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PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI
"L'UMANITÀ È AL BIVIO"
I. La rivoluzione biotecnologica "Siamo noi testimoni di uno dei più complessi e decisivi periodi della storia umana? È questo il periodo finale di un'epoca oppure un inizio?". Con queste parole, che richiamano alla memoria l'espressione con cui Sant'Agostino vedeva nella caduta dell'Impero Romano ad opera dei barbari l'inizio di una nuova epoca dell'umanità, Giovanni Paolo II aprì il 17 agosto 1998, nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, il Colloquio Internazionale promosso dall'"Istituto per le Scienze Umane" di Vienna, sul tema "At the End of the Millennium: Time and Modernities" (1). Le risposte date dagli studiosi presenti al Colloquio alle domande di Giovanni Paolo II furono molto articolate, ma tutte - sembra - sostanzialmente orientate in senso affermativo, come quella del politologo americano Zbigniew Brzezinski. Egli si disse molto preoccupato, tra l'altro, per la "scarsa capacità di controllo sul progresso scientifico" che l'umanità sta rivelando di avere, per esempio nel vasto campo delle manipolazioni genetiche. Il XXI Secolo, infatti, nasce sotto il segno di una nuova e grande rivoluzione maturata nelle ricerche scientifiche sulla vita umana negli ultimi 30 anni: la rivoluzione biotecnologica. L'enorme progresso delle conoscenze scientifiche nel campo della biologia, e più specificamente, della genetica, non è un fatto scientifico che interessi soltanto un ridotto gruppo di iniziati, ma è diventato ormai un travolgente fenomeno sociale, etico, giuridico ed anche politico e di opinione pubblica. Ovunque si parla di procreazione umana omologa ed eterologa in laboratorio, del genoma umano e delle sue possibili manipolazioni, di "ingegneria genetica", di clonazione di animali e perfino di persone, di sperimentazione scientifica con embrioni umani a scopi terapeutici o eugenetici, ecc. L'importanza di questa realtà è di tale portata e trascendenza, pone cioè tali problemi sul futuro della vita, della dignità dell'uomo e dell'umanità, che le accademie scientifiche e i parlamenti, i fori legislativi nazionali e internazionali, nonché il Magistero della Chiesa, si sono visti e si vedono di continuo e quasi a sorpresa interpellati. Dinnanzi, cioè, al crescente potere manipolatore della vita umana da parte di molti scienziati è diventato inevitabile chiedersi se tutto ciò che è tecnicamente possibile può essere eticamente giustificabile ed entro quali limiti giuridici. La scoperta del DNA, quella molecola di oltre tre miliardi di "lettere" che, nel suo insieme, racchiude tutte le istruzioni perché il nostro corpo si sviluppi completamente a partire da un'unica cellula embrionaria, e la successiva corsa della manipolazione genetica, la cui tappa attualmente più affascinante è il "Progetto genoma", è stato come il gettare benzina sul fuoco di non pochi problemi di particolare importanza e gravità. In effetti, gli interrogativi sollevati dai progressi della genetica e della biotecnologia non solo impegnano i cultori della bioetica e del biodiritto, ma attirano anche l'attenzione di politologi ed economisti. Jeremy Rifkin, nelle conclusioni del noto saggio "Il secolo Biotech", in cui analizza l'influsso che l'innovazione scientifico-tecnologica in corso potrà avere sull'umanità, commenta: "La rivoluzione biotecnologica ci obbligherà a considerare molto attentamente i nostri valori più profondi e ci costringerà a porci di nuovo e seriamente la domanda fondamentale sul significato e lo scopo dell'esistenza. E questo potrebbe rappresentare il risultato più importante. Il resto dipende da noi" (2). La questione, infatti, della rilevanza e della tutela di questi "valori più profondi", si trova al centro dei più accesi dibattiti nei parlamenti e nelle accademie, ed è tutt'altro che pacifica. Qui si è creato progressivamente uno spartiacque fra coloro che riconoscono nel rispetto per la dignità della persona e della vita umana - fin dal momento stesso del concepimento - il criterio fondante della bioetica e del biodiritto, e quelli invece che, guidati solo dal pragmatismo scientifico e commerciale, pretendono di vedere nella libertà di ricerca il criterio ultimo e sufficiente per giustificare eticamente e legalmente gli esperimenti sull'essere umano, specie nelle prime tappe della sua esistenza. Questa contrapposizione dialettica è nata - si potrebbe dire - nel luglio 1984, quando fu pubblicato a Londra il rapporto governativo intitolato Report of the Committee of Inquiry into Human fertilization and Embryology, redatto sotto la direzione della Prof.ssa Mary Warnock. Si tratta di un documento pioniere di grande importanza storica a causa dell'influsso che ha avuto su tutti i documenti del genere elaborati in seguito nel mondo. Il "Warnock report", come è conosciuto, pur ammettendo in alcuni punti che l'utilitarismo stretto non è valido come criterio etico o giuridico per decidere sulle nuove tecniche riproduttive applicate agli esseri umani, erge come base di ogni decisione morale e legale il sentimento della maggior parte della gente, fissa cioè come criterio pratico universale l'utilitarismo sentimentale maggioritario. Così, il culto irrazionale ai desideri scartava le ragioni morali oggettive, e l'ossequio passivo al mito scientista negava l'esistenza di una morale oggettiva conoscibile