IL PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI:
Ringrazio Sua Eccellenza Rev.ma Mons. Tondra e l’Ill.mo Prof. Holec per il gentile invito fattomi a partecipare a questo Simposio, e mi congratulo con l’Associazione Slovacca di Diritto Canonico per il suo impegno scientifico e pastorale, di cui è ben informato il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. L’amplissima tematica di questo nostro incontro – “Giustizia e Diritto nella Chiesa e nella Società” – costituisce una buona prova del vasto interesse di ricerca dell’Associazione. In questo mio intervento rimarrò logicamente nell’ambito del Diritto della Chiesa, ma dovrò trattare argomenti che interessano anche l’ordinamento giuridico della Società civile, come sono soprattutto le questioni riguardanti l’interpretazione della legge e la doverosa tutela del principio della gerarchia delle leggi. Entriamo così nel tema concreto della relazione che mi è stata affidata, e che intendo sviluppare nei punti seguenti: 1° Ragion d’essere del “Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi”; 2° L’interpretazione autentica “per modum legis” delle leggi universali della Chiesa; 3° I giudizi o pareri di congruenza delle leggi particolari con le leggi universali della Chiesa; 4° La “recognitio” dei decreti generali degli organismi episcopali; 5° La collaborazione tecnica del Consiglio con gli altri Dicasteri della Curia Romana; e 6° La metodologia del lavoro. Attesa la doverosa ampiezza della tematica, vorrei premettere, in limine tractationis, che questo mio intervento avrà un carattere modesto, cioè semplicemente espositivo e sintetico.
I
Inquadramento teologico-giuridico del
In un suo commento alla Cost. Ap. «Pastor Bonus», sulla rinnovata organizzazione della Curia Romana, Umberto Betti ha scritto che «le decisioni dei Dicasteri, nei quali essa è organicamente strutturata (...), pur non essendo atti specifici del Papa, ne riflettono tuttavia il pensiero e la volontà, e sono il tramite della sua presenza a sostegno del primario dovere dei Vescovi, nelle Chiese particolari loro affidate, di “promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa” (Lumen gentium, n. 23)»[1]. Questo dovere comunionale, e questa volontà del Capo e dei Membri del Collegio episcopale – specie se sono Pastori di Chiese particolari – di «promuovere la disciplina comune a tutta la Chiesa»[2], mi pare che costituisca la primaria ragione ecclesiologica dell’esistenza del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi; così come il dovere e la volontà di «promuovere e difendere l’unità della fede» ha offerto solido fondamento all’esistenza – già fin dalle riforme di Sisto V, di S. Pio X e di Paolo VI – della Congregazione per la Dottrina della Fede. Questo paragone tra la Congregazione e il Consiglio potrà forse sembrare forzato e magari presuntuoso, benché nessuno di questi due Dicasteri possa ovviamente attribuirsi l’esclusività di tali ponderose competenze sulla dottrina e sulla disciplina, che coinvolgono la responsabilità dell’intera Curia Romana e, anzi, dell’intero Ministero primaziale del Papa. Ma il paragone sembra giustificato se si tiene conto concretamente di quello specifico livello della «communio» che sul piano giuridico e pastorale viene sotto il nome di «comunione gerarchica». Ha commentato, infatti, il Presidente della Commissione incaricata di approntare l’ultimo progetto della Cost. Ap. “Pastor Bonus”: «In tale cornice (della comunione gerarchica) il ministero del Sommo Pontefice, istituito da Cristo come principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità e della comunione della sua Chiesa, si rivela primariamente ordinato a servire l’unità gerarchica. Esso esiste nella Chiesa affinché l’Episcopato sia unus et indivisus, come proclamò il Concilio Vaticano I (Cost. Dogm. Pastor Aeternus) ed ha solennemente riaffermato il Vaticano II (Lumen gentium, n. 18)»[3]. Il Papa (e con lui la Curia Romana) serve cioè all’unità di coloro, che a loro volta servono la comunione nelle rispettive Chiese particolari. Ed egli adempie a questo supremo servizio pastorale sia con l’alta autorevolezza del suo Magistero, sia con l’esercizio del suo primato di giurisdizione, il quale nell’ambito della potestà legislativa comprende, tra l’altro: l’interpretazione autentica delle leggi[4], la garanzia di legalità nell’esercizio dell’attività legislativa nei vari livelli di potestà e la tutela della necessaria gerarchia delle norme, vale a dire della congruenza con le leggi universali della Chiesa delle norme emanate dai legislatori inferiori alla suprema potestà[5]. Più avanti avremo occasione di esaminare queste manifestazioni del primato di giurisdizione del Papa, che il Concilio Vaticano II e la nuova legislazione canonica hanno esplicitato più chiaramente che in passato. Ora vorrei soltanto sottolineare come appaia abbastanza evidente che l’istituzione del «Pontificium Consilium de legum textibus»[6] abbia ubbidito ad una primaria ragione ecclesiologica, di natura dottrinale, intimamente connessa alle seguenti due altre motivazioni, di ordine prevalentemente giuridico: 1ª) Attesa la peculiare natura della Chiesa e dell’ordinamento canonico, è apparsa conveniente l’esistenza d’un organismo permanente (al tempo stesso tecnico e pastorale) atto ad aiutare il Legislatore supremo nell’interpretazione autentica delle leggi, sia che si tratti d’interpretazione dichiarativa, sia che si tratti di quella a carattere costitutivo (esplicativa, restrittiva o estensiva)[7]. Non è il caso di allungare qui il discorso fermandoci a ricordare la teoria generale dell’interpretatio o «aperta significatio legis»[8], i cui tratti essenziali (necessità e norme dell’interpretazione, autore, tipologia e varietà di effetti vincolanti) si trovano già nei glossatori[9] e furono successivamente sviluppati dal Suárez[10] e altri, nonché nel nostro secolo dai commentatori del CIC 1917 e del CIC 1983[11] e da studi monografici come quelli classici di Emilio Betti e di Orio Giacchi[12]. Quello invece che ora ci sembra opportuno ricordare è che, nel diritto canonico, l’interpretazione autentica generale, o per modum legis, affidata al Consiglio Pontificio, è da distinguersi dalla chiamata interpretazione singolare o particolare «per modum sententiae iudicialis aut actus administrativi» (can. 16, § 3), che riguarda ed obbliga soltanto le persone e i casi per i quali viene data rispettivamente dai competenti tribunali od autorità amministrative. Questa peculiare forma d’interpretazione autentica per modum legis, che non trova adeguato riscontro negli ordinamenti civili, non soltanto ha fondamento in una tradizione millenaria che affonda le sue radici nel diritto romano, ma poggia su solide ragioni dottrinali riguardanti la nozione stessa della legge canonica e della potestà ecclesiastica[13]. Già Benedetto XV disse nell’atto costitutivo della Pontificia Commissione Interprete del Codice di Diritto Canonico del 1917: «Ecclesiae bonum ipsiusque natura rei postulant ut, quantum fieri potest, caveamus ne aut incertis privatorum hominum de germano canonum sensu opinionibus et coniecturis, aut crebra novarum legum varietas, tanti operis stabilitas in discrimen aliquando vocentur»[14]. E in termini simili si espresse Giovanni Paolo II nel costituire l’equivalente Commissione Interprete del CIC 1983: «...aliquando quaestio oriri potest de Legislatoris voluntate et mente, sicque interpretatio requiritur, quae legum germanam rationem demostret ad quaslibet dubitationes vel ambiguitates dissipandas»[15]. 