PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI Il Diritto Canonico, perché?
Poiché il titolo assegnato a questa mia relazione ha un certo sapore di sfida o di provocazione, chiedo scusa se mi permetto di introdurre questo intervento con un breve ricordo personale. Mi riferisco all’Udienza in cui fu presentato al Legislatore il progetto definitivo del nuovo Codice di Diritto Canonico, il 22 aprile del 1982. Di quel memorabile incontro, vorrei ora soltanto rammentare un’affermazione e un gesto di Giovanni Paolo II, che mi sembrarono molto eloquenti in merito al nostro assunto. In quell’occasione, il Santo Padre disse che sarebbe uno sbaglio contrapporre il Vangelo alla Legge ecclesiastica, perché questa si basa sulla Rivelazione, e inoltre perché la giustizia — che la legge tutela — è un'esigenza primaria della carità, essenza stessa del messaggio evangelico. Questa l’affermazione del Legislatore. Quanto al gesto — molto espressivo —, esso fu in relazione a come sarebbe stato recepito il nuovo Codice da parte della comunità ecclesiastica. I Vescovi e moltissimi sacerdoti e laici sollecitavano la sua pronta promulgazione — perché il tempo e molte decisioni del Concilio Vaticano II avevano fatto invecchiare il precedente Codice —, ma in alcuni settori si era già manifestato in anticipo un atteggiamento contrario, di stampo antigiuridico. A questo punto mi sono permesso di insinuare che forse tale atteggiamento non era soltanto rifiuto del Diritto, ma ubbidiva ad una tendenza filosofica e sociologica di portata più vasta e generale, quella cioè di contrapporre artificiosamente la libertà personale alle norme oggettive, di qualsiasi genere esse siano, non soltanto del Diritto Canonico ma anche quelle della Teologia Morale. Giovanni Paolo II, che ascoltò con particolare attenzione questo rilievo su una realtà a Lui ben nota, non disse niente, ma assenti ripetutamente con il capo. Ho voluto ricordare quest’affermazione dottrinale e questo gesto pensoso del Papa per due motivi: 1º) perché dimostrano quanto il Legislatore fosse ben conscio dell’ambiente di spiccato antigiuridismo in cui doveva essere promulgato e successivamente interpretato ed applicato il nuovo Corpus Iuris Canonici; e 2º) perché questa preoccupazione pastorale del Papa, sempre viva, riguarda direttamente la domanda che mi è stata posta: “Il Diritto Canonico, perché?” Vorrei articolare la mia risposta in tre parti. Prima analizzerò il perché degli atteggiamenti antigiuridici nella Chiesa; riferirò poi brevemente l’influsso decisivo del Concilio Vaticano II nel processo di rinnovamento del Diritto canonico e finalmente tratterò sull’importanza della domanda che mi è stata posta, anche con riferimento a due questioni attuali.
I. Le tendenze antigiuridiche
È diventato ormai un luogo comune, che trova riscontro anche nell’abbondante letteratura in materia, affermare che sono stati gli anni del Concilio Vaticano II e dell’immediato post-concilio il periodo della storia moderna della Chiesa in cui l’antigiuridismo si è dimostrato più aggressivo e consistente. Anzi, l’artificiosa e tenace contrapposizione fatta da alcuni teologi e da molti giornalisti tra Diritto canonico e « carattere pastorale » del Concilio fu di tale entità che l’insegna dell’antigiuridismo venne da alcuni inalberata perfino come lo stile proprio dei lavori conciliari. Tuttavia, da una prospettiva di serena critica storica, cioè alla luce della realtà oggettiva e degli insegnamenti e disposizioni conciliari, sembra che si debba fare una valutazione ben diversa. Basta pensare a due fatti: in primo luogo, alla ricca dottrina ecclesiologica del Vaticano II, che ha offerto, come non aveva fatto prima nessun altro Concilio ecumenico, tutti gli elementi teologici appropriati per capire senza ambiguità la necessità, la finalità e la specifica natura del Diritto canonico, perfettamente inserito nel Mistero della Chiesa e rispondente alle irrinunciabili esigenze della scienza giuridica; in secondo luogo, c’è il fatto storico che fu lo stesso Pontefice Giovanni XXIII, « il Papa del Concilio pastorale » a volere anche la riforma dell’ordinamento canonico della Chiesa, concepita — sono sue parole — come « coronamento » dei lavori conciliari[1]. Ma allora: perché questa tendenza di molti — anche nei nostri giorni — a misconoscere e deprezzare il significato e il valore del Diritto nella vita e nella missione della Chiesa? In realtà a me sembra che il concetto di « crisi del Diritto », inteso come negazione o messa in dubbio — teorica o pratica — del perché del Diritto nel Popolo di Dio, rappresenti non un atteggiamento circostanziale — limitato a determinate epoche —, ma una costante storica nella vita della Chiesa. Infatti, quando s’insegna il Diritto canonico da una prospettiva storica, o quando si riflette sotto il profilo pastorale sull’esercizio del « munus regendi », si finisce per constatare che alla esistenza di un sistema di diritto (di un insieme cioè di norme giuridiche vincolanti, sia costitutive che disciplinari) ha corrisposto sempre nella bimillenaria storia della Chiesa un atteggiamento di rigetto o di rifiuto da parte di singoli o di interi gruppi di fedeli o correnti dottrinali: dagli gnostici e catari dei primi secoli, agli spiritualismi medievali, agli albigesi e hussiti, ai successivi fautori formali del protestantesimo, fino a quelli che sono stati chiamati « antigiuridismi ecclesiali » del nostro secolo[2]. L’affermazione di Guglielmo di Occam secondo cui le norme giuridiche della Chiesa erano più frutto dell’arbitrio clericale che non derivate dalla ragione e dalla fede[3], o il gesto simbolico di Martin Lutero che bruciò insieme alla Bolla pontificia in cui veniva condannato, una copia del « Corpus Iuris Canonici », avrebbero trovato più tardi una radicale formulazione dottrinale — lo si sa molto bene — nelle tesi di Rudolf Sohm sull’assoluta incompatibilità tra « l’essenza del Diritto canonico » (Chiesa del Diritto) e « l’essenza della Chiesa » (Chiesa comunità spirituale), unica — secondo lui — voluta da Cristo[4]. Così come c’è un’affinità concettuale e di atteggiamento tra le tesi di Wiclef e Huss di rifiuto dell’autorità pontificia, l’accusa di Harnack di amalgama tra dogma e diritto fatto dalla Gerarchia in funzione di potere[5] e la critica di Leonardo Boff alla « Chiesa istituzionale » o « giuridica » frutto della « mondanizzazione » operata per imitazione delle strutture giuridiche romane e feudali[6]. Tuttavia, è vero che — al margine di queste posizioni radicali — l’animus adversus ius o adversus legem ha assunto nel secolo scorso e nel “mondo occidentale”, anche posizioni dialettiche più sfumate, che in sintesi si potrebbero ridurre a tre principali tendenze, ancora attuali in alcuni settori: 1ª. Contrapposizione dialettica tra carisma e norma canonica. La legge rappresenta in teoria e spesso costituisce in pratica, dicono alcuni, un freno, o almeno una remora, alla libera iniziativa e alla spontaneità nell’azione dei singoli fedeli. I fautori di questa tendenza — il cui paladino è stato Leonardo Boff — arrivano così a contrapporre polemicamente, non solo i concetti di carisma e di norma, ma l’azione carismatica dei fedeli (« ex spiritu ») all’esercizio della potestà ecclesiastica (« ex officio »), e l’esistenza di una « Chiesa profetica » a confronto con la cosiddetta Chiesa « giuridica », « del potere » e « trionfalista »[7]. 