per mezzo della ragione umana. L'uso della ragione veniva scavalcato dalla intensità dei sentimenti e dei desideri (3). Anche le recenti affermazioni di alcuni circa l'eventuale validità della clonazione umana in vista dell'uso di cellule staminali embrionali a fini terapeutici e perfino eugenetici, è emblematica riguardo a questo orientamento ideologico, talvolta presentato come "responsabilità di governo" al servizio del bene sociale (4). Dall'altra parte dello "spartiacque" si schierano invece quelli che - più rispettosi della realtà ontologica dell'embrione umano - sono convinti che il bene dell'uomo e la nobiltà della ricerca scientifica esigono che ogni esperimento biologico sull'uomo stesso rispetti i valori connessi alla dignità della persona umana, da considerare sempre fine a sé stessa e mai strumento o cosa (5). Proprio tenendo conto della reale esistenza di queste due opposte concezioni della biotecnologia e delle sue implicazioni etiche e giuridiche, nonché del grande bene oppure del grande male che tale progresso scientifico potrebbe arrecare all'uomo, Giovanni Paolo II ha detto nel solenne atto di affidamento del terzo Millennio alla Beata Vergine Maria, a conclusione del recente Giubileo dei Vescovi: "L'umanità possiede oggi strumenti d'inaudita potenza: può fare di questo mondo un giardino, o ridurlo a un ammasso di macerie. Ha acquistato straordinarie capacità di intervento sulle sorgenti stesse della vita: può usarne per il bene, dentro l'alveo della legge morale, o può cedere all'orgoglio miope di una scienza che non accetta confini, fino a calpestare il rispetto dovuto ad ogni essere umano. Oggi come mai nel passato, l'umanità è al bivio" (6). È questa, infatti, la più grande sfida che la rivoluzione biotecnologica - con le sue "straordinarie capacità di intervento sulle sorgenti stesse della vita" - rivolge non solo alla coscienza dei biologi e dei cultori della bioetica, ma anche alla responsabilità dei giuristi, dei legislatori e degli uomini di governo. Si tratta di far sì che questo progresso scientifico venga usato "per il bene, dentro l'alveo della legge morale", cioè "nel rispetto dovuto ad ogni essere umano". II. Il rispetto della vita umana È stato ripetuto, contro la visione riduttiva del puro pragmatismo scientifico, che l'essenza ed il futuro della bioetica - e conseguentemente del biodiritto - è proprio questo: promuovere e garantire nelle esperienze scientifiche il rispetto e la tutela della vita umana e della sua dignità, in tutte le sue tappe esistenziali (7). Mi pare però molto importante sottolineare che non è questa un'opzione scientifica o filosofica di carattere religioso, basata cioè sulla sola morale cristiana. Non si tratta - come alcuni intellettuali laicisti sostengono - di una "bioetica cattolica" contrapposta ad una "bioetica laica". Si tratta invece di un'esigenza di carattere universale e al tempo stesso scientifica, etica e giuridica, perché basata sulla realtà ontologica universale della natura umana - che è uguale per tutti - e dei suoi inalienabili diritti, che pongono giusti limiti e al tempo stesso aprono ampie prospettive al lodevole sviluppo della genetica e della biotecnologia (8). A questo riguardo, appare opportuno ricordare due precedenti importanti richiami di Giovanni Paolo II molto significativi; l'uno fatto nel 1994 ai membri della Pontifica Accademia delle Scienze, l'altro ai membri dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1995: 1ª) Ai primi Egli diceva: "Non bisogna lasciarsi affascinare dal mito del progresso, come se la possibilità di realizzare una ricerca o di mettere in opera una tecnica permettesse di qualificarle immediatamente come moralmente buone. La bontà morale si misura dal bene autentico che procura all'uomo considerato secondo la duplice dimensione corporale e spirituale" (9). 2ª) All'Assemblea Generale dell'ONU esortava: "Fu proprio la barbarie registrata nei confronti della dignità umana che portò l'Organizzazione delle Nazioni Unite a formulare, appena tre anni dopo la sua costituzione, quella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che resta una delle più alte espressioni della coscienza umana nel nostro tempo. (...) Ben lungi dall'essere affermazioni astratte, questi diritti ci dicono anzi qualcosa di importante riguardo alla vita concreta di ogni uomo e di ogni gruppo sociale. Ci ricordano anche che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma che, al contrario vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli. Se vogliamo che un secolo di costrizione lasci spazio a un secolo di persuasione, dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell'uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro" (10). Appare molto significativo che il Papa abbia aggiunto immediatamente, dinnanzi alle massime Autorità civili del mondo ivi riunite: "Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti". Nel dire questo non sfuggiva a Giovanni Paolo II - anzi, lo riconobbe - che culture differenti ed esperienze storiche diverse danno origine a forme istituzionali e giuridiche diverse, ma aggiunse: "una cosa è affermare un legittimo pluralismo di "forme di libertà", ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo" (11). Con queste parole il Papa ha certamente voluto mettere in evidenza il pericolo che la "Dichiarazione Universale dei Diritti Umani" venga progressivamente svuotata di autorità morale e