2ª) Ma insieme alla necessità di facilitare l’ubbidienza alle leggi assicurando autoritativamente – senza pregiudizio della giurisprudenza o della scienza canonica – la loro retta interpretazione ed applicazione, c’era un’altra necessità vivamente sentita fin dall’inizio dei lavori della nuova Codificazione canonica. Mi riferisco alla convenienza che, salva la pluralità e possibile diversità dei diritti particolari (ulteriormente aumentata dal Concilio Vaticano II con l’aggiunta delle Conferenze episcopali alle precedenti fonti di diritto «infra auctoritatem supremam»), fosse anche garantita la necessaria unità fondamentale e la congruenza interna dell’intera legislazione ecclesiastica. A questa necessità si fece già un chiaro accenno al n. 5 dei «Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant» approvati dal Sinodo dei Vescovi nell’ottobre 1967[16], e di essa fu tenuto il dovuto conto nel processo di elaborazione dello schema del nuovo Codice[17]. Anzi, a tutela della certezza giuridica e del principio della gerarchia delle norme, valido in ogni società rettamente ordinata, il CIC 1983 stabilì nettamente al can. 135 § 2: «A legislatore inferiore lex iuri superiori contraria valide ferri nequit», norma poi ripresa dal CCEO, al can. 985, § 2. Ma quale autorità, e con quale procedura, doveva emettere tali giudizi di congruenza o di mancanza di congruenza tra l’atto del legislatore inferiore e le leggi emanate dalla suprema autorità? È una domanda che alcuni ci ponevano[18], atteso che nel medesimo Codice nulla era stato regolato in merito, mentre con l’accantonamento del progetto della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» era stata simultaneamente scartata la seguente norma, che figurava come can. 85, § 1 dell’ultimo progetto di detta legge: «Uni Romano Pontifici competit, per se vel per peculiare institutum ab ipso conditum, nullam declarare aliam legem sicut et quodvis decretum vel praeceptum quae huius Legis fundamentalis praescriptis sit contraria, et quidem sive ad petitionem eorum qui se gravatos existiment sive ex officio»[19]. La Cost. Ap. «Pastor Bonus», con l’istituzione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ha risolto in linea di massima la predetta questione, e riempito così una lacuna giuridica, che lasciava nella sola enunciazione di principio fatta al can. 135, § 2 la necessaria tutela della gerarchia delle norme nella Chiesa.
II
Il Consiglio e l’interpretazione autentica
La Cost. Ap. «Pastor Bonus» fa all’art. 154 un’affermazione generale di competenza la quale, come per tutti i Dicasteri della Santa Sede, viene attuata con una potestà di carattere ordinario e vicario[20]: «La funzione del Consiglio consiste soprattutto nell’interpretazione delle leggi della Chiesa». Subito dopo precisa per quanto riguarda le leggi emanate dalla Suprema autorità: «Spetta al Consiglio proporre l’interpretazione autentica, confermata dall’autorità pontificia, delle leggi universali della Chiesa, dopo aver sentito nelle questioni di maggior importanza i Dicasteri competenti circa la materia in esame»[21]. L’analisi esegetica di questo testo permette di fare alcuni brevi rilievi: a) esso riproduce quoad substantiam il n. 1 del Motu pr. «Recognito Iuris Canonici Codice»[22], che fissava in tale unico compito – limitato peraltro alla Chiesa Latina – la competenza della estinta Commissione interprete del CIC 1983; b) nell’espressione «Ecclesiae legum universalium» vanno comprese: il Codice di Diritto Canonico; il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali[23]; le leggi peculiari o speciali – presenti o future – a carattere universale, anche se riguardano soltanto una determinata materia (come sono, ad esempio, le Costituzioni Apostoliche sull’elezione del Romano Pontefice, sulle Cause dei santi, e la stessa Cost. Ap. «Pastor Bonus»); infine, le leggi disciplinari universali che non sono contenute nel CIC o nel CCEO né da essi «ex integro ordinantur» (CIC can. 6, § 1, 4°; CCEO can. 6, 1°), e che pertanto non sono state abrogate con la promulgazione di questi due Codici; c) la conferma dell’interpretazione autentica da parte del Papa – «pontificia auctoritate firmata» – è adesso ordinariamente significata nei “Responsa” del Consiglio con la formula: «Summus Pontifex in Audientia (...) de supradicta decisione certior factus, eam confirmavit et promulgari iussit». Nel Motu proprio costitutivo della Commissione Interprete del CIC 1917 non si richiedeva – anche se in pratica avveniva così – la conferma del Sommo Pontefice. Ma ciò non significa che in entrambi i casi non sia stata conferita dal Legislatore una uguale potestà interpretativa ordinaria. (Cfr. CIC 1917, can. 17, § 1; CIC 1983, can. 16, § 1 e CCEO, can. 1498, § 1). d) quanto ai tipi di interpretazione autentica, è ovvio – altrimenti il Legislatore avrebbe messo le relative clausole limitative – che il Consiglio può fare i quattro tipi di «interpretatio authentica per modum legis» sopra ricordati, che sono stati enucleati tradizionalmente dalla dottrina, e nuovamente sanciti nei vigenti Codici latino e orientale; tuttavia nel caso delle interpretazioni costitutive, cioè quelle esplicative, restrittive od estensive, che in pratica inducono una nuova legge e non hanno perciò carattere retroattivo, si chiederà al Romano Pontefice l’approvazione specifica; e) questa potestas interpretandi del Consiglio non contiene invece la potestas supplendi legem: perciò, alle eventuali lacunae iuris dovranno provvedere il Legislatore (con l’emanazione delle relative norme a carattere generale), oppure l’autorità giudiziaria o amministrativa facendo ricorso nei singoli casi alle fonti di Diritto suppletivo previste nel CIC, can. 19 (cfr. CCEO, can. 1501); f) le interpretazioni autentiche «per modum legis» vengono ordinariamente promulgate, e ciò non soltanto perché la promulgazione è un requisito essenziale della legge (cfr. CIC, can. 7; CCEO, can. 1488), ma anche perché adesso il Legislatore ha stabilito che vengano promulgate pure le interpretazioni meramente dichiarative (cfr. CIC, can. 16, § 2; CCEO, can. 1498, § 2)[24]; g) quanto alla ermeneutica dell’interpretazione, è ovvio che vanno seguite le regole tradizionali enunciate al can. 17 del CIC e can. 1499 del CCEO, innanzitutto il criterio dell’interpretazione letterale: «Leges intellegendae sunt secundum propriam verborum significationem in textu et contextu consideratam» (CIC, can. 17; cfr. CCEO, can. 1499), ma senza trascurare i cosiddetti criteri secondari, che già la dottrina classica sull’interpretazione canonica considerava integrativi – talvolta necessariamente integrativi[25] – dell’esegesi testuale, e cioè: gli eventuali luoghi paralleli, le finalità e le circostanze della legge e la “mens legislatoris”; h) riguardo a quest’ultimo criterio, va però rilevato a scanso di equivoci che la “mens legislatoris” non è da identificare sempre con la “mens consultorum” e neppure con la «mens Patrum Commissionis» che, nel processo di elaborazione degli schemi o progetti legislativi dei due Codici – CIC e CCEO – appare nei verbali dei Gruppi di studio o delle Plenarie pubblicati rispettivamente su “Communicationes” o su “Nuntia”. Certamente le opinioni maggioritarie che appaiono discusse e votate in queste riunioni hanno un grande valore, specie quando il testo del progetto o schema non è stato poi modificato in seguito all’ultimo esame fatto personalmente dal Santo Padre o alla Sua presenza, ma la “mens legislatoris” può anche apparire da altri atti magisteriali o legislativi connessi al concreto testo canonico da interpretare.