2ª. Contrapposizione dialettica tra diritto gerarcologico e corresponsabilità ecclesiale. Il Diritto canonico ha avuto sempre — dicono altri — la primaria finalità di enunciare e tutelare i poteri della Gerarchia ecclesiastica, misconoscendo al tempo stesso sia il carattere di servizio che è intrinseco al « munus » dei sacri Pastori, sia anche i diritti soggettivi dei fedeli e la loro attiva partecipazione nell’unica e comune missione della Chiesa. In questa prospettiva del Diritto canonico visto in chiave di “ecclesiologia tridentina o gerarcologica”, sono anche confluiti i fautori di due diverse tendenze sociologiche: vale a dire: a) quelli che hanno applicato all’ordinamento canonico categorie e principi della dialettica hegeliana e perfino idee marxiste sulla lotta di classe; e b) quelli che, adoperando in senso equivoco le nozioni di « collegialità », « corresponsabilità » o « sinodalità », propugnano — ne abbiamo esempi molto recenti, anche in Italia — la « democratizzazione » della Chiesa, falsamente invocata come conseguenza necessaria della ecclesiologia di comunione[8]. 3ª. Contrapposizione dialettica tra spirito pastorale ed ordinamento canonico. I fautori di questa contrapposizione sostengono che la carità, e concretamente la carità propria della attività pastorale — che richiede certamente misericordia, comprensione, benignità e altre simili virtù — sarebbe incompatibile con le norme dell’ordinamento canonico, sia sostanziale (leggi, precetti, ecc.) che funzionale (processi, sanzioni, ecc.)[9]. I fautori di questa tendenza accettano del Diritto canonico solo quelle formule che a loro modo di vedere non implicano imperatività, ma solo esortazioni, raccomandazioni, orientamenti[10]. Questo sintetico esame delle tendenze antigiuridiche (estreme o radicali e moderate o « ecclesiali ») che hanno messo in dubbio la legittimità o la finalità, il perché del Diritto canonico, ci fa comprendere meglio l’importanza — anche pastorale — che ha avuto e avrà nel Terzo Millennio il vigoroso processo di rinnovamento della scienza canonica e della legislazione ecclesiastica.
II. Il Rinnovamento del Diritto della Chiesa
Ma: quali sono stati — detto anche sinteticamente — i fattori principali di questo rinnovamento? Come sanno bene i canonisti, anni prima che il Concilio Vaticano II raccomandasse che « nell’esposizione del Diritto canonico... si tenga presente il Mistero della Chiesa »[11], l’indimenticabile e sempre combattivo Klaus Mörsdorf — Preside dell’Istituto canonistico di Monaco di Baviera e nostro Consultore nella Commissione Pontificia per la Revisione del Codice — aveva fondato la peculiare necessità e la specifica natura del Diritto canonico, nelle nozioni teologiche di Parola di Dio e di Sacramento[12]. Questa posizione dottrinale innovatrice e creativa — non soltanto apologetica di fronte all’antigiuridismo di Rudolph Sohm — è stata seguita, con ricchezza di sfumature personali, da una nutrita schiera di ben noti canonisti, come Corecco, Sobanski, Rouco Varela ed altri[13]. Ma anche parecchi canonisti di altre scuole — come Lombardía, Hervada, Bertrams, Giacchi o De Paolis[14] — hanno ampiamente esposto l’intima connessione esistente tra la legittimità e la natura dell’ordinamento canonico e l’essenza stessa della Chiesa, pur non condividendo la presentazione fatta da Mörsdorf della scienza canonica come scienza teologica con metodo giuridico. Per questi ultimi autori, infatti, — come pure, se non mi sbaglio, per i due illustri titolari della cattedra di Diritto canonico di questa Università — il Diritto canonico ha una vera e propria giuridicità, che trova la sua radice e specificità nella stessa struttura costituzionale del Popolo di Dio e, particolarmente, nella reale dimensione di giustizia che hanno tutti i sacramenti. Comunque, il fattore determinante di questo splendido rinnovamento recente e attuale della scienza canonica e dell’intera legislazione ecclesiastica, è stato senza dubbio il Concilio Vaticano II. Esso infatti, non soltanto espresse in merito una sua generica volontà di approfondimento teologico, ma diede anche chiari orientamenti dottrinali e fornì concrete decisioni normative atte ad assicurare che il nuovo Corpus Iuris Canonici riflettesse pienamente, tanto nei suoi principi basilari come nella stessa formulazione dei canoni, la natura propria del Popolo di Dio, del Corpo Mistico di Cristo. « Tra gli aspetti più significativi del rinnovamento del Diritto canonico nel periodo successivo al Concilio — ha detto lo stesso Legislatore dei due Codici — c’è stata la crescente preoccupazione che la lettera e lo Spirito della legislazione canonica riflettano ancor più pienamente la peculiare natura della Chiesa quale sacramento di unione con Dio e di unità di tutto il genere umano (cfr. Lumen gentium, 1) »[15]. Il Concilio, infatti, nel ricordare nel noto testo della Lumen gentium, n. 8, che Cristo ha costituito la Chiesa come « communio spititualis » di fede, speranza e amore e, simultaneamente, come « compago visibilis », società terrena dotata di organismi gerarchici, ha insistito sul fatto che queste due realtà — carismatica e istituzionale — sono assolutamente inseparabili. Ed è questa inseparabilità quella che assicura al Diritto canonico e alla legge ecclesiastica la propria identità e finalità, il proprio perché nel Popolo di Dio. Ha insegnato in merito Giovanni Paolo II: « Poiché la struttura sociale della Chiesa è al servizio di un più profondo mistero di grazia e comunione, il Diritto canonico — proprio in quanto legge della Chiesa, ius Ecclesiae — deve essere visto come unico nei propri mezzi e nei propri fini »[16]. Perciò il grande processo di rinnovamento avviato dal Concilio ha portato ad una nuova autocomprensione della scienza canonica, grazie soprattutto agli arricchimenti dottrinali di carattere ecclesiologico che hanno inciso profondamente sulla completa riforma legislativa portata a termine da Giovanni Paolo II, con la costante cooperazione collegiale dell’intero Episcopato cattolico[17]. Tra questi arricchimenti ecclesiologici, mi sembra doveroso ricordare almeno i seguenti, che trovano fedele riscontro nei due nuovi Codici e garantiscono l’attualità normativa dei loro contenuti: 1º. Il principio della uguaglianza fondamentale di tutti i fedeli « quoad dignitatem et actionem communem » nell’edificazione del Corpo di Cristo (cfr. Lumen gentium, 32): cioè la loro comune dignità di figli di Dio rigenerati in Cristo e chiamati tutti alla santità, e la loro comune responsabilità di partecipare attivamente alla missione salvifica che Cristo ha affidato alla Chiesa. Essendo radicata nel Battesimo, questa uguaglianza fondamentale, che è stata oggetto di approfonditi studi[18], appare, certamente non come giustificazione dottrinale di una pretesa concezione democratica della Chiesa, ma come concetto basilare della « communio ecclesiastica ». Questa nozione fondamentale della comunione, che pervade l’intera nuova Codificazione latina, trova una primaria espressione nello statuto o condizione giuridica fondamentale dei « christifideles » (« De omnium christifidelium obligationibus et iuribus »), che precede ontologicamente le diverse condizioni giuridiche soggettive, sorte in base all’Ordine sacro e altri sacramenti nonché alle varie missioni canoniche, mandati o deputazioni gerarchiche per lo svolgimento di specifici offici, ministeri o funzioni ecclesiali. 