di forza vincolante, a causa della crescente diffusione di un pensiero filosofico e politico di individualismo libertario, che sta portando in non poche nazioni al crescente svuotamento di alcuni di tali diritti e, più specificamente, del diritto alla vita proclamato all'Art. 3 di questa storica Dichiarazione, cui si riallaccia la "Convenzione europea per la difesa dei Diritti dell'Uomo" (Roma, 1950) solennemente commemorata dal Consiglio di Europa pochi giorni fa. Perciò, in tale occasione il Papa dopo aver rilevato "la tendenza a interpretare i diritti solamente da una prospettiva individualista", ha sentito il dovere di avvertire con pacata fermezza: "Mentre mi compiaccio per questo nobile risultato (l'eliminazione della pena di morte), è mia fervente speranza che giunga presto il momento in cui si comprenda anche che si commette una enorme ingiustizia laddove la vita innocente nel grembo materno non viene tutelata" (12). A nessuno infatti sfugge che nella seconda metà del secolo XX si è consumato il più grande capovolgimento immaginabile - giuridico ma anche etico - del diritto alla vita: la perdita - almeno nella prassi legislativa di molti Stati talvolta in sorprendente contrasto con le loro Costituzioni - del suo carattere di diritto inalienabile. Anzi, nell'Enciclica Evangelium vitae ha fatto notare Giovanni Paolo II che gli attentati contro la vita nascente e terminale "presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di "delitto" e ad assumere paradossalmente quello del "diritto"" (13). Di fronte a questa grave realtà, sembra che sia innanzi tutto doveroso porsi due domande di fondo, e cioè: 1ª) Quali sono state la causa o le cause di questo capovolgimento etico-giuridico che ha aperto la strada, non soltanto alla legislazione permissiva dell'aborto, ma anche a quelle altre che cominciano a legalizzare l'eutanasia, le indebite manipolazioni dei geni e degli embrioni ed altri attentati contro la dignità dell'uomo e della vita umana? 2ª) Quali sembrano essere - con una visione positiva - le due questioni connesse di carattere filosofico e biologico, la cui presa di coscienza appare più necessaria per la difesa dell'inalienabile diritto alla vita, nel rispetto dovuto ad ogni essere umano? III. Cause del capovolgimento etico-giuridico Si sa che la legalizzazione dell'aborto in Russia, nel 1920, ubbidì ad una ragione totalitaria di natura socio-politica: facilitare l'inserimento della donna nel lavoro extradomestico, a beneficio dell'economia socialista. La sentenza della Corte Suprema degli USA ("Roe v. Wade") che nel 1973 aprì le porte in quella Nazione all'aborto legale lo fece, invece, sotto una apparente ragione democratica di difesa della libertà personale della donna: la Corte - si legge nell'opinione maggioritaria dei giudici - "need no resolve the difficult question of when life begins" e, pertanto, fu permesso alla donna di abortire e negato conseguentemente all'embrione e al feto il relativo diritto alla vita. La ragione data in Russia - in uno stato comunista - e la ragione data negli USA - in uno stato democratico - furono motivazioni apparentemente diverse, ma in realtà ubbidiscono ambedue alla medesima concezione agnostica dell'etica e del diritto, quella cioè dello stretto positivismo giuridico e pragmatismo politico, basati tutte e due sulla negazione della legge naturale e sul conseguente divorzio morale tra libertà e verità. Si potrebbe dire che l'intero Magistero sociale della Chiesa nel XX secolo è stato guidato soprattutto dalla necessità di difendere le coscienze dei cristiani e dell'intera umanità contro due grandi utopie ideologiche diventate anche sistemi politici su scala mondiale: l'utopia totalitaria della giustizia senza libertà e l'utopia libertaria della libertà senza verità. Ha detto, infatti, il Papa: "Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo" (14). La prima utopia - e con essa i sistemi politici che in varie forme l'avevano incarnata in Europa - è ormai in via di declino e di estinzione, ma non senza aver lasciato dietro di sé un immenso ammasso di rovine spirituali e sociali. La seconda utopia, invece, quella della libertà senza verità, è purtroppo in fase di crescente espansione. Per essa, maturata nell'habitat filosofico dell'illuminismo e del relativismo agnostico, non è la verità oggettiva che assicura la legalità morale e la razionalità giuridica della norma o delle esperienze biomediche, ma soltanto la verità relativa o convenzionale, frutto pragmatico del compromesso statistico o politico, o addirittura del puro interesse economico. Non a caso il massimo esponente del positivismo giuridico, Hans Kelsen, commentando la domanda evangelica di Pilato a Gesù: "Cos'è la verità?" (Giov. 18, 38), scriveva che in realtà questa domanda del pragmatico uomo politico conteneva in se stessa la risposta: la verità è irraggiungibile, perciò Pilato, senza attendere la risposta di Gesù si rivolse alla folla e domanda: "Volete che liberi il re dei giudei?". Agendo così - conclude Kelsen - Pilato si comporta da perfetto democratico: affida cioè il problema di stabilire il vero e il giusto all'opinione della maggioranza, benché egli fosse convinto della completa innocenza del Nazareno (15). Meditando sullo stesso drammatico processo di Gesù, Giovanni Paolo II ha scritto: "Così, dunque, la condanna di Dio da parte dell'uomo non si basa sulla verità, ma sulla prepotenza, sulla subdola