III
Giudizi o pareri di congruenza legislativa
Come abbiamo rilevato sopra, questa funzione è stata affidata al Consiglio per assicurare la necessaria tutela giuridica al principio della gerarchia delle norme, così introdotto nel nuovo Codice di Diritto Canonico: «a legislatore inferiore lex iuri superiori contraria valide ferre nequit» (can. 135, § 2). Si tratta di una funzione a carattere interpretativo che non era contemplata nel primo schema di riforma della Cost. Ap. «Regimini Ecclesiae universae» sulla Curia Romana, preparato dalla Commissione di cui era presidente il Card. Antonelli e relatore Mons. Onclin[26], ma che fu introdotto dalla successiva Commissione presieduta dal Card. Sabattani[27] e sancito definitivamente all’art. 158 della Cost. Ap. «Pastor Bonus» nei seguenti termini: «A richiesta degli interessati, esso decide se le leggi particolari e i decreti generali, emanati da legislatori al di sotto della suprema Autorità, siano conformi alle leggi universali della Chiesa». Con l’attribuzione di questa funzione al Consiglio Pontificio per i Testi Legislativi viene affidata stabilmente ad un organismo della Santa Sede, per la prima volta nella storia della Chiesa, una competenza simile a quella che negli ordinamenti statali hanno le Corti Costituzionali. Ho voluto comunque sottolineare la parola simile perché, anche se in pratica la finalità è identica (salvaguardare, cioè, il principio della gerarchia delle norme), lo strumento giuridico e l’ampiezza della competenza non sono certamente gli stessi negli ordinamenti statali e nell’ordinamento canonico. In primo luogo, perché il Consiglio non è un tribunale; in secondo luogo, perché la sua competenza – in mancanza di una legge costituzionale o fondamentale – non è delimitata come avviene negli Stati dalla natura delle leggi (le leggi cosiddette ordinarie) ma dalla fonte di diritto da cui emanano (i legislatori «infra supremam auctoritatem»). Le ragioni di queste differenze, che rendono il Consiglio un organismo atipico dal punto di vista civilistico – come atipica è la stessa società ecclesiastica riguardo alle società puramente umane –, sono state le seguenti. Come si sa[28], in sede di elaborazione del progetto della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» e concretamente nelle prime fasi del lavoro dopo la consultazione fatta all’Episcopato, era stato approntato il seguente testo: «A supremo Ecclesiae tribunali nulla declarari potest quaevis alia lex sicut et quodvis decretum vel praeceptum, quae huius Legis Fundamentalis praescriptis sint contraria, et quidem sive ad petitionem eorum qui se gravatos existiment sive ex officio». Si trattava, cioè, di una trasposizione all’ordinamento della Chiesa della stessa tecnica giuridica delle sentenze di incostituzionalità operanti negli ordinamenti statali. Ciò non mancò di suscitare perplessità anche tra i canonisti[29]. Infatti, nello Stato di diritto (democratico) sia l’autorità del Capo dello Stato che la sua attività di governo, sono sottoposti alla Costituzione, e le sentenze delle relative Corti costituzionali obbligano anche il supremo Magistrato della Nazione. Perciò, a rigore di diritto costituzionale, al previsto «supremum Ecclesiae tribunal» avrebbe dovuto sottostare anche la personale potestà legislativa del Papa, il che sarebbe stato contro il principio teologico-canonico «Prima Sedes a nemine iudicatur»[30]. Anzi, per quanto riguarda le leggi emanate dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche, fu fatto presente in sede di Commissione speciale per la LEF, che un tribunale così, da considerarsi in certo modo al di sopra del Papa, difficilmente sarebbe stato recepito da queste Chiese: «orientales enim unam admittent auctoritatem Romani Pontificis ad iudicandum de suis legibus»[31]. È per questi principali motivi che l’inizio della predetta norma fu cambiato così nelle successive redazioni dello schema: «Uni Romano Pontifici competit, per se vel per peculiare institutum ab ipso conditum, nullam declarare aliam legem sicut et...»[32]. Deciso successivamente l’accantonamento del progetto della LEF, ma, ripresa in sede di Commissione per la nuova legge peculiare della Curia Romana la questione della necessaria tutela della gerarchia delle norme, fu introdotto il seguente testo nello schema del 1985, poi rimasto sostanzialmente invariato: «Iis quorum interest postulantibus, decernit utrum legis particulares et generalia decreta, a legislatoribus infra supremam auctoritatem lata, cum universalibus Ecclesiae legibus conformia sint»[33]. La medesima commissione si pose il problema se tale «peculiare institutum» dovesse essere un tribunale (e concretamente la Segnatura Apostolica, tramite un’eventuale «sezione quarta») in quanto si tratterebbe di controversie circa concreti provvedimenti legislativi accusati di illegittimità, oppure il Pontificio Consiglio «De Legibus Interpretandis» (questo era allora il suo nome), in quanto si tratterebbe di esaminare la conformità o meno di una legge particolare con la legge universale, ciò che coinvolge nella sostanza una funzione interpretativa. Prevalse infatti la seconda opinione[34], e questa scelta – rimasta anche nel successivo schema della Commissione cardinalizia presieduta dal Card. Baggio – ebbe nella «Pastor Bonus» la sanzione definitiva del Legislatore. Come si può facilmente intuire, con questa scelta è stato affidato al Consiglio per i Testi Legislativi un compito assai impegnativo, sia dal punto di vista scientifico che pastorale; anche perché l’eventuale risposta negativa al dubbio sulla conformità o meno del provvedimento legislativo in esame con la legge universale ha delle importanti conseguenze pratiche di governo, come sarebbero l’annullamento della legge o l’autoritativa ingiunzione affinché il legislatore inferiore la modifichi. Noi siamo ovviamente disposti ad evitare – tramite l’accurata procedura prevista nel Regolamento del Consiglio – che il fatto di non seguire la via giudiziaria non rappresenti una minore garanzia sia di prudenza nell’ammettere gli esposti o le segnalazioni che vengano presentati dagli aventi diritto, sia di profondità ed equanimità dello studio che dovrà essere fatto nei singoli casi. Peraltro anche lo studio fatto in sede giudiziaria comporta sostanzialmente una interpretazione della legge, e le sentenze altro non sono che interpretazioni autentiche a carattere particolare. È stato detto – anche se il paragone rimane sempre analogico – che il rapporto tra diritto particolare e diritto universale diventa in qualche modo quello che intercorre tra Chiese particolari e Chiesa universale, cosicché, in certa misura, può ripetersi di quella relazione quanto si può dire di questo nesso[35]. Proprio per tale motivo va precisato che l’opera del Consiglio non potrà essere mai un freno allo sviluppo del diritto particolare, la cui congruenza con la legge universale della Chiesa deve tutelare. Sarà piuttosto, un fattore di armonia e di complementarietà, come si spiega anche di seguito.
