servendo con amore regna.[Il servizio di Maria, di fatto, è “un misterioso, ma autentico regnare” (Lettera alle donne, n. 10). Ella è “Regina del cielo e della terra”.

Guardando pertanto a Maria, la donna scopre che non ha niente da invidiare all’uomo. Il suo ruolo distinto e diverso, eppure in uguaglianza con l’uomo, appare infatti evidente e di altissima dignità.]Ella è custode della “reciprocità” tra uomo e donna, impegnata, come l’uomo, del resto, nella “cultura della reciprocità”.

Con Giovanni Paolo II preghiamo Maria, Regina dell'amore, di vegliare sulle donne, specialmente quelle migranti, e sulla loro missione al servizio dell'umanità, della pace e della diffusione del Regno di Dio!

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Resumen

 

LA MUJER MIGRANTE 

El artículo reproduce una conferencia pronunciada por el autor, el 15 de junio 2005, dentro de una serie organizada por la “Asociación Internacional Caridad Política”, en el marco del “nuevo feminismo”.

Al afrontar el tema, se remite ante todo a la presentación que redactó para el libro “Con occhi di Beghina” (Con los ojos de una ‘beata’), obra de la filóloga, literata y gran estudiosa del feminismo religioso, Romana Guarnieri, fallecida hace poco. Mons. Marchetto en él la escritora describe y exalta la figura de mujeres que dieron esplendor a su tiempo y al que siguió, manifestando sus propias cualidades y afirmando su sublime dignidad. El tipo de feminismo expresado por R. Guarnieri es mesurado, comprometido e imparcial. 

A partir de esto, el autor profundiza en la exposición de un feminismo distinto del que tradicionalmente se identifica con la lucha por la emancipación femenina que se propone lograr una hipotética igualdad entre el hombre y la mujer.

En su calidad de Secretario del Consejo Pontificio para la Pastoral de los Emigrantes e Itinerantes, Mons. Marchetto examina este tema desde el punto de vista particular de las migraciones, colocando en el centro de su disertación a la “mujer migrante”, una figura que se ha vuelto siempre más importante con el progreso de la “feminización” de las migraciones. Mientras, en el pasado, de hecho, los que emigraban eran los varones, y luego se reunían con ellos las esposas, hoy día el elemento femenino es siempre más importante y autónomo y, en algunos casos, en los países más desarrollados, incluso preponderante. El artículo lleva estadísticas y connotaciones del fenómeno por continentes, sectores de trabajo y también ambientes culturales, llamando la atención, asimismo, acerca de la amenaza de explotación que pesa sobre las mujeres procedentes de regiones con escasas o ninguna posibilidad de un mejoramiento económico.

Las consecuencias ocasionadas por la migración de la mujer son notables, ya sea por el mayor relieve que adquiere su posición, gracias a sus ganancias, como por las inevitables transformaciones en sus relaciones familiares, debido al contacto con culturas distintas, y por la aportación de la mujer al aumento del nivel de instrucción y de capacidad de trabajo de las generaciones siguientes.

La “feminización” del fenómeno migratorio desemboca, así, en una especie de espontáneo y natural “feminismo”. Pero el feminismo actual no es el mismo de los años 70, en el que en la lucha por la igualdad de derechos para los dos sexos, la mujer tomaba como modelo al hombre, imitándolo. La diferencia entre hombre y mujer, en la misma antropología cristiana, es más profunda que aquella meramente biológica, al ser ontológica y no sólo física. Los dos son profundamente distintos, y por tanto complementarios en la totalidad de la vida. Esto lleva implicaciones para la formación de los hijos, para la vida de la familia y, a través de ella, para la evolución de la sociedad. 

Surge un nuevo “feminismo”, magistralmente puesto de relieve por Juan Pablo II en la conmovedora carta del 29 de junio, 1995, publicada con ocasión de la IV Conferencia Mundial de la Mujer. Una filigrana de observaciones, sublimaciones, agradecimientos y llamamientos entretejidos alrededor del “genio de la mujer”, del cual el artículo ofrece un agudo compendio que culmina con la imagen del icono más brillante de las mujeres migrantes: María Santísima, Reina del Amor.


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Summary

 

The Migrant Woman 

The article was originally a lecture given by the author on 15th June 2005, as part of a series of talks, organized by the “Associazione Internazionale Carità Politica” (International Association of Political Charity), on “the new feminism”.

He deals with the theme, first of all, by recalling a foreword that he wrote for the book entitled “Con occhi di Beghina” (With the eyes of a Beguine). The publication was written by the learned philologist and great scholar of religious feminism, Romana Guarnieri, who has recently passed away. In this book, the writer describes and exalts the figure of women, who illumined their times and the future, by manifesting their qualities and affirming their sublime dignity. Guarnieri’s feminism is a cautious, committed and impartial kind.

Moving on from there, the author starts an exposition of a feminism that is different from what is traditionally identified with the struggle for the emancipation of women and intends to achieve a hypothetical equality between man and woman.

As Secretary of the Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinenat People, Archbishop Marchetto analyzes this theme from the specific point of view of migration, placing the “migrant woman” at the heart of his dissertation. This is a figure that is becoming more and more important with the increasing “feminization” of migration. In the past, in fact, those who emigrated were mostly men, later joined by their wives. Now, women emigrants are becoming more numerous and more independent in their mobility. In some cases, particularly in more developed countries, they even outnumber their male counterpart. The article gives statistics and the implications of the phenomenon, by continent, work sector, and cultural milieu. It calls our attention to the danger that women, coming from regions with scarce or no possibilities of economic development, would be exploited. 

The migration of women has noteworthy consequences. These include the fact the women become more important due to their earnings, that their family relationships undergo inevitable changes as they come in contact with other cultures, and that they contribute to the increase in the level of instruction and the working capacity of the succeeding generations. 

In this way, the ‘feminization’ of the migration phenomenon develops into some sort of spontaneous and natural ‘feminism’, but feminism today is no longer that of the 1970s. At that time, in fighting for the equality of rights between the two sexes, the woman took the man as her model and imitated him. In Christian anthropology, the difference between man and woman is more profound than what is merely biological, since it is ontological and not merely physical. The two are profoundly different from each other and therefore complimentary in the totality of life. This has its implications on the formation of the children, on family life and, through it, on the evolution of society.

A new ‘feminism’ emerges, excellently underlined by John Paul II in his touching letter of 29th June 1995, published in view of the IV World Conference on Women. An intricate composition of observations, sublimations, thanks and appeals woven around the “genius of the woman”, which the article summarizes with great insight, culminating in the image of the most radiant icon of migrant women, the Most Holy Mary, Queen of Love. 



* È una delle conferenze organizzate dall’“Associazione Internazionale Carità Politica” pronunciata a Roma il 15 giugno 2005 nel quadro del “nuovo femminismo”. 

 

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