congiura. Non è proprio questa la verità della storia dell'uomo, la verità del nostro secolo? Ai nostri giorni tale condanna è stata ripetuta in numerosi tribunali nell'ambito dei regimi di sopraffazione totalitaria. E non la si ripete anche nei parlamenti democratici, quando, per esempio, mediante una legge regolarmente emanata, si condanna a morte l'uomo non ancora nato?" (16). Bisogna, perciò, affermare chiaramente e con forza - per difendere il diritto inalienabile alla vita, ma anche per prevenire le intelligenze oneste contro i sofismi dei falsi democratici - che questa riduzione meramente soggettivista e agnostica della libertà e del diritto è contraria non soltanto alla dottrina sociale cristiana ma anche al concetto tradizionale e sano di democrazia. È stato, infatti, rilevato da filosofi come Maritain, Del Noce o Possenti e da giuristi come Cotta, Hervada, Finnis o Waldstein, ma sono solo alcuni nomi, che gli autori classici anteriori al dilagare dogmatico dell'ideologia liberal-agnostica hanno interpretato sempre la democrazia come un ordinamento sociale di libertà avente confini naturali (17). Non con dei limiti esterni, imposti autoritariamente dal di fuori (tendenza totalitaria) oppure imposti tramite un semplice e onnicomprensivo accordo pattizio (tendenza liberal-radicale), ma con dei confini aventi un fondamento intrinseco: la legge naturale, il diritto naturale o ius gentium. Purtroppo, l'ideologia liberal-radicale, fondata sull'agnosticismo religioso e il relativismo morale, nel togliere alla democrazia il suo fondamento di principi e di valori oggettivi, ha reso pericolosamente incerti i limiti della razionalità e della legittimità della norma. Ciò ha indebolito profondamente l'ordinamento giuridico democratico di fronte alla tentazione di una libertà denaturalizzata: di una libertà, cioè, senza i limiti veramente liberatori della verità oggettiva sulla natura e la dignità dell'uomo e della vita umana. Di fronte alla grande sfida che lancia al futuro dell'uomo questo progressivo sviluppo del "relativismo etico" e della "democrazia libertaria" dobbiamo noi domandarci, con sereno ottimismo cristiano: cosa può fare a livello di creatività intellettuale l'intelligenza non soggiogata dal totalitarismo agnostico, l'intelligenza cioè che riconosce l'esistenza di una "struttura morale della libertà" (18) cioè, di "quella grammatica" universale - la legge morale inscritta nel cuore dell'uomo - che dovrebbe aprire la strada ad un linguaggio bioetico comprensibile a tutti? A me pare che le riflessioni più serene e creative dei filosofi del diritto e dei sociologi, ma anche dei biologi e dei teologi, seguano, benché talvolta faticosamente, due campi principali di ricerca: il rapporto tra diritto e morale ed il rapporto tra biologia e diritto. In questi due rapporti si articola, mi pare, la risposta alla seconda domanda formulata in precedenza sull'auspicata armonia tra progresso scientifico e rispetto per la dignità della vita umana. IV. Il rapporto Diritto-Morale Nella "19 Conférence des Ministres Européens de la Justice", organizzata dal Consiglio di Europa (La Valletta-Malta, 14 giugno 1994) sul tema della "corruzione" nella vita pubblica, ricorrevano spesso in tutti gli interventi le espressioni "crisi della morale" e "crisi del diritto", con riferimento alla scoperta in molte Nazioni di gravi illegalità nella gestione della pubblica amministrazione, nel mondo degli affari e nell'uso del pubblico denaro. Queste penose vicende - è vero - hanno indotto a parlare ansiosamente di crisi morale perfino i dogmatici della cosiddetta etica laica, la quale - dopo aver soppresso dai contenuti etici i rapporti dell'uomo con Dio e dell'uomo con sé stesso - ha ridotto la virtù della giustizia alla sola etica sociale, ai rapporti cioè puramente intersoggettivi. Ma, contrariamente a questa visione riduttiva e miope della cosiddetta etica laica, del moralismo agnostico, le ragioni della crisi appaiono più vaste e assai più profonde della semplice perdita del senso dei doveri sociali. Sono piuttosto il crescente impoverimento etico, l'amoralità permissiva dell'attività legislativa e giurisprudenziale in molti Stati, e il conseguente progressivo indebolimento della razionalità delle loro leggi e delle sentenze dei loro tribunali, le ragioni che stanno portando al deprezzamento del diritto e alla perdita della sua funzione pedagogica e della sua sostanziale forza vincolante. È evidente a tutti - basta leggere i giornali - che l'amoralità del legislatore e quella del giudice costituiscono i più consistenti stimoli all'immoralità del cittadino. Purtroppo, tale etica laica non ammette - ancor meno quando si parla di bioetica o di biodiritto - questi concetti di "amoralità" o di "immoralità" basati su valori e verità oggettivi che siano al di sopra delle leggi positive. Perciò, essa propugna la separazione tra "morale privata" ed "etica pubblica" in nome del cosiddetto "pluralismo etico". La morale privata si fonderebbe sui principi filosofici o le convinzioni religiose dell'individuo e, perciò, essa è da circoscrivere all'ambito ed al giudizio della sola coscienza personale di ciascun cittadino; l'etica pubblica, invece, sarebbe quella che viene determinata esclusivamente dal consenso maggioritario della comunità, cioè da quella verità convenzionale a cui abbiamo accennato prima e che viene concretizzata nella legge. Ha detto con la sua solita