IV
La "recognitio" dei decreti generali degli
È stabilito all’art. 157 della «Pastor Bonus» che al Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi «devono essere sottoposti per la recognitio da parte del Dicastero competente, i decreti generali degli organismi episcopali perché siano esaminati sotto l’aspetto giuridico». Si tratta, pertanto, di una collaborazione che il Consiglio presta ai Dicasteri della Curia (concretamente le Congregazioni per i Vescovi e per l’Evangelizzazione dei Popoli), cui compete nell’ambito rispettivamente delle giurisdizioni ecclesiastiche da essi dipendenti la “recognitio” o revisione dei decreti generali, di carattere sia legislativo che esecutivo[36] preparati dagli “organismi episcopali”, cioè le Conferenze episcopali[37] ed i Concili particolari[38]. È prassi delle due Congregazioni sopra accennate inviare agli altri Dicasteri competenti «ratione materiae», con preghiera di fare eventuali osservazioni, i testi di tali decreti generali. Dopo l’entrata in vigore della «Pastor Bonus», le medesime Congregazioni inviano anche al Consiglio per i Testi Legislativi detti decreti generali, con richiesta di parere tecnico. La “ratio iuridica” in base alla quale il Consiglio esamina i singoli testi ha un duplice profilo: in primo luogo, di congruenza dei medesimi decreti generali con le leggi universali (a garanzia della communio in regimine); ed in secondo luogo, di correttezza terminologica e concettuale. Forse non sarà superfluo aggiungere, a scanso di eventuali equivoci, che l’inserimento istituzionale del Consiglio nel processo di revisione dei decreti generali delle Conferenze episcopali ha un carattere di servizio, che in nulla pregiudica la legittima autonomia e la potestà legislativa ad normam iuris[39] di detti organismi, indipendentemente dalla considerazione di quali siano dal punto di vista dottrinale l’origine e la natura – propria o delegata – della medesima potestà[40]. Il Consiglio, cioè, collabora semplicemente nel compito di rivedere tali decreti, affinché essi adempiano nel miglior modo possibile la loro finalità di completare la legge universale e di adattarla alle specifiche necessità pastorali delle relative Chiese particolari. Tra le Conferenze episcopali, istituti permanenti a norma del CIC (can. 447) dotati ipso iure di personalità giuridica (can. 449, § 2), e i Concili particolari, che non hanno queste caratteristiche (cfr. cann. 439, § 1 e 442, § 1, 1°), ci sono notevoli differenze, anche per quanto riguarda la loro origine storica e la loro composizione e finalità. Ma, con riferimento concretamente all’esercizio della loro potestà legislativa, sia gli atti delle Conferenze che quelli dei Concili particolari sono sottoposti ad una stessa condizione invalidante: i loro decreti, cioè, non possono essere legittimamente promulgati se non dopo che siano stati riconosciuti o riveduti («recognita»: cfr. cann. 446 e 455, § 2) dalla Santa Sede. Quanto al significato giuridico di questa «recognitio», essa è da considerarsi un atto della Suprema autorità con il quale si permette autoritativamente (si autorizza) la promulgazione di una legge o decreto legislativo dell’autorità inferiore. Ma, come si fece notare durante i lavori di preparazione del nuovo CIC, tale «recognitio non est tantum formalitas quaedam, sed actus potestatis regiminis, absolute necessarius (eo deficiente actus inferioris nullius valoris est) et quo imponi possunt modificationes, etiam substantiales in lege vel decreto ad recognitionem praesentato»[41]. Da notare, però, che con la «recognitio» non si cambia né la natura né l’autore del provvedimento. Esso rimane sempre un atto – in questo caso un decreto generale – dell’autorità inferiore – Conferenza episcopale o Concilio particolare –, che lo ha emanato e lo promulga.