2º. Lo sviluppo anche della dottrina sui carismi personali, con il riconoscimento della loro utilità e l’affermazione del diritto e dovere di esercitarli, sia a livello personale che a livello associativo ed anche nelle strutture ufficiali dell’organizzazione ecclesiastica[19]. Ciò si è dimostrato di grande importanza per la fondazione del Diritto canonico nel Mistero della Chiesa, ed anche per una migliore comprensione della dimensione sociale di quei « diversi doni gerarchici e carismatici » (Lumen gentium, 4) concessi dallo Spirito alla Chiesa. Si tratta di una tensione creativa all’interno del Corpo di Cristo, che — come ha spiegato lo stesso Legislatore — « può contribuire non solo allo sviluppo di una sana riflessione ecclesiologica, ma anche, in modo essenzialmente pratico, al buon funzionamento delle diverse strutture che consentono ai fedeli di rispondere alla loro vocazione soprannaturale e di partecipare pienamente alla missione della Chiesa »[20]. Il riconoscimento che anche i legittimi carismi personali hanno un’incidenza nell’ambito del Diritto, danno una definitiva risposta alle tendenze antigiuridiche prima accennate che contrapponevano carisma e istituzione e, più radicalmente, una Chiesa dei carismi ad una Chiesa del Diritto. Di fatto l’attuale Codificazione latina ha offerto e sta offrendo adeguati statuti giuridici particolari alle varie realtà ecclesiali di carattere aggregativo e prevalentemente laicale che — con o senza la qualifica di “movimenti” — erano sorte prima e dopo la precedente Codificazione, come autentici doni dello Spirito. 3º. La messa in rilievo dei diritti e doveri soggettivi fatta nel nuovo Codice, insieme alla dottrina conciliare sul carattere ministeriale (diaconia) della potestà dei sacri Pastori[21], ha richiamato anche la convenienza — che fu già accolta nei suoi Principi direttivi dalla Commissione Codificatrice latina[22] — di introdurre anche nel Diritto canonico l’applicazione del principio di legalità nell’esercizio dell’autorità ecclesiastica. Naturalmente questo principio va inteso nell’ordinamento canonico non nel senso civilistico e democratico di concretizzazione della sovranità popolare che, attraverso le camere (potere legislativo) controlla l’attività di governo, ma nel senso tecnico e morale di sottomissione dell’autorità alle norme del diritto — « modo iure praescripto »[23] — nell’esercizio della propria potestà, anche esecutiva o amministrativa. Ciò per evitare — attesa la fallibilità della natura umana — tanto l’abuso di potere quanto — ciò che oggi costituisce forse un maggiore pericolo — l’atteggiamento rinunciatario e indolente nell’esercizio dell’autorità medesima, che è stata conferita da Dio per edificare non per distruggere o lasciare irresponsabilmente che altri distruggano[24]. A nessuno sfugge come questo arricchimento dottrinale e normativo sulla natura e l’esercizio dell’autorità nella Chiesa abbia svuotato di reale contenuto le annose critiche fatte da coloro che — come abbiamo accennato prima — vedevano o vedono ancora nel Diritto canonico uno strumento al servizio del potere assoluto o dell’arbitrio della Gerarchia. 4º. Altri fattori che hanno molto contribuito al rinnovamento del Diritto nella Chiesa sono stati gli arricchimenti dottrinali sul « munus Petrinum », sulla sacramentalità e Collegialità episcopale, sulla Chiesa particolare e la missione del Vescovo diocesano, ma anche sul presbiterato e perfino sulla nozione stessa dell’ufficio ecclesiastico. Questi rilievi dottrinali hanno portato a notevoli sviluppi normativi del Diritto costituzionale e dell’organizzazione ecclesiastica, sempre nel contesto di un’approfondita comprensione della « communio », sia nell’ambito della Chiesa universale che all’interno delle Chiese particolari. Da notare, a questo proposito, che la riforma legislativa fu in queste materie assai facilitata da espliciti mandati e disposizioni normative contenuti negli stessi Decreti del Concilio Vaticano II. Si pensi, per esempio, alle molte determinazioni concrete sul Collegio episcopale, sulla Curia Romana, sul Sinodo dei Vescovi, sulle Conferenze episcopali, come pure sui Consigli presbiterali e pastorali, e così via. 5º. Anche il retto sviluppo della dottrina sulla natura essenzialmente pastorale della norma canonica ha notevolmente contribuito al rinnovamento del Codice di Diritto Canonico e alla retta interpretazione ed applicazione delle sue norme, a livello sia di Chiesa universale che di Chiese particolari. Si è insistito nel sottolineare che questo carattere splende soprattutto nei principi tradizionali della aequitas, della epikeia o della dispensa, con i quali la caritas pastoralis del legislatore, del giudice o dell’amministratore ecclesiastico manifesta una volontà di giustizia temperata dalla prudenza, dalla benignità e dalla comprensione verso le singole persone, sempre per il loro bene spirituale. Tuttavia lo spirito pastorale non si esaurisce in queste tradizionali peculiarità del Diritto canonico ma lo si evidenza anche in molti altri aspetti della rinnovata legislazione ecclesiastica Mi pare doveroso ricordarne alcuni: la positivizzazione giuridica — con la conseguente protezione e tutela — di molti diritti personali che formalizzano il diritto fondamentale dei fedeli di ricevere abbondantemente dai sacri Pastori — e non soltanto « ex caritate » ma « ex iustitia » — i beni spirituali della Chiesa, « praesertim ex verbo Dei et sacramentis »[25]; la riduzione al minimo delle leggi sulla nullità degli atti giuridici o sulla incapacità delle persone; la maggiore agilità dei processi salva la primaria esigenza pastorale della verità; la notevole riduzione delle pene latae sententiae, e così via. Ma soprattutto direi che questo spirito pastorale appare particolarmente evidente nell’insieme di norme intese ad assicurare il compimento del servizio dei sacri Pastori in bonum animarum nel modo più efficace ed adeguato alle odierne necessità spirituali, apostoliche e missionarie. Sono, infatti, norme che cercano di snellire e di dare maggiore dinamismo a tutta l’organizzazione degli uffici ecclesiastici, e di stimolare e guidare — senza confusione di ruoli — l’attiva partecipazione di tutti i fedeli alla vita e alla missione del Popolo di Dio. Ben a ragione ha potuto affermare il Legislatore: « Se la Chiesa è un disegno divino — Ecclesia de Trinitate — le sue istituzioni pur perfettibili, devono essere stabilite al fine di comunicare la grazia divina e favorire, secondo i doni e la missione di ciascuno, il bene dei fedeli, scopo essenziale della Chiesa »[26]. 6º. Un altro fattore di rinnovamento è stato la profonda riflessione fatta sui rapporti tra Teologia e Diritto Canonico, ben oltre la considerazione di esso come « pars theologiae practicae », ma anche sui rapporti esistenti tra il Diritto canonico e il Diritto divino: sia naturale — ciò che vale per ogni ordinamento giuridico, anche secolare — che positivo, contenuto cioè nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. 7º. In fine, sembra doveroso anche accennare, tra i fattori dottrinali del rinnovamento — nell’ambito del Diritto canonico e in quello del Diritto ecclesiastico degli Stati — all’incidenza giuridica che hanno avuto e certamente avranno di più in futuro sia le direttive sull’ecumenismo contenute nel Decreto conciliare « Unitatis redintegratio »[27], che la dottrina esposta nella Costituzione pastorale « Gaudium et spes » sulla legittima autonomia dell’ordine temporale e la conseguente legittima libertà del cristiano nelle cose temporali, inseparabile dalla necessaria fedeltà alla dottrina morale cattolica e agli insegnamenti sociali della Chiesa[28].