chiarezza un insigne studioso di bioetica: "I problemi della vita, ivi compresi quelli dell'aborto e dell'eutanasia, vengono affidati alla coscienza privata e la legge dovrebbe soltanto garantire in merito la libertà di coscienza e di comportamento, la scelta individuale (...) Si tratta dunque oggi non soltanto di meglio definire e fondare il rapporto tra bioetica e biodiritto, ma anche di rivendicare la legittimità di un discorso etico in ambito sociale e la sua rilevanza in ambito giuridico" (19). Mi è parso necessario rilevare in un'altra occasione (20) che, allo scopo di criticare le precedenti affermazioni in chiave moralista e perfino fondamentalista, qualcuno potrebbe obiettare: ma non ci si accorge che parlando così si confondono pericolosamente la morale e il diritto? Non ci si accorge che il precetto morale si appella alla coscienza, mentre la norma giuridica riguarda invece i rapporti esterni, la condotta sociale dell'uomo? Non ci si accorge che in tutto questo ragionamento, oltre a detta commistione concettuale, traspare una certa nostalgia del sistema politico giuridico dello Stato confessionale cattolico? Facciamo notare subito, per evitare equivoci, un fatto solitamente tralasciato dai sostenitori della cosiddetta morale laica: a opporsi alla legislazione permissiva dell'aborto, dell'eutanasia, alle leggi statali che liberalizzano completamente la fecondazione artificiale, le manipolazioni genetiche a scopo eugenetico e commerciale, ed altri attentati contro la dignità della vita umana, non è soltanto il magistero della Chiesa Cattolica, ma lo sono anche i pronunciamenti dottrinali più o meno formali di altre confessioni cristiane e di altre religioni (dall'Islam all'Ebraismo e non solo queste). Anzi vi si oppongono anche, apertamente oppure con timidezza per il timore di essere subito etichettati come di destra, non pochi rappresentanti di quella parte del mondo intellettuale che si dichiara religiosamente indifferente, ma culturalmente umanista: "Certamente", insegnava Cicerone, "esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall'errore [... ]. È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente" (21). Dicano quel che dicano coloro che la negano (22), è pure un fatto che questa legge naturale, già proclamata come il "giusto naturale" nella filosofia greca (23) e come "ius gentium" dal diritto romano (24) a tutela del buon governo e della giustizia, è rimasta sostanzialmente inalterata attraverso la storia, anzi è stata un fattore decisivo nello sviluppo civile dei popoli e delle culture. Questa legge - a cui ci si è pure appellati nel processo di Nüremberg contro i crimini nazisti e in quello attuale contro i crimini nell'ex Yugoslavia - non è stata inventata dal Cristianesimo né da nessun'altra religione: è inscritta nel cuore dell'uomo, anche se illuminata poi più pienamente dalla Rivelazione. Comunque, e tornando al campo della riflessione scientifica e metodologica, non sembra che si possa attribuire sufficiente consistenza alla eventuale obiezione di commistione concettuale tra morale e diritto. Infatti, è vero che la morale e il diritto sono due scienze diverse, che riguardano l'uomo da prospettive e con finalità differenti. La morale si occupa primariamente dell'ordine dell'uomo come persona: riguarda cioè l'insieme di esigenze emananti dalla struttura ontologica dell'uomo in quanto essere creato e dotato di una particolare natura, dignità e finalità. Il diritto, invece, si occupa primariamente dell'ordine sociale: riguarda cioè - stiamo parlando del diritto come ordinamento - l'insieme di strutture che ordinano la comunità civile, la società. Ma se il fatto più rilevante e positivo del progresso della scienza del diritto nel XX secolo è stato proprio quello di mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, l'uomo, fondamento e fine della società, è ovvio che il diritto di una sana democrazia deve tenere conto di quale sia la struttura propria della persona umana ontologicamente fondata: la sua natura di essere non soltanto animale e istintivo ma intelligente, libero e con una dimensione trascendente e religiosa dello spirito che non può essere ignorata, né mortificata. Altrimenti il diritto - anche se lo si volesse chiamare democratico - sarebbe contro natura, essenzialmente immorale, strumento di un ordinamento sociale totalitario. Qui non c'è spazio - in pura onestà scientifica - per il relativismo etico (negare cioè l'esistenza di una verità oggettiva sull'uomo e sulla vita umana), come non c'è spazio (se si vuole evitare l'instaurazione di una società selvaggia) per difendere la legittimità di un diritto positivo divorziato dalla legge morale naturale (25). V. Il rapporto Biologia-Diritto Il secondo campo di ricerca, di dialogo e di impegno scientifico a difesa della dignità della vita umana e del diritto alla vita è rappresentato dal rapporto tra biologia e diritto: il cosiddetto biodiritto. Si tratta pure di un rapporto da affrontare con animo positivo e sereno, perché anche in questo campo sta cercando di imporre le sue tesi un positivismo giuridico radicale basato sul relativismo morale. Esso, infatti, dopo aver negato - contro tutta la tradizione della scienza giuridica - l'esistenza di una verità oggettiva sull'uomo e sulla vita umana, vuole arroccarsi su questa stessa negazione anche di fronte agli sviluppi scientifici della biologia. E si direbbe che lo faccia in base