V
Aiuto tecnico-giuridico agli altri Dicasteri
Questo aiuto viene prestato secondo una duplice modalità: a) collaborazione con tutti gli altri Dicasteri, e particolarmente con le Congregazioni, «affinché i decreti generali esecutivi e le istruzioni, che essi devono emanare, siano conformi alle norme del diritto vigente e siano redatti nella dovuta forma giuridica» (Cost. Ap. «Pastor Bonus», art. 156); b) studio dei dubbi nelle interpretazioni delle leggi universali della Chiesa che gli altri Dicasteri, su proposta del relativo Congresso, sottopongono al nostro Consiglio (cfr. “Regolamento Generale della Curia Romana”, art. 104). a) Per quanto riguarda la prima modalità di questo aiuto, è da notare che in pratica essa non costituisce una novità. Infatti, già nel marzo 1968 una lettera circolare della Segreteria di Stato[42] regolava una collaborazione simile tra la pontificia Commissione per la Revisione del CIC 1917 e gli altri Dicasteri della Curia; e questo aiuto, in forma ancora più consistente e regolare, si è prolungato di fatto dopo la promulgazione del nuovo Codice. Perciò, già nel primo schema della riforma della Cost. Ap. «Regimini Ecclesiae Universae» fu inserita, alla seconda parte del n. 127 del progetto, una norma molto simile a quella attuale, anche se redatta in termini più perentori: «Eiusdem Commissionis imprimis est providere ne legum universalium ordinariarum edendarum praescripta canonis Legis Ecclesiae fundamentalis sint contraria atque curare ut earundem legum textus recta forma iuridica concipiatur; item ut quae Dicasteria Romanae Curiae edere intendunt exsecutoria decreta generalia atque instructiones ad legum praescriptis maiorem lucem afferendam, legum praescriptis sint congruae et debita forma componantur»[43]. Sospesa la promulgazione del progetto della «Lex Ecclesiae Fundamentalis», non ci sarà il compito di assicurare la congruenza normativa tra i progetti delle leggi universali ordinarie e quella legge canonica supremi ordinis cui sarebbe stato attribuito il carattere costituzionale o fondamentale. Tuttavia viene da domandarsi: per quale motivo è stato soppresso dal testo definitivo della «Pastor Bonus» anche l’accenno alla cura, nella fase di preparazione, della correttezza tecnica («textus recta forma iuridica concipiatur») delle medesime leggi universali ordinarie? Mi sembra che la risposta la si trovi indirettamente all’art. 18 della stessa Costituzione, dove è stabilito che «i Dicasteri non possono emanare leggi o decreti generali aventi forma di legge, né derogare alle prescrizioni del diritto universale vigente». Nessun Dicastero cioè – neppure le Congregazioni, la cui potestà è soltanto amministrativa od esecutiva – ha compiti di natura legislativa[44]. Perciò, non sarebbe stato molto perspicuo stabilire che il Consiglio dovesse aiutare i Dicasteri in compiti che a loro non sono propri. É invece competenza delle Congregazioni l’emanazione di decreti generali ed istruzioni, per facilitare e sollecitare la retta applicazione delle leggi: perciò, è nella preparazione di questi documenti di governo dove il Consiglio presta agli altri Dicasteri l’assistenza che gli viene regolarmente richiesta. È vero che, contrariamente ai legislatori «infra auctoritatem supremam», il Romano Pontefice può delegare la sua potestà legislativa, ma ordinariamente non lo fa. Certamente, come è stato opportunamente fatto notare, «il Papa può affidare a qualche dicastero o gruppo di persone la preparazione dei testi legislativi, ma chi dà loro forza di legge è solo, e personalmente, il Papa»[45]. Sarà perciò lo stesso Romano Pontefice a giudicare, caso per caso, se sia conveniente od opportuno domandare la collaborazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi anche in ordine alla preparazione di nuovi testi legislativi (leggi o decreti generali); oppure soltanto – domandando il suo parere sugli eventuali progetti o schemi – per assicurare ulteriormente la loro correttezza giuridica (conformità alle norme del diritto vigente cui il Legislatore non intenda derogare, precisione terminologica e di redazione, ecc.)[46]. b) Per quanto riguarda i dubbi giuridici che, su proposta del rispettivo Congresso, gli altri Dicasteri sottopongono al Consiglio, essi sono stati e continuano ad essere di due tipi. Alcuni, in cui si è rilevata la reale esistenza di un vero “dubium iuris”, danno luogo ad interpretazioni autentiche: così è avvenuto, per esempio, riguardo ai Vescovi ausiliari e la presidenza delle Conferenze episcopali; all’elezione dei presidenti dei Capitoli canonicali; al Dicastero competente per ricevere il ricorso in sospensivo contro il decreto di dimissione dei religiosi; alla tipificazione del delitto di aborto, ecc. Altre volte – molto più numerose – i dubbi che ci vengono proposti richiedono soltanto chiarimenti giuridici in ordine alla retta applicazione della legge in determinate fattispecie e circostanze concrete: in questi casi la risposta (che viene solitamente elaborata in sede di Congresso o di Consulta) non è vincolante giuridicamente; ha il solo valore morale di un parere tecnico qualificato, che lascia intatta la competenza e la libertà decisionale del relativo Dicastero.
VI
Metodologia del lavoro
Il Pontificio Consiglio ha un Regolamento proprio, approvato dalla Segreteria di Stato. Questo Regolamento integra, come previsto dalla Cost. Ap. «Pastor Bonus»[47] il “Regolamento Generale della Curia Romana” del 1 luglio 1999, alle cui norme si rimanda in tutto ciò che riguarda l’assunzione e le attribuzioni specifiche del personale, la procedura generale del lavoro, ecc. Tralasciando altre disposizioni di carattere organizzativo ma troppo particolare (biblioteca, pubblicazioni del Consiglio, strumenti d’informatica, ecc.), mi sembra utile riportare con alcune opportune aggiunte informative le norme che riguardano la composizione del Consiglio e la procedura del lavoro a seconda delle varie competenze che sono state affidate al Dicastero.
a) Composizione.
É stabilito all’art. 2 del Regolamento: “Il Consiglio è composto dal Presidente, da Cardinali – tra i quali i Prefetti dei dicasteri della Curia con competenze a carattere prevalentemente disciplinare –, da Patriarchi Orientali e da Vescovi particolarmente esperti in diritto canonico”. Al presente il Consiglio è formato da 17 Cardinali, due Patriarchi, due Arcivescovi Maggiori, un Arcivescovo e un Vescovo. Quanto al corpo consultivo del Consiglio esso è attualmente composto da 51 Consultori di 23 nazionalità: 13 Arcivescovi e Vescovi, 19 sacerdoti secolari, 11 sacerdoti religiosi, una religiosa e 7 laici, uomini e donne. Quasi tutti i Consultori sono professori in facoltà e istituti di Diritto canonico o Giudici in tribunali pontifici o diocesani.
b) Interpretazioni delle leggi universali della Chiesa.