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Si può ben dire che nel lungo processo di aggiornamento legislativo in applicazione del Concilio Vaticano II — vi abbiamo lavorato per 20 anni — sono state tradotte in norme canoniche molte esigenze del Diritto divino (dell’ordo creationis, ma soprattutto dell’ordo redemptionis, della lex gratiae divino-positiva), salvaguardando al tempo stesso la finalità strettamente pastorale e la natura veramente giuridica del Diritto della Chiesa. Tutta questa realtà normativa dimostra che il Diritto appartiene, in quanto ordinatore necessario della struttura sociale del Popolo di Dio, al « Mysterium Ecclesiae », e testimonia, come sentenziò Paolo VI con una frase lapidaria, che: « Vita ecclesialis sine ordinatione iuridica nequit exsistere — La vita della Chiesa non può esistere senza un ordinamento giuridico »[29]. Ma allora: come può essere ancora posta ai nostri giorni la domanda: Il Diritto Canonico, perché?
III. L’attualità di questa domanda
È frequente sentire in questi anni affermazioni che, con soddisfazione, constatano un sostanziale anche se non completo superamento del clima di antigiuridismo evocato nella citata Udienza con il Santo Padre. Penso che siamo entrati in una nuova fase, iniziata con la promulgazione e la buona recezione dei due Codici canonici — latino e orientale — intimamente collegati — come abbiamo visto — con quel grande Concilio Ecumenico che alcuni pretendevano presentare come antigiuridico o almeno agiuridico. Si aggiungano altri indizi e fatti significativi nell’ambito della conoscenza delle leggi e del rinnovamento e sviluppo della scienza canonica. Si pensi, per esempio, al fatto che in data odierna, il “Codice di Diritto Canonico” — vincolante per il miliardo circa di fedeli della Chiesa latina — è stato tradotto in 17 lingue (compresi il cinese, il vietnamita, il giapponese, l’indonese e il coreano), con oltre 60 edizioni bilingui e un milione di copie. Mentre sono 31 le Facoltà e gli Istituti di Diritto Canonico, e sono operanti nei vari continenti anche 18 Società canonistiche, per il continuo aggiornamento professionale degli operatori del Diritto: Vescovi, giudici, professori, ecc. Non vorrei in alcun modo minimizzare questi traguardi per lunghi anni auspicati, che segnano effettivamente l’inizio di una nuova tappa, nella quale il Diritto comincia ad essere considerato e rivalutato come aspetto essenziale della vita e della missione della Chiesa pellegrina. Tuttavia, conviene non dimenticare che resta ancora molto da fare. Superata l’ostilità, rimane in alcuni ambienti un ostacolo più sottile e perciò più insidioso: l’indifferenza. Si tratta di una indifferenza e di una disaffezione — dovute non a cattiva volontà, ma piuttosto a scarsa conoscenza delle leggi ecclesiastiche —, che hanno purtroppo due conseguenze negative: la perdita nelle coscienze e nei rapporti ecclesiali della caratteristica di “obbligatorietà” delle norme canoniche, e la sottovalutazione — talvolta anche da parte dei sacri ministri — della dimensione pastorale del Diritto. È ovvio che occorre ricuperare un senso davvero positivo del Diritto nella Chiesa, che lo faccia vedere come una realtà che deve interessare tutti i fedeli e in particolare tutti i Pastori, indipendentemente dal possesso o meno di conoscenze specializzate. Perciò, la domanda sul perché del Diritto canonico non ha perso nulla della sua attualità. Anzi, in un certo senso, nel momento presente risulta ancora più pertinente. Unicamente in questo modo ci si può riallacciare ad una tradizione gloriosa di scienza e di prudenza di governo, purificandone certamente la memoria rispetto ai limiti umani di ogni epoca, ma soprattutto valorizzando la sua portata permanente ed attuale. Per approfondire comunque la questione posta, forse può essere utile modificare così i termini del quesito: perché è difficile a volte comprendere e stimare il Diritto canonico? Vi sono sicuramente molteplici ragioni. Ma ve n’è una che, a mio parere, non andrebbe sottovalutata: si tratta della stessa idea di Diritto da cui si parte. In effetti, spesso lo si pensa, anche nella Chiesa, quale mero ordine positivo e formale, espressione di una volontà e di un potere che limitano la autonomia personale. Altre volte, e forse questa variante più debole collima di più con l’atteggiamento di indifferenza di cui parlavo prima, il Diritto canonico sembra presentarsi come inutile complicazione, come macchinosa burocrazia, che ritarderebbe il raggiungimento dei giusti obiettivi pastorali. Di fronte ad un Diritto canonico così mal ridotto, è logico che si aspiri ad un’attenuazione, se non — a giudizio di alcuni — addirittura ad un’eliminazione dell’elemento giuridico nella Chiesa, divenuto così un corpo estraneo e forse anche un ostacolo all’ecumenismo. Sono convinto che, per riscoprire il perché del Diritto ecclesiale bisogna risalire — ne abbiamo accennato prima — ad un'altra concezione del Diritto: quella che, con la migliore tradizione classica e cristiana, sempre viva nel Magistero e nella vita della Chiesa, lo comprende come ordine di giustizia. Una giustizia che nella società civile s’incentra sui diritti e doveri naturali della persona umana in quanto tale, e che, nel Popolo di Dio, riguarda la realizzazione del divino disegno salvifico, alla cui luce mostrano tutto il loro rilievo di giustizia sia i diritti e i doveri dei fedeli che la specifica missione dei Pastori in quanto rappresentanti gerarchici di Cristo nella Chiesa. Le leggi canoniche, nonché l’attività amministrativa e giudiziaria ecclesiastica, appaiono così come strumenti indispensabili di quell’ordine giusto, le cui basi essenziali si trovano nella stessa costituzione divina della Chiesa. Infatti, il “munus regendi” — la funzione di governo — è inseparabile dalle funzioni magisteriali e liturgiche — “munus docendi” e “munus sanctificandi” —, non solo nei suoi principi fondamentali ma anche nel retto e responsabile esercizio dell’intera missione pastorale. Far conoscere ed applicare le leggi della Chiesa non è un intralcio alla presunta “efficacia” pastorale di chi vuol risolvere i problemi senza il diritto, bensì garanzia della ricerca di soluzioni non arbitrarie, ma veramente giuste e, perciò, veramente pastorali. Infatti, l’ecclesiologia del Vaticano II presenta la missione salvifica di Cristo legata alla sua triplice condizione di maestro, sacerdote e re, e fa apparire la struttura della Chiesa — l’ordinamento canonico — come una partecipazione sacramentale a questo triplice munus. Perciò, la « parola » di salvezza che la Chiesa custodisce e proclama, il « culto » che essa rende pubblicamente a Dio e la « exousía »[30] o « potestà sacra » con cui la Chiesa è governata, sono tre funzioni che non si possono distinguere adeguatamente tra di loro, perché formano un'organica unità, radicata nell’unità della persona e della missione di Cristo. Proprio perché queste tre funzioni, riferite alla pienezza del munus pastorale, formano un’unità organica esse non possono essere esercitate in modo tale che una delle tre venga, di fatto, praticamente esclusa. È quello che avverrebbe, per esempio, se un Vescovo fosse un ottimo predicatore e maestro, un diligente ministro dei sacramenti ma, al tempo stesso, non conoscesse sufficientemente le leggi della Chiesa oppure non le facesse doverosamente rispettare ed applicare[31], magari in nome di un non ben definito « spirito pastorale ». Di fronte a certa « demagogia pastoralista » che ancora rischia di oscurare in alcuni ambienti la natura intrinsecamente pastorale del Diritto canonico e la finalità di servizio alla carità e al « bonum animarum » delle norme canoniche, appare necessario che non solo i cultori della scienza canonica ma anche i sacri Pastori, senza eccezioni, meditino e facciano eco a queste chiare parole del Pastore della Chiesa universale: « è opportuno soffermarsi a riflettere — ha detto Giovanni Paolo II — su di un equivoco, forse comprensibile ma per questo non meno dannoso, che purtroppo condiziona non di rado la visione della pastoralità del diritto ecclesiale. Tale distorsione consiste nell’attribuire portata ed intenti pastorali unicamente a quegli aspetti di moderazione e di umanità che sono immediatamente collegabili con l’aequitas canonica; ritenere cioè, che solo le eccezioni alle leggi, l’eventuale non ricorso ai processi ed alle sanzioni canoniche, lo snellimento delle formalità giuridiche abbiano rilevanza pastorale. Si dimentica così che anche la giustizia e lo stesso diritto — e di conseguenza le norme generali, i processi, le sanzioni e le altre manifestazioni tipiche della giuridicità, qualora si rendano necessarie — sono richiesti nella Chiesa per il bene delle anime e sono pertanto realtà intrinsecamente pastorali »[32].