ad un criterio pragmatico di tipo politico: evitare cioè che - in base alle recenti e meravigliose acquisizioni dell'antropologia genetica ed al loro impatto sull'opinione pubblica - debbano rivedere le proprie leggi permissive gli Stati in cui si è ormai riconosciuto il cosiddetto "diritto" all'aborto ed alla eutanasia. Per esempio, la sentenza "Roe v. Wade" della Suprema Corte degli USA rese legale l'aborto nel 1973 affermando - come abbiamo ricordato sopra - che la Corte non era tenuta a risolvere "the difficult question of wen life begins" (26). Ora, invece, dopo le ricerche genetiche degli ultimi 20 anni, fatte soprattutto con l'aiuto della ultrasonografia e dell'embrioscopia, si può affermare che: "È ormai biologicamente e geneticamente certo che appena avvenuta la fusione dei due gameti inizia l'esistenza di un nuovo soggetto umano il quale sotto il controllo del programma iscritto nel proprio genoma, esegue autonomamente e teleologicamente, in una rigorosa unità funzionale, il proprio piano di sviluppo in modo coordinato, continuo e, per legge generale, graduale" (27). Alla luce della logica giuridica circa il valore della "ratio legis" o del "pondus iurisprudentiale", si deduce che dovrebbe essere cambiata questa sentenza della Suprema Corte e le relative conseguenze d'ordine legislativo nei vari Stati dell'Unione. E lo stesso dovrebbero fare - senza che perciò venga meno il loro carattere laico e aconfessionale - i governi delle altre Nazioni in cui sono state introdotte legislazioni permissive dell'aborto e delle indebite manipolazioni degli embrioni umani. Tuttavia il totalitarismo agnostico sta cercando altre pretestuose ragioni per non dover rivedere - anzi per dare ulteriore impulso - alla propria linea permissiva. A questo scopo, i suoi fautori ricorrono ad un sorprendente fenomeno di camaleontica metodologia scientifica. Ammettono senza difficoltà che c'è un diritto alla vita delle persone, ma si domandano: chi è veramente "persona"? Gli stessi giuristi e politici che prima rifiutavano come metafisici e dogmatici i concetti di "verità" e di "persona", adesso cercano di imporre una loro "verità" filosofica sul nuovo significato del termine "persona", che sarebbe distinto dal concetto di "essere umano". Essi utilizzano il termine "persona" non più per indicare la sostanziale diversità tra l'universo umano e quello non umano, ma soltanto all'interno dell'universo umano, per operare una arbitraria discriminazione tra una fase e l'altra del suo sviluppo: "persona" sarebbe soltanto il bambino nato, o forse il feto, ma non l'embrione. La persona non viene definita per quello che è ma per quello che è in grado di fare o di apparire. Il neo-concepito non avrebbe ancora - secondo la nuova teoria filosofica - una vera realtà e dignità umana; si tratterebbe soltanto di un "ammasso cellulare", di una realtà "potenzialmente" umana o addirittura di una pura possibilità di umanità, perché non è ancora cosciente. Le conseguenze bioetiche e giuridiche che si pretende di trarre da questa discriminazione filosofica sono evidenti: chi non è ancora "persona" non può avere "personalità giuridica" alcuna, non può essere cioè titolare di veri diritti - come il diritto alla vita -, anche se nulla osta che gli si possa concedere qualche grado di protezione legale. Di fronte a questa arbitraria discriminazione si può veramente dire: Come sono lontani i fautori di questa teoria della grande tradizione filosofica e giuridica che Tertulliano compendiò nel famoso assioma: "È già uomo colui che lo sarà"! Sorprendente è che questo capovolgimento bioetico e giuridico avvenga precisamente nel secolo in cui - di fronte a tanti e così tremendi crimini contro la vita e la dignità delle persone - si è tanto parlato in sedi nazionali ed internazionali degli "inviolabili diritti dell'uomo". Perciò, l'Evangelium vitae si è posta con ammirabile lucidità questa domanda: "Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale?", e Giovanni Paolo II risponde, tra l'altro: queste radici "le possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che, esasperando e perfino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione dell'uomo come essere "indisponibile"? La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente degli animali e delle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno" (28). L'uomo - sin dal momento del suo concepimento - non è "qualcosa": è "qualcuno". Anzi, vanno rifiutate le tesi arbitrarie sul concetto di "vita umana" di alcuni biologi e filosofi (29) i quali, sempre a difesa delle leggi permissive, si battono tenacemente contro la "indisponibilità della vita umana" ed il concetto di "persona" e di "dignità personale". Secondo costoro, non sarebbe da considerarsi "vita umana" quella che non è cosciente di sé, che è incapace di esprimere volutamente una qualità minima di esistenza, che non ha una capacità di relazione verbale o scritta o che non prova dolori (o si presume che non ne provi) per la propria soppressione. "E chiaro - insegna la Evangelium vitae - che con tali presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti" (30). Tuttavia questa arbitraria divisione all'interno dell'individuo umano, tra semplice "essere umano" (inteso come "micro-essere" o "pre-persona") e "persona" non è ammissibile - oltre che dal punto di vista morale - né sul piano biologico né sul piano strettamente giuridico. Sul piano biologico