Le relative norme procedurali del Regolamento proprio del Consiglio sono: «Articolo 15 - § 1. Il Consiglio risponde in forma ufficiale ai quesiti presentati dai Dicasteri della Curia Romana, dagli Organismi episcopali, dagli Ordinari latini e dai Gerarchi orientali. § 2. Ad ogni altra richiesta è dato appropriato riscontro. Articolo 16 - § 1. I quesiti inoltrati al Consiglio sono esaminati dai Superiori e, se la loro consistenza giuridica lo consiglia, anche dal Congresso. § 2. Nel Congresso si decide ordinariamente quali dubbi ammettere allo studio in vista di una eventuale interpretazione autentica e a quali dare soltanto una risposta in forma di chiarimenti a norma dell’art. 18. Articolo 17 - I quesiti posti al Consilio che non riguardino l’interpretazione della legge, ma piuttosto la sua retta applicazione, vengono di norma trasmessi al Dicastero competente ratione materiae, corredati, se necessario, del parere del Consiglio. Al richiedente si dà notizia dell’avvenuta trasmissione. Articolo 18 - Ai dubbi che provengono da una non appropriata conoscenza della legge, o sono comunque da ritenersi soggettivi perché le parole della legge sono in se stesse certe, sarà data una risposta sotto forma di chiarimenti, benché in modo ufficiale. Risponde il Presidente, sentito il parere del Segretario e, se la materia lo esige, del Congresso, sentito anche il parere di Consultori, a seconda del problema in esame. Nel testo della risposta si farà notare che non si tratta di una interpretazione autentica. Articolo 19 - § 1. Circa i dubbi ammessi per una eventuale risposta autentica si chiede, secondo la loro importanza e difficoltà, il voto scritto di due o più Consultori. Ricevuti i voti, il Segretario convoca la Consulta, inviando simultaneamente e con sufficiente anticipo la relativa documentazione. § 2. Nella Consulta, tramite lo studio e la discussione delle singole questioni proposte – ordinariamente non più di due o tre –, si provvede alla formulazione definitiva dei Dubia, che in seguito vengono sottoposti alla Sessione ordinaria o alla Sessione plenaria. § 3. Sono invitati alla Consulta almeno sei Consultori – compresi quelli che hanno redatto i voti per le questioni in studio –, ed eventualmente anche qualche Collaboratore esterno particolarmente esperto in qualcuna delle materie da trattare. L’Officiale a ciò incaricato redigerà accurato verbale della discussione e delle conclusioni raggiunte nella Consulta. Articolo 20 - § 1. Il Presidente convoca la Sessione ordinaria e la Sessione plenaria di norma con un mese di anticipo. Ai Membri viene inviata la “positio” delle singole questioni da trattare, comprendente, oltre al Dubium proposto, il parere della Consulta, i voti dei Consultori, ed ogni altra eventuale documentazione utile per la conoscenza e l’esame dei problemi e anche il parere del Dicastero, o dei Dicasteri, interessato ratione materiae. § 2. Per ogni singola questione da trattare, il Presidente, previo accordo, affida ad uno dei Membri l’incarico di fare da Ponente. Articolo 21 - In base alle risoluzioni della Sessione plenaria o/e della Sessione ordinaria, raccolte accuratamente nel verbale dal Sottosegretario, viene preparato per ogni singola questione un Foglio d’Udienza, nel quale sono riferiti sinteticamente i pareri dei membri presenti alla Riunione e le conclusioni raggiunte, ordinariamente in forma di responsum al dubium proposto. Articolo 22 - § 1. Le risoluzioni prese dalle Sessioni plenarie e ordinarie sono portate in Udienza per la relativa decisione da parte del Sommo Pontefice. § 2. Le risoluzioni delle Sessioni plenarie e ordinarie approvate dal Sommo Pontefice saranno notificate alla Segreteria di Stato ed eventualmente agli altri Dicasteri interessati ratione materiae. § 3. Le interpretazioni autentiche, a cui si vuole dare forza di legge, sono promulgate, a norma del diritto. § 4. Le decisioni che devono essere pubblicate saranno trasmesse, tramite la Segreteria di Stato, sia a L’Osservatore Romano che ad Acta Apostolicae Sedis».
Fino al 1° agosto 2004 sono state sottoposte alle Sessioni ordinarie o plenarie 48 questioni. Di esse 29 hanno ricevuto una risposta in forma di interpretazione autentica già promulgata, avente cioè forza di legge. Per le altre questioni non fu ritenuta necessaria una interpretazione autentica, oppure – in qualche caso – l’interpretazione non è stata pubblicata, per decisione del Santo Padre, a ragione della materia o del destinatario dell’interpretazione stessa. Ovviamente le risposte del Consiglio a domande di pareri e chiarimenti (da parte di Vescovi, Conferenze episcopali, Giudici di Tribunali ecclesiastici, parroci, professori o studenti di Diritto canonico, ecc.) che non hanno richiesto una interpretazione autentica sono state più numerose, oltre 650.
c) Decisioni circa la congruenza legislativa.
È prescritto nel Regolamento del Consiglio quanto segue: «Articolo 23 - § 1. Le richieste legittimamente presentate in materia dagli interessati, se ed in quanto comportino necessariamente un esame interpretativo dei relativi testi, vengono sottoposte allo stesso iter di studio che si segue per l’interpretazione delle leggi, fino alla presentazione al Sommo Pontefice in Udienza delle deliberazioni e decisioni della Sessione ordinaria o della Sessione plenaria. (Cfr. artt. 16-22, § 1) § 2. L’esame circa la congruenza legislativa di un dato provvedimento con la legge universale sarà fatto sul testo autentico dello stesso provvedimento, richiesto, se del caso, a chi lo ha emanato e al Dicastero competente ratione materiae, tutte quelle notizie che si ritenessero opportune in ordine all’esame della questione. Articolo 24 - Dopo la conferma da parte del Legislatore del giudizio espresso dal Consiglio, quest’ultimo emana la decisione di congruenza o meno del testo legislativo esaminato con le leggi universali della Chiesa. La decisione – giudizio positivo di congruenza, oppure annullamento della legge od ingiunzione autoritativa perché essa venga modificata – viene comunicata simultaneamente al Dicastero competente e al legislatore inferiore interessato, per i necessari adempimenti».
Mi sembra opportuno rilevare, quanto all’espressione “richieste legittimamente presentate in materia dagli interessati” (art. 24, § 1), che essa è stata desunta per doverosa fedeltà normativa dall’art. 158 della «Pastor Bonus», e va intesa nel senso di richieste presentate da persona o persone che siano soggette alla legge in questione od abbiano al riguardo un interesse legittimo da tutelare. Fino alla data odierna sono state sottoposte allo studio del Consiglio 10 richieste di parere o giudizio di congruenza legislativa, che sono state già decise.
d) “Recognitio” dei decreti degli Organismi episcopali.
Nei relativi articoli del Regolamento del Consiglio è prescritto quanto segue: «Articolo 25 - Ricevuti i progetti dei decreti generali, trasmessi dal Dicastero competente a concedere la “recognitio”, il Presidente, sentito il parere del Segretario, decide se può essere data subito una risposta, oppure sia conveniente – per la particolare importanza della materia – procedere ulteriormente nello studio a norma degli artt. 19-22. Articolo 26 - Se la divergenza di posizioni tra i vari Dicasteri competenti nella “recognitio” e l’importanza della materia esigessero un ulteriore studio, si potrà suggerire al Capo Dicastero interessato di procedere tramite una riunione interdicasteriale. Questa sarà convocata, con il benestare della Segreteria di Stato, d’intesa tra i vari Capi Dicastero interessati e sarà presieduta dal Capo Dicastero competente a concedere la “recognitio”».
Dall’entrata in vigore della Cost. Ap. «Pastor Bonus» (1 marzo 1989) fino alla data attuale sono stati esaminati circa 1196 decreti generali di 54 Conferenze episcopali. Il Consiglio ha anche esaminato, in vista della relativa “recognitio” a norma del can. 451 CIC, 110 Statuti di Conferenze episcopali.
e) Assistenza tecnica agli altri Dicasteri.
Come già fatto rilevare prima, questa assistenza, oltre all’eventuale collaborazione nella preparazione di decreti a carattere legislativo di un Dicastero, per speciale commissione del Legislatore, riguarda sia l’esame dei progetti di decreti generali esecutivi e di istruzioni, che anche gli eventuali dubbi di interpretazione ed applicazione della legge in casi concreti, che gli altri Dicasteri pongono al nostro Consiglio. Al riguardo le norme sancite nel Regolamento proprio del Consiglio sono le seguenti: «Articolo 27 - § 1. L’esame dei progetti di decreti generali e di istruzioni di altri Dicasteri, che vengono sottoposti al Consiglio a norma della Cost. Ap. Pastor Bonus e del Regolamento Generale della Curia Romana, è fatto secondo la procedura di cui agli artt. 25-26 del presente Regolamento. § 2. Analogo procedimento sarà seguito nell’esame di altre richieste riguardanti testi legislativi, avanzate dai Dicasteri. Articolo 28 - Nell’esame dei dubbi, posti dai vari Dicasteri a norma dell’art. 104 del Regolamento Generale della Curia Romana, e nelle risposte ai medesimi, in caso di interpretazioni autentiche o di chiarimenti, si procederà come stabilito ai precedenti artt. 15-22».