IV. Due esempi all’ordine del giorno
Quanto abbiamo finora considerato potrebbe essere illustrato mediante un ampio ventaglio di situazioni passate e presenti in cui la rilevanza del Diritto canonico è del tutto palese. Sarebbe opportuno evidenziare, a questo proposito, la presenza del Diritto nella vita quotidiana della Chiesa, prima di tutto nelle circostanze normali delle comunità e dei fedeli, laddove non si registrano problemi di rilievo. Infatti, quando si predica la Parola di Dio e la Santissima Eucaristia viene celebrata, quando i fedeli ricevono quei beni salvifici e partecipano attivamente alla vita e alla missione della Chiesa, quando i Pastori svolgono il loro ministero al servizio dei fratelli, quando le Chiese particolari entrano tra di esse in rapporti concreti in cui vivono ed esprimono la loro comunione, quando infine il Ministero petrino di unità dell’intera Chiesa incide tanto positivamente nella conservazione del depositum fidei: in tutti questi aspetti della vita ecclesiale il Diritto canonico è veramente presente e operante. Non solo perché vengono rispettate le leggi legittimamente stabilite, ma perché viene vissuto dinamicamente quell’ordine di giustizia intrinseco alla comunione ecclesiale, che quelle stesse norme canoniche dichiarano, determinano e tutelano. Tuttavia, nelle questioni più difficili e delicate della vita ecclesiale l’importanza del Diritto canonico si rende ancor più manifesta. Prenderò, a titolo di esempio, due problemi, di natura assai diversa, ma accomunati dalla necessità attuale che siano valutati ponderatamente anche dal punto di vista giuridico.
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Consideriamo anzitutto, un tema di natura allo stesso tempo teologica e giuridica: il rapporto tra Primato petrino e Collegialità episcopale, tenuto conto dei suoi vari risvolti, sia all’interno della Chiesa Cattolica che nella prospettiva ecumenica. Ovviamente non intendo adesso addentrarmi in questa complessa problematica. Vorrei limitarmi ad osservare che quel rapporto viene sovente impostato in chiave dialettica e perfino polemica, come se l’affermazione del Primato dovesse intaccare la Collegialità, e lo sviluppo di quest’ultima fosse una via per diminuire il ruolo del Successore di Pietro. Una tale visione, certamente falsa sotto il profilo teologico in quanto ignora il rapporto di immanenza tra queste due realtà volute da Cristo, si rivela profondamente distorta anche nella prospettiva del Diritto canonico come ordine di giustizia (prospettiva, mi sia permesso ripeterlo per inciso, di grande significato teologico, dal momento che attiene alla natura stessa della Chiesa, al suo essere conosciuto mediante la fede). Nel Romano Pontefice, infatti, permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli. Egli è capo del Collegio dei Vescovi e Pastore della Chiesa universale — realtà fondazionale che precede ontologicamente le Chiese particolari —, ed ha una potestà ordinaria, suprema, immediata e piena che può sempre esercitare liberamente[33]. Occorre però sottolineare che non si tratta di una potestà assolutistica e arbitraria — di una “questione di sovranità monarchica”, come qualcuno ha detto —, perché la episkopé del Primato ha dei limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione[34], e tale costituzione contempla anche l’esistenza del Collegio episcopale. Perciò, il Concilio Vaticano II ha integrato magisterialmente la dottrina del Concilio Vaticano I sul Primato con la dottrina sul Collegio episcopale, in una ecclesiologia di comunione che — come ha detto Giovanni Paolo II — il nuovo Corpus Iuris Canonici ha tradotto fedelmente nelle sue norme[35]. In questo senso va sottolineato che il Collegio episcopale, insieme al suo capo e mai senza di esso, è pure soggetto — come il Romano Pontefice personalmente — della suprema e piena potestà sulla Chiesa universale. Ma è il Successore di Pietro colui che determina il modo, sia personale che collegiale, di esercizio della suprema potestà, secondo le concrete necessità della Chiesa[36]. A questo proposito, si deve pure osservare che la prassi del primo millennio cristiano per quanto si riferisce all’esercizio del Primato non può essere considerata oggi come esemplare, senza tener conto dello sviluppo dottrinale sul Primato — e anche sulla Collegialità episcopale — che è avvenuto durante il secondo millennio, nonché delle mutate circostanze d’ordine storico e sociale. Perciò, come ha indicato Giovanni Paolo II citando il Vaticano II (Decr. Orientalium Ecclesiarum, n. 9), questo “ritorno al primo millennio” deve essere adattato alle condizioni attuali[37]. Diluire il Ministero petrino, cercando in pratica di ridurlo ad un semplice primato di onore, senza giurisdizione o quasi, oppure circoscrivere la giurisdizione del Romano Pontefice a quella sinodale di “Patriarca d’Occidente”, mi sembra che costituirebbe una grave ingiustizia: contro la stessa Chiesa universale, contro ogni Chiesa particolare e — direi — contro tutti i Pastori e tutti i fedeli. Sarebbe, infatti, privare il Popolo di Dio di un grande e prezioso dono, fatto dallo stesso Cristo alla Chiesa di tutti i tempi; e sarebbe anche poco opportuno ed intelligente proprio quando questo supremo Ministero di unità comincia ad essere apprezzato come utile o necessario anche da non poche Chiese e comunità non in piena comunione con la Chiesa cattolica. Ciò certamente non significa negare o svalutare il significato e il valore della Collegialità episcopale o dell’istituzione patriarcale, né la loro intrinseca rilevanza per l’esercizio stesso del Primato petrino, né la convenienza che lo spirito collegiale venga ulteriormente approfondito perfezionando le sue forme di manifestazione e di esercizio a livello di Sinodo dei Vescovi o di Conferenze episcopali. A sua volta la stessa Collegialità episcopale comporta una ben precisa struttura giuridica, per cui, ad esempio, il Collegio come tale non può agire senza il suo capo, il Papa, e lo stesso Collegio — proprio perché è un organo della suprema potestà — non può ritenersi presente, nemmeno per partecipazione, nelle assemblee episcopali parziali, senza che ciò diminuisca minimamente la grande rilevanza pastorale di queste assemblee: Conferenze episcopali, Concili particolari, ecc. In esse, infatti, si esprime in vario modo lo spirito collegiale e la comunione gerarchica tra i Pastori di gruppi di Chiese particolari, e tra essi e il Pastore della Chiesa universale, la cui potestà non significa in alcun modo estraneità e tanto meno concorrenza rispetto alla sacra potestas di ogni singolo Vescovo[38].