abbiamo già visto che è ormai geneticamente certo che, appena avvenuta la fusione dei due gameti si inizia nell'ovulo fecondato l'esistenza di un nuovo soggetto umano. Sul piano giuridico si tratta sostanzialmente di un nuovo individuo umano, con la sua propria identità genetica, distinta da quella del padre e della madre. Occorre, pertanto, che, per ciò che riguarda il diritto alla vita, il principio della non discriminazione, fondato su quello dell'uguaglianza, cardine di tutti i diritti fondamentali dell'uomo, venga applicato all'"essere umano", all'"individuo umano" e non soltanto alla "persona giuridicamente riconosciuta" in base ad una concezione puramente positivista e pragmatica della ontologia dell'embrione e, pertanto, della bioetica e del biodiritto. Si sa, infatti, quali enormi interessi politici e commerciali ci sono dietro le manipolazioni dell'embrione umano a scopi sperimentali, per la fecondazione artificiale e a favore dell'industria farmacologica e cosmetica. Qui non si tratta di applicare alla biologia o al diritto il concetto metafisico classico di "persona" secondo la nota definizione di Boezio: "sostanza individuale di natura raziona1e" (31). Questa definizione ed altre simili di carattere metafisico, rimangono validissime. Ma ciò che vogliamo dire è che tanto le acquisizioni della moderna biologia come la retta comprensione della centralità della persona nel diritto, suffragano l'affermazione che l'essere umano "va rispettato e trattato come persona fin dal suo concepimento" (32). Infatti, ormai non c'è dubbio anche per le scienze positive che l'embrione non è solo un individuo ben definito della specie umana, ma racchiude anche tutte le potenzialità biologiche, psicologiche, culturali, spirituali, ecc. che l'uomo svilupperà nel corso della sua esistenza. Perciò, ha ribadito Giovanni Paolo II a conclusione del Simposio internazionale "Evangelium vitae e Diritto" organizzato dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi: "Non possiamo non assumere come punto di partenza lo statuto biologico dell'embrione che è un individuo umano, avente la qualità e la dignità propria della persona. L'embrione umano ha dei diritti fondamentali, cioè è titolare di costitutivi indispensabili perché l'attività connaturale ad un essere possa svolgersi secondo un proprio principio vitale. L'esistenza del diritto alla vita quale costitutivo intrinsecamente presente nello statuto biologico dell'individuo umano fin dalla fecondazione costituisce, pertanto, il punto fermo della natura anche per la definizione dello statuto etico e giuridico del nascituro" (33). Per avere, infatti, "la qualità e la dignità propria della persona" non si richiede che questa abbia già sviluppato in maggior o minor grado le sue potenzialità. Come non si richiede per riconoscere e tutelare nell'individuo umano la qualità e la dignità di "vita umana" che essa si esprima in gradi di "qualità" o di "interazione" mentale, fisica o sociale. È ovvio che se tali errori venissero accolti, si spalancherebbe la porta non soltanto all'aborto e all'eutanasia, ma anche alla soppressione dei ritardati mentali, dei soggetti deformi per malformazioni congenite o gravi menomazioni in seguito a traumi, delle persone affette da malattie "socialmente pericolose" e così via. Si arriverebbe così al materialismo più rozzo, al più inumano dei totalitarismi. Perciò si rende tanto necessario il sereno approfondimento dei mutui rapporti che intercorrono tra il diritto e la morale, la biologia e il diritto, se veramente si vuole che queste tre scienze siano - come devono essere - al servizio dell'uomo. Conclusione Questo dialogo costruttivo - di mutuo arricchimento - appare forse oggi più difficile che nel passato, considerando la deriva relativista e positivista dell'etica e del diritto. A ragione è stato detto che nell'attuale progetto culturale "l'uomo è visto sdoppiato: c'è un livello in cui lo si considera soggetto inalienabile (la persona interpretata soprattutto come titolare di diritti), e un altro livello nel quale è oggetto cioè parte della natura fisico-biologica sulla quale mette le sue mani la scienza" (34). Ma si tratta proprio di questo: di evitare - attraverso lo studio interdisciplinare e il dialogo sereno - che la biotecnologia, con le sue "straordinarie capacità di intervento sulle sorgenti della vita", si chiuda nel citato secondo livello puramente empirico. Perché in questo caso il cedimento "all'orgoglio miope di una scienza che non accetta confini" morali, porterebbe a "calpestare il rispetto dovuto ad ogni essere umano", come ammoniva Giovanni Paolo II nell'atto di affidamento del III Millennio alla Madonna. È evidente che "oggi come mai nel passato l'umanità è al bivio". Si tratta, perciò, di imboccare, nel bivio, la strada giusta. E questa, al margine da ogni sterile contrapposizione tra "cultura laicista" e "cultura cattolica", non può essere altra che quella dell'invito rivolto da Giovanni Paolo II nell'Assemblea Generale dell'ONU (35) a tutti gli uomini di buona volontà: cioè impegnarsi lealmente per difendere, nei vari livelli dell'umana convivenza, la "struttura morale della libertà", nel nostro caso la "struttura morale della libertà scientifica", mediante la necessaria comprensione e tutela della "verità sull'uomo", l'unico essere vivente la cui dignità di persona - sin dal momento del concepimento - comporta l'esigenza morale erga omnes di essere trattato come soggetto titolare di diritti inalienabili e indisponibili, e non soltanto come semplice oggetto di ricerca scientifica. JULIÁN HERRANZ Presidente