Mi sembra opportuno rilevare che – insieme all’esame dei Decreti generali delle Conferenze episcopali e dei Concili particolari – è questa una delle competenze che, almeno finora, ha impegnato di più il nostro Consiglio. Esso, infatti, ha già risposto a oltre 750 richieste di parere da parte degli altri Dicasteri della Curia, e concretamente: 197 della Segreteria di Stato (entrambe le sezioni); 429 delle Congregazioni; 45 dei Tribunali Apostolici; 60 degli altri Consigli Pontifici; 31 di altri organismi della Santa Sede.
* * *
Non vorrei però finire questa relazione senza fare brevemente – affidandomi ancora alla loro gentile pazienza – una considerazione che ho già precedentemente ripetuto in altre sedi. Si tratta di una doverosa precisazione per evitare il pericolo che, con una non retta “interpretazione estensiva” di quanto sopra esposto, il nostro Consiglio possa essere in qualche modo considerato come una specie di «super-Dicastero». Penso che ciò non potrà mai avvenire. In primo luogo, perché le varie competenze attribuite al Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi rimangono a livello tecnico, di studio, piuttosto che sul piano strettamente decisionale di governo. In secondo luogo, perché sia i Superiori, nel dirigere ed ordinare il lavoro, sia la Consulta e le Sessioni ordinarie e plenarie, nello studiare e deliberare sulle questioni in esame, tengono sempre accurato conto che l’interpretazione delle norme, la tutela del loro gerarchico ordinamento ed anche la collaborazione tecnica nella loro preparazione sono cose nettamente diverse dall’impegno di governo che vigila, cura e stimola la sollecita e retta applicazione delle leggi. Il nostro Consiglio rimane nel campo ben delimitato delle sue modeste e poco appariscenti funzioni di servizio, attento a non incorrere nell’abuso sul quale ammonisce, oltre che il buon senso, una nota Regula Juris: «Culpa est immiscere se rei ad se non pertinenti»[48].
Città del Vaticano, 9 agosto 2004
Julián Card. Herranz
[1] «
La collocazione ecclesiologica della Curia Romana», in
L’Osservatore Romano, 9 luglio 1988, p. 1.
[2] CIC, can. 392, § 1. Cfr. oltre alla Lumen gentium, n. 23, Christus Dominus, n. 16; Paolo VI, Es. Apost. «Quinque iam anni», 8 dicembre 1970, I; AAS 63 (1971), 100. [3] Card. S. Baggio, «La dimensione pastorale del servizio della Curia Romana», in L’Osservatore Romano, 13 luglio 1988, p. 1. [4] Cfr. CIC, can. 16, § 1; CCEO, can. 1498, § 1. [5] Cfr. CIC, can. 135, § 2; CCEO, can. 985, § 2. [6] Il titolo riguardante il Consiglio fu più volte modificato negli schemi delle tre commissioni che si sono succedute nella preparazione del progetto della «Pastor Bonus». Infatti, nei primi schemi il Consiglio veniva denominato «Pontificia Commissio legibus apparandis et interpretandis», poi «Pontificia Commissio legum textibus apparandis et interpretandis», in quanto la Commissione non avrebbe preparato le leggi ma gli schemi o progetti delle leggi; in seguito «Pontificium Consilium de legum textibus interpretandis» e, finalmente – atteso che la sua competenza non si limita alla sola funzione interpretativa – «Pontificium Consilium de legum textibus». [7] Cfr. CIC, can. 16, § 2; CCEO, can. 1498, § 2. [8] Rogerius, glossa alla parola «interpretatio» del Dig., 1, I, tit. II De origine iuris, lex 1, facturus. [9] Cfr. per esempio Martinus, glossa a Cod. Just. 1, I, tit. XIV, lex 1 Inter aequitatem Bibl. nat. ms. lat 4523, fol. 15, v°. [10] F. Suárez, De legibus, Lib. VI: De interpretatione, mutatione et cessatione legis, in Opera omnia, Paris 1856, vol. V-VI. [11] Per la bibliografia più significativa in merito, cfr., per esempio, J.L. Gutiérrez, Alcune questioni sull’interpretazione della legge, in Apollinaris, LX (1987), 507, nota 1. [12] Cfr. E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, 2 vol., Milano 1955; Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano 1971; O. Giacchi, Formazione e sviluppo della dottrina dell’interpretazione autentica in Diritto Canonico, Milano 1935. [13] Cfr. R.J. Castillo Lara, «De iuris canonici authentica interpretatione in actuositate Pontificiae Commissionis adimplenda», in Communicationes, 20 (1988), 267. [14] Motu pr. «Cum iuris canonici», 15 settembre 1917: AAS 9 (1917) 483. Sui precedenti storici di questa Commissione, cfr. J. Otaduy, «Naturaleza y función de la Comisión Pontificia para la interpretación del CIC», in Ius Canonicum, XXIV (1984), 750; R.J. Castillo Lara, «De iuris canonici authentica interpretatione in actuositate Pontificiae Commissionis adimplenda», o.c., 269-270. Sulle interpretazioni autentiche e la Commissione interprete del CIC 1917, cfr. A. Brems, «De interpretatione authentica Codicis I.C. per Pont. Commissionem», in Ius Pontificium, 15 (1935), 161-190; 298-313; 16 (1936), 70-105; 217-256. [15] Motu pr. «Recognito Iuris Canonici Codice», 2 febbraio 1984: AAS 76 (1984) 433-434. [16] Cfr. Communicationes, 1 (1969), 81. [17] Cfr. per esempio, le risposte della Segreteria della Commissione alle osservazioni fatte ai cann. 6 e 34 dello schema sottoposto alla Plenaria dell’ottobre 1981: Communicationes, 14 (1982), 129-131 e 136. [18] Cfr. J. Herranz, «La triplice articolazione della potestà di governo nella Chiesa», relazione al XIII Incontro del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, La Mendola 1986, p. 17; J.L. Gutiérrez, «Estudios sobre la organización jerárquica de la Iglesia», Pamplona 1987, p. 200. [19] Cfr. Communicationes, 13 (1981), 81. [20] Cfr. Cost. Ap. «Pastor Bonus», n. 8. [21] Cost. Ap. «Pastor Bonus», art. 155. [22] «Huic soli Commissioni ius erit canonum Codicis iuris canonici aliarumque Ecclesiae Latinae legum universalium interpretationem authenticam proferendi Nostra Auctoritate firmandam, auditis tamen in rebus maioris momenti Dicasteriis ad quae res ratione materiae pertinet». [23] In seguito ad una nostra richiesta di chiarimento, ci è stato comunicato a nome del Legislatore che: «la competenza del Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi comprende anche l’interpretazione