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Il secondo esempio di incidenza canonica cui accennavo prima è legato, purtroppo, alla cronaca recente. Giovanni Paolo II, nella sua consueta Lettera ai sacerdoti il Giovedì Santo, vi ha accennato quest’anno ed ha trattato poi approfonditamente la questione nel Discorso ai partecipanti nella Riunione interdicasteriale con i Cardinali statunitensi, che abbiamo avuto nel Palazzo Apostolico i giorni 23 e 24 di questo mese[39]. Mi riferisco a quei sacerdoti che con il loro comportamento in materia sessuale hanno recato grave scandalo specie negli Stati Uniti d’America. Anche in questo caso non pretendo entrare a fondo nei tanti aspetti connessi con questa dolorosa situazione, che purtroppo — devo dirlo — ha creato in alcuni ambienti un ingiusto clima di sospetto e diffidenza verso i sacerdoti, per il tenace stile scandalistico, non soltanto informativo, con cui determinati “media” offrono voce a qualsiasi denuncia, forse anche con il poco nobile intento da parte di alcuni di infangare l’immagine della Chiesa e del sacerdozio cattolico e di indebolire la credibilità morale del suo Magistero. Vorrei solo mettere in risalto — a titolo personale e senza entrare nel merito del comunicato finale della predetta Riunione — il contributo che una retta visione giuridica potrebbe offrire per riportare serenità in tanti animi turbati. In questa materia occorre certamente proteggere i diritti delle vittime, quelli dei Pastori e degli altri fedeli delle comunità direttamente interessate e dell’intera Chiesa: in definitiva, i diritti di tutte le persone coinvolte, come anche quelli della stessa società civile; e la giustizia richiede altresì che vengano rispettati i diritti dello stesso sacro ministro che è stato denunciato. A questi effetti il Diritto della Chiesa cattolica — che ha una propria autonomia generalmente riconosciuta dagli Stati — dispone di tutti gli strumenti processuali e sanzionatori in grado di assicurare, anche con opportuni accomodamenti a circostanze locali, che vengano contemporaneamente rispettate tutte le predette esigenze di giustizia, a tutela del bene comune e delle singole anime. Nei casi estremi certi delitti commessi dai ministri sacri — riguardanti non soltanto quella concreta forma di omosessualità che è la pedofilia[40] — possono essere puniti con la pena perpetua di dimissione dallo stato clericale. Data la gravità di questa pena, che concerne la stessa condizione personale del chierico, si comprende che le norme canoniche e quelle del recente Motu proprio di Giovanni Paolo II Sacramentorum sanctitatis tutela[41], esigano le necessarie garanzie, con regolare indagine previa, accertamento dei fatti e prove di colpevolezza, assicurando altresì il diritto alla difesa sia dell’accusato che della vittima. Nel contempo, però, prescindere da questi processi — che nei casi più gravi possono essere particolarmente rapidi —, e da altre misure penali o disciplinari che devono essere prese per proibire o limitare l’attività pastorale di quei sacerdoti su cui ricadono gravi indizi di comportamenti di questo tipo, denoterebbe una mancanza del senso più fondamentale di giustizia nei riguardi di tutti i soggetti colpiti, e di quelli che potrebbero esserlo in futuro. La Chiesa riconosce certamente la competenza della autorità giudiziaria civile nei casi che costituiscono delitti nel proprio ambito civile. Ma la Chiesa non può rinunziare ai suoi propri strumenti processuali e sanzionatori, che sono consoni con le specifiche esigenze della giustizia intraecclesiale. I fedeli hanno il diritto, specie nel caso dei sacerdoti, di essere giudicati ed eventualmente puniti secondo le disposizioni canoniche[42]. Inoltre, la stessa posizione della Chiesa in quanto istituzione dinanzi ai tribunali civili deve essere adeguatamente precisata. Sull’onda emotiva del clamore pubblico, alcuni prospettano l’obbligo dell’Autorità ecclesiastica di denunciare al giudice civile tutti i casi che vengano alla sua conoscenza, nonché l’obbligo di comunicare allo stesso giudice civile tutta la relativa documentazione degli archivi ecclesiastici. Nello stesso tempo affermano — è il caso della giurisprudenza prevalente negli USA — una quasi illimitata responsabilità giuridica della Chiesa per qualsiasi comportamento delittuoso dei suoi ministri. A mio avviso, la giustizia esige di rifuggire da queste semplificazioni indebite. Bisogna infatti tener conto, da una parte, che quando le autorità ecclesiastiche trattano questi delicati problemi, non solo hanno il dovere di rispettare accuratamente il fondamentale principio della presunzione d’innocenza, ma devono altresì adeguarsi alle esigenze del rapporto di fiducia, e del conseguente segreto d’ufficio, che è inerente alle relazioni tra il Vescovo e i sacerdoti suoi collaboratori, e tra i sacerdoti e i fedeli: non ottemperare a queste esigenze comporterebbe molti danni, e di grande gravità, per la Chiesa. D’altra parte, la sfera di responsabilità giuridica dei Vescovi e delle istituzioni della Chiesa va delimitata in funzione di ciò che certamente ed effettivamente si sarebbe potuto compiere per evitare un delitto, tenendo conto altresì che, anche nel caso dei chierici, ci sono circostanze e ambiti di comportamento non controllabili, perché non riguardano l’esercizio del ministero ma rientrano nella sfera della loro vita privata e della loro esclusiva responsabilità personale. Ci sono già stati tribunali civili che hanno riconosciuto questa realtà, in base appunto alle stesse norme canoniche fatte opportunamente presenti dall’Autorità ecclesiastica. Non c’è dubbio che per fronteggiare questa complessa situazione, la prudenza giuridica consiglia — anche alle autorità civili — di non cedere al clima di sospetti, di accuse spesso infondate, di denunce molto tardive con sapore di montatura, di sfruttamento a scopi economici della confusione e di nervosismo, che