NOTE 1) Cfr L'Osservatore Romano, 17 agosto 1998, p. 1. 2) J. Rifkin, The Biotech Century (trad. it. Milano, Baldini e Castoldi, 1998, p. 370). 3) Cfr N. Blasquez, "Bioética siglo XXI, nacimiento y desarrollo", in Studium XL/1 (2000), p. 94. Si veda anche l'approfondito studio contenuto nella Istanza presentata alla "Commissione Governativa di inchiesta sulla fertilità umana e la embriologia" (Commissione Warnock) da parte del "Comitato Congiunto dell'Episcopato Cattolico sulle norme di bioetica" per incarico dei Vescovi Cattolici della Gran Bretagna, 2-III-1983, pubblicato su Medicina e Morale, 1983/14, pp. 435-448. 4) Si veda al riguardo, Pontificia Academia Pro Vita, "Dichiarazione sulla produzione e sull'uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane", in L'Osservatore Romano, 25 agosto 2000, p. 6. 5) Cfr, per esempio, A. Serra, "Medicina biotecnologica o medicina "umana?"", in La Civiltà Cattolica, II (2000), pp. 238-239. 6) L'Osservatore Romano, 9-10 ottobre 2000, p. 6. 7) Cfr tra gli altri, i Manuali di Bioetica di D. Tettamanzi e E. Sgreccia. 8) Cfr H. Jones, Il principio di responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica Torino 1990; Dalla fede antica all'uomo tecnologico, Bologna 1991. 9) Giovanni Paolo II, "Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze", in L'Osservatore Romano, 29 ottobre 1994. 10) Giovanni Paolo II, "Discorso alla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in occasione del 50 anniversario della fondazione della ONU", 5 ottobre 1995, n. 3: in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, v. XVIII/2, Città del Vaticano 1998, p. 732. 11) Ibidem. 12) Giovanni Paolo II, "Discorso ai partecipanti alla "Conferenza ministeriale del Consiglio d'Europa per il 50 Anniversario della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo"": in L'Osservatore Romano, 4 novembre 2000, p. 5. 13) Enciclica Evangelium vitae, del 25 marzo 1995, n. 11. 14) Giovanni Paolo II, Discorso al mondo della cultura nell'Università di Vilnius, 5 settembre 1993: in L'Osservatore Romano, 6 settembre 1993, p. 1. 15) Cfr V. Possenti, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Milano 1991, pp. 345 e ss. 16) Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, 1ª edizione, pp. 73-74. 17) Da diverse prospettive e con varie sfumature concordano in questa idea di fondo, tra gli altri: J. Maritain, L'homme et l'Etat, Paris 1953, pp. 69 ss.; A. Del Noce, I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo, Milano 1972; V. Possenti, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Genova 1991, pp. 281-314; J. Hervada, "Derecho natural, democracia y cultura", in Persona y Derecho, 6 (1979), pp. 200 ss.; S. Cotta, "Diritto naturale: ideale o vigente?", in Iustitia, 1982 (2), pp. 119 ss.; J. Fornés, "Pluralismo y fundamentación ontológica del derecho", in Persona y Derecho, 9 (1982), pp. 109 ss.; M. Novak, "Dignité humaine et liberté des personnes", in Liberté Politique, mayo 1998, pp. 155-166. M. Schooyans, "Démocratie et Droits de l'homme", in Liberté Politique, ottobre 1998, pp. 57-66. 18) Giovanni Paolo II, Discorso all'Assemblea Generale dell'ONU.., cit. p. 752. 19) E. Sgreccia, Intervento nella sessione inaugurale del Simposio Internazionale "Evangelium Vitae e Diritto", Libreria Editrice Vaticana, 1997, pp. 28-29. Cfr anche R. Navarro Vals, "Ley civil y ley moral: la responsabilidad de los legisladores", in La Causa della Vita, Libreria Editrice Vaticana, 1995, pp. 84-104. 20) Cfr J. Herranz, "La crisi del Diritto agnostico", in L'Osservatore Romano, 28.II-1.III. 1994, p. 8. 21) De re publica, 3, 22, 33. 22) Per una critica sintetica delle varie obiezioni contro la legge naturale, cfr tra gli altri, J.P. Schouppe, Le Droit Canonique, Bruxelles 1991, pp. 18-38. 23) Cfr Aristotele, "Etica a Nicomaco", lib. V, c. 7, 1134b 18-19. 24) Cfr, per esempio, le "Institutiones" di Gaio (I, 1). 25) Cfr Giovanni Paolo II, "Discorso all'Assemblea dei Governanti e dei Parlamentari" convenuti a Roma per il Giubileo: L'Osservatore Romano, 4 novembre 2000, p. 1. 26) Per uno studio particolareggiato dei problemi posti da questa sentenza, cfr M. Rhonheimer, "Diritti fondamentali, legge morale e difesa legale della vita nello Stato costituzionale democratico", in Annales Theologici 9/2, 1995, 271-334. 27) E. Sgreccia, "Identità e statuto dell'embrione umano", in Per una dichiarazione dei diritti del nascituro", Milano 1996, pp. 24-25; cfr anche A. Serra, "La sperimentazione sull'embrione umano: una nuova esigenza della scienza e della medicina", Medicina e Morale, Roma 1993, 1, p. 112. 28) Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae, cit., n. 19. 29) Cfr, per esempio, P. Singer, Etica pratica, Napoli 1989, p. 102; idee ulteriormente sviluppate nell'intera opera Ripensare la vita, Roma 1995. 30) Enciclica Evangelium vitae, cit., n. 19. 31) Lib. de persona et duabus naturis, cap. 3: PL 64, 337sq. 32) Enciclica Evangelium vitae, cit., n. 70; cfr Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede Donum vitae, cit., I.1. 33) Communicationes 28 (1996) 16. 34) V. Possenti, "Sobre el estatuto ontológico del embrión humano", in AA.VV., El derecho a la vida, Pamplona 1998, p. 117. 35) Cfr discorso citato alla nota 10. |