autentica del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” e delle legge comuni a tutte le Chiese Orientali» (Lettera del Pro-Segretario di Stato, S.E.R. Angelo Sodano, del 27 febbraio 1991: Communicationes, 23 [1991], 14). [24] Il CIC 17, can. 17 § 2 richiedeva la promulgazione delle sole risposte a carattere costitutivo (estensive, restrittive ed esplicative), in quanto inducevano una normativa nuova. La relativa Commissione Interprete ne pubblicò 219 (l’ultima nel 1952). Riguardo al perché non sono state promulgate tutte le risposte autentiche delle Commissioni interpreti del CIC 1917 e del CIC 1983, cfr. R.J. Castillo Lara, «De iuris canonici authentica interpretatione in actuositate Pontificiae Commissionis adimplenda», o.c., 286). [25] Cfr. su questa questione J.L. Gutiérrez, La interpretación literal de la ley, in Ius Canonicum, 35 (1995), 529-560. [26] Ho già commentato al riguardo (cfr. J. Herranz, Il Pontificio Consiglio della Interpretazione dei Testi Legislativi, in La Curia Romana, Città del Vaticano 1990, p. 477, nota 43) che probabilmente non si trattò di una svista. È piuttosto da pensare che Mons. Onclin, relatore anche dello speciale gruppo di studio «de Lege Ecclesiae Fundamentali» in seno alla Commissione per la Revisione del CIC 1917, fece presente che a tale funzione si era già provveduto nello schema della LEF, al can. 83 del progetto riveduto nella Xª sessione di studio, 23-27 febbraio 1976: cfr. Communicationes 9 (1977), 295-297. [27] Cfr. «Schema Legis Peculiaris De Curia Romana», Typis Polyglottis Vaticanis, 1985, art. 114. [28] Cfr. «Schema Legis Ecclesiae Fundamentalis» dell’ottobre 1973 (can. 85) e «Schema Legis Ecclesiae Fundamentalis» del febbraio 1976: cfr. Communicationes 9 (1977), 295-297. [29] Cfr. per esempio «De Lege Ecclesiae Fundamentali condenda», Atti del «Conventus canonistarum hispano-germanus», Salamanca 1974, pp. 75-87; 157-158. [30] Sancito ovviamente nel CIC 1917 (can. 1556) e nel CIC 1983 (can. 1404). Cfr. anche can. 333, § 3 e, per quanto riguarda gli «acta vel instrumenta a Romano Pontifice in forma specifica confirmata», il can. 1405, § 2. [31] Communicationes, 9 (1977), 296. [32] Cfr. schemi della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» del giugno 1976, del gennaio 1980 (Communicationes, 13 [1981], 81) e dell’aprile 1980. [33] Cfr. «Schema Legis peculiaris De Curia Romana», cit., art. 118, p. 58. [34] Cfr. ibidem, p. 17. [35] Cfr. P.A. Bonnet, «La Codificazione canonica nel sistema delle fonti tra continuità e discontinuità», in AA.VV., Perché un codice nella Chiesa, Bologna 1984, p. 105. [36] Cfr. Pontificia Commissione per l’Interpretazione autentica del CIC, Responsum del 5 luglio 1985: AAS, 77 (1985); Communicationes, 17 (1985), 262. [37] Cfr. CIC, can. 455, § 2. [38] Cfr. CIC, can. 446. Per quanto riguarda gli “organismi episcopali” delle Chiese Orientali cattoliche, il Consiglio è a disposizione del Romano Pontefice in ordine a quanto previsto per la legislazione particolare delle singole Chiese sui iuris e per i Conventus Hierarcharum di cui al can. 322 CCEO. [39] Infatti, ogni potestà legislativa nella Chiesa «exercenda est modo iure praescripto» (CIC can. 135, § 2), e per quanto riguarda le Conferenze episcopali la legge universale ha stabilito delle norme sia sulle materie che possono o debbono essere oggetto di tale legislazione particolare, sia sulle condizioni ad validitatem (CIC can. 455, §§ 1-2). [40] È questa, come si sa, una questione assai discussa. Ci sono canonisti per i quali le Conferenze episcopali, nell’emanare tali decreti generali, attuano in forma collettiva (cfr. can. 119) una potestà ordinaria (cfr, can. 131, § 1), benché soltanto nella materie per le quali sono competenti a norma del can. 455, § 1. Altri autori, in base sia al dettato conciliare (Decr. Christus Dominus, n. 38) che costituisce il fondamento del can. 445, § 1, sia anche al parallelismo esistente tra questo canone e il can. 30 (sui decreti generali emanati da chi «potestate executiva tantum gaudet»), concludono che le Conferenze episcopali non hanno una potestà legislativa propria, ma soltanto delegata da parte della suprema potestà. [41] Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, «Relatio complectens synthesim animadversionum...», Typis Polyglottis Vaticanis, 1981, p. 192, cfr. Communicationes 15 [1983], 173. [42] Lettera Prot. N. 115.121, del 25 marzo 1968. In essa veniva indicato a tutti i Dicasteri della Curia la convenienza di fare «una formale richiesta di parere tecnico (alla Commissione per la revisione del CIC), quando il Dicastero sia stato incaricato di curare l’elaborazione di qualche documento generale a carattere giuridico, il cui contenuto comporti una modifica o una integrazione della legislazione vigente nella Chiesa latina». [43] Progetto della Commissione presieduta dal Card. Antonelli (1978), sottoposto poi all’esame del Collegio Cardinalizio nei due Concistori del 1979 e 1982. [44] Questo criterio generale chiude in certo modo la lunga discussione tra i canonisti circa la potestà legislativa o meno delle Congregazioni della Curia Romana. Rimane tuttavia la possibilità che un Dicastero per mandato e «con specifica approvazione del Romano Pontefice» (Cost. Ap. «Pastor Bonus», art. 18) possa emettere un Decreto generale legislativo a norma del can. 30. Comunque si tratterà, al più, di un atto di potestà legislativa non propria ma delegata. [45] R.J. Castillo Lara, «La Costituzione Apostolica Pastor Bonus in prospettiva giuridica», in L’Osservatore Romano, 16 luglio 1988, p. 1. [46] Infatti, nello schema della Commissione presieduta dal Card. Sabattani («Schema Legis Peculiaris De Curia Romana», Typis Polyglottis Vaticanis, 1985) si diceva all’art. 114 riguardante la prima norma circa il «Pontificium Consilium de Legibus Interpretandis»: «Consilii munus in legibus interpretandis atque in novis legum textibus exarandis praesertim consistit». [47] Cfr. art. 38. [48] Pomp. 1, 36 d. de R.J. 50,17.
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