di solito accompagna queste ondate di pubblico scandalo. Ben sappiamo che la Chiesa rimane sempre santa, ma bisogna evitare con fortezza — e ciò è dovere di tutti — che alcuni pretendano insistentemente di infangarla. Bisogna opporsi alle manovre che tendono ad estendere le colpe, o almeno i sospetti, a quella schiacciante maggioranza di sacerdoti — centinaia di migliaia in tutto il mondo — che vivono la loro vocazione e svolgono il loro ministero in esemplare fedeltà a Cristo e generosa abnegazione nel servizio delle anime. Bisogna anche opporsi ai tentativi di chi vorrebbe rendere difficile o contestare il necessario lavoro pastorale dei sacerdoti con l’infanzia e con la gioventù, oppure scoraggiare le vocazioni al sacerdozio cattolico e l’ingresso nei seminari genericamente e ingiustamente diffamati. La serenità del Diritto, come ordine appunto di giustizia, aiuterà a non essere preda di facili emozioni e di impressioni superficiali, e a non lasciarsi coinvolgere dall’impatto mediatico di questi dolorosi casi, né da semplici considerazioni economiche, né da preoccupazioni personali per la propria immagine pubblica. Ancora di più si dovrà evitare di prendere questi casi veramente eccezionali — che certamente richiedono adeguate misure di governo — come occasione per mettere in dubbio i capisaldi della dottrina e della disciplina della Chiesa sul sacerdozio. Anche questa prudenza è richiesta dalla autentica saggezza giuridica.
Conclusione
Vorrei concludere riallacciandomi di nuovo a quel ricordo personale dell’Udienza con Giovanni Paolo Il che ho evocato all’inizio. Quel suo accenno alla giustizia quale esigenza primaria della carità — e pertanto al Diritto canonico come ordine di giustizia — va senz’altro applicato alla vita e alla missione del Popolo di Dio. Ciò era evidente nel contesto di quella conversazione e lo stesso Papa lo aveva già commentato in uno dei suoi primi interventi pubblici, quando trattò della giustizia continuando la catechesi sulle virtù incominciata dal suo indimenticabile predecessore Giovanni Paolo I. In quell’Udienza generale l’attuale Pontefice disse: « la giustizia è principio fondamentale dell'esistenza e della coesistenza degli uomini, come anche della comunità umana, della società e dei popoli. Inoltre, la giustizia è principio dell’esistenza della Chiesa, quale Popolo di Dio »[43]. In questa giustizia nel Popolo di Dio, che è elevata ma non sostituita dalla carità, trova il suo perenne fondamento la « magna disciplina Ecclesiae », la cui tutela e promozione fu l’impegno preso dai due ultimi Papi nei loro rispettivi primi messaggi al mondo[44]. Mi sembra, perciò, che queste brevi considerazioni sul perché del Diritto canonico ci possono confermare ulteriormente nella convinzione che nella fedeltà alla grande e rinnovata disciplina della Chiesa è implicata la stessa fedeltà a Cristo, Nostro Signore. Dunque, anche la reale efficacia salvifica della nuova evangelizzazione a cui ci convoca Giovanni Paolo II e di cui il mondo di oggi ha tanto bisogno. Milano, 29 aprile 2002
Julián Herranz
[1] Cfr. Primus Oecumenici Concilii Nuntius, 25-I-1959: in AAS 51 (1959), p. 68. [2] Cfr. P. Lombardía, Lecciones de Derecho Canónico, Madrid 1984, p. 18. [3] Cfr. Ph. Delahaye, Réflexions sur la loi et les lois dans la vie de l’Église: in L’Année Canonique XVIII (1974), p. 82. [4] Cfr. Kirchenrecht, I, Die Geistlichen Grundlagen, Leipzig 1892, p. 23; Das altkatholische Kirchenrecht und das Dekret Gratians, München-Leipzig 1918, pp. 536-614. [5] Cfr. Lehrbuch der Dogmengeschichte, 4ª ed., Leipzig 1909, t. III, p. 347. [6] Cfr. Igreja: Carisma e Poder, Petrópolis, 1991 e la relativa « Notificatio » della Congregazione per la Dottrina della Fede, dell’11-III-1985: in AAS 77 (1985), pp. 756-762. [7] Cfr. A. Z. Serrand, Évolution technique et théologie, Paris 1965; R. Wiltgen, The Rhine flows into the Tiber, The unknown Council, New York 1966, ed altri, nonché per una più articolata formulazione teologica l’opera di L. Boff, Igreja: Carisma e Poder, già citata. [8] Cfr., per esempio, O. Ter Reegen, Les droits du laïc: in Concilium 4 (1968), p. 14; P. Lengsfeld, La revisione del Codice: in Concilium 17 (1981), pp. 73-74; (nello stesso senso, anche se in forma più sfumata, altri collaboratori di questo n. 17 della rivista). H. Küng, Participation of the Laity in Church Leadership and in Church Elections: in A democratic Catholic Church, New York 1992, pp. 80-93. [9] Per un’analisi di questa tendenza, cfr. C. J. Errázuriz, Diritto e pastorale nella Chiesa: in AA.VV., Vitam impendere magisterio, Roma 1993, pp. 297-310. [10] Cfr. D. Composta, Finalità del Diritto nella Chiesa, o.c., pp. 387-389. L’autore fa una valutazione critica delle posizioni in materia tenute da P. Huizing, G. Gilleman, G. Alberigo, M. Oraison e altri. [11] Optatam totius, n. 16. [12] Cfr. K. Mörsdorf, Zur Grundlegung des Rechtes der Kirche: in Münchener Theologische Zeitschrift 3 (1952), pp. 329-348; E. Eichmann – K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts auf Grund des Codex Iuris Canonici, I, München-Paderborn-Wien 1964, pp. 8-21. Le stesse idee sono state riproposte e approfondite negli anni successivi nel periodo postconciliare: Cfr. K. Mörsdorf, Wort und Sakrament als Bauelemente der Kirchenverfassung: in Archiv für katholisches Kirchenrecht 134 (1965), pp. 72-79; Kanonisches Recht als theologische Disziplin: in Seminarium 4 (1975), pp. 802-921: questi ed altri scritti sono stati di recente raccolti in Schriften zum kanonischen Recht, a cura di W. Aymans – K. Th. Geringer – H. Schmitz, Paderborn 1989. [13] Della loro ampia bibliografia possiamo ricordare: A. M. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, Milano 1971; R. Sobanski, La parole et le sacrement facteurs de formation du droit ecclésiastique: in Nouvelle Revue Théologique, 95 (1973), pp. 515-526; A. M. Rouco Varela, Grundfragen einer katholischen Theologie des Kirchenrechts. Oberlegungen zum Aufbau einer katholischen Theologie des Kirchenrechts: in Archiv für katholisches Kirchenrecht, 148 (1979), pp. 341-352; W. Aymans, Die Kirche – Das Recht im Mysterium der Kirche: in AA.VV., Handbuch des katholischen Kirchenrechts, a cura di J. Listl – H. Müller – H. Schmitz, Regensburg 1983, pp, 3-11; E. Corecco, Théologie et droit canon : écrits pour une nouvelle théorie générale du droit canon, a cura di F. Fechter – P. Le Gal, Fribourg (Suisse) 1990. [14] Per un’informazione più ampia rimandiamo alla documentata monografia di C. R. M. Redaelli, Il concetto di diritto nella Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice, Milano 1991. A titolo soltanto esemplificativo possiamo ricordare i seguenti titoli: W. Bertrams, Quaestiones fundamentales Iuris Canonici, Roma 1969; J. Hervada – P. Lombardía, El Derecho del Pueblo de Dios. Hacia un sistema de Derecho Canonico, vol. 1, Pamplona 1970; P. J. Viladrich, Derecho y Pastoral – La justicia y la función del Derecho Canónico en la edificación de la Iglesia: in Ius Canonicum 13 (1973), pp. 171-256; O. Giacchi, Ancora sul rapporto tra la Chiesa e il diritto: in Ephemerides Iuris Canonici 32 (1976), pp. 7-19; V. De Paolis, Ius: notio univoca an analoga?: in Periodica 69 (1980), pp. 127-162; J. Fornés, La ciencia canónica contemporánea. Valoración crítica, Pamplona 1984; P. Lombardía, Lecciones de Derecbo Canónico, cit.; J. Hervada, Pensamientos de un canonista en la hora presente, Pamplona 1989; S. Berlingò, Dalla « giustizia della carità » alla « carità della giustizia »: rapporto tra giustizia, carità e diritto nell’evoluzione della scienza giuridica laica e della canonistica contemporanea: in « Lex et iustitia » nell’utrumque ius: radici antiche e prospettive attuali. Atti del VII Colloquio internazionale romanistico-canonistico, Roma 1989, pp. 335-372; S. Gherro, Principi di diritto costituzionale canonico, Torino 1992; C. J. Errazuriz, Il diritto e la giustizia nella Chiesa. Per una Teoria Fondamentale del Diritto Canonico, Milano 2000. [15] Giovanni Paolo II, Discorso alla Canon Law Society of Great Britain and Ireland, 22-V-1992: in Communicationes XXIV (1992), p. 10. [16] Ibidem. [17] Per i più rilevanti dati informativi e statistici — anche se non completi —, cfr. F. D’Ostilio, È pronto il nuovo Codice di Diritto Canonico, Città del Vaticano 1982; J. Herranz, Génesis del nuevo Cuerpo Legislativo de la Iglesia: in Ius Canonicum XXIII (1983), pp. 491-526; Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, Milano 1990, pp. 3-109. [18] Cfr. tra i primi studi, A. Del Portillo, Laici e fedeli nella Cbiesa, Milano 1969, pp. 11-92; E. Retamal, La igualdad fundamental de los fieles en la Iglesia según la Constitución dogmática « Lumen gentium », Santiago de Chile 1980. [19] Cfr. Lumen gentium, 12; Apostolicam actuositatem, 3. [20] Giovanni Paolo II, Discorso alla Canon Law Society of Great Britain and Ireland, cit. [21] Cfr. Lumen gentium, 24 e 27; Christus Dominus, 23; Gaudium et spes, 23 e passim. [22] Cfr. Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant: in Communicationes I (1969), pp. 78 ss.: vedere specialmente i nn. 5 e 7 (esercizio della potestà ecclesiastica, tutela dei diritti soggettivi, distinzione di funzioni — legislativa, amministrativa e giudiziaria — e così via). [23] Cfr. CIC, can. 135. [24] Cfr. J. Herranz, Autorità, libertà e legge nella comunità ecclesiale: in La Collegialità episcopale per il futuro della Chiesa, Firenze 1969, pp. 97-1 10; E. Molano, Introducción al estudio del Derecho Canónico y del Derecho Eclesiástico del Estado, Barcelona 1984, pp. 127 ss.; E. Labandeira, Tratado de Derecho Administrativo Canónico, Pamplona 1988, pp. 263 ss. [25] CIC, can. 213. [26] Paolo VI, Discorso ai partecipanti al II Congresso Internazionale di Diritto Canonica organizzato dalla « Consociatio Studio Iuris Canonici promovendo », 17-1X-1973: in Communicationes V (1973), 126. [27] Cfr. CICcann. 383, § 3; 755; 844. [28] Cfr. Gaudium et spes, n. 43; CIC, can. 227. [29] Allocutio Membris Pontificiae Commissionis Codici Iuris Canonici Recognoscendo, 27-V-1977, in AAS 69 (1977), p. 418. [30] « Data est mihi omnis potestas (“exousía”) in coelo et in terra » (Mt 28, 18). [31] Cf. CIC, cann. 391, 5 2, 392 e passim. Si è parlato di questo fenomeno, in relazione anche ai sacerdoti, descrivendolo come « il turbamento » o « lo smarrimento » della funzione « direttiva » in seno al Popolo di Dio: cf. G. Colombo, in AA.VV., Il prete. Identità del ministero e oggettività della fede, Milano 1990, p. 34. [32] Giovanni Paolo II, Discorso al Tribunale della Rota Romana. 18-I-1990, in AAS 82 (1990), p. 873. [33] Cfr. CIC, can. 331, con le relative fonti del Magistero del Concilio Vaticano II. [34] Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa: in Il Primato del Successore di Pietro. Atti del Simposio Teologico, dicembre 1996, Libreria Editrice Vaticana 1998, p. 498. [35] Cfr. Giovanni Paolo II, Cost. Apost. Sacræ disciplinæ leges, 25 gennaio 1983: in AAS 75 (1983), Pars II, p. XII. [36] Cfr. CIC, cann. 330-341, con le relative fonti del Magistero del Concilio Vaticano II. [37] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso ai Patriarchi delle Chiese Orientali, 25 settembre 1998, n. 6: in AAS 91 (1999), p. 273. [38] Cfr. Cost. Dogm. Lumen gentium, n. 27; Giovanni Paolo II; Lett. enc. Ut unum sint, n. 95. [39] Cfr. L’Osservatore Romano, 26 aprile 2002, p. 7. [40] Cfr. CIC, can. 1395. [41] Datato il 30 aprile 2001 e promulgato in AAS 93 (2001), pp. 738-739, del 5 novembre 2001. [42] Cfr. CIC, can. 221. [43] Giovanni Paolo II, Allocuzione, 8-X1-1978, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol, 1, (1978), p. 109. [44] Cf. Giovanni Paolo I, Ad gravissimum munus, in AAS 70 (1978), p. 695; Giovanni Paolo II, Unum solummodo verbum, in